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editoriale
medaglia d’onore
UN’OCCASIONE PER RIFLETTERE
di Enzo Orlanducci
È già nota anche ai nostri lettori –
essendo stata ampiamente riferita nel
precedente numero di “rassegna” – la
disposizione contenuta nella legge n.
296 del 27 dicembre 2006 (finanziaria
2007), che ha riconosciuto ai cittadini
italiani già deportati e internati nei lager
nazisti dopo l’8 settembre 1943 e destinati al lavoro coatto, il diritto alla concessione di una “medaglia d’onore”, estendendo la concessione di tale onorificenza anche ai familiari di quelli che
sono deceduti.
Nessun altro beneficio, ancorché tale non si possa propriamente definire, è stato, purtroppo, accordato. Suona, perciò, quasi come una beffa (absit iniuria verbis!) il dispositivo della citata legge (comma 1271), in cui si parla di un
“risarcimento soprattutto morale”, quindi non soltanto
morale: intendendo per risarcimento, secondo M. G. Bacci
(cfr. Dizionario della lingua italiana, ediz. Aristea,
Milano), “ogni atto inteso a riparare un danno arrecato”, in
misura – si dovrebbe aggiungere – proporzionata all’entità
del danno medesimo.
Esiste, nella lingua inglese, una parola – hardship – il cui
significato corrisponde esattamente a ciò che i deportati e
intemati italiani dovettero sopportare durante la loro detenzione in Germania: pena, fatica, privazione, sofferenza,
oppressione.
Tutto ciò è stato, ovviamente, considerato dagli estensori
della citata legge, i quali hanno, evidentemente, inteso
riconoscere, con un platonico atto, in mancanza di una
concreta “assunzione d’obbligo” da parte delle autorità
tedesche, almeno il diritto al rispetto “rivendicato” dagli
anziani cittadini: i quali – pur sapendo a suo tempo di
esporsi, inermi, alle angherie dei loro brutali carcerieri,
servi del famigerato regime hitleriano – seppero dire
“NO” con tutte le loro forze agli allettamenti intesi ad
otteneme la sottomissione e la conseguente partecipazione, diretta o indiretta, allo sforzo bellico del Paese che,
per così dire, “li ospitava”.
Ordunque, mentre si attende che la disposizione relativa al
conferimento della medaglia venga concretamente applicata al compimento dell’iter regolamentare – che è sperabile
sia quanto più spedito e meno burocratico possibile – sembra pienamente condivisibile quanto auspicato da Mario
Avagliano e Marco Palmieri in un lucido scritto apparso nel
predetto numero di rassegna, circa l’opportunità che le tristi vicende vissute dagli intemati e da essi stoicamente
affrontate – sempre nell’intento di salvaguardare, per i militari, il loro onore di soldati e in generale di riaffermare il
diritto al rispetto da parte degli spietati oppressori – vengano rievocate fedelmente nelle aule scolastiche e formino
oggetto di letture e dibattiti per gli stessi studenti, affinché
essi conoscano la verità e siano in grado di manifestare concretarnente il loro pensiero e, soprattutto, di riconoscere il
merito che gli anziani predecessori seppero guadagnarsi
come meglio non avrebbero potuto.
I giovani hanno il diritto di essere correttamente informati
su quanto avvenne più di sessant’anni fa.
La storia, come tutti sanno, si vive nel presente, con motivazioni che attingono al passato, ma ogni giudizio al riguardo è demandato agli studiosi operanti nel futuro: è, questa,
la logica “consecutio temporum” cui occorre richiamarsi
per potersi rendere conto del “perché” di certi avvenimenti
che, nel corso dei secoli, hanno condizionato la vita dei
popoli e nei quali la fortuna o la sfortuna, sovente più che
la ragione o il diritto, ebbero parte.
Non sfuggono a queste considerazioni gli avvenimenti
della Seconda guerra mondiale (in parte conseguenti a
quelli della Prima), in cui il nostro Paese si trovò, purtroppo, coinvolto, finendo con l’essere duramente punito dai
vincitori ed esecrato per lungo tempo dagli antichi alleati:
una triste condizione, questa, che ancora persiste, almeno
in parte, dato l’atteggiamento chiaramente ostile di alcuni
giudici tedeschi chiamati a pronunciarsi sulle richieste di
indennizzo dei cittadini italiani (militari e civili) che furono deportati e internati in Germania.
Si può essere certi che, fra i cittadini di quel Paese, ora
nostri partner nella Unione Europea e a noi legati da fecondi rapporti politici, economici e culturali, prevalgano nei
confronti dell’Italia sentimenti di sincera stima ed amicizia.
Tutto ciò premesso, è interessante riportare alcune considerazioni circa l’atteggiamento, già riferito, assunto dalla
magistratura tedesca in merito alla scottante questione degli
indennizzi.
Osserva acutamente Claudio Sommaruga (cfr. “Una medaglia di consolazione”, articolo pubblicato nel citato numero
di “rassegna”) che, in qualità di “internati militari” – secondo la dizione adottata dal govemo tedesco, che li escludeva
dalla tutela prevista dalla Convenzione di Ginevra – i nostri
connazionali detenuti a quel tempo nei territori del Terzo
Reich avrebbero avuto diritto agli indennizzi stabiliti in
favore dei cosiddetti “schiavi di Hitler”.
Ebbene, il Tribunale di Berlino, poco più di due anni or
sono (sono parole dell’Autore) “riclassificava gli internati
militari italiani come prigionieri di guerra per escluderli
pretestuosamente da quegli indennizzi”.
Si attende, ora, che quella decisione, adottata in base a un
evidente sofisma giuridico, venga discussa in sede intemazionale, con tutte le lungaggini che è facile prevedere.
Purtroppo, gli aventi diritto agli indennizzi hanno pochi
anni avanti a loro per poter ancora pazientare: così, non
resta ad essi, per ora, che accontentarsi della medaglia
d’onore “offerta” dal govemo italiano, sperando di non
dover attendere – anche questa – troppo a lungo.