Ernst Nolte Natura e antinatura

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Ernst Nolte Natura e antinatura
Ernst Nolte
Natura e antinatura
Il brano che segue è tratto dal volume I tre volti del fascismo, scritto da uno degli storici tedeschi
più noti e discussi, Ernst Nolte. Nel testo, l’autore sottolinea alcuni tratti fondamentali dall’idea
razzista di Hitler, esposta nel Mein Kampf. Uno degli aspetti più significativi di tale concezione è il
tentativo di Hitler di conferirle un carattere extra politico. Paragonando le specie animali alle
razze umane, Hitler arriva a sostenere che, come nel mondo naturale esiste la lotta tra le diverse
specie, anche tra le razze umane esiste una lotta naturale. Quelle destinate a soccombere per
natura, come insegna il darwinismo sociale, devono inevitabilmente morire. Il futuro dittatore
intende le differenze “naturali” come differenze “culturali” che non devono essere cancellate.
Anzi, da tali differenze bisogna trarre spunto per affermare la necessità della lotta tra le razze. In
conseguenza di ciò, se la razza “naturalmente” pura è quella ariana, la razza che si pone come
contraria alla natura e alla “naturale” lotta tra le specie è quella ebraica, nei confronti della quale
Hitler anticipa tutta la politica di sterminio che metterà in atto contro gli ebrei stessi.
Prima di passare alle ultime riflessioni, si impone ancora un attimo di arresto: bisogna dare uno
sguardo a quei passi in cui il pensiero di Hitler raggiunge il suo più alto carattere di universalità. Il
che avviene quando parla della «natura».
I fondamenti della sua dottrina sono universalmente noti: la vita è una lotta in cui il più forte si
impone, soddisfacendo così la volontà della natura che ha messo al mondo le sue creature perché
lottino eternamente rendendo possibile una evoluzione sempre più alta anziché la putrefazione.
Queste sono idee banali, e c’è solo da chiedersi quali concezioni sostanziali esse nascondano. Cioè:
chi lotta, di che lotta si tratta, perché questa lotta deve esser messa in particolare evidenza?
In primo luogo Hitler pensa sempre evidentemente a una lotta dell’uomo contro l’uomo: tutti gli
esempi che cerca nella natura mirano solo a spiegare l’essenza di questa lotta. Si tratta comunque di
un’esemplificazione altamente istruttiva. Ogni animale si accoppia solo con un compagno della
stessa specie, si legge all’inizio del capitolo «Popolo e razza» di Mein Kampf: la formica va alla
formica, il fringuello al fringuello, la cicogna alla cicogna. Le specie sono rigorosamente distinte, e
non esiste una volpe che possa esprimere sentimenti amichevoli nei confronti delle oche, né un
gatto che possa avere una cordiale simpatia per i sorci. L’intenzione di Hitler è palmare: equipara la
razza (umana) con la specie (animale), cercando così da una parte di scavare un abisso
insormontabile tra gli uomini, dall’altra di costringere indissolubilmente il singolo uomo
nell’ambito della propria razza, che diviene così la suprema e unica causa determinante del suo
agire. Hitler ama moltissimo paragonare l’uomo con gli animali o con le cose: se una tigre non ha
colpa di divorare l’uomo, nemmeno il tedesco è obbligato a farsi divorare dall’ebreo. Le scimmie
calpestano a morte le scimmie solitarie, estranee alla loro comunità, e questo principio deve valere
anche per gli uomini. L’uomo del Reich futuro sarà «svelto come un levriero, resistente come cuoio
e duro come acciaio di Krupp» Tutto questo lo porta evidentemente a enunciare con serietà tesi
ostinatamente settarie: il paragone col cane dimostra che l’uomo si nutre in maniera errata; la vita
normale dell’uomo dovrebbe durare dai 140 ai 180 anni; oppure: le scimmie sono vegetariane e in
questo indicano all’uomo qual è la via giusta da seguire.
Soggetti della lotta sono dunque le razze concluse in se stesse, e rispettivamente le compagini
gerarchiche delle razze (popoli). In tal senso dice: «Dio ha creato i popoli, ma non le classi.»
Carattere di questa lotta è la guerra. Hitler allude evidentemente a questo quando dice: «Un essere
beve il sangue dell’altro. Uno trova nutrimento dalla morte dell’altro. Inutile blaterare di umanità...
La lotta rimane.»
La guerra decide chi è il padrone e chi lo schiavo: Hitler non conosce altre categorie sociologiche.
Per questo per lui esistono al mondo «solo vincitori e servi», per questo un popolo di 15 milioni di
individui può aspettarsi solo di «essere schiavo di altri».
Per lo più Hitler indica come scopo di tutto questo la conservazione della specie, non di rado il
miglioramento razziale e la nobilitazione dell’umanità. Ma la maggior evidenza è data al primo
scopo: perché se il secondo non costituisce soltanto un rimasuglio pseudoliberale, deve essere inteso
in base al primo.
Questo è il mondo hitleriano della lotta continua, in cui ciascun essere vivente deve lottare, è una
guerra per la conquista del dominio o della schiavitù che si svolge tra le razze intese come dati
eterni ultimi e supremi.
Ed ecco il nucleo della sua annunciazione religiosa, cui intendeva dedicarsi anima e corpo dopo la
vittoria: «ossequio assoluto alla legge religiosa dell’esistenza», pia considerazione della
«fondamentale necessità insita nello sviluppo della natura».
Ma perché proclamare una cosa ovvia? Forse che la «natura» ha un nemico e dunque ha bisogno di
essere sostenuta?
Certo: anche per Hitler c’è qualcosa che «allontana gli uomini dai loro istinti naturali». Talvolta è
una cultura superficiale, tal altra la scienza materialistica, ma sempre questo qualcosa è causato e
promosso dall’ebreo. L’uomo può pensare di voler «correggere la natura», di essere qualcosa di
diverso da un bacillo sulla terra. «Le fantasticherie dei ciarlatani pacifisti» e dei «critici della
natura» possono indurre l’uomo a ritenersi il «padrone della creazione», cioè superiore alle sue
leggi fondamentali. Ma allora un popolo può perdere la certezza istintiva che egli deve conquistarsi
nuove terre con l’arma in pugno, e l’ebreo può aprire una «breccia» nel popolo stesso e inventare
una questione sociale per spezzare l’unità popolare. Ed ecco che balzano alla ribalta gli intellettuali
con la loro incertezza d’istinto e con la loro mobilità, ecco compirsi l’opera ebraico-cristiana
dell’antinatura, ecco il popolo stare sull’abisso dell’annientamento. Evidentemente c’è qualcosa di
minaccioso nella natura dell’uomo stesso, una radice della malattia, un’arma dell’antinatura: «Solo
l’uomo, tra tutti gli esseri viventi, cerca di trasgredire alle leggi della natura.» Il Führer e il
movimento nazionalsocialista strappano la razza dall’abisso e la riconducono di forza nel binario
della natura. Propugnatori della «crudele regina d’ogni saggezza», essi accettano all’ultimo istante
la lotta contro l’antinatura, il cui strumento è il popolo ebraico, poiché «il popolo tedesco è il tipico
popolo senza spazio». Sono gli stessi principi originari che si fronteggiano: c’è solo un’alternativa,
vittoria o distruzione, ed essa è decisiva delle sorti del mondo.
E. Nolte, Il fascismo nella sua epoca. I tre volti del fascismo, Edizioni Sugarco, Varese 1995, pp.
683-686.
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Christopher Hale
La spedizione in Tibet del 1938
La spedizione in Tibet organizzata dal capo delle SS, Himmler, nel 1938, rappresenta un episodio
significativo all’interno della politica nazista. La spedizione, affidata allo zoologo Ernst Schäfer,
aveva ufficialmente alla propria base intenti scientifici, ma era altresì guidata da suggestioni di
carattere mitico e pseudoscientifico. Himmler intendeva rafforzare la propria supremazia nel
partito, organizzando una spedizione in grado di trovare, alle pendici dell’Himalaya, testimonianze
della vita degli ariani, i progenitori dei tedeschi e dei popoli nordici. Per la scienza nazista,
destinata a lavorare per la gloria di Hitler, era inammissibile che l’uomo potesse essere “nato” in
Africa. Si credeva invece, prendendo ad esempio il mito ariano diffusosi nel XIX secolo, che nel
Tibet fosse nata una stirpe di uomini potenti, forti, biondi e con gli occhi azzurri, che avrebbe in
seguito popolato il pianeta, andando a scontrarsi con l’altro popolo antichissimo, gli ebrei. La
spedizione, dunque, era funzionale all’ideologia nazista, tanto che il suo capo, Schäfer, dichiarò di
lavorare per la gloria del regime e in stretto contatto con le SS, di cui Himmler era il capo.
Per Himmler, il piano di Schäfer era irresistibilmente attraente. Era affascinato dall’Asia e riteneva,
al pari di Hans Günther, che in qualche parte dell’Himalaya potessero esserci dei rifugiati ariani.
Era deciso a ricavare dal successo di Schäfer un trionfo propagandistico che avrebbe cementato la
reputazione delle SS e dell’Ahnenerbe. Himmler aveva dei rivali nella corsa al potere politico ma
soffriva altresì la statura culturale di Alfred Rosenberg, il tedesco del baltico fuggito in Germania
nel 1918 che aveva tradotto i Protocolli dei savi di Sion, il falso documento attestante l’esistenza di
una cospirazione ebraica volta alla conquista del potere mondiale. Si autodefiniva un «combattente
contro Gerusalemme» ed era a sua volta definito «un uomo profondamente semianalfabeta». Iniziò
a sfornare voluminosi e magniloquenti libri come L’immoralità nel Talmud e Il mito del XX secolo.
Al pari di Himmler, era ossessionato dalle origini ariane, dal destino di Atlantide, nonché da una
serie di metateorie pseudoscientifiche sulla storia. Una spedizione trionfale avrebbe dato a Himmler
un grosso vantaggio […].
Schäfer era uno zoologo [ed] era deciso ad aggregare aree di studio diverse tra loro: «Scopo
principale della mia terza spedizione [quella del ‘38] fu mettere insieme un quadro biologico nel
senso più ampio creando un quadro generale di questo misterioso paese». Qui Schäfer si dimostra
alquanto ingiusto nei confronti del suo amico e benefattore Brooke Dolan, che nel suo primo
viaggio in Asia centrale promosse palesemente una sorta di approccio sincretico e che era venuto in
Germania per ampliare la competenza del suo gruppo. Non c’è dubbio, tuttavia, che la seconda
spedizione fu molto più simile a un’avventura da ragazzini, che aveva come unico scopo la raccolta
di campioni biologici; l’esperienza di Schäfer con l’avventuriero-ragazzaccio Dolan gli bruciava
ancora: in quanto tedesco egli avrebbe potuto fare molto di più e, al contempo, vendicarsi di quel
traumatico abbandono.
Ovviamente, in ballo non c’era semplicemente un fatto personale. Nella Germania nazista la
politica ufficiale di Gleichschaltung, o «unità», era un imperativo; era il mezzo attraverso cui lo
«spirito tedesco» poteva permeare e controllare ogni parte del mondo scientifico. Se doveva essere
al servizio del Völk, allora la scienza doveva rifiutare quella che alcuni definivano la «via europeooccidentale-americana» che l’aveva portata a una catastrofica frammentazione in tante
specializzazioni. Sotto Hitler, la «strada tedesca» avrebbe suturato tali frammentazioni per
diffondere una scienza genuinamente ariana. La specializzazione era un modo di pensare «ebraico»
e portava a uno svilimento e soffocamento dell’ideale scientifico. Secondo lo storico
dell’Ahnenerbe Michael Kater, la scienza sincretica era una «ideologia romantico-organica» e
trovava la sua massima realizzazione tra i cinquantuno dipartimenti dell’Ahnenerbe. Schäfer
trasfuse questo principio nei suoi piani per la nuova spedizione in Tibet e nell’ossessivo controllo
del lavoro svolto dai suoi colleghi.
La ricerca di un impero nordico in Asia centrale non era, almeno esteriormente, un’ossessione per
Schäfer. Tuttavia egli coltivava una grande ambizione, condivisa da Dolan e altri naturalisti
americani. Tutti loro erano convinti che tutte le specie di mammiferi dovessero essersi evolute in
qualche luogo situato tra le Americhe e l’Europa: in altre parole, in Asia centrale. «Il fatto», scrisse
un influente scienziato americano dell’autorevole Museum of Natural History di New York, «che lo
stesso genere di animali appaia simultaneamente in Europa e nella regione delle Montagne
Rocciose è da tempo considerato una prova convincente della tesi secondo cui il centro di
dispersione si trova a metà strada. In questo centro di dispersione, sul finire dell’Era dei rettili e
l’inizio dell’Era dei mammiferi, si evolvettero i più remoti antenati di tutte le specie superiori di vita
mammifera oggi esistenti». L’idea di un’origine asiatica venne rapidamente adottata dagli
antropologi. La nostra specie si era evoluta «probabilmente all’interno o intorno al grande altopiano
centroasiatico», che era diventato un immenso centro di dispersione. «Da questa regione vennero le
successive invasioni che subissarono l’Europa. [...] Analogamente, l’intera storia dell’India è fatta
di successive invasioni riversatesi da nord, mentre nell’impero cinese le invasioni giunsero da
occidente...». L’altopiano tibetano era una specie di pompa che spinse le nuove specie di
mammiferi, compresi i primi uomini, oltre le vette himalayane e in tutto il mondo. Sebbene lo
stesso Darwin avesse intuito che l’Africa fosse la «culla dell’umanità», l’Asia ben si adattava ai
pregiudizi degli scienziati in America e in Germania. Per molti, su entrambe le sponde
dell’Atlantico, la possibilità che l’uomo si fosse inizialmente evoluto nel «Continente nero» era un
incubo repellente. Gli scienziati tedeschi e americani avevano una passione comune per
l’eugenetica e la scienza razziale. Entrambe le nazioni ritenevano di avere a che fare con un
problema razziale.
Schäfer fece propria questa idea di un centro di dispersione in Asia centrale. Sebbene sia
improbabile che sia lui sia i suoi colleghi americani avrebbero mai ammesso di aver letto i testi di
Madame Blavatski e dei suoi seguaci, sia La dottrina segreta sia la scienza delle origini umane
nascevano da un’unica fonte. Per entrambe, la chiave di tutto era l’altopiano tibetano […].
Lo stesso Schäfer affermò esplicitamente che la sua spedizione e la sua scienza avevano una
motivazione politica. Nel suo dossier di ufficiale delle SS conservato nei National Archives di
Washington, c’è un ritaglio non datato del «Das Schwarze Korps», la rivista interna delle SS. E un
profilo dell’Untersturmführer Ernst Schäfer in cui egli illustra le proprie opinioni sul ruolo della
scienza del Terzo Reich. L’intervistatore inizia in modo alquanto ossequioso offrendo ai lettori uno
squarcio del mondo dell’esploratore: «Questa è dunque la casa del giovane scienziato tedesco Ernst
Schäfer... Sul pavimento ci sono alcune pelli di animale trattate, tra cui una gigantesca pelliccia di
orso bruno. Una foto alla parete mostra un gruppetto di asini tibetani. Sulla scrivania una pila di
libri e documenti...». L’autore chiede quindi a Schäfer di parlargli della scienza. «Guardi», risponde
Schäfer, «le stesse idee di fondo mi ispirano sia come membro delle SS sia come esploratore e
scienziato. Le idee delle SS e le idee della ricerca sono identiche. Entrambe dipendono dai pionieri,
entrambe impiegano la selezione, entrambe si basano nella loro rappresentazione e nel loro lavoro
sui valori del carattere e dell’anima che ereditiamo dalla nostra tradizione tedesca...» Le parole
successive sono estremamente rivelatrici: «Devo anche dire che la mia stretta adesione alle idee
nazionalsocialiste ha suscitato forti critiche [...] Di cosa vengo accusato? Mi si dice: fai della
scienza di parte [...] Non c’è nulla di più facile che smantellare simili accuse. Costoro affermano
che la scienza sia internazionale. Noi non neghiamo che i grandi successi della ricerca debbano
essere un dono al mondo, ma sosteniamo con pari enfasi che la scienza possa svilupparsi soltanto su
una base razziale e che gli scienziati siano rappresentanti di un’essenza storica nazionale. La
scienza internazionale intesa in senso liberale è assurda».
C. Hale, La crociata di Himmler. La spedizione nazista in Tibet nel 1938, Garzanti, Milano 2006,
pp. 146-159.