senza uscita

Transcript

senza uscita
Alessandro Di Zio
SENZA USCITA
cinque monologhi e un racconto
sul bisogno di andare via
PRIMA PARTE
PIANI DI FUGA
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Con enorme sforzo il Padrino aprì gli occhi per
guardare il figlio ancora una volta. Il duro attacco
cardiaco aveva reso cianotico il volto rubicondo.
Era alla fine. Sembrò fiutare l’aria, l’alone giallo
di luce gli ferì gli occhi. Sussurrò: “La vita è così bella”.
MARIO PUZO
Just because you feel it
Doesn’t mean it’s there
RADIOHEAD
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Acqua alle caviglie
Può l’Inferno essere una caverna che puzza di vomito, acqua putrida alle caviglie, una branda, una
cassa piena di scatolette di tonno, qualche bottiglia di vino, una scrivania, una bibbia, fiammiferi e candele?
Che logica ci sarebbe?
Passare l’eternità a mangiare tonno in scatola e a
leggere la bibbia a lume di candela?
Chissà?
Magari è la beffa dopo una vita di sacrifici.
Magari Dio è cattivo.
Oppure no. Questo non è proprio l’Inferno.
Direi di no.
Potrebbe far pensare più ad una stazione di transito che all’Inferno stesso. Una sorta di sala
d’attesa dove riflettere sulla propria esistenza.
Sui propri errori.
E qui, immagino, la funzione della bibbia.
Ecco.
Potrei
dire
che
questa
è
l’anticamera
dell’Inferno. La sala d’aspetto, in un certo senso. Tra un po’ qualcuno verrà a comunicarmi la mia
destinazione.
E magari anche la mia punizione.
Ma non ci credo.
Sono qui già da un bel po’.
Qualche settimana.
Un mese, può darsi.
Ho perso la cognizione del tempo.
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E la puzza di vomito è insopportabile.
Ma non è questo il problema principale. Oramai sono vecchio e un vecchio si abitua pure al buio e
alla puzza di vomito e a bere acqua putrida, se
serve. Un vecchio si abitua a tutto.
Se serve.
Il fatto è che vorrei almeno sapere come sono arrivato in questo posto. Non ricordo nulla degli
ultimi momenti. E l’ultimo ricordo che ho è molto
vago. Dovevo incontrare mio figlio, dalle parti
del porto o qualcosa del genere.
E poi mi sono ritrovato in acqua.
E sono annegato.
L’acqua era fredda.
Non sono stato un buon padre, questa è la verità.
E forse è questa la giusta punizione per gli errori che ho commesso.
Ma come poteva un vecchio come me stare dietro ad
uno scavezzacollo come lui?
Ho fatto del mio meglio, ma ho sbagliato tutto.
E ho perso.
Non si sta però poi tanto male qui sotto. La caverna è grande e anche se l’aria puzza di vomito
ci si può abituare. Il fastidio più grosso è
l’acqua che arriva fino alle caviglie. Per terra è
tutto allagato e viscido. Ci saranno dieci centimetri di acqua salata stagnante che puzza di vomito.
Che ci sia il mare da qualche parte?
Il mare.
Il mare, a dirla tutta, io l’ho visto una volta
sola. E proprio prima di finire in questo posto.
Prima di annegare.
Me ne avevano parlato, però.
Mi avevano parlato di un posto dove si può vedere
dove comincia il cielo.
Mi avevano parlato di navi grandi come città e di
grandi città piene di gente.
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Ed è tutto vero.
È così.
E non mi piace un gran che. Troppo spazio tutto
assieme. Troppe persone. Io sono abituato alla mia
casa e alle mie colline.
Ci lavoro pure, io, a casa.
Lì conosco tutto.
Metro per metro.
Centimetro per centimetro.
L’ho costruita io, casa mia.
Ma questo è un altro discorso.
Il problema è che non posso stare tutto il tempo
coi piedi a mollo. Sono un vecchio, e neanche tanto in forma per giunta. E questa umidità è un veleno per i miei reumatismi e per la mia artrosi.
Per questo la maggior parte del tempo lo passo
stando sdraiato sopra la branda oppure seduto con
i piedi appoggiati sulla scrivania.
È l’unico pezzo che abbia un valore qui dentro.
La scrivania, dico.
Tek.
Tutta la scrivania è stata costruita con tek di
primissima qualità.
Nessun trattamento.
Meraviglioso.
Resistente anche all’acqua di mare, se necessario.
E i bordi sono intarsiati a mano con motivi che
rivelano una fantasia fuori dal comune.
E cuore.
Ed esperienza.
Il falegname che ha costruito questa scrivania deve averne fatte molte altre prima.
È un’opera d’arte.
Sarà degli inizi del secolo e sicuramente è un
pezzo unico commissionato da qualche riccone amante delle belle cose. Qualche armatore amante delle
belle cose che ha voluto arredare il suo veliero,
che ne so.
Sarà costata un occhio della testa.
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Mancano del tutto i cassetti, però. Al loro posto
ci sono quattro buchi ciechi. È un vero peccato.
Molto probabilmente lo stesso intarsio dei bordi
veniva richiamato dai cassetti.
Io avrei fatto così.
Semplice ma efficace.
Mi sono spezzato la schiena per ribaltarla e per
spostarla vicino ad una delle pareti (anche se non
c’è anima viva, preferisco stare con le spalle rivolte verso la parete. Il vuoto e il buio mi infastidiscono). La branda l’ho sistemata vicino alla
scrivania, in modo da formare una sorta di spazio
chiuso. Diciamo che questa è la mia stanza. Non è
tanto grande. Ma preferisco così. Come a casa mia.
E poi qui la grandezza è una conseguenza della luce della candela.
Un diametro di quattro metri, all’incirca.
L’orizzonte?
Un paio di metri più in là.
Ormai dipendo dalle candele. La mia concezione del
tempo e dello spazio dipende dalla luce delle candele.
Mezza candela mi basta per un giorno intero, da
quando mi alzo a quando mi riaddormento. Anche se
non credo che il mio giorno di adesso abbia alcuna
relazione con il giorno che conoscevo prima.
Ha un suono irreale la parola giorno qui dentro, a
dire la verità. Non avevo mai fatto caso a come io
abbia sempre associato il sole a questa parola.
Io me lo ricordo bene il sole.
Be’, d’altronde mi ha sempre accompagnato da quando sono nato, scandendo il ritmo del mio lavoro.
Quando il sole si alzava io mi alzavo e quando il
sole andava a dormire io andavo a dormire.
Sono un tipo semplice, io.
Per me dire sole o dire giorno poteva essere la
stessa cosa.
Adesso cambia tutto, però.
Adesso un giorno vale mezza candela.
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Il paradosso (tutto questo, tutto questo Inferno è
un paradosso incomprensibile) è che ho avuto una
bella fornitura di candele (una quarantina in tutto, comprese quelle che ho già consumato), ma il
vino è già finito.
Che abbiano sbagliato i calcoli?
M’è rimasta mezza bottiglia. E la posso far durare
al massimo tre giorni. Quattro, se tutto va bene.
E questo vuol dire che tra quattro giorni dovrebbe
arrivare qualcuno per dirmi dove devo andare.
Per forza.
Altrimenti che senso avrebbe avuto farmi stare qui
tutto questo tempo?
Nessuno.
E se Dio è cattivo?
Be’, allora è tutto diverso.
Allora cambia tutto.
Soltanto un Dio cattivo può far morire un uomo per
due volte.
Ma così, se non altro, tutto questo avrebbe un
senso.
Almeno.
Devo ripensare alla mia vita. Deve esserci qualche
collegamento tra quello che ho fatto nella vita e
questo posto.
Quale peccato può essere tanto grave per pretendere che un uomo muoia due volte?
Vorrei che mio figlio fosse qui. Vorrei parlargli.
Vorrei dirgli che ho sbagliato. Me ne ha fatte
passare tante, ma non posso fare a meno di pensare
a lui.
Non posso fare a meno di amarlo.
Mi pento adesso perché io non ho fatto il possibile per salvarlo. Ho sbagliato tutto. Ho lasciato
che andasse via. Ho lasciato che il mondo stesso
lo tentasse.
Non sono stato un buon padre.
Questa è la verità.
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Non sono stato un buon padre.
PERCHE’ QUALCUNO NON MI DICE CHE COSA DEVO FARE!!?
Ho paura.
Il vino sta finendo.
Mi sento debole.
Quasi quasi me lo bevo tutto d’un fiato, il vino
che è rimasto.
E la faccio finita.
Quasi fosse veleno.
D’altronde a che serve prolungare quest’agonia?
Quasi quasi accendo tutte le candele e faccio
brillare questo inferno maledetto e poi mi siedo e
mi scolo tutta d’un fiato la mezza bottiglia di
vino.
Alla faccia del demonio o chi per lui!
Alla faccia di Dio o chi per lui!
NO!
Devo resistere.
Ché poi non è la morte a farmi paura.
No.
Sono
già
morto
una
volta
e
sono
finito
all’Inferno. Cosa potrebbe esserci di così tremendo nel morire un’altra volta? Potrebbe essere addirittura l’unica via d’uscita. L’unica maniera
per dimostrare a Dio (o quello che è) che ho capito la sua logica e che adesso sto seguendo le sue
regole.
Accendo tutte le candele, banchetto con il tonno
in scatola e brindo col vino.
Magari mi ubriaco pure e mi faccio quattro risate
alla faccia del destino crudele che mi ha portato
a scontare i miei ultimi giorni di vecchio in questo buco dannato.
Mi ubriaco e aspetto.
Ma non può essere così semplice.
Non può essere così facile.
La speranza si attacca all’anima con artigli troppo affilati per riuscire a scollarsela di dosso
con mezza bottiglia di vino.
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Che la soluzione stia proprio nella bibbia?
Non ci credo troppo.
Comunque ho avuto abbastanza tempo per darle
un’occhiata (qui non c’è altro da fare che leggere
a lume di candela l’unico libro esistente!). E
l’occhio (naturalmente) è caduto su uno dei pochi
episodi che ricordavo.
Il catechismo a volte torna utile.
Chi l’avrebbe detto?
In ogni modo, l’ho letto e riletto quel brano,
mille volte. Ma non ho ancora trovato la soluzione. Non c’è nessuna logica in tutto questo. Neanche la parola di Dio è una risposta, adesso.
Comunque, il brano in questione si trova nel Libro
della Genesi ed è la storia di Abramo e di suo figlio Isacco.
Niente di troppo complicato.
In ogni modo, la faccio il più breve possibile.
Dio dice ad Abramo di sacrificare il proprio figlio e, mentre il padre sta per compiere il volere
del Signore, questi manda un angelo e la storia in
pratica finisce qui. Abramo trova un ariete e lo
offre a Dio, al posto di suo figlio Isacco.
Va bene.
Chiaro.
Un ariete per un figlio.
Mi sembra più che giusto.
C’è anche il lieto fine.
Non ci sono arieti, qui, però.
E il vino è finito.
Chissà dove si trova adesso quella testa di legno?
Non voleva andare a scuola. Non aveva voglia di
fare niente.
Giocare.
Pensava soltanto a giocare e a cacciarsi nei guai.
Io gli ripetevo che senza saper né leggere né
scrivere non si va da nessuna parte. Gli dicevo
che a questo mondo bisogna avere un’istruzione.
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Che volevo per lui una vita migliore della mia.
Consigli.
Questa è l’unica cosa che ho saputo fare.
Dare dei consigli.
I consigli sono una buona cosa.
L’ho sempre pensato e lo penso ancora.
Ma come fa un ragazzino ad accettare il consiglio
di un vecchio che non ha mai visto il mare? Come
fa un ragazzino ad ascoltare un vecchio malato di
ottant’anni di lavoro? Come fa un ragazzino ad amare la scuola quando tutto quello che si vede in
giro è giostre e zucchero filato?
Non lo biasimo.
No.
Ma biasimo e condanno me stesso.
E se questo è il mio peccato, allora merito di essere finito all’Inferno. Se questo è il mio peccato merito di morire non due, ma cento volte.
Se questo è il mio peccato ti chiedo scusa, figlio
mio.
Bevo tutto d’un fiato la mezza bottiglia che mi
rimane.
Al buio.
Me lo merito.
Volevo un figlio.
Questo volevo.
Volevo un figlio così tanto che ho preso un pezzo
di legno e gli ho dato un nome.
Questo ho fatto.
Ho preso un pezzo di legno e gli ho dato un nome.
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Coincidenze
Non dire stupidaggini.
Questo rispose mia madre.
Non dire stupidaggini.
Io non dicevo mica stupidaggini. Avevo un dono.
Riuscivo ad indovinare il futuro.
Tutto qui.
Ho cercato sul dizionario, appena ho scoperto di
cosa si trattava. Avevo sette anni e arrivare alla
C era decisamente molto più facile della K o della
R.
A, B, C… facile, no?
Non ho dovuto chiedere aiuto a nessuno. E non ho
dovuto chiedere neanche il dizionario perché sapevo dove si trovava.
Così presi il dizionario e trovai quello cercavo.
Imparai subito tutto a memoria.
Coincidenza: incontro di due o più cose in uno
stesso punto del tempo e dello spazio.
E a me capitava proprio in questo modo. Due cose
che si incontrano da qualche parte.
Due cose, un punto.
Di questo si trattava. Mia madre mi diceva che
succede sempre. Mi diceva che tutto è una coincidenza.
A dire il vero non prevedo il futuro.
Sarebbe troppo.
Diciamo così: faccio caso a tutto quello che succede.
Faccio caso alle coincidenze, appunto.
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Due cose si incontrano in uno stesso punto del
tempo e dello spazio, ricordate?
E io sono lì quando succede.
Sempre.
Al posto giusto nel momento giusto.
Il mondo mi parla. Mi dice dove devo andare. Mi
dice cosa devo fare.
È bello.
Ad un certo punto della mia vita, verso i quindici
anni ho anche fantasticato sull’esistenza di Dio.
Ma Dio si nasconde dietro le nuvole e non si fa
vedere mai. Dio se ne sta per i fatti suoi.
Per questo è durata poco.
Non è facile descrivere la sensazione che si prova
a trovarsi sempre nel posto giusto al momento giusto. E a qualcuno potrà sembrare proprio una
stronzata.
Stupidaggini, come diceva mia madre.
Ma è tutto vero.
Giuro.
A vent’anni avevo anche imparato a gestire in
qualche modo la mia dote. Ma non l’ho mai usata
per fare del male, sia chiaro.
Be’, qualche volta è successo che abbia fatto soffrire qualcuno.
E tu ne sai qualcosa.
Diciamo pure che non sono un filantropo.
Ecco.
Non è facile da spiegare. È che in un certo senso
io sono avvantaggiato rispetto agli altri. Io so
che alcuni istanti sono più importanti di altri.
Ed è allora che devo fare qualcosa.
O non fare niente.
Dipende.
Non è che il mondo mi dica come comportarmi.
Questo no.
Mi comunica soltanto che è arrivato il momento di
agire. In un certo senso è come se qualcuno (un
amico) mi desse dei calci da sotto il tavolo per
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dirmi di muovermi, di darmi da fare.
Di sorridere alla ragazza che mi è seduta di fronte, magari.
Ma la decisione finale spetta a me.
La tragedia è che adesso è tutto così chiaro. Limpido.
Il piano.
La premeditazione.
Il fine.
Adesso tutto è così chiaro.
Ed è troppo tardi.
E così me ne vado. Per sempre. Non avevo mai pensato che il mio dono sarebbe stato anche la mia
condanna. Ed esco di scena nella maniera peggiore.
Perché tutto questo, vedi amore, avrà un senso solo con la mia morte.
La vita di tutti avrà un senso con la mia morte.
Così è stato deciso.
Ed è così che deve andare.
Non ho avuto il coraggio di guardarti negli occhi
prima di uscire. Eri così tranquilla. Dormivi. Non
sono mai stato un tipo coraggioso, a dire la verità. Ma questo già lo sai. Come sai che ti amo, anche se non te l’ho mai detto.
Ti amo.
Ti ho sempre amato. E ti amo di più adesso che sono da solo.
E resto qui da solo col peso della mia condanna.
Forse me lo merito.
Dio si nasconde dietro le nuvole e non si fa vedere.
Dio se ne sta per i fatti suoi.
Ti diranno che sono un vigliacco. Un traditore. Un
arrivista. E che per questo merito la morte e la
vergogna per l’eternità. Ed io ti dico che ho commesso molti errori nella mia vita. E ti dico che
il destino mi ha usato.
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Ho tradito, è vero. E mi pento per questo. Ho tradito un amico. E l’ho fatto perché avevo bisogno
di soldi.
Avevamo bisogno di soldi.
Guarda che coincidenza!
Io mi trovavo là.
Il posto giusto.
Il momento giusto.
Dovevo soltanto dire il suo nome.
Il mondo mi ha detto che quello era il momento. Me
l’ha detto come un milione di volte prima di allora.
Come da sempre.
Ed io l’ho fatto.
L’ho detto.
Tutto è così chiaro adesso.
Ed è troppo tardi.
Il nostro incontro.
La nostra amicizia.
Le sue parole.
Abbiamo condiviso molto. Amavo i suoi modi di fare. La sua gentilezza. La sua calma. La sua forza.
Io gli servivo però, altrimenti il suo piano non
avrebbe funzionato.
Era tutto già scritto.
La mia vita non vale forse come quella di qualsiasi altro uomo?
La tragedia, amore, è che io non ho mai scelto.
Credevo di essere libero, ma in verità io non mai
conosciuto la libertà.
Mi hanno assegnato la parte del traditore.
Del vigliacco.
E io sono stato bravo. Ce l’ho messa tutta.
Come adesso, qui.
Manca soltanto il finale.
L’ultima parte di questa tragedia.
Scritta apposta per me.
Tutto è compiuto.
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Spero che tu mi perdoni.
Ho sbagliato.
Ti amo.
Addio.
In fondo dovevo soltanto dire il suo nome.
Ed io l’ho fatto.
Gesù.
Gesù di Nazareth.
Questo è il suo nome.
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Vuoi morire?
Ho sempre pensato che un colpo di pistola alla
tempia fosse la cosa migliore. Un colpo e via. Voglio dire che la fai finita subito, se tutto va
bene.
Certo.
Se tutto va bene.
Se ti trema la mano è capace pure che ti ritrovi
sul pavimento della cucina in una pozza di sangue
ad aspettare ore prima che la cosa funzioni.
Troppo doloroso.
E poi c’è il sangue.
Io odio il sangue.
Onestamente non mi va di agonizzare nel mio stesso
sangue soffrendo come un cane.
No.
La cosa buona, però, è che un colpo di pistola elimina gran parte dei preparativi. Voglio dire:
comprare la corda, fare il cappio (che vi assicuro
non è facilissimo da fare se non l’avete mai fatto), salire sulla sedia, dondolare, cadere…
Senza parlare di fare un tuffo dal balcone di casa. Io soffro di vertigini. Non riesco neanche a
salire sopra una scala senza sudare freddo. Da
piccola non mi sono mai neanche arrampicata sopra
un albero, figurarsi fare un tuffo dal quinto piano. Naaa... E poi, pensare che qualcuno, tornando
a casa magari con i figli e con due buste della
spesa in mano, mi ritrovi spiaccicata sul marciapiedi, non mi sembra proprio il massimo.
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No.
Di tagliarmi le vene non se ne parla neanche. Sempre per il sangue di cui sopra.
No, no… se ci fosse una sorta di decalogo del perfetto suicida, io direi che una delle prime regole
è l’intimità, insieme alla rapidità.
Ecco, intimità e rapidità.
Potrei quasi affermare che un colpo di pistola
dritto nel cervello è l’approccio giusto al suicidio.
Occidentale.
Sbrigativo.
Definitivo.
Consumistico, in un certo senso.
Naturalmente nessuno pensa a cose di questo genere
prima di suicidarsi. Alla scelta del metodo, voglio dire. A cose di questo genere si pensa quando
tutto va bene. Quando si ha ancora la forza e il
tempo per dire che tutto si aggiusterà.
Andrà tutto bene.
È così che si dice, vero?
Andrà tutto bene.
Ecco, allora si comincia a fantasticare (e chi di
voi non l’ha mai fatto?) su quale sia il modo migliore per andarsene.
E allora pistole, corde, medicine, tuffi, lamette
e così via.
Scatenate la fantasia, ce n’è per tutti i gusti.
E si sceglie.
È quasi un gioco.
Perché è quando le cose vanno bene che ci si può
permettere di giocare?
No? Non è così?
Comunque.
Io scelgo il colpo di pistola alla tempia. E conoscete già la ragione. Ma visto che le pistole sono
difficili da reperire per una donna di trentasei
anni che non ha mai avuto a che fare con rapine o
cose del genere e dato che ho una certa fretta,
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opto per un cocktail di farmaci.
Cocktail di farmaci, che nome allettante per un
veleno! L’ho sentito un mucchio di volte alla televisione. Mi pare la cosa più giusta. E mi sembra
anche che si addica di più ad una donna. Come le
attrici famose. Se riesce bene, va a finire che ci
si addormenta e non ci si accorge nemmeno di quello che succede.
Va a finire che si sogna pure.
Comunque.
Apro l’armadietto delle medicine. Ne prendo qualcuna a caso. Be’, non proprio a caso. Scelgo quelle che fanno più male. Ho imparato a conoscerle. E
chiunque abbia cresciuto un figlio sa di cosa sto
parlando. Pillole, pasticche, sciroppi. Prendo
tutto. Tutto quello che mi può servire. Ne metto
un bel po’ insieme dentro un bicchiere. Riempio il
bicchiere d’acqua e do una mescolata.
Ha un colore giallastro. Non sembra poi così male.
Sembra succo di pompelmo.
A me il pompelmo fa schifo.
Mando giù il mio cocktail.
Non sa di pompelmo.
Fa schifo lo stesso.
Ma tant’è.
Mi tremano le gambe. Non è facile suicidarsi, ve
l’assicuro. È la prima volta che ci provo.
Ho paura.
Dopo qualche minuto mi sento strana. Be’, onestamente il tempo non è un concetto troppo chiaro adesso.
Come lo spazio, d’altronde.
Ore.
Minuti.
Metri.
Secondi.
Anni.
Chilometri.
Ho caldo e comincio a sudare. Mi stendo sul letto,
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ma è peggio.
Sta funzionando.
Il soffitto si avvicina di colpo e poi, di colpo,
si allontana.
Sto sudando.
I colori si spandono. Non ci vedo più tanto bene.
Ma non è tanto il dolore che mi spaventa. A dire
la verità non c’è dolore.
Ho solo una leggera nausea.
Sono stanca. Ma non è neanche questo.
È il senso di colpa.
Lo spirito di sopravvivenza arriva sotto forma di
senso di colpa.
Comincio a pensare a mia madre.
Comincio a pensare alla fine della scuola ed alla
prima volta che sono andata al mare da sola.
Mi viene in mente il rumore assordante delle cicale nei pomeriggi di luglio e di come, a volte,
d’un tratto s’interrompa.
Il silenzio mi piace.
Sto male.
La nausea comincia ad essere meno leggera.
Voglio dormire. Provo ad alzarmi.
Ho deciso che devo vomitare.
Devo vomitare.
No!
Devo resistere, ma non riesco neanche a voltarmi
su un fianco.
È strano come la natura non permetta a nessuno di
morire per volontà propria.
È vero.
Il mondo è un meccanismo perfetto. Le regole sono
uguali per tutti.
Uomini, animali e piante.
E io sto infrangendo la regola principale.
L’unica regola.
Restare vivi.
A qualsiasi costo.
Decido (mi impongo) di pensare ad Andrea.
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Mi fa male la testa.
Con un sforzo enorme riesco a girarmi verso la parete vicino alla finestra. Andrea se ne sta lì,
appeso al muro. E sorride. Dietro di lui c’è la
casa dove abitavamo l’anno scorso. Riesco a indovinarne il colore.
Beige.
Piango.
Lui è là che sorride ed io sono qui che piango.
Non riesco a fermarmi. Gli occhi mi bruciano. È
tutto così confuso. È peggio di quanto credessi.
Non so quanto tempo sia passato, ma è un’eternità.
Lo stomaco comincia a farmi male sul serio.
Spasmi.
Crampi.
Fitte.
Un dolore lancinante mi stordisce.
Sto meglio, adesso.
Sto decisamente meglio.
Forse non funziona. Forse non è il mio momento.
Forse è così che deve andare. Sono stanca, ho sonno. Non ce la faccio più.
Mi lascio andare.
Mi lascio andare e un istante dopo mi addormento.
Almeno credo.
Mi risveglio sopra una spiaggia. Saranno le sette
di sera e deve essere l’inizio dell’estate.
Fa caldo.
Mi alzo e mi guardo intorno. Comincio a camminare.
Non direi che ho paura. Piuttosto sono curiosa. La
sabbia è ancora calda ed io metto i piedi
nell’acqua. È tutto ancora così confuso.
L’ultima cosa che ricordo è un vaso. E dell’acqua.
Sto annaffiando i fiori. Sto annaffiando i fiori
sul balcone di casa mia.
Non ricordo altro.
Il mare.
La spiaggia.
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Perché?
È tutto così irreale. Mi sembra di essere su un
altro pianeta. Il cielo è sempre dello stesso colore. Il sole non c’è e la luce è diffusa.
Tenue.
Rilassante.
Il mare è calmo.
Mi piace.
Così continuo a camminare tenendo il mare a sinistra. Immagino ci sia il sud da quella parte.
L’istinto mi porta a sud.
Indosso un lungo abito bianco di cotone. L’orlo
affonda nella schiuma salata e mi sbatte sulle caviglie.
L’acqua è fresca.
Mi guardo indietro. Ci sono soltanto le mie orme e
il rumore delle onde.
Il cielo è vicino.
La sensazione però non è quella di un grande spazio aperto. Non so. Se allungassi una mano arriverei a toccare l’orizzonte. Ne sono convinta. Sembra dipinto. Almeno così mi sembra.
Mi sento al sicuro.
Fa caldo.
C’è qualcosa di familiare in questo posto.
Non ho paura. Cammino e basta.
E poi lo vedo.
Da lontano.
È lui.
Andrea.
ANDREA?!
Corro.
Lo raggiungo.
Sta lì, seduto sul bagnasciuga a giocare con la
sabbia.
Sabbia, capito?
Comincio a piangere un pianto ininterrotto. Le lacrime scendono sulle guance, fino a scivolare sul
collo. Le sento nello stomaco. Ne assaggio il sa-
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pore salato.
Piango.
E rido.
Come non ho mai riso prima. Cado in ginocchio.
Piango e rido.
Lui alza lo sguardo e mi sorride.
Uguale alla fotografia appesa alla parete.
Prima dell’incidente.
Quando stavamo insieme.
Ma non ha importanza.
Non ha più importanza.
Ciao, mamma. Dove sei stata?, mi dice.
A fare una passeggiata, rispondo.
Mamma.
La sua voce mi penetra dentro con un rumore assordante e mi sconquassa l’anima. Non la ricordavo.
L’avevo persa. Qualche volta l’ho sognata, ma non
è lo stesso. È così reale, adesso.
Così vicina.
Il tempo distrugge qualsiasi cosa.
Il tempo guarisce qualsiasi cosa.
Io non ho avuto tempo.
Tutto qui.
Lo abbraccio il più forte possibile mentre continuo a piangere e a ridere insieme. Riconosco il
suo odore.
È il mio.
Lo abbraccio il più forte possibile.
Lo abbraccio il più forte possibile.
Lo abbraccio il più forte possibile.
E poi in un istante il cielo cambia colore. Si fa
più scuro.
Guardo in basso.
Il mare si ritira.
Mi guardo i piedi nudi. E oltre. Dove c’era la
sabbia, adesso c’è una strada. Una strada asfaltata in mezzo alla mia città. In mezzo a palazzi enormi. Non c’è nessuno in giro. La strada è deser-
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ta. Immobile. Irreale. Ma io so che se stanno tutti rintanati dentro le loro case. E che mi spiano
da dietro le finestre.
Questa è la strada dove sono cresciuta.
La riconosco. Giocavo qui, da piccola.
È così triste ora. Così buia. Sento l’asfalto
freddo sotto i piedi nudi. Sento l’asfalto freddo
ma non riesco a muovermi. Non riesco a muovere un
solo muscolo.
Provo a parlare.
Niente.
Provo a gridare.
Niente.
Grido più forte che posso.
AaaaHHhhh!!!
Niente.
Ho paura.
Andrea non c’è più.
Andrea è mio figlio.
Sta per succedere qualcosa. Sento i loro occhi che
mi spiano da dietro le finestre.
E c’è qualcuno.
CHI SEI?
Sento la presenza di qualcuno. Qualcuno si trova
alle mie spalle.
CHI SEI?
Sento i suoi passi.
Si avvicina.
Non posso muovermi. Non ti vedo.
Ho paura.
Niente.
Aiuto.
AIUTATEMI, VI PREGO.
Raccolgo tutte le mie forze. Devo muovermi. Sono
stremata.
È sempre più vicino.
Sento il suo respiro caldo.
CHI CAZZO SEI?!
Ho paura.
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E in un attimo le sue mani mi stringono i fianchi.
Sento le mani ruvide sulla mia pelle nuda. Mi accorgo di essere completamente nuda.
Sono nuda.
Un brivido mi attraversa come corrente elettrica.
Ho vergogna di me stessa.
Non riesco a girarmi.
Non riesco a muovermi.
Non riesco a gridare.
CHI CAZZO SEI?!
Avverto il calore delle sue mani.
Mi prende. È una stretta forte.
Violenta.
Mi vergogno.
Il suo corpo nudo si stringe al mio. Mi fa schifo.
AIUTATEMI, VI PREGO!
Sento la sua bocca e il suo fiato. Puzza di vomito. Non riesco a muovere un dito. La sua bocca
sulla mia. Non riesco a vederlo in faccia. Mi viene da vomitare.
Vomito.
Urlo.
Prego.
Mi spinge per terra.
AIUTATEMI!!!!!
Sento i suoi occhi sul mio corpo nudo.
VAFFANCULO!
Vorrei potermi muovere.
Ti ucciderei, figlio di puttana!
Ti ucciderò.
Mi prende per i piedi e mi tira verso di sé. Non
posso fare niente.
Piango.
Mi violenta.
Mi penetra così forte che non riesco a pensare a
nulla. Mi tiene per i capelli e preme il mio viso
sull’asfalto freddo, mentre continua a colpirmi.
Mi colpisce sul viso.
Perdo sangue.
- 25 -
Sto male.
Vomito.
Piango.
Continua a sbattermi. Sono una bambola di pezza.
Una bambola di pezza sventrata. Sento tutto. Lo
sento dentro. Fa male.
BASTA, TI PREGO! BASTA!
Il tempo è infinito.
E il dolore è sempre più forte.
Mi fa così male che vorrei morire.
Vorrei chiudere gli occhi e morire.
TI PREGO!
Solo questo.
Il nulla.
Non ho più nessun ricordo. Non ho più nessun desiderio. Non c’è niente a cui io riesca a pensare.
Non c’è nessuno che mi possa salvare.
Neanche mio figlio è così importante.
Mi sforzo di pensare a lui, ma non ricordo neanche
il suo nome.
COME SI CHIAMA MIO FIGLIO!?!
Mi vergogno di me stessa.
L’asfalto mi graffia la faccia. Brucia. E lui continua a sbattermi. Mi colpisce ancora.
Sento il sapore del mio sangue.
Sento il calore del suo corpo.
Non grido più.
FARO’ TUTTO QUELLO CHE VUOI!!
Basta.
Ti prego.
Niente.
Il tempo è infinito.
E il dolore è sempre più forte.
Voglio morire.
Qui.
Davanti a tutti.
Voglio morire.
VOGLIO MORIREEEE!!
La vita non è poi un dono così prezioso.
- 26 -
Così chiudo gli occhi.
Niente ha più senso.
Solo il dolore.
Non riesco a ricordare il suo nome.
Così chiudo gli occhi.
E muoio.
Finalmente.
- 27 -
Enjoy the silence
Inglesi del cazzo.
Non posso fare quattro passi sulle rocce di Sandy
Bay o sotto i salici vicino casa mia che quelli mi
stanno dietro. Appiccicati come gli stronzi stanno
appiccicati alla tazza del cesso. Mi piacerebbe
poter tirare la catena e vederli andare giù, inghiottiti dal vortice dello sciacquone.
Ritornate nelle fogne da dove siete usciti!, che
pensa un po’ se un tipo come me può stare alla
berlina di due coglioni che non sanno fare altro
che bere birra e giocare a freccette.
Birra, birra, birra.
Solo quella conoscono che a me la birra mi gonfia
lo stomaco e mi fa pisciare come un cavallo.
Mi stanno sempre alle costole e ridono col loro
umorismo inutile, con le loro battute del cazzo,
con le loro facce slavate, i capelli di stoppa e
il buco del culo che gli puzza.
Si sente da lontano che non si lavano il culo.
E ridono.
Ma che cazzo vi ridete?!, gli urlo io ogni tanto.
Ma quelli niente. Non capiscono niente. Capiscono
soltanto la loro inutile lingua e continuano a
raccontare stupide barzellette e magari mi prendono in giro perché porto i tacchi.
Inglesi del cazzo.
Bevono birra e giocano a freccette come dei vecchi
rincoglioniti, mentre io c’ho una voglia matta di
attaccarmi a una bottiglia di vino delle mie par-
- 28 -
ti.
Delle mie vigne.
Che nel ‘97 c’ho cacciato un novello che era la
fine del mondo.
Cenavo solo col novello e con le castagne abbrustolite certe sere. Davanti al fuoco del camino mi
abbrustolivo le castagne e mi calavo quel vino che
scendeva manco fosse acqua minerale.
Cazzo se era buono.
E facevo progetti. In miei progetti.
E adesso è tutto finito, almeno per me.
Non per quel frocio di Maurice il traditore. Lui e
i suoi amici.
Quel pretuccio di campagna di Maurice si sta scolando le mie bottiglie, ne sono sicuro. E si sta
scopando le mie puttane e sta dando vodka-party a
casa mia.
Maurice.
Maurice il venduto.
Maurice il traditore.
Come si dice? Amici amici, amici ‘sto cazzo!
Giusto.
Mi sono stufato.
Mi sono stufato di giocare coi soldatini di piombo. Certe volte, tanto per passare il tempo, me ne
vado su, verso Diana’s Peak, col mio bello zainetto pieno di soldatini di piombo.
Ma vi assicuro che non è per niente la stessa cosa.
Mi manca la puzza della polvere da sparo e della
merda di cavallo e del sangue e delle mie troie.
Ché a stare qui su queste rocce sembro il cantante
dei Depeche Mode con la sua fottuta sdraio e con
due fottutissimi coglioni di Inglesi alle calcagna.
Enjoy The Silence cantava quello.
Che pure io c’avevo il mantello d’ermellino del
colore del sangue e la corona d’oro tempestata di
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gemme e di diamanti.
Bei tempi quelli.
E quanto mi piaceva quel video. Ci stava lui
coll’ermellino e la corona che se ne andava in giro per il mondo con la sua sedia sdraio a guardare
panorami.
Mari.
Deserti.
Montagne.
Bello.
Ma una canzone dura sì e no quattro minuti.
Quattro minuti, capito?
Stateci voi sei anni e passa a godere del silenzio
mentre nella testa stanno scoppiando ancora le
bombe e i vostri nemici si sono presi tutto quello
che avete conquistato col sudore e con i morti e i
vostri amici figli di zoccola si stanno scopando
le vostre puttane e si stanno scolando le vostre
bottiglie.
All’inizio me la sono goduta, devo ammetterlo.
All’inizio l’ho presa come una vacanza e me ne
stavo tutto il giorno a bere pina colada in faccia
all’oceano. Insieme a Marchand, l’unico amico che
mi è rimasto.
Marchand il cameriere.
Come la fa Marchand la pina colada non la fa nessuno!
Ogni tanto ci rollavamo anche qualche spino io e
il mio amico e ce ne stavamo giornate intere sul
terrazzo di casa a guardare l’orizzonte e a raccontarci dei vecchi tempi.
Ne ho di cose da raccontare, io.
Enjoy The Silence.
Ma il silenzio si deve fare dentro, mica fuori!
E dentro c’è tutto fuorché il silenzio.
Certe notti faccio dei sogni così veri che mi sveglio di soprassalto con la mano sull’elsa della
mia spada, pronto a farla vibrare sulla testa di
qualche stronzo. Ma non vibra un bel niente, se
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non la mia mano sudata nel buio di una stanzetta
che sì, c’avrà tutti i comfort moderni, ma sempre
una stanzetta resta. Io che mi ero abituato al
baldacchino di broccato delle Indie e al materasso
imbottito di piume di montone e alla pelle di leone davanti al camino e a stronzate del genere.
L’ho fatto fuori e l’ho scuoiato tutto da solo
quel leone.
Ma mi hanno levato pure la spada.
Dicono che potrei fare male a qualcuno e io allora
gli ho risposto che ne conosco un milione di modi
per ammazzare la gente e che se solo volessi gliela farei vedere io.
A mani nude se c’avete coraggio! Fatevi sotto!,
gli ho detto.
Ma quegli stronzi come al solito non hanno capito
niente e si sono messi a ridere.
Inglesi del cazzo.
Ho un cancro allo stomaco.
Questa bella notizia me l’ha data il mio dottore.
E m’ha pure detto che con tutta probabilità non
arriverò neanche a quest’estate.
Signore, purtroppo il clima caldo umido di queste
parti non è di conforto alla sua salute, anzi,
stando alle ultime analisi, la sua malattia va
peggiorando eccetera eccetera.
Le solite stronzate da dottori. La solita solfa.
Lo sapete come vanno ‘ste cose, no?
Cazzo.
A ferragosto faccio 52 anni e c’avevo in mente di
fare una bella scampagnata coi panini con la frittata coi peperoni e le cotolette panate e tutto il
resto. E avrei pure preso qualche birretta per
quei due idioti che mi seguono da tutte le parti.
Che culo, eh?
In ogni modo, ridendo e scherzando (si fa per dire) siamo già arrivati a maggio e io non mi sento
per niente bene. Così mi è venuta la mezza idea di
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fare qualcosa prima che lo facciano le cellule impazzite. Prima che il cancro mi riduca a una polpetta masticata e sputata per terra. E poi, di
crepare come un maiale sgozzato davanti agli Inglesi non mi va proprio.
Se a vent’anni m’avessero detto che l’ultima battaglia l’avrei combattuta contro me stesso, non ci
avrei creduto. A quei tempi ero un giovane gagliardo e di belle speranze.
Comunque.
Il piano va risolto nel più breve tempo possibile.
Pena il fallimento.
Quindi?
Azione!
Stamattina accompagno Marchand in città a fare
spese. Non ci vado quasi mai a fare la spesa con
lui perché al mercato ci sta troppa gente e questo
fatto mi stressa.
Lui lo sa e si insospettisce.
Gli dico che per pranzo c’ho voglia di rigatoni
scampi e rucola e della coda di rospo al forno con
le patate e di un buon vino tappo sughero (che da
queste parti è difficile da trovare, ma io c’ho le
mie conoscenze).
Lui mi guarda con aria interrogativa visto che è
un po’ che non posso bere alcolici per via del
cancro allo stomaco, ma poi si dice d’accordo.
Ha capito tutto, ma è un buon amico e fa finta di
niente.
Vabbè.
Pigliamo la sua Polo blu vecchio tipo e ce ne andiamo in città. Marchand alla guida, io sto sul
sedile passeggero e dietro Mimì e Cocò, che quei
due sono peggio delle piattole.
Alla radio We Are The Champions dei Queen.
Niente di meglio.
Jamestown è una bella cittadina. Soprattutto il
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sabato mattina che ci sta il mercato nella zona
vecchia con tutte le bancarelle e il furgoncino
della porchetta e l’arrotino e cazzate del genere.
È una bella giornata e una leggera brezza che arriva dal mare mi porta l’odore dello zucchero filato. Ci sono dei bambini più in là che se lo
stanno gustando manco fosse caviale beluga.
Io sono abituato al meglio. Preferisco il caviale.
Degustibus.
Ci avviciniamo al banco del pesce e Marchand dice
bella giornata e il pescatore gli risponde certo,
adesso c’è un bel sole ma in serata arriverà un
temporale. Io e il mio amico ci guardiamo come a
dire impossibile, visto che c’è un sole che spacca
le pietre.
Ma i pescatori sul tempo c’hanno sempre ragione e
noi che siamo del continente che ne vogliamo capire di ‘ste cose?
Prendiamo gli scampi per il sugo e la coda di rospo e ci separiamo. Marchand va a cercare la rucola (che non è neanche troppo facile da trovare) e
io (Gianni e Pinotto sempre al seguito) vado a
cercare il vino tappo sughero.
Il mio pusher si chiama Yaye ed è un ragazzetto di
colore che fa un po’ di tutto da queste parti:
meccanico, fattorino, bagnino, guida turistica e
altre cose che non vi sto a dire. Yaye è un grande. Riesce a procurare qualsiasi cosa. Pagando,
s’intende. Ma questo non è un problema perché io i
soldi già glieli ho dati ieri (e gli ho anche lasciato un narghilè enorme che mi sono riportato
dall’Egitto. Penso che gli abbia fatto piacere).
Devo solo ritirare la merce.
Ma mica mi posso presentare accompagnato dai carabinieri?
Li devo sbolognare per un po’. Per un’oretta almeno.
E qui entra in gioco Marika, la ragazza più bella
dell’isola.
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Tette e culo da paura.
Fisico stupendo.
Viso d’angelo.
Siamo stati anche insieme per un paio di mesi
l’anno scorso, ma è finita perché stava diventando
una cosa seria e a me le storie troppo impegnative
mi soffocano. E poi sono un uomo libero e c’ho i
cazzi miei e cose di questo tipo.
Ho bisogno di tempo e di spazio, le ho detto.
E qui se scarseggia sia l’uno che l’altro.
Lei ha capito. Adesso siamo ottimi amici.
Ma torniamo a noi.
Appena Cip e Ciop la vedono, si squagliano nel vero senso della parola. Manco gliela presento che
subito le si buttano addosso come un ubriacone attaccherebbe un bambinello da cinque litri. Li dovevate sentire come si vantavano delle loro pistole luccicanti e del loro lavoro che ci vuole tanto
coraggio ma ormai loro ci sono abituati e che Londra c’ha la metropolitana più vecchia del mondo
eccetera eccetera.
Mandatevenaffanculo!
Comunque, mentre i due chiacchierano io riesco a
defilarmi e a raggiungere il porto, dove c’è Yaye
che mi aspetta. Arrivo appena in tempo che lui deve far fare il giro delle isole a dei turisti tedeschi.
Lo trovo che sta fumando una sigaretta seduto su
un pedalò.
Ciao.
Ciao. Scusa ho fatto tardi.
Non ti preoccupare.
Tutto a posto?
Tutto a posto.
Ce l’hai?
C’ho tutto. C’ho anche un po’ di fumo, se lo vuoi.
Non mi serve, grazie.
Ci facciamo un cannino?
Magari, ma sono in ritardo.
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Ok. Io vado, allora.
Ok. Grazie. Ciao.
E mi allunga un sacchetto con dentro un tris di
rossi e una boccettina di vetro.
Arsenico.
Quello che mi serviva.
Stasera faccio il botto come si deve. Alla faccia
del cancro e degli Inglesi e di Maurice l’infame.
Torno da Marika che quelli non si sono accorti di
niente, le strizzo un occhio, le do una pacca sul
culo e la saluto con un bacio.
Ciao bella, ci vediamo in giro.
E così ce ne torniamo alla macchina che Marchand è
già lì da mezz’ora che ci aspetta. Stessi posti di
prima.
Alla radio stavolta Everything In Its Right Place
dei Radiohead.
Ok.
Marchand cucina il pesce meglio di mia nonna. C’ha
il tocco magico. I rigatoni sono piccanti al punto
giusto e la coda di rospo con le patate è una festa per il palato. Non tanto per il mio stomaco,
però. Ma questa è l’ultima cena e chissenefrega.
Il vino c’entra tutto che chi l’ha detto che con
il pesce ci vuole il bianco? Ci scoliamo tutt’e
tre le bottiglie.
Mi fa pure lo sgroppino con tanto di gelato al limone, vodka e prosecco.
Wow!
Marchand è un cuoco sublime e questo è un pranzo
con tutti i crismi.
I caffè e gli amari ce li pigliamo fuori, sul portico.
Gli inglesi se ne stanno d’altra parte del giardino che bevono birra e mangiano patatine alla cipolla. Come al solito. Ci guardano ma non capiscono niente. Come al solito.
Comincia a piovere.
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I pescatori c’azzeccano sempre, porca puttana!
Annusano il vento meglio dei cani, quelli.
Ci facciamo due chiacchiere e quattro risate che
l’alcol fa il suo dovere e io non bevo così da un
bel po’ di tempo. Sono contento di passare questi
ultimi momenti col mio amico cameriere.
Sei una brava persona, amico mio.
Ok. È arrivato il momento.
Qui ci vuole un brindisi.
Grappa per Marchand.
Arsenico per me.
Cin cin ai vecchi tempi che io ci tornerei subito
a vent’anni con la testa di adesso e con tutte le
esperienze che ho fatto e me le scoperei tutte le
ragazze del liceo e alla faccia di chi ci vuole
male eccetera eccetera.
Qualche luogo comune.
Normale.
Ci sta bene.
E poi giù, tutto d’un fiato.
Nessun sapore.
Non diciamo niente.
Sono le tre e mezza di pomeriggio.
Piove più forte, adesso.
Fuori si sta scatenando l’inferno. Il Diluvio Universale.
Pioggia.
Vento.
Tuoni.
Fulmini.
Cazzi vari.
Ma la tempesta non è niente a confronto del mio
povero stomaco. Io i fulmini me li sento dentro.
Che vogliono uscire fuori quegli stronzi. Che vogliono tornare nel cielo da dove sono venuti. Mi
sento squarciare le budella a rasoiate.
Il veleno sta facendo il suo lavoro devastante e
il cancro gli sta dando una mano.
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Che coppia!
Lo sapevo che non era facile. Anzi, devo dire che
è più difficile di quanto potesse immaginare la
mia fantasia malata.
Ma siamo in ballo e dobbiamo ballare.
Giusto?
Il fatto è che sto crepando troppo lentamente, almeno credo.
Che ora è?
Le sei meno dieci.
Vaffanculo.
Sono tre ore che sto soffrendo sopra questo letto.
Pensavo facesse effetto subito, cazzo! Come nei
film.
È arsenico mica cotica!
Le persiane sbattono impazzite che fuori c’è un
tornado in piena regola. Diciamo pure che questo è
il clima giusto per andarsene.
Simbolico, quasi.
La pioggia mi ha portato qui e la pioggia mi porterà via.
Un fitta mi piega in due.
Il dolore è insopportabile.
Sto sudando sette camicie.
Vomito anche l’anima.
AaaaHHHHHHhh…
E poi niente.
Nessun dolore. Non più.
Chiudo gli occhi e mi sfila davanti l’intero esercito francese, in parata.
La fanteria con le belle baionette lucide.
La cavalleria coi purosangue strigliati.
L’artiglieria da campagna.
L’artiglieria pesante.
I cannoni.
E alla fine di tutto Napoleone con tanto di spada
sguainata, sul suo destriero che sbava e soffia e
scalcia, che dietro c’ha il cielo azzurro e davanti la folla festante.
- 37 -
Bello come il sole.
Napoleone Bonaparte.
E poi il buio.
Ricordatevi il mio nome perché io ne vado fiero.
Ricordatevelo.
Ok.
Adesso lo posso dire.
Adesso è giusto.
Enjoy the silence.
- 38 -
Lettera d’amore di un naufrago immaginario
Cara Teresa,
ti scrivo queste poche righe per dirti che mi manchi. E mi mancano soprattutto i tuoi occhi e i
tuoi sorrisi.
Il ricordo di quei giorni, dei nostri giorni, si
sta facendo sempre più pesante da portare. Ed io,
che non ho mai avuto spalle troppo forti, adesso
sono stanco.
Stanco. Non c’è molto altro da dire.
Se non che qui è ancora tutto uguale a sempre.
Da sempre.
Da sempre è lo stesso giorno.
Il tempo passa, lo sento, ma oltre questo è tutto
ancora uguale al giorno in cui sono arrivato sopra
questo mare calmo.
Calmo.
Calmo come l’anima che credevo di volere.
Calmo.
Calmo come il sole che non tramonta mai.
Una lampadina accesa in mezzo al cielo da un dio
cattivo. Fissa sul mezzogiorno. Vorrei poter scoccare una freccia infuocata e farlo esplodere per
sempre.
Il sole.
Calmo.
- 39 -
Calmo e piatto e silenzioso e vuoto di ogni forma
di vita.
Quella vita che me lo rendeva così affascinante e
misterioso.
Non mi piace più il mare.
Calmo.
Calmo come il tempo che passa. Inesorabile.
Lo avverto dentro il tempo, perché è il mio cuore
malato, qui, la misura di tutto. Il battito del
mio cuore è la clessidra che mi avverte che tu sei
sempre più lontana. Sabbia che scivola via.
E ogni colpo è uno squarcio nell’anima.
Che sanguina.
Lentamente.
Goccia dopo goccia.
Non so quanto è passato da quando sono andato via,
ma ormai sono stanco di andare alla deriva su questo mare maledetto e cattivo.
Da sempre è lo stesso giorno.
Da sempre.
E io sono sempre più stanco.
Darei via il braccio con cui scrivo per vedere una
nuvola all’orizzonte.
Darei via tutt’e due gli occhi per sentire la
pioggia sulla faccia.
E darei via l’anima per poterti vedere sorridere
ancora una volta.
Ma niente.
Qui il tempo non peggiora.
E lo spazio è infinito.
È giunto il momento di tornare.
Strappare via il cuore.
Questo devo fare.
Strappare via il cuore, insieme a questa lettera
che, sono sicuro, mai ti raggiungerà.
- 40 -
E questo faccio.
Adesso.
Cara Teresa spero di rivederti da qualche altra
parte.
Magari a Recanati.
Magari ci incontreremo tra le lenzuola stese ad
asciugare.
Magari sarà a maggio.
Sotto la luna.
Magari.
Addio.
Tuo per sempre,
Giacomo
- 41 -
SECONDA PARTE
COINCIDENZE
- 42 -
In quel momento la notte pareva ad Arthur una cosa viva, la
Terra scura intorno gli sembrava un essere in cui lui aveva
messo radici.
DOUGLAS ADAMS
Tutte le storie sono storie d'amore
R. McLIAM WILSON
- 43 -
Due cose, un punto
Il mondo è un labirinto. Un labirinto enorme.
Questo pensa Matteo affacciato alla finestra.
Matteo è ubriaco.
La luna è grande nel cielo di agosto.
La notte è limpida.
Un enorme labirinto senza uscita, pensa Matteo.
E poi chiude gli occhi.
Ed è come se cadesse.
Chiude gli occhi e vede soltanto un pozzo.
Adesso.
Un pozzo profondo.
Il buco del culo del mondo.
E sotto c’è la luce e cose del genere. E tutto
quello che lo farà stare meglio. Sicuro.
Susan.
Lui lo sa.
E non deve fare altro che lasciarsi andare. Lasciarsi cadere. Seguire la luce.
Perché è questo che deve fare!
No?
Non è questo che vogliono tutti?
Cadere.
Precipitare.
Volare.
Così, con gli occhi ancora chiusi, Matteo allarga
le braccia. Il più possibile. Allarga le braccia
ma non vola. No.
Niente ali.
- 44 -
Le mani non sono mica ali?
No.
Le mani gli servono per frenare.
Matteo allarga le braccia per ficcarle nella terra.
Umida.
Fredda.
E lui ci si aggrappa alla sua terra.
Al suo pozzo.
Con tutta la forza.
Con le unghie che si spaccano. Le mani ficcate
nella terra.
Sangue.
Ma non si ferma.
Così Matteo continua a cadere. A scivolare.
All’infinito.
E poi riapre gli occhi.
La luna sta ancora là.
La strada è deserta.
C’è un gatto nero.
Solo, nel buio.
Gli piace passare da quel giardino almeno una volta ogni notte. Si mangia bene da quelle parti. E
sono anche molto gentili.
Un fruscio d’erba e la cena è servita!
Topi e lucertole e quant’altro.
La notte è una casa.
E il buio le sue pareti.
E stanotte l’aria è umida e porta un profumo di
pesce fritto. Arriva dalla parti del porto. Un po’
troppo lontano per andare a cercare di mettere
qualcosa sotto i denti. E un po’ troppo affollato
per i suoi gusti.
I bidoni dell’immondizia del porto sono una manna,
questo è vero. Ma proprio per questo motivo tutti
i gatti vanno là. Ammucchiati come sardine. A
scannarsi per mezzo totano fritto.
E al gatto nero stasera non va proprio di fare a
- 45 -
botte per una lisca di sogliola. È un abitudinario, lui. C’ha la sua zona.
E allora stanotte è meglio farsi un passeggiata
nel proprio quartiere, in mezzo a facce conosciute.
È domenica.
Passeggiata nel giardino che magari si rimedia pure qualcosa di buono da mangiare.
La signora Maria sta alla finestra a fare quello
che fa ogni notte.
Elimina la concorrenza.
Alt! Un rumore.
C’è una luce in fondo alla strada.
Due luci.
È una macchina.
Occhio!
Meglio ficcarsi nel giardino.
E dopo un secondo il gatto nero sparisce tra due
assi di legno.
La mano di Davide armeggia tra le gambe. Lui ci
crede a queste cose. È una serata fondamentale per
lui e un gatto nero che attraversa la strada non è
sicuramente di buon auspicio.
Come diceva quel tizio?
A non essere superstiziosi porta sfiga? O una cosa
del genere.
Eh, no! La sfiga no!
Stasera che deve uscire con Marta non deve succedere niente. È un mese che ci prova e stasera lei
finalmente gli ha accordato una cenetta a casa
sua.
A casa sua, chiaro?
A casa sua non ci torna da sei mesi. Da quando si
sono lasciati.
Da quando lei l’ha lasciato.
Be’, tu m’hai tradito, gli avrebbe detto lei. Calma.
Senza neanche chiedergli spiegazioni. Senza nean-
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che piangere o incazzarsi o sclerare come faceva
sempre quando litigavano.
E da allora non si erano sentiti più.
Lei aveva pure cambiato il numero del telefonino e
neanche lo salutava quando s’incontravano per caso. Guardava dritto davanti a sé con lo sguardo
incazzato.
E a lui quello sguardo incazzato lo faceva uscire
di testa.
Questo fino a un mese fa.
Perché un mese fa è morta la nonna di Marta e lui
è andato al funerale e loro si sono riabbracciati
e lei l’ha perdonato.
Di questo Davide è sicuro.
Be’, non gli ha detto ti perdono. Chiaro.
Ma qual è la donna che dice ti perdono?
Gliel’ha letto negli occhi, però. Occhi che lui
conosce da sempre.
Gli vuole ancora bene.
Un mese c’ha messo a convincerla che è cambiato. E
che è stato solo uno stupido errore. E che lui la
ama. E che vuole tornare a stare insieme.
Telefonate.
Promesse.
Risate.
Fiori.
Il necessaire.
Anche lei mi ama, si dice ad alta voce, mentre la
CLIO 1.2 bordeaux passa sopra una pozzanghera e
alla radio c’è una canzone anni ‘80.
Davide non ricorda il titolo, ma è bella.
E poi pensa che farà l’amore con Marta.
E sarà ancora più bello.
L’acqua della pozzanghera balla per un po’, poi
lentamente si calma. Il cielo è sereno stanotte e
la pozzanghera se ne sta lì, tranquilla a guardare
la luna.
Grande.
- 47 -
In mezzo al cielo.
Bella.
E la luna ci si specchia dentro. Perché se la
guarda una formica, la pozzanghera sembra il Mare
Adriatico con la luna che fa il bagno.
Bella.
Ma questo l’acqua della pozzanghera non lo sa.
Con il sole di domani, probabilmente, neanche ci
sarà più.
Ci sarà solo la strada.
E il ricordo di qualcuno. Magari.
Ma stanotte è diverso. La luna ci si specchia dentro e vi assicuro che è per davvero un bello spettacolo.
E poi stanotte è la notte di San Lorenzo e magari
ci passa pure qualche stella sull’acqua della pozzanghera.
Una scia.
Mezzo secondo.
Un desiderio.
Tutto questo l’acqua della pozzanghera non lo sa.
Lei guarda la luna.
E le basta così.
Poi passa una macchina.
E l’acqua della pozzanghera torna a ballare.
E la luna balla con lei.
A Milla manca Sergio. E non riesce a capire perché
sta andando lontano da casa sua.
Perché m’ha lasciato da sola?, si domanda con il
muso appoggiato sul sedile di dietro.
E poi chi è ‘sto tizio che porta la macchina?
Mai visto.
A Milla manca la sua pallina da tennis tutta smozzicata, perché anche se Sergio le porta ogni tanto
una pallina nuova, lei cerca sempre la sua pallina
da tennis smozzicata.
Certo, non vuole mica offendere il suo amico! E
infatti appena riceve qualche nuovo regalo ci si
- 48 -
mette subito a giocare.
Un po’ perché le piace e un po’ per farlo contento.
Ma nessun regalo può competere con la sua pallina
da tennis smozzicata.
Una volta Sergio gliel’ha pure buttata, la sua
pallina. E lei ha dovuto rovistare nell’immondizia
per riprendersela. E c’ha preso pure uno scappellotto sul muso per aver rovesciato tutto per terra.
Ne è valsa la pena, però.
La pallina da tennis smozzicata.
Sergio non lo capisce che è l’odore la fonte di
tutto.
Amore compreso.
Ma lei lo ha perdonato. In fondo è un uomo.
E poi gli vuole bene.
Ma tutto questo non ha più senso adesso, perché
Milla si trova sul sedile posteriore di una macchina che non ha nessun odore conosciuto. Una macchina che sa di cattivo e che la sta portando via
da casa sua.
E poi chi è ‘sto tizio?
Mai visto.
Milla guarda fuori dal lunotto.
E piange.
La strada intanto si srotola placida nella notte.
Un po’ più lontano da casa adesso.
Moreno è alla guida della sua FIAT Uno e intanto
guarda nello specchietto quel cane sul sedile di
dietro.
Un bel cane.
Davvero.
A lui i cani piacciono e questa sarebbe stata di
sicuro la prima e l’ultima volta che lo faceva.
Lui che ce l’ha avuto pure un cane, quand’era piccolo.
Napoleone si chiamava. L’hanno avvelenato, che
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quello se n’è andato soffrendo le pene
dell’inferno.
Bastardi.
E quando Napoleone è morto, Moreno ha pure pianto.
Ma è passato tanto tempo e sono cambiate tante cose.
E il debito va pagato. Non ci sono dubbi.
Se lo deve togliere dalle palle ‘sto cazzo di debito con lo Zingaro.
E quello stronzo proprio un cane gli ha chiesto.
Non un televisore o un’autoradio o roba del genere.
Un cane.
Un maschio bello grosso, avrebbe detto lo Zingaro.
Quello stronzo.
Ma Moreno aveva trovato quella femmina e quella
gli avrebbe portato. Merda!
Non è mica così facile acchiappare un cane di notte!
Che ci deve fare poi lo zingaro con un cane?
Non importa. Lui ci paga il debito.
Questo è sicuro.
La FIAT Uno corre spedita verso l’appuntamento tra
due file di aceri. Moreno si accende una MS Mild,
distende la schiena e guarda fuori dal finestrino
aperto.
Dietro il marciapiedi, dall’altro lato della strada, c’è un parco giochi.
E poi di nuovo la strada.
E il rumore del vento.
E quel cane sul sedile di dietro.
Un bel cane.
Davvero.
La notte non gli piace perché ci vanno i tossici.
Si siedono sull’altalena o sullo scivolo o sul girello e si infilano quella merda nelle vene. Certe
volte sono anche quattro o cinque tutti assieme.
Si infilano quella merda e poi si sdraiano da
- 50 -
qualche parte e se ne stanno un bel po’ a tremare
e a sbavare e a ghignare alla luna come ebeti.
Ne vede tanti cominciare che ancora c’hanno i brufoli e poi continuare a bucarsi per anni.
Lui non lo sa che fanno di giorno. Lui li vede che
si bucano e basta.
E che tremano e sbavano e ghignano.
Anche i suoi bambini.
Molti dei suoi bambini passano da lui, la notte.
E qualcuno c’è pure rimasto secco in quel parco
giochi.
Col sangue alla bocca, duro come un sasso.
E a lui l’hanno tenuto chiuso per un mese che non
passava mai e poi l’hanno pulito tutto e poi
l’hanno riaperto.
No. Non gli piace la notte.
Gli mancano i bambini.
I suoi bambini.
Quelli sì che sanno come divertirsi.
Quelli sì che lo sanno usare lo scivolo.
E se ne stanno pomeriggi interi a guardare fiori e
a raccogliere pietre e a cacciare lucertole e tirarsi la sabbia.
E corrono.
Dalla mattina alla sera corrono e ridono e gridano
come pazzi.
E quando si fanno male piangono. Ma poi passa tutto. E ricominciano a correre e a ridere e a gridare.
Silenzio!
Rumore di passi.
C’è un uomo sulla strada.
Non è un tossico.
Meno male.
Giacomo sta tornando a casa a piedi. La macchina
gli si è inchiodata vicino al fiume. Morta.
Batteria?
Carburatore?
- 51 -
Nessun segno.
Niente.
Morta.
Vaffanculo.
E adesso gli tocca farsela a piedi con le scarpe
che gli stanno strette e i piedi che gli fanno male. E manco gli piacciono quelle scarpe.
Con la punta acuminata e il tacco da frocio.
Ultima moda di ‘sto cazzo!
Che lui gliel’ha pure detto che gli andavano
strette.
Non ti preoccupare, amore, si allargano, gli avrebbe risposto lei.
Teresa.
La sua ragazza.
Quelle scarpe sono un regalo di Teresa. Un regalo
importante, gli ha fatto notare lei. Le ha fatte
arrivare apposta da una fabbrica nelle Marche.
E allora?
E allora se le deve mettere. Almeno quando ci esce
insieme.
Anche se gli stanno strette.
Come stasera.
Cenetta di pesce al solito ristorante e scopatina
in macchina.
Al solito posto da sei anni.
Senza scarpe, naturalmente.
Poi l’ha riaccompagnata a casa e si sono scambiati
il bacio della buonanotte. Come al solito.
E alla fine la macchina s’è inchiodata vicino al
fiume.
Nessun segno.
Morta.
Vaffanculo.
Giacomo cammina da un bel pezzo guardando per terra e cercando di evitare le cacche dei cani.
La strada comincia a salire.
Ci manca ancora un bel po’ a casa sua.
La notte è limpida e non c’è l’ombra di una nuvo-
- 52 -
la.
La luna è grande.
Un stella passa nel cielo.
La scia luminosa dura qualche secondo.
Giacomo non se ne accorge.
È impegnato ad evitare uno stronzo.
Accende una sigaretta. Il fumo si libera nell’aria
calma di agosto creando volute semplici. Poi si
disperde sotto un lampione.
Un frullo d’ali interrompe il silenzio.
Un pipistrello passa veloce.
FFRRRFF…
Giacomo lo guarda distratto mentre continua a camminare.
E poi torna a evitare le cacche.
Il primo pensiero va ai suoi piedi.
Il secondo a Teresa.
Il terzo…
Volare a bocca aperta è cosa da stupidi.
Le rondini fanno così.
Esseri meno evoluti che si basano sul calcolo delle probabilità per riuscire a mettere qualcosa
nello stomaco.
Esseri senza mammelle e con poco cervello.
Non c’è competizione.
Il pipistrello lo sa e di questo va fiero. Fiero
del fatto che lui sceglie. Lui le sue prede se le
sceglie nel buio delle notti più nere.
Quando tutti stanno dormendo beati.
Le vede e le riconosce e le attacca.
E non gli servono gli occhi. Per niente.
Questo è il suo lavoro.
Chi può fare altrettanto?
La sagoma del pipistrello passa davanti alla luna,
come nei racconti sulle streghe e roba del genere.
Nessuno la vede.
C’è una finestra.
La luce è accesa.
- 53 -
Qualcuno sorride.
E poi una falena brilla nel buio.
Un frullo d’ali.
E GNAM!
Norma spegne la luce.
Adesso è tutto a posto.
Andrea dorme tranquillo nel suo letto. Un angelo.
Norma ha fatto un sogno.
Un sogno?
Un sogno così reale che si è svegliata con il cuore che le si spaccava nel petto e la vestaglia
zuppa di sudore freddo e brividi per tutto il corpo e paura.
Tanta paura.
Così è corsa subito nella cameretta di Andrea.
Andrea è suo figlio.
E quello invece dorme beato. Con tanto di pollice
ficcato in bocca e con il suo giocattolo preferito
stretto nell’altra mano.
Un pistola ad acqua.
Una pistola?
Che sollievo!
Norma è una ragazza madre. Ha avuto Andrea che
c’aveva vent’anni anni. E a vent’anni Norma faceva
la cameriera a Londra e imparava la lingua e si
pagava gli studi e studiava di notte.
E poi ha conosciuto James.
Troppo presto.
James il produttore teatrale.
James lo scrittore da quattro soldi.
James il falso.
E quello stronzo non s’è fatto più vedere, che lei
se lo sarebbe volentieri strappato dalla pancia il
figlio di quel bastardo.
Con le sue stesse mani, se avesse potuto. Odiava
così tanto quell’essere che le cresceva dentro che
l’avrebbe gettato ai cani, se avesse potuto. E
c’ha provato.
- 54 -
Ma al consultorio pubblico le hanno detto che era
già di quattro mesi e che avrebbe dovuto portare a
termine la gravidanza e che se non lo voleva avrebbe dovuto darlo in affidamento eccetera eccetera.
Troppo tardi.
E allora è tornata a casa e l’ha messo al mondo e
poi s’è messa a lavorare come donna delle pulizie
e poi come commessa e adesso come segretaria.
Lei che voleva fare l’attrice. E girare per il
mondo.
Non è facile tirare su un figlio tutto da sola.
E poi c’è stata la depressione e il tentato suicidio e l’incidente.
Tentato suicidio?
Incidente?
Sì, perché Andrea s’è ingoiato il flacone di sonniferi che lei aveva lasciato sul comodino. Insonnia.
Stupida!
Norma l’ha trovato sul pavimento della cucina,
cianotico, con la bava alla bocca e il sangue dal
naso e un labbro spaccato.
Paura.
Ambulanza.
Ospedale.
Preghiere.
Salvo.
Per miracolo.
E lei che non lo voleva nemmeno adesso darebbe
l’anima per lui.
Ma non ce n’è bisogno.
Andrea dorme tranquillo nel suo letto.
Andrea è mio figlio.
Dalla finestra si vede la città.
E le luci tremolanti nell’umida notte di San Lorenzo.
Così Norma torna in camera sua, si stende e chiude
gli occhi.
- 55 -
Farà un bel sogno che poi dimenticherà.
Domani.
Arrivano risate dal piano di sopra.
La vita continua.
Buonanotte.
Alberto si asciuga il sudore con il bordo del lenzuolo. È la quinta scopata che si fa stasera. E a
dirla tutta lui si sarebbe fermato volentieri alla
terza. Non c’ha più il fisico di una volta.
Ma questa ragazza è un treno in corsa. Non le basta mai.
Francesca.
E pensare che l’ha conosciuta soltanto ieri al supermercato mentre stava facendo la fila per pagare. Lui scherzando le ha chiesto un consiglio per
fare la pasta con il pesto. E lei seria gli ha risposto che c’ha degli zii a Genova e che il pesto
non è facile da fare ma lei a casa sua ce n’ha una
bella scorta eccetera eccetera.
Non ha smesso di parlare un secondo.
Genovese D.O.C., gli avrebbe sussurrato
all’orecchio.
Così si è autoinvitata a casa sua per questa sera.
Il pesto era buono.
Il vino pure.
Ma cinque volte di seguito non gli era mai capitato.
E lui che non ha neanche dovuto fare niente.
Niente corteggiamento.
Niente vanità.
Niente allusioni stupide.
Niente battute scontate.
Niente di niente.
Ad un certo punto si sono ritrovati sul letto
tutt’e due completamente nudi che si dicevano parolacce e si prendevano a schiaffi.
Che ficata!
Se l’avesse raccontato a Roberto non gli avrebbe
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creduto.
Il massimo l’aveva raggiunto a quindici anni.
Tre seghe nel giro di mezz’ora.
Ma questa è un’altra cosa.
Sicuro.
Acqua?
Scusa?
Acqua?
Grazie.
Alberto si alza e va in cucina. Torna in camera
con una bottiglia d’acqua bella fredda e due bicchieri. Francesca è sdraiata sul letto.
Nuda.
Un sogno.
Fa caldo.
Buttami l’acqua addosso, dice lei.
La finestra è aperta e da fuori arriva il suono
della sirena di un’ambulanza che si allontana.
Alberto non se lo fa ripetere due volte.
Brividi.
Risate.
Baci.
Lenzuola bagnate.
Poi spegne la luce e si avvia a battere il record.
Maria guarda Gino. Non può smettere di guardarlo.
Non ci riesce e non gliene frega niente se Gino è
sposato e c’ha due figli e c’ha una villa sui colli e vive con i suoceri e tutto il resto.
Non riesce a smettere di guardarlo, ma quello non
se ne accorge neanche.
Gino. Tutto preso a sfrecciare a sirene spiegate.
C’è stato un incidente dall’altra parte della città.
Bisogna intervenire al più presto.
Qualcuno è ferito in maniera grave.
A Maria piace fare la volontaria alla Croce Rossa.
Le piace tutto di quell’ambiente. E poi il mondo
ha un sapore diverso visto dall’alto
- 57 -
dell’ambulanza.
E le piace la Base (così la chiamano loro, la sede
della Croce Rossa) perché in quel posto la pensano
tutti alla stessa maniera e lei non deve sorbirsi
i dubbi e le domande e le stronzate che ci stanno
là fuori.
Soldi? Successo? Vita? Morte? Chi siamo? Dove andiamo?
Domande inutili, senza risposte.
Le risposte sono più importanti delle domande.
E a Maria basta sapere che sta aiutando gli altri,
che sta dando una mano. Questo mondo funziona solo
se ci si comporta come esseri umani. E gli esseri
umani si devono rispettare e aiutare a vicenda.
Se ognuno facesse la sua parte.
Questo pensa Maria.
Questo pensa Maria mentre guarda Gino che guida
l’ambulanza.
E Gino è diverso da tutti quelli che ha incontrato
nella sua vita. Tutti quei rammolliti che pensano
soltanto a ubriacarsi e a parlare delle stronzate
che dicono alla televisione e dei loro sogni di
diventare miliardari.
Gino è un tipo concreto, lui. E sa che cosa vuol
dire aiutare gli altri. Collabora pure col WWF e
la domenica organizza sempre escursioni e roba del
genere.
La luna è grande in mezzo al cielo.
Sul marciapiedi, sotto il portico, c’è un barbone.
Maria guarda Gino.
Gino guarda la strada.
E l’ambulanza va che è una bellezza nella notte di
San Lorenzo.
Walter si trova in un bar. Sta da solo o è arrivato con qualcuno? Non se lo ricorda.
Chiede da bere alla barista.
Cazzo! È un quarto d’ora che sto in piedi di fronte al bancone e quella non mi guarda neanche!
- 58 -
Finalmente incrocia i suoi occhi e Walter sta per
dire whisky!, ma come apre la bocca per parlare
qualcuno da dietro lo anticipa e chiede da bere
pure lui. Allora Walter si volta e lo riconosce.
Un tizio in doppio petto che c’ha la faccia di un
ragazzino e gli occhi rossi come il demonio.
È Ugo, cazzo! È tornato.
Ugo è il suo nemico.
Ugo lo vuole ammazzare.
Walter comincia a cercare l’uscita, ma il bar adesso è diventato un labirinto. Un labirinto che
assomiglia alla casa dove abitava da piccolo: un
appartamento al terzo piano in una stradina senza
uscita alla periferia di Torino.
Ricordi.
Lontani ricordi.
Walter entra in quella che una volta era la sua
cameretta e guarda fuori dalla finestra. C’è un
dinosauro alto una decina di metri che gira tutto
intorno alla sua casa-bar-labirinto e che guarda
dentro attraverso le finestre.
Merda!
Un tirannosauro, per essere precisi.
MERDA!
Ugo si è trasformato un’altra volta.
Più incazzato di sempre.
Merda!
Walter comincia a girare per la casa-labirinto
cercando di nascondersi ma è inutile. In ogni
stanza, fuori da ogni finestra c’è Ugo che sputa e
strilla e che cerca di ficcare il muso dentro per
azzannarlo.
Con gli occhi rossi come il demonio.
E poi Walter becca l’uscita e si ritrova in strada.
Comincia a correre.
Corre come un pazzo.
Corre con tutto il fiato che c’ha in corpo.
Ma Ugo l’ha visto.
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Ce l’ha alle costole. Lo sa.
Ugo si avvicina.
Ugo è il suo nemico.
E Walter è spacciato.
Ma all’improvviso un suono invade la strada.
Sembra una nenia.
Un lamento.
Viene da lontano e diventa sempre più forte.
Più vicino.
Walter apre gli occhi.
Passa un’ambulanza.
Walter è sveglio adesso. È a casa. Meno male.
Allunga una mano verso la bottiglia di vino nascosta sotto un cartone. Si accende mezza sigaretta.
Alza lo sguardo. Bruno sta tornando a casa.
Bravo.
Walter c’ha ancora il fiatone.
Vaffanculo. Mi farà morire d’infarto quello stronzo!
E poi prende una bella sorsata dalla bottiglia di
vino.
E Ugo svanisce nella notte.
PUFF!
Non c’è niente di meglio che cazzeggiare. Farsi
trasportare dagli odori. Seguire il proprio naso
manco fosse tua mamma che ti porta a comprare il
regalo per il tuo compleanno.
Non c’è niente di meglio e per questo Bruno ha
scelto Walter. Quello non gli chiede niente e divide pure il mangiare con lui. Se Walter riesce a
trovare i soldi per una pizzetta o magari per un
panino con la porchetta, mezzo panino va a lui.
A questo pensa Bruno mentre scodinzola davanti a
Walter.
E poi gli lecca la mano per dirgli che è tornato.
Riconosce il suo amico.
Riconosce il sapore acido del sudore.
E il battito accelerato.
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Deve aver fatto un brutto sogno, si dice.
Meglio lasciarlo riposare.
È tutto a posto, fratello. Dormi tranquillo.
Così Bruno torna al suo naso.
Salsiccia.
E zampettando allegramente si dirige verso quello
che probabilmente sarà il momento più bello della
sua giornata.
Salsiccia.
Sono passati dieci anni da quando è morto il padre.
E da dieci anni gli tocca tirare avanti la famiglia facendo quel lavoro di merda.
Tutte le notti.
Fino alle cinque.
C’ha tre fratelli, una madre e una nonna.
Altro che famiglia, un esercito.
Si era ripromesso di lavorare soltanto un paio
d’anni e poi avrebbe detto addio a tutti.
Addio all’esercito.
Addio alle armi.
Mi riprendo la mia vita, che con questo lavoro non
arrivo da nessuna parte!, si era ripromesso di dire a sua madre.
Vuole fare lo scrittore.
Voleva fare lo scrittore.
Ma poi l’infarto ha rovinato tutto.
Lo sapete come vanno ‘ste cose.
Perché l’infarto s’è portato via il suo vecchio e
a lui gli ha lasciato il furgone dei panini.
Furgone dei panini, avete capito.
E tre fratelli.
E una madre.
E una nonna.
Voleva fare lo scrittore.
E invece l’hanno soprannominato il Paninaro.
Lui che c’ha la tessera di Rifondazione e che non
ha mai speso più di trentamila lire per un paio di
- 61 -
scarpe e che c’ha tutti i dischi di Frank Zappa.
Lui che voleva la fantasia al potere.
E adesso davanti c’ha il cane del barbone e un tizio in giacca e cravatta che si sta strozzando con
la ciabatta salsiccia, peperoni e giardiniera.
Che cazzo c’entra la giardiniera, poi?
Le cose non vanno mai come dovrebbero.
Tie’, dice, mentre lancia un pezzo di salsiccia al
cane del barbone.
E quello molla un salto e l’acchiappa al volo.
Bravo!, grida il tizio con la cravatta. Con un
pezzo di peperone che gli pende dalla bocca.
Che tristezza!
E lui che voleva scrivere la storia di un uomo imprigionato in una caverna e costretto a mangiare
tonno in scatola e roba del genere.
Lo disse anche al padre.
Non dare retta ai sogni, gli ha risposto quello.
E intanto il suo vecchio è schiattato e adesso
quel tizio è lui, imprigionato per sempre nel furgone dei panini.
Passa una macchina.
Lui la guarda passare.
E poi, niente, il solito…
Paninarooo!! Salsiccia e cipolla!
Fino alle cinque.
Tutte le notti.
Ferma la macchinaaa!!!
Ferma questa cazzo di macchinaaa!, grida Susan.
La BMW 320 grigioperla si ferma sulla strada.
Susan apre la portiera ed esce di corsa.
Si toglie le scarpe e comincia a camminare a piedi
nudi.
Non lo sa dove sta andando.
Lontano da lì.
Il più lontano possibile da quello stronzo.
Quello stronzo si chiama Luca.
Quello stronzo l’ha tradita con una sua amica.
- 62 -
Impossibile. Non può essere vero.
E invece sì.
È la mia punizione, si ripete Susan.
Piange. Le viene da vomitare.
È la mia punizione. Tutto il male che ho fatto mi
si ritorce contro.
E magari è proprio così.
Lei ha lasciato Matteo per mettersi con Luca.
Luca era il migliore amico di Matteo.
Magari esiste un equilibrio naturale tra bene e
male.
Forse per questo non dovremmo mai fare del male.
Magari esiste.
Non lo so.
Un mese fa Susan stava insieme a Matteo.
Questo è sicuro.
E gli diceva ti amo e tutto il resto.
Come sempre. Come sempre da quattro anni.
Ma poi l’ha lasciato e s’è messa con Luca.
E quello soffre come un cane. E non se ne fa un
ragione.
Perché?!, le ha urlato lui, con le lacrime agli
occhi.
Le cose vanno come devono andare, gli ha risposto
lei.
E adesso tocca a Susan.
Soffrire, dico.
Potrebbe essere.
Non lo so.
Ma Susan è una donna forte.
Susan sta già pensando a domani.
Cercherà Matteo e implorerà il suo perdono.
A questo pensa mentre cammina a piedi nudi.
Con le lacrime che le bagnano il viso e la luna
alle spalle.
Ho sbagliato, gli dirà.
Da una finestra arriva della musica.
Violini.
Forse è un buon segno.
- 63 -
Non lo so.
Il signor D’Orazio se ne sta tutte le notti davanti alle sue JBL ultimo modello con due bacchette
cinesi in mano e un’aria compiaciuta.
Imita i suoi direttori d’orchestra preferiti.
Muti. Von Karajan. Abbado. Eccetera.
Di solito si mette le cuffie, ma stanotte è una
notte particolare.
E già. Dieci anni fa nasceva Ludovico. Suo figlio.
E quindi bisogna festeggiare con un concerto in
grande stile.
Per questo s’è messo il frac.
Per questo studia da mesi.
Per questo ha scelto la Sinfonia N° 9.
Beethoven.
Tutto sta andando alla perfezione.
Le note scivolano fluide sotto i suoi gesti decisi.
Schiena dritta.
Braccia sicure.
Espressione corrucciata.
Armonia. Questo è il segreto della vita.
Grazie a Dio da due mesi l’hanno mandato in pensione anticipata, che a scuola non ce la faceva
più. Insegnare la musica a quegli idioti che stanno tutto il giorno a rimbambirsi con quella stupida musica da rimbambiti.
Non aveva senso.
Lo prendevano pure in giro per i suoi capelli.
E per i suoi vestiti.
Ma al signor D’Orazio tutto questo ormai non interessa più.
Ludovico avrebbe compiuto dieci anni, stanotte.
San Lorenzo.
Bisogna festeggiare.
E le note scivolano fluide.
Qualcuno bussa alla porta.
Non è musica.
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Non interessa.
La signora Maria prova a bussare per la terza volta. Niente.
Non le apre nessuno. C’è solo la musica a tutto
volume che invade il corridoio. Violini.
Ogni volta la stessa cosa.
Quello è matto, si dice.
C’ha i capelli da matto.
E si veste da matto.
Meglio che ci parlo domani.
Così la signora Maria rientra silenziosa nel suo
appartamento e si siede in cucina, accanto alla
finestra. E ricomincia a buttare di sotto bocconcini di carne macinata corretti colla stricnina.
La signora Maria.
Maledetti gatti!, urla alla luna.
E intanto dall’altra parte passa un treno.
E il rumore del ferro sopra il ferro.
Valeria sta leggendo il quinto biglietto che le ha
lasciato la madre:
Mi raccomando non prendere il sole dalle 12 all…
Basta!
Valeria accartoccia il pezzo di carta e lo butta
fuori, in barba alla scritta che dice che non si
possono buttare oggetti dal finestrino.
‘sti cazzi!..
Sta andando in vacanza da sola per la prima volta.
Quindici giorni di pace e di riposo lontano dalle
attenzioni asfissianti di mamma Luciana.
Mia madre è una rompipalle!
Mamma Luciana in uno slancio di generosità (macché!) aveva addirittura deciso di comprarle il telefonino.
Ma lei ha rifiutato.
Telefona a Giulia, le ha detto.
Tanto lo sapeva che Giulia il telefonino non lo
portava. E che finalmente se ne poteva restare in
- 65 -
pace senza scocciature.
Quindici giorni di pace.
E così, mentre butta via quel pezzo di carta con
la grafia secca e precisa di mamma Luciana, Valeria si sente più libera.
Indipendente.
Ha dovuto aspettare di compiere diciotto anni e
c’ha messo due mesi per convincere la madre a mandarla in vacanza con le amiche. Con tanto di discorsi seri sul bisogno di fare esperienza e
stronzate del genere e incontri organizzati con la
madre di Giulia.
Le mamme credono più alle mamme degli altri che ai
propri figli.
E così vanno a Gallipoli per quindici giorni in un
villaggio turistico.
Gallipoli.
Gallipoli non è la Patagonia, ma va bene lo stesso.
Nello scompartimento C-18 del treno Intercity diretto a sud ci sono soltanto lei, Giulia e Roberta.
Valeria butta uno sguardo alle due amiche, sedute
di fronte.
Dormono.
Loro c’hanno mamme normali. Mamme che ce l’hanno
una vita propria e che non stanno sempre appiccicate ai figli. Mamme che capiscono che una ragazza
di diciotto anni deve cominciare a prendere le decisioni da sola.
Lei alla mamma vuole bene, beninteso.
Ma quando è troppo…
Valeria prende un libro dallo zainetto Eastpak
verde militare, lo apre sulle ginocchia e ricomincia a leggere da dove aveva interrotto:
La nostra vita quotidiana è bombardata da coincidenze o, per meglio dire, da incontri fortuiti tra
le persone e gli avvenimenti chiamati coincidenze.
Una co-incidenza significa che due avvenimenti i-
- 66 -
nattesi avvengono contemporaneamente, si incontrano: Tomàs compare nel ristorante proprio mentre la
radio suona Beethoven. La stragrande maggioranza
di queste coincidenze passa del tutto inosservata.
Se al tavolo del ristorante…
Giusto!
Bravo Milan, c’hai preso!
E quel Tomàs poi.
Vabbè.
Dal finestrino Valeria vede la luna che si riflette sul mare.
E un falò sulla spiaggia. Ragazzi.
La prima cosa che farò sarà bere fino a svenire,
pensa in silenzio.
E il mare corre e la luna resta ferma e Valeria
chiude gli occhi.
E sorride.
Calore e luce. Questo è quello che succede se lo
si lascia libero.
Questo è quello che si vede e quello che si sente.
Calore e luce tutt’intorno.
E non pensate che sia facile.
Lo sforzo è immane.
Nessuno se lo immagina quanta forza ci voglia per
esistere.
Per fare il proprio dovere.
Ma c’è un fine.
Chiaro.
Come il monaco che di notte si punisce nella sua
cella.
Come il ciclista che si sfianca sotto il sole di
luglio.
Come la vita stessa che devasta l’anima.
C’è un fine.
E il fine di tutto è salire verso il cielo.
Purificare la terra per salire al cielo.
Chiaro.
Il fuoco del falò continua a divorare tutto quello
- 67 -
che gli capita.
Il fumo sale leggero insieme alle scintille e alle
grida di ragazzi ubriachi e al suono di una chitarra scordata che stona Generale.
E poi un colpo di vento inatteso.
E l’odore della terra che brucia arriva agli alberi della pineta.
E passa oltre.
Ognuno c’ha il suo nemico.
Ognuno c’ha il suo nemico contro il quale combatte
una battaglia eterna. Il suo nome ce l’abbiamo
scritto dentro.
E anche soltanto il suono del suo nome ci fa paura.
Silenzio! Non pronunciate quel nome!
Ognuno ce l’ha scritto dentro.
Nel codice genetico. Nell’anima. Nel destino.
Fate come vi pare.
E può darsi che si abbia la fortuna di non incontrarlo mai.
Può darsi che si abbia la fortuna di non sapere
neanche il suo nome.
Ma ce l’abbiamo scritto dentro.
Ne sono sicuro.
E un giorno, magari voltandoci distrattamente in
una bella giornata di sole, quando tutto sembra
essere al proprio posto, verremo attraversati da
un brivido.
E allora sarà tutto più chiaro.
Combattere per vivere.
Per essere.
L’odore del nemico arriva agli alberi della pineta.
Puzza di cadaveri putrefatti. Di carne marcia. Di
bruciato.
Il fuoco!
Silenzio! Non pronunciate quel nome!
E quelli se ne stanno là.
- 68 -
Fermi, davanti al mare.
Con le mamme che rassicurano i figli e i vecchi
che pregano la pioggia e i giovani pronti a morire
in gloria.
Paura.
Perché tanto non si può fare nulla.
Contro il fuoco non si può fare niente.
Ma per fortuna questo è solo un avvertimento.
L’odore del nemico passa oltre gli alberi della
pineta.
Insieme al cigolio di una bicicletta scassata.
E poi di nuovo silenzio.
È tutto perfetto. Tutto scorre liscio.
Il vino.
L’erba.
Il bagno.
La notte.
L’erba.
Le stelle.
Gianna.
Sergio se ne torna a casa sui pedali leggeri della
28 del nonno.
La 28 del nonno c’ha i freni a bacchetta!
Non le fanno più così.
Le cose vanno come devono andare.
Il mondo gira.
La 28 cigola.
Sergio sta pensando a Gianna.
Sergio sta pensando che Gianna è una ragazza stupenda.
E che c’ha un profumo che gli fa girare la testa.
E che c’ha un sorriso che farebbe squagliare un
iceberg.
Stasera è stato tutto veramente perfetto.
Liscio.
E pensare che lui a quel falò sulla spiaggia non
ci voleva neanche andare. Se ne voleva stare sul
terrazzo di casa sua a fumare. Che andava a finire
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che vedeva pure qualche stella cadente e magari
s’addormentava sotto la luna.
Poi però l’hanno convinto.
E alla radio c’era Gianna di Rino Gaetano.
E poi Gianna stava al falò.
E le cose sono andate per il verso giusto.
Guarda che coincidenza!
Gianna. Erano anni che non si vedevano.
Sergio ci crede alle coincidenze. C’ha tutta una
sua teoria.
Sul futuro e sul passato.
Sul bene e sul male.
Sui buoni e sui cattivi.
Un po’ di tutto.
Le coincidenze ti avvisano di qualcosa, dice lui.
Tipo adesso.
Dietro un cancello c’è un cane.
Somiglia a Milla.
Un bel cane.
Davvero.
Domani porto Milla al mare, pensa.
Insieme a Gianna, così si conoscono pure.
Ottimo.
La 28 del nonno svolta cigolando in una stradina.
E una Polo blu vecchio tipo prende il suo posto.
Sulla strada.
Lo deve dire a sua moglie.
Glielo deve dire.
Glielo deve dire?
Certo che glielo deve dire. Gli hanno trovato un
tumore allo stomaco e lui glielo deve dire.
Tumore non operabile, avrebbe sentenziato il medico.
E quindi?
La metastasi si trova in uno stadio avanzato. Neanche la chemioterapia darebbe alcun risultato.
Allora?
Qualche mese, al massimo. Mi dispiace.
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E adesso sta tornando a casa portandosi dentro
questo dubbio. Perché, se glielo dice, Monica è
capace che gli sviene davanti.
Perché farla soffrire più del necessario?
E poi non potrebbe sopportare di passare gli ultimi mesi di vita guardato come un cane che c’ha la
rogna. Come un cane che sta per morire.
Ho ancora troppe cose da fare!
E poi visto che se ne deve andare prima, perché
non farlo adesso?
Perché non farla finita subito?
Ma questo pensiero non si ferma neanche un secondo.
Svanito.
Gli manca il coraggio.
Roberto parcheggia la macchina all’angolo, attraversa la strada e rientra a casa. Monica sta dormendo sul divano.
È bella.
Dalla finestra si vede il giardino.
E oltre il giardino i signori Deauro sul loro balcone.
Abbracciati. A guardare le stelle.
Per morire bisogna prima abbandonare tutto.
E Roberto ama Monica più di ogni altra cosa.
Non può farci niente.
Glielo avrebbe detto.
E avrebbero sofferto insieme.
Insieme fino alla fine.
La signora Deauro non si chiede niente.
I suoi figli hanno preso posto nel mondo.
Uno fa l’ingegnere.
L’altro fa lo scrittore.
E va bene così.
Adesso si gode la luna accanto al marito.
Gli stringe la mano.
La vita è bella.
Sospira.
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Il signor Deauro sta sognando i nipoti che si rotolano sul tappeto e che si fanno il solletico.
Ridono tutti come pazzi.
Poi sente la mano della moglie che si stringe alla
sua.
Apre gli occhi.
Una stella passa accanto alla luna.
Nessun desiderio impellente.
La vita è bella
Sospira.
L’ho vista! L’ho vista!, grida Marcolino agli amici.
Adesso ci vuole il desiderio. Ha aspettato tutta
la notte per questo momento. Lui Marcello e Enrico
stanno dalle nove sul terrazzo della casa di Marcello a fissare le stelle e a mangiare merendine e
a bere Coca Cola.
E adesso una stella è caduta.
Perché?
Chi l’ha detto che quando c’è la luna piena le
stelle non si vedono?
Ci vuole un bel desiderio, adesso.
E Marcolino, che è un bambino previdente, di desideri se n’è preparati una decina. E i primi 5,
nell’ordine, sono:
Diventare invisibile.
La bicicletta nuova.
La Playstation.
Prendere sempre bei voti.
La pace nel mondo.
Scegliere è difficile e la fretta non gli è
d’aiuto. Dopo un po’ il potere della stella si esaurisce. Almeno così gli hanno detto.
C’è solo qualche secondo di tempo e scegliere è
difficile.
E poi ci sono le parole della madre.
E quelle di suor Ermelinda al catechismo.
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E il telegiornale e i bambini del Biafra.
E tutte quelle cose brutte.
Troppo.
Così Marcolino, sconfitto, sceglie la pace nel
mondo.
Non è male alla fine.
Magari poi ne passa un’altra, si dice.
E un giorno diventerà invisibile.
Ha ancora qualche minuto prima che arrivi la mamma
di Marcello a dire a tutti che la festa è finita e
che è tardi e che devono andare a dormire. Lui
stanotte dorme nel letto della sorella di Marcello
che è andata in vacanza.
A Gallipoli.
Lui manco lo sa dove si trova Gallipoli.
Ma è una vacanza pure la sua, in certo senso.
No?
E poi si sente un latrato e tutt’e tre si affacciano dal terrazzo.
Guarda!, gridano.
In strada c’è un cane che corre a tutta velocità.
Piglia una curva sgommando e sparisce dietro la
chiesa nuova.
Le facce stupite.
Un bel cane.
Davvero.
Ragazziii? Forza! È tardi!
Uffaaa!
Tutto qui.
Tutti le dicono che è brutta.
Antiestetica, avrebbe detto addirittura qualcuno
del quartiere.
Non la volevano mica. Con le sue forme asimmetriche e le vetrate squadrate dai colori troppo forti
e quella guglia inutile che si inerpica solitaria
per finire con una mano che regge una palla dorata.
Tutto il mondo nella mano del Signore, nella vi-
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sione dell’architetto della diocesi.
Una mano che regge una palla dorata, per tutti
quelli che passano.
Hanno pure firmato un paio di petizioni per bloccare i lavori. Prima appellandosi all’urbanistica,
perché là ci serviva una scuola. Poi richiamando
l’estetica e il buon gusto.
Ma niente, la chiesa nuova l’hanno costruita lo
stesso.
Tutta di cemento.
Con quelle vetrate.
E quella guglia.
Brutta, dicono loro.
Ma brutta non ha senso.
Perché Dio non misura mica le cose con la bellezza?
La bellezza la usano gli uomini per avere qualcosa
da mettere sulle copertine dei loro settimanali o
per prendersi in giro o per fare le gare.
Ma Dio non si ferma mica alle apparenze.
Dio è la Luce.
Dio è Tutto.
E lei Dio ce l’ha dentro. Questo è l’importante.
Lei è la dimora del Signore. Questa è la sua funzione.
Tutti quelli che passano e la giudicano non sono
mai entrati per davvero. Non si sono mai inginocchiati penitenti sui suoi banchi. Non hanno mai
sentito veramente la potenza del Signore.
Magari qualche minuto ai matrimoni o ai funerali.
Magari a Natale o a Pasqua.
Ma dopo un po’ li vedi tutti che se ne vanno fuori
sulle scale, che fuori magari fa pure freddo. E
fumano e spettegolano e parlano delle partite e
della televisione. Coi loro vestiti tirati a lucido e i capelli col gel e gli occhiali da sole.
E non hanno imparato niente.
Tutta la vita sprecata.
Un cane gira intorno alla chiesa nuova.
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Si ferma.
Annusa.
Riparte.
Un bel cane.
Davvero.
Dalla palla dorata la luna è più grande.
E il cielo più vicino.
Questa è una notte particolare.
È San Lorenzo.
La notte dei desideri.
E tutti quanti, almeno una volta, guardano in alto.
Almeno una volta.
Così la luna se ne sta là, in mezzo alle stelle, a
farsi ammirare da tutti.
Più bella che mai.
Più grande che mai.
E lei gli uomini li osserva.
Che rimbalzano come le palline di un flipper.
Che corrono. E corrono.
E poi dimenticano da dove sono partiti.
Così ripartono. E Corrono.
Pesci rossi.
Ché da lassù è tutto un po’ più chiaro.
Facile.
Buonanotte ragazzi!
Susan sta scopando con Luca.
Questo frulla nella testa di Matteo affacciato alla finestra.
Matteo è ubriaco e alla luna non ci fa più caso.
Chiude gli occhi e vede tutta la scena, come in un
film.
Lei che lo guarda.
Lui che la sbatte.
Lei che gode.
Lui che ride.
Lei che ride.
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Lui che la guarda.
Lei che viene.
Le cose vanno come devono andare, gli ha detto
lei.
E poi, all’improvviso, un fotogramma.
Un solo fotogramma.
Messo lì per sbaglio.
Il viso di sua nonna che gli prepara la merenda e
l’odore dei biscotti al latte e il tepore di una
giornata di giugno e il rumore delle cicale e la
gioia di aver finito la scuola e il sapore
dell’acqua di mare e tutto il resto.
Tutto questo in un fotogramma.
Troppo tardi.
Troppo poco.
Il corpo di Matteo vola per quindici metri
nell’aria calda e umida della notte di San Lorenzo
per finire poi sopra una Polo blu vecchio tipo
parcheggiata all’angolo della strada.
L’impatto è fatale.
Niente più da fare.
Ma non importa.
Perché adesso Matteo vede il suo corpo.
Riverso su un fianco.
Come un pupazzo.
Niente sangue.
Niente vita.
Niente.
Ma non importa.
Perché adesso il tempo e lo spazio non esistono
più.
Tempo e spazio?
Non importa.
Perché adesso Matteo vede tutto.
Tutto.
E l’acqua della pozzanghera.
E Davide e Marta.
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E Milla e Sergio e Gianna al mare.
E Moreno e lo zingaro.
E il parco giochi e i tossici e i bambini.
E Giacomo e Teresa.
E il pipistrello.
E Norma e Andrea.
E Alberto e Francesca.
E Maria e Gino.
E Walter e Ugo e Bruno.
E Alessandro ha scritto la storia.
E Susan a piedi nudi.
E il signor D’Orazio e la signora Maria e i gatti.
E Valeria e le amiche e Tomàs.
E il fuoco del falò e gli alberi della pineta
E Roberto e Monica.
E i signori Deauro e i figli e i nipoti.
E Marcolino e la stella.
E la chiesa nuova.
E la luna.
E ancora.
Tutto.
E non c’è più bisogno di niente.
Di niente.
Non c’è più bisogno
di mani,
di piedi,
di occhi,
di acqua,
di forza,
di caldo,
di naso,
di bocca,
di voce,
di braccia,
di palle,
di fame,
di sete,
di fuoco,
di freddo,
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di
di
di
di
di
di
di
di
di
di
di
di
di
di
Di
fumo,
Susan,
sogni,
cibo,
amore,
alcol,
sesso,
madre,
padre,
cuore,
odio,
soldi,
amore,
niente.
niente.
Matteo ritorna da dove è venuto.
Per cominciare da capo.
Il mondo è un labirinto.
Un enorme, meraviglioso labirinto.
SENZA USCITA
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d e d ic a t o a V. D .
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