Tita pastore

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Tita pastore
Tita pastore
Nella grande chiesa, la messa di mezzanotte stava volgendo al termine.
All’invito accorato di don Bepi a ricordare, in quel santo giorno, non solo gli amici, ma soprattutto le persone antipatiche, almeno una decina di pensieri erano corsi immediatamente a Tita.
Francesco ripensò a come era stato trattato appena qualche ora prima.
Il povero Bepi boaro, da parte sua, ripercorse i campi che, per colpa del vecchio, ancora non
era riuscito ad acquistare e, Pino e Mario, i suoi due figli, riandarono con la mente all’ennesima umiliazione subita.
Ma anche Toni, Milio e tanti altri, avevano ragione di avercela col vecchio.
Che fosse uno stinco di santo, il vecchio Tita, non lo avrebbe certamente potuto affermare nessuno. Neppure lui lo pensava, quelle poche volte che trovava il coraggio di spingersi un poco
in profondità, nel buio della propria coscienza. E quelle rare volte che capitava, aveva l’impressione di addentrarsi, al lume incerto di candela, nell’oscurità della cantina, giù da basso.
Da quando aveva estirpato l’ultimo filare di viti, in quella parte umida della casa, non ci aveva
più messo piede. Per questo se ne era costruita l’immagine di un luogo ostile e freddo, dove
l’incedere è reso difficile dalle ragnatele appese dappertutto e dallo scappare veloce di grosse
pantegane, nascoste sotto i basari delle botti.
Quella notte il vecchio Tita stentava a prendere sonno. Era la notte di Natale, lo sapeva,
e fuori c’era addirittura la neve. Quella felice congiunzione, tanto cara ai suoi nipoti, gli dava
un tremendo fastidio. Sapeva che prima o poi lo avrebbe costretto a scendere da basso e
lui, in cantina, non ci voleva più mettere piede. L’ultima volta che ci era stato aveva trovato le
ragnatele grosse come gli spaghi dell’imballatrice e le pantegane rabbiose e affamate.
La sua mente continuava a ripensare a ciò che era successo al mattino, quando aveva sbraitato addosso a Francesco, suo nipote più piccolo che, con una piccola scala, stava cercando
di raccogliere del muschio sopra il tetto della porcilaia, dietro casa.
“Vuoi mandare le tegole in frantumi, piccolo incosciente?”, gli aveva gridato. “E poi chi le
paga? Forse tu. O forse quel perditempo di tuo padre?”.
Francesco se ne era scappato via di corsa. Era meglio stare alla larga dal nonno quando era
arrabbiato. E quel giorno aveva tutta l’aria di esserlo veramente.
Intanto quell’episodio, apparentemente di poco conto, che infatti mille altre volte era venuto
a parole non solo col nipote, ma anche con tutti gli altri della corte, quella sera gli stava pesando più del solito.
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Adesso che era notte fonda, e la notte di Natale (per giunta), e fuori nevicava (come se non
bastasse), la mente era ritornata a ripensare a quell’insignificante incidente.
E la porta della cantina scricchiolava minacciosa.
“No, voglio dormire …, mondo ladro”, aveva gridato Tita nel buio, rigirandosi nel letto.
“Al diavolo la notte di Natale, e Francesco, e tutti quanti. Voglio dormire. Non voglio scendere”. Ma l’uscio ormai era aperto e la lampada appesa al chiodo, appena al di là della porta.
Ormai Tita sapeva che, giunto a quel punto, qualsiasi altra resistenza sarebbe stata vana.
Raccolse la lampada dal muro di malavoglia e prese a scendere gli umidi scalini.
La luce era debole, lo sapeva, ed i gradini consumati e scivolosi, dappertutto attraversati da
un intricato groviglio di grosse ragnatele. Ma più che il contatto sgradevole ed appiccicaticcio
di queste, la sua attenzione venne subito catturata da una presenza nuova, improvvisamente
rivelatasi al suo fianco. Già l’ultima volta che era sceso là sotto ne aveva percepito l’esistenza,
ma adesso quello era là, che gli camminava accanto.
Tita guardava avanti con un nodo alla gola, la vista ostacolata dalla pallida luminescenza dello
stoppino. Dello sconosciuto riusciva a stento ad intravvedere si e no qualche lembo di vestito
, stranamente candido ed un poco svolazzante.
“Anche tu per il presepio?” Fu lo sconosciuto a rompere il silenzio.
“Come?”, fece Tita trasalendo all’udire quella voce. Era una voce dolce ma decisa, molto simile
a quella di Francesco, od alla sua di molti anni prima.
“Quale presepio?”
“Dai, non cercare di fingere con me. Lo sai che stanotte è Natale e che laggiù, in fondo alla
tua cantina, hanno costruito un presepio”.
Tita non rispose. La cosa gli era nuova. Eppure, nello stesso tempo, aveva l’impressione di
esserne già, almeno in qualche modo, a conoscenza. Dopotutto, perché aveva aperto l’uscio
della cantina?
Fu ancora lo sconosciuto a parlare: “E tu, che cosa porterai stanotte al piccolo?”.
Tita ebbe un moto di disappunto.
In altre occasioni avrebbe troncato la conversazione con una imprecazione ad alta voce, ma
quando scendeva in cantina si sentiva diverso, come più timido ed impacciato. Per questo,
ogni volta non vedeva l’ora di risalire, per riprendere la sua aria austera e prepotente di sempre. Tita non aveva risposto e intanto, per fortuna, gli scalini erano terminati.
Appena vide il bambino, sdraiato là per terra, completamente nudo sull’umido pavimento sotto il basaro della botte, non potè fare a meno di esclamare: “Ma, porco mondo! Chi è che l’ha
abbandonato in quello stato laggiù?”. Due pantegane lo stavano guardando con occhi cattivi.
“Via di qua”, urlò Tita. “Andate da un’altra parte a mangiare stanotte, brutte bestiacce!”.
Ma la voce dello sconosciuto lo incalzava alle spalle. “Che cosa gli porti al piccolo?”
“E che vuoi che gli porti, mondo ladro!”, fece Tita cercando a tastoni nelle tasche della memoria qualcosa di caldo, di soffice, di buono con cui proteggere il bambino. Ma per quanto
si sforzasse, non riusciva a tirar fuori niente di adatto.
Molti anni prima aveva litigato con i fratelli per via dell’eredità. C’erano state discordie, si era
venuti alle mani.
Ai suoi figli, a sua volta, non aveva mai voluto lasciare nulla per paura di essere messo da parte, e così, loro due continuavano a lavorare la sua terra, accontentandosi dei suoi compensi.
A Bepi boaro, suo vicino di casa, aveva impedito di acquistare il fondo esercitando il diritto
di prelazione. Adesso erano per avvocati.
In passato aveva messo acqua nel latte e venduto una vacca ammalata passandola per buona.
Con Toni, suo confinante, aveva piantato causa per una fetta di terra arata, a dir suo, in malafede.
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I bambini poi non li sopportava. Odiava il loro chiassoso perditempo. Se l’era presa perfino
col prete che, in più occasioni, gli aveva chiesto di vendere un pezzo di terra dietro la chiesa
per costruire il campo da calcio.
Per quanto si sforzasse di cercare, dalle sue tasche non riusciva a cavar fuori niente di buono.
Intanto il bambino piangeva. Aveva freddo e paura delle pantegane.
Tita non ne poteva più. Era stanco e si sentiva tanto inutile con quelle sue tasche vuote. “Via,
via brutte bestiacce”, urlò allora correndo verso il bambino con la voglia di stringerselo al
petto e di affondarlo nel caldo della sua pesante giacchetta di fustagno che sapeva di tabacco.
Nella grande chiesa la messa di mezzanotte era terminata. I più, prima di uscire, si erano
fermati un momento in preghiera davanti al presepio. Poi Francesco sbottò in un urlo, subito
trattenuto: “Ma quello”, disse con tono sbigottito, “… quello è il nonno”.
Tutti gli sguardi furono sul presepio. Davvero il goffo pastore, inginocchiato in adorazione di
fronte alla grotta, aveva in tutto e per tutto l’aspetto del vecchio Tita. Molti convennero con
la sorprendente somiglianza ma, dopo tutto, una statua resta pur sempre una statua, ed alla
fine ognuno fece ritorno alla propria abitazione.
“Andiamo a fare gli auguri al nonno!”, propose Francesco.
“Ma solo se la luce è accesa”, precisò Mario, suo padre. Pino, suo fratello, gli si accodò immediatamente dietro, con moglie e figlioletti.
La luce nella stanza era accesa.
“Ehi babbo!”, gridò Mario.
“Ehi, buon Natale”, “Buon Natale nonno”.
Da dentro non giunse risposta.
Allora bussarono, gridarono. Francesco gettò perfino una palla di neve contro il vetro della
camera. Niente.
Chiamarono ancora. Poi si decisero ad entrare.
Lo trovarono disteso sopra il letto, le mani sporche di terra e di muschio, incrociate sopra il
petto. Pareva che dormisse, ma ognuno dentro di sé aveva subito capito che cos’era accaduto.
Un insolito sorriso gli modellava le labbra, conferendogli un’aria più giovane e gioviale. Sul comodino un foglio di carta, un semplice foglio di carta a quadretti: era il suo ultimo testamento.
Pino aveva incominciato a leggere a bassa voce, mentre Mario si stringeva Francesco addosso
alla giacchetta.
“Ai miei figli con un po’ di vergogna”, lesse piano Pino.
“Non sono stato un bravo genitore. Perdonatemi. L’importante è capire. Adesso cercate di
capire anche voi.
Ai miei figli lascio tutta la legittima e tutta la disponibile, ad eccezione del piccolo brolo dietro casa, che dono alla parrocchia per il campo sportivo.
A Bepi boaro lascio la rinuncia del diritto di prelazione. Che mi perdoni! E a Toni la fetta di
terra di confine fra le nostre proprietà. Di sicuro l’ho misurata male.
La cassetta di muschio che ho messo sotto il letto è per Francesco. Lui capirà…”. Il testamento continuava, ma né Mario né Pino riuscirono a comprendere oltre.
“L’ho stretto fra le braccia perché aveva freddo. Non si può abbandonare un bambino in cantina, nudo sotto i basari delle botti, con tutte le pantegane che ci sono. Non è da uomini…
Un bacio ed un abbraccio a tutti e Buon Natale.
Buon Natale di cuore”.
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