Elide Casali, “Il formaggio e la lumaca”.

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Elide Casali, “Il formaggio e la lumaca”.
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Forum dei Bisogni Mangiare Bere Abitare
Napoli 4 ottobre 2012. Camera di Commercio. Sala delle Contrattazioni ore 17
Pane Selvaggio
ELIDE CASALI
“Il formaggio e la lumaca”. La “fame” nell’opera di Piero Camporesi (1924-1997)
RE Qual è il giorno più lungo?
BERTOLDO Quello che si sta senza mangiare.
(G.C. CROCE, Le sottilissime astuzie di Bertoldo)
Il mio incontro con Piero Camporesi non fu tanto in qualità di allieva quanto di collaboratrice,
termini intesi in senso accademico. Non conobbi il Professore durante le sue lezioni pubbliche e nei
primi anni della mia formazione universitaria, ma lo incontrai da laureanda in Storia moderna come
Correlatore della mia tesi di laurea, su consiglio del mio Relatore, il prof. Adriano Prosperi. Su
richiesta dello stesso Camporesi, iniziai un’attività di collaborazione postlaurea sotto la sua guida,
che si protrasse per un quarto di secolo. Piero Camporesi insegnava Letteratura Italiana presso
l’Alma Mater-Università di Bologna; io conseguivo una laurea in Storia Moderna.
Si trattava dunque dell’incontro tra discipline diverse, voluto dallo studioso romagnolo che, in quegli
anni 1970/1973, aveva curato l’edizione per i Classici Einaudi de La scienza in cucina e l’arte di
mangiar bene di Pellegrino l’Artusi, e pubblicato, sempre presso lo stesso editore e la stessa collana,
Il libro dei Vagabondi. Nella vicenda culturale camporesiana, era in pieno svolgimento e in pieno
fervore la svolta decisiva dagli studi Filologici (ai quali il Romagnolo s’era dedicato negli ultimi tempi
“a contraggenio”) e dai grandi Classici della Letteratura verso l’antropologia, la storia, il folclore,
verso la cultura del “popolare”, della produzione di piazza e di colportage, verso testimonianze
scritte del passato “non propriamente letterarie”. In quel solco tracciato di fresco, s’inscriveva in
modo sorprendente la mia ricerca di storia della cultura, la quale si basava, infatti, su una produzione
italiana “non propriamente letteraria” di prima mano, fino a quel momento ignorata da storici e da
letterati. Individuavo le fonti del mio percorso storico, non tra i classici della letteratura, ma tra i
fondi antichi e raccolte dimenticate nelle Biblioteche storiche e negli Archivi. Il mio orientamento di
studi prevedeva l’apprendimento delle discipline ausiliarie della ricerca storica: archivistica,
paleografia e diplomatica. La mia impostazione di studiosa non era quella del Critico letterario tout
court, né del Filologo, bensì dello Storico della cultura.
Almeno tre furono i motivi d’attrazione da parte di Camporesi verso le mie ricerche, sulle quali
costruii la mia tesi di laurea intorno a Don Antonio Carnali (1611-1678) e la produzione astrologica
nel XVII secolo in Romagna:
1. il tema della letteratura regionale: i materiali su cui lavoravo sono tuttora conservati presso la
Biblioteca Comunale A. Saffi di Forlì, nelle “Raccolte Piancastelli”;
2. la ricerca pionieristica sulla produzione di pronostici, lunari e almanacchi del XVII secolo, che si
configurava come una risposta agli storici del “popolare” d’oltralpe che facevano scuola nell’ambito
della tradizione calendaristica e almanacchistica francese: Genevieve Bolleme e Robert Mandrou.
Essa rientrava nel dialogo che si traduceva, nell’operato camporesiano, in sfida con gli storici delle
“Annales” che Camporesi stava intraprendendo e che lo avrebbe guidato in tutta la sua produzione
successiva;
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3. la biblioteca barocca dell’astrologo ravennate, che avevo ricomposto attraverso il testamento di
Don Antonio Carnevali: al letterato Camporesi essa evocava la biblioteca manzoniana di Don
Ferrante; al fine studioso e ricercatore sollecitava quell’odore dei libri antichi che lo aveva inebriato
fin dall’adolescenza, elemento scatenante della sua passione di bibliofilo. La sua preziosa Biblioteca,
testimonianza del suo straordinario e unico percorso culturale e scientifico, è ora consevata presso la
Biblioteca del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Alma Mater-Università di
Bologna. Attraverso l’elenco dei libri di Carnevali, Camporesi sentiva «il profumo dei secoli», di
quel Barocco che aveva condiviso con il suo maestro, Carlo Calcaterra. Nella biblioteca del
pronosticatore ravennate, l’”Academico di nulla academia” trovava un fitto e gustoso catalogo di libri
della filosofia della natura i quali, già in parte apparsi nelle fitte note all’edizione dell’Artusi,
sarebbero stati sempre più numerosi nel suo cantiere di ricerca aperta, come fonti primarie, i mattoni
dei suoi fascinosi affreschi storici. Avido lettore di cataloghi antiquari, poteva deliziarsi, inoltre, con
i numerosi titoli di quei libri che Camporesi comprendeva nell’ampia sezione “dell’Italia sacra”:
prediche, libri di devozione, agiografie, i quali si intrecciavano ai libri del tempo e della sua
misurazione, di medicina, di astronomia e astrologia, di cosmologia, nel connubio inscindibile tra
breviario e astrolabio che caratterizzava la cultura e l’attività quotidiana del sacerdote astrologo di
Ravenna.
Fame e alimentazione nell’opera di Piero Camporesi
Tanto per comprendere la complessità dell’argomento propostomi dagli organizzatori di questo
seminario, per una esauriente esposizione della “fame” nell’opera di Camporesi sarebbe necessario
una rivisitazione scientifica di tutta la sua produzione a partire dal 1970, anno dell’edizione
dell’Artusi, al 1997, anno della sua scomparsa. I numerosi saggi camporesiani di quegli anni, infatti, i
più felici e originali usciti dalla sua penna, appaiono come uno screziato affresco storico, una saga
della corporeità e del governo del corpo durante l’età moderna, che pone sulle stesse direttrici del
“Paese della fame” Artusi e Fioravanti, Croce e il pane selvaggio, vagabondi e villani, medici e
ciarlatani, canterini e cantimbanchi, brodi indiani e sughi di vita.
Nel tempo concessomi, cercherò di mettere in luce le principali coordinate scientifiche della ricerca di
Camporesi, all’interno delle quali si possono collocare le pagine “povere” e “affamate” vergate dallo
studioso romagnolo, soffermandomi su tematiche, metodologia e fonti.
Le tematiche
Camporesi era cresciuto in una famiglia borghese: “Ai miei genitori che mi nutrirono con amore e
competenza” è la dedica che introduce il lettore al testo artusiano. La sua sensibilità verso i bisogni
del corpo, la fame e la malattia, verso le ingiustizie sociali è, dunque, in gran parte di origine
culturale. Ne è la spia il “sentimento di colpa” provato alla fine dello studio sui vagabondi, ed
espresso nel “Poscritto”: «Comprenda e perdoni il lettore questo improvviso sentimento di colpa
che ha colpito il povero curatore al termine della sua pur modesta fatica (fatica da nulla se
paragonata agli stenti tremendi di tanti miserabili), e comprendano e perdonino soprattutto i veri
“addetti ai lavori” (nel caso, piuttosto improbabile, che questo libro giunga nelle loro mani), se il
sottoscritto li ha trattati come un collezionista che esamina i pezzi della sua raccolta, traendone un
divertimento che scivola, qualche volta nella perversione». Camporesi riflette sul travestimento
letterario del “dramma millenario” di tanti che, per fame e stenti, esercitarono il “mestiere del
vagabondo», «quasi sempre frutto di un duro bisogno, non di libera scelta», mentre «perfidia,
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simulazione e satanismo» rappresentavano “conseguenze necessarie e dirette del crudele “stato di
necessita”, che costringeva poveri, diseredati, disoccupati e mendicanti a una continua
mimetizzazione, a una dolorosa girandola d’invenzioni nuove per sopravvivere». A tale folla di
poveri e affamati, macilenti e malnutriti Camporesi dedica Il paese della fame (1978), dove il senso
di colpa si tramuta in riflessioni amare e scatena violente sferzate verso comportamenti sociali degli
anni Settanta. Nel finale dell’introduzione a Il paese della fame, Bartolino della Zena, il Lazzarillo
bolognese appare, infatti, un «geniale furfante, esempio quanto mai attuale di “vagabondo nongarantito” da proporre alla meditazione di tanti inutili, incapaci e legnosi parassiti di stato, di tanti
neghittosi vivacchianti all’ombra di un posto di «non-lavoro garantito» (p. 21).
La fame rappresenta un tema costante che innerva tutta l’opera camporesiana, dall’edizione di
Pellegrino Artusi alla monografia su Leonardo Fioravanti. Essa si declina alle magie e alle alchimie
della cucina, del fuoco e della tavola; all’indigenza che sfocia nel cannibalismo e nel pane alloppiato e
selvaggio; al sostentamento che fa tesoro del sangue, sugo di vita; alla sapienza delle signore delle
erbe; agli odori; agli eccessi carnevaleschi e al magro quaresimale. La fame si innesta al digiuno,
precetto per ogni cristiano cattolico, e al digiuno ascetico di santi ed eremiti, che rende la carne
impassibile e sprigiona l’odore di santità.
La fame è legata all’alimentazione delle classi subalterne: rurale, marinara, montanara, valliva; alle
tradizioni cucinarie modulate sui rapporti di lavoro, i sistemi economici, i “frutti” del territorio
naturale, spontaneo e agrario. Nelle note all’Artusi, sono disseminati molteplici spunti per tracciare
la storia di una alimentazione folclorica, povera e contadina (cui sono dedicati i saggi compresi in
Alimentazione folclore e società del 1980, poi in La terra e la luna del 1989), trascurata da Artusi, e
inseriti quasi a scopo provocatorio, come in un dialogo risentito del meldolese Camporesi con il
forlimpopolese Artusi.
Dopo Il libro dei vagabondi (1973), seguendo le orme del maestro Calcaterra, Camporesi prende in
mano Bertoldo e Bertoldino, dandone una rilettura nella cifra del carnevalesco e del realismo
grottesco, sulla scorta della lezione del Rabelais di Michail Bachtin, tradotto in francese alla fine anni
sessanta. Prepara il saggio La maschera di Bertoldo. G.C. Croce e la letteratura carnevalesca, e
l’edizione restaurata e commentata del classico crocesco, Le astuzie di Bertoldo e le simplicità di
Bertoldino, pubblicati entrambi presso Einaudi a distanza di due anni. La cronologia delle opere
camporesiane parla chiaro: dopo la Maschera del 1976 e l’edizione di Bertoldo aprile 1978, esce Il
paese della fame nel giugno 1978. È evidente che Il paese della fame viene scritto in contemporanea
con i libri croceschi, dove cultura alta e cultura bassa si incontrano nell’attività dei cantastorie e poeti
di piazza e dove Croce appare cantore di fame, di miseria, di carestia, di Carnevale e di Quaresima.
Camporesi raccoglie una serie di materiali e di riflessioni che appartengono a un discorso ampio e
complesso, maturato da anni e che verrà svolgendosi nei libri successivi, improntati sulla
ricomposizione storica che va oltre la critica letteraria vera e propria. Lo storico della metis, l’arte di
arrangiarsi, e della corporeità (A. Biondi) fa della “fame” il “filo conduttore” del volume. La fame
viene raccontata «sia sotto il profilo “positivo” dello smisurato, vitalistico appetito dei giganti e dei
mostri ciclopici, sia sotto il segno opposto, “negativo” e malefico dell’assurda abbondanza e del
festino perenne dei privilegiati, oppure della carenza, del vuoto, della sterilità». Letteratura,
antropologia e sociologia si coniugano nelle pagine di Camporesi per dare voce agli «infiniti
protagonisti senza volto e senza storia», che s’affacciano indistinti dalla «letteratura della fame in
tutte le sue complesse e intrecciate implicanze». Il tutto viene inserito in una dinamica, già tutta
camporesiana, dove il carnevalesco scandisce il dialogo tra il “colto” e il “popolare”.
La seconda metà degli anni Settanta (1977-1982) sono anche quelli in cui Camporesi partecipa
attivamente al progetto dei 6 volumi dedicati alla “Cultura popolare nell’Emilia e Romagna”.
Ideatore e coautore, insieme ad altri intellettuali di ambito accademico bolognese (tra cui anche due
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romagnoli, Carlo Poni e Lucio Gambi), oltre a curare il volume Medicina erbe e magia, Camporesi
costella i volumi di una serie di saggi, che andranno a comporre alcuni capitoli dei suoi pubblicati
successivamente durante gli anni 80 (Alimentazione folclore e società, poi La terra e la luna e La
miniera del mondo).
La metodologia
1972/1973: stavo scrivendo un paragrafo della mia tesi di laurea sulla quadreria di Don Antonio
Carnevali: tra i soggetti in essi rappresentati (a maggioranza di ambito religioso) appare un bambino
che regge su una mano una lumaca. La mia osservazione sarebbe stata semplicemente descrittiva:
essenziale, da regesto, da breve resoconto. L’intervento della mano camporesiana che mi guidava
verso la “lumaca e spunti di folclore», si rivelò straniante e allora per me pressoché incomprensibile:
mi catapultò dal documento archivistico al documento folclorico, dalla tradizione storica scritta alla
tradizione folclorica orale. Su Romagna tradizionale (1963), leggevo che presso i contadini di
Romagna la lumaca veniva collocata sotto l’asse che sorreggeva il formaggio posto alla stagionatura,
per evitarne la fermentazione. Inoltre uno dei giochi dei bambini romagnoli, registrato da Giuseppe
Gaspare Bagli, un folclorista di fine Ottocento, era quello di raccogliere le lumache in autunno, dopo
le piogge. Ma possiamo anche aggiungere che il gioco si declinava al bisogno e alla fame, o in altri
termini, era la fame che faceva amare quel gioco. I riferimenti agli usi alimentari folclorici e contadini
rinviavano alle letture camporesiane relative allo studio del ricettario di Artusi (1970), quelle citate
nelle note, dove Camporesi delinea una sorta di storia dell’alimentazione “povera”, quella non
contemplata da Artusi nella sua Scienza in cucina.
Il suggerimento folclorico di Camporesi si richiamava a uno dei principi fondamentali della sua
metodologia di studio e ricerca, quello della “circolarità del sapere”, e confermava ciò che egli stesso
stava sperimentando attraverso le sue funamboliche letture che dai classici della letteratura del
canone, della produzione “popolare” e del documento folclorico, andavano alla tradizione “non
propriamente letteraria”, tecnica, scientifica, religiosa. In tale prospettiva si colloca la risposta alla
domanda che si poneva Umberto Eco, al convegno forlivese su Camporesi nel 2008, a proposito di
una citazione presente nelle Officine dei sensi (1985) sulla ripugnanza per il formaggio provata dalla
Venerabile Madre Maria Margherita Alacoque (Vita, 1794): «Ora io dico, l’episodio esisteva ed
esiste in quella biografia della santa, ma come poteva venire a un essere umano l’idea di andare a
cercare in quelle virtuosissime pagine un testo caseario, solo Iddio lo sa».
Grande lettore, ancora prima che grande scrittore, lo studioso romagnolo faceva in modo che tutte le
sue fonti entrassero «in circolo», fossero catturate nell’orbita del suo disegno storico, e andassero a
collocarsi nel posto giusto dell’intarsio costruito. In tal modo la sua fisionomia scientifica e culturale,
fotografata dallo stesso Camporesi nella sua Carta d’identità, come ’“Academico di nulla academia” (
saggio introduttivo a Il governo del corpo 1995), si modificava da filologo ad “antropologo
culturale”, a “storico della vita materiale” (Eco), “storico della corporeità” e della “metis” (Biondi).
La metodologia di studio e di ricerca di Camporesi è strettamente intrecciata alla sua storia
professionale e culturale, scolastica e accademica, di professore e di studioso. Attraverso la lezione
del maestro Carlo Calcaterra (allievo di Arturo Graf), aveva fatto suoi i principi fondanti della
tradizione storico-filologica italiana. S’era lasciato affascinare dalla rinnovata idea della “piccola”
storia che animava “Les Annales” francesi. Aveva colto le suggestioni della linguistica e dello
strutturalismo, delle categorie bachtiniane del carnevalesco e del realismo grottesco, muovendosi tra
cultura popolare e cultura d’élite come solo lui sapeva fare. Dopo la docenza universitaria (1969),
presso l’Istituto di Filologia moderna della Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, Camporesi
concretizza i suoi segreti percorsi scientifici creando inediti “scaffali” nella Biblioteca d’Istituto,
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nutriti di tutta una serie di saggi relativi alla produzione culturale non precisamente critica e
letteraria. In particolare creava una sezione di Folclore - arricchita in oltre trent’anni di afferenza
prima all’Istituo di Filologia moderna, poi Dipartimento di Italianistica - di tutta una serie di
strumenti di ricerca, tra cui spiccano, ad esempio, le storiche riviste di Folclore: tutto “Lares” e tutto
l’”Archivio per lo studio delle tradizioni popolari “di Pitré.
Col senno di poi, ora che rifletto su tutta l’opera di Camporesi e sulla sua metodologia di ricerca, la
lumaca, da sinonimo di lentezza nella paremiologia popolare, oggi simbolo dello slow food,
rappresenta, nel mio immaginario, l’emblema dell’idea camporesiana di formazione culturale e di
ricerca, allude al rapporto tra tempo e apprendimento, tra ricerca e scrittura, per Camporesi
momento dionisiaco, di un percorso lento, graduale, intenso. Rinvia al motto di Fabiano Michelini,
caro a Camporesi: «in poco tempo si faccia poco lavoro, e in molto tempo si faccia molto lavoro» (Il
sugo della vita, p. 88).
Le fonti
L’aspetto metodologico della ricerca di Camporesi è strettamente legato al discorso delle “fonti” da
lui utilizzate nei suoi intarsi stilistici, quando dipinge colorati affreschi della società moderna,
straziata dalle carestie, stracciona, affamata, allucinata. La sua narrazione storica passa attraverso le
testimonianze scritte indirette e in negativo, filtra la riflessione degli intellettuali sulla fame: D.
Bartoli, La povertà contenta, descritta e dedicata a’ ricchi non mai contenti, Venezia, G. Zini, 1678 (
Il paese della fame 1978); G.B. Segni, Trattato sopra la carestia e la fame, sue cause, accidenti,
provisioni e reggimenti, varie moltiplicationi, e sorte di pane. Discorsi filosofici, Bologna, Gio.
Rossi, 1602 (Il pane selvaggio 1980). Camporesi ha smascherato «una società attraverso i discorsi
che una società può tenere sopra se stessa», osservava Maurice Aymard commemorando Piero
Camporesi a Bologna nell’autunno del 1997. L’intellettuale francese riconosce allo studioso
romagnolo il merito di aver fatto della letteraria una fonte storica, capace di «entrare nella logica più
profonda di una società»; di aver «dimostrato che la fonte letteraria, come parola scritta da uomini e
indirizzata ad altri uomini, poteva essere formalizzata come fonte letteraria che aveva tutto il suo
peso, tutto il suo carico di credenze e di modi di pensare collettivi».
Tra le fonti “letterarie» più loquaci e funzionali alla ricomposizione di squarci di storia della cultura
“popolare”, Camporesi individua la produzione che si inscrive nella sfera dell’”Italia sacra”:
prediche, scritti devozionali, religiosi, ecclesiastici. Si tratta di pagine in cui i mediatori tra cultura
egemone e cultura subalterna contribuivano a evangelizzare e a diffondere in modo capillare la
politica della Chiesa, impegnata nella rinnovata irreggimentazione della società nei secoli XVI-XVII, i
preferiti da Camporesi (Rustici e buffoni 1991).
Lo storico della corporeità individuava le fonti più significative nella produzione dell’Italia
accademica relativa alla filosofia della natura, nei libri del governo del corpo, che restituiscono l’idea
dell’uomo come microcosmo, signore del mondo “elementare”, con il naso all’insù a leggere nei signa
aerei ed eterei le ire divine suscitate dai peccati umani, che annunciavano attraverso prodigi celesti,
eclissi e comete, configurazioni astrali maligne, marziali e saturnine, guerra, peste carestia e fame.
Nei testi della medicina ufficiale Camporesi trovava la chiave per spiegare il senso più vero della
morte di Bertoldo, già declinata in prospettiva carnevalesca. Bertoldo muore per aver infranto la
regola del Carnevale: ha protratto nel tempo le libertates decembris, ha fatto dell’eccesso una regola
di vita; ha prolungato il temporaneo ribaltamento dei ruoli sociali. Il cibo della corte gli sarà fatale,
sul piano del gioco letterario a causa della trasgressione alimentare carnevalesca. Sul piano della
dottrina medica, il motivo della morte di Bertoldo è quello di aver seguito un regime alimentare non
adatto alla sua natura di uomo della terra. «La cultura universitaria bolognese (non certamente unica
in Italia) aveva elaborato», infatti, «una ideologia di classe intesa a sanzionare l’inferiorità biologica
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degli umili per schiacciarli politicamente: una ideologia che postulava due regimi alimentari diversi, a
seconda dell’appartenenza a un gruppo di potere o ad una classe di diseredati». Era la teorizzazione
della differenziazione tra cibi raffinati per i palati delicati di nobili e signori, e cibi grossi per i palati
rozzi degli uomini meccanici (B. Pisanelli, Trattato della natura de’ cibi e del bere …. Con molte
historie naturali, Bergamo, per Comino Ventura, 1587, pp. 80 e 84, in Il pane selvaggio, pp. 180181).
Affetto da “libridine”, affascinato dall’odore dei libri e dei secoli, «gourmet», «degustatore di libri»
dissotterrati col piccone da minatore che scava tra opere letterarie dimenticate nelle biblioteche,
quando s’immergeva nella pagine antiche Camporesi si trasfigurava in un «neo Mondino de’ Liuzzi»
(Eco). Afferrava i bisturi e anatomizzava pensieri parole e immagini, ricomponendoli in uno stile
inimitabile, in una scrittura che rappresenta «il vero miracolo» della sua opera (Belpoliti), spia di una
«identificazione» straordinaria fra lo «storico e le sue fonti» (Aymard).
Riferimenti bibliografici
Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Introduzione e note di Piero
Camporesi, Torino, Einaudi1970
Marco Belpoliti (a cura di), Piero Camporesi, «Riga», 26, 2008
Piero Camporesi, Il paese della fame, Bologna, il Mulino, 1978
Piero Camporesi, Il pane selvaggio, Bologna, il Mulino1980
Piero Camporesi, Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue, Milano, Garzanti, 1997.
Elide Casali (a cura di), “Academico di nulla academia”. Saggi su Piero Camporesi, Bologna,
Bononia University Press, 2006
Elide Casali, Marcello Soffritti (a cura di), Piero Camporesi nel mondo. L’opera e le traduzioni. Atti
del Convegno Internazionale di Studi Forlì, 5-6-7 marzo 2008, Bologna, Bononia University Press,
2009
Paolo Toschi (a cura di), Romagna tradizionale: usi e costumi, credenze e pregiudizi, Bologna,
Cappelli, 1963.