Cultura d`impresa e geopolitica

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Cultura d`impresa e geopolitica
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Cultura d’impresa e geopolitica∗
Jean-Marc de Leersnyder∗∗
1. Economia di mercato e geopolitica
Il momento di grande tensione internazionale che stiamo vivendo, ed il rischio
che la prima potenza mondiale si trovi coinvolta in una guerra, aprono
nuovamente la questione dell’impatto della geopolitica sulla sfera economica e
sulle strategie d’impresa. Un certo spirito tradizionalista o forse una certa miopia,
tendono ad escludere l’impresa dall’ambito della geopolitica, con l’eccezione,
indubbiamente rilevante, della difesa e del settore petrolifero.
In una tale ottica manichea, la geopolitica rappresenterebbe il campo
privilegiato per gli attori pubblici (gli Stati, le organizzazioni governative, le
organizzazioni internazionali) o per gli attori rappresentativi del settore non-profit
(le organizzazioni non governative). Le imprese, in tal modo, non avrebbero altro
da fare che subire le conseguenze della situazione geopolitica senza poter reagire
o avere influenza su tale situazione.
Ora, l’impresa è diventata uno dei maggiori autori della geopolitica in quanto
mantiene, rispetto alle problematiche mondiali, una propria razionalità; così il
risultato dei giochi degli attori, e cioè le imprese, non manca certo di avere degli
effetti e una notevole influenza sulla situazione geopolitica.
Due fattori hanno contribuito al confinamento della geopolitica al di fuori dal
campo della strategia d’impresa: il disinteresse delle imprese rispetto alla politica
in generale, e il disimpegno degli Stati nei confronti del mercato.
L’impresa ha per lungo tempo cercato di vivere al riparo delle preoccupazioni
geopolitiche, come se i mercati fossero degli spazi commerciali protetti, delle oasi
di pace e prosperità, preservate dalle evoluzioni e dagli choc geopolitici. Ecco
perché non rientra nelle abitudini di un’impresa studiare o cercare il modo di
anticipare le evoluzioni politiche o militari, così come non è d’uso nei
comportamenti dei dirigenti partecipare a tali giochi geostrategici. La reazione più
classica, di fronte a una situazione di forte tensione internazionale, generalmente è
l’attesa o il ripiegamento se le attività o a fortiori il personale sono minacciati.
L’intelligence economica è riuscita ad imporsi da una decina d’anni ma, troppo
spesso, si è sviluppata al di fuori delle funzioni cosiddette “nobili” dell’impresa
(strategia, finanza, marketing).
∗
Tradotto su autorizzazione, da Defence Nationale, Parigi, aprile 2003.
∗∗
Professore di Marketing Internazionale, Associate Dean Executive MBA, HEC, Jouy en Josas.
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Gli Stati, dalla fine del comunismo e dal fallimento delle economie pianificate,
hanno sempre cercato di svincolarsi dalle operazioni economiche e commerciali.
L’ampliamento geografico del liberalismo e la generalizzazione delle
privatizzazioni, come quella dei settori strategici quali il trasporto, l’energia o le
telecomunicazioni, hanno lasciato pensare che la legge di mercato gestisse da sola
le relazioni internazionali. Anche l’attività militare si privatizza e si vedono
prosperare imprese multinazionali che provvedono agli Stati o alle fazioni come
mercenari. L’outsourcing si diffonde nelle attività di difesa, negli Stati-canaglie,
ma sembrerebbe anche nei paesi strutturati e democratici1 .
Economia di mercato, svincolamento degli Stati e libero scambio sembrano
essere le virtù cardinali che caratterizzano il mondo contemporaneo. La
coincidenza storica dell’adesione quasi universale a questi tre valori conta molto
nell’accelerazione del processo di mondializzazione, almeno per quanto riguarda
il periodo compreso fra la caduta del muro di Berlino e l’11 settembre 2001. Da
allora, sembrano comparire alcuni segni di un cambiamento: lo Stato federale
americano si è lanciato nel soccorso delle compagnie aeree a partire dall’11
settembre, ed il ritorno al protezionismo rappresenta una minaccia permanente. Si
noterà in proposito che il commercio dei grandi prodotti agricoli è rimasto al
sicuro dal fenomeno della generalizzazione delle pratiche di libero scambio. Il
Forum di Porto Alegre del 2003 ha messo particolarmente in evidenza la
rivendicazione dei paesi in via di sviluppo per uno smantellamento dei sistemi di
protezione e di sovvenzione che caratterizzano l’agricoltura europea quanto quella
americana.
Un tale disimpegno da parte dello Stato come attore economico
paradossalmente si accompagna ad un eccesso di vigilanza della potenza pubblica
sugli interessi economici e commerciali delle imprese dal momento in cui operano
al di fuori del territorio nazionale. Avviene tutto come se si assistesse ad una vera
e propria schizofrenia da parte degli Stati, che non intendono più essere azionisti,
né vendere sigarette, fiammiferi, posti aerei o comunicazioni telefoniche ma, allo
stesso tempo, si sentono offesi quando una sanzione unilaterale tocca i produttori
di formaggio Roquefort o di mostarda di Dijon, in Europa; o di carne agli ormoni,
di banane o di cereali geneticamente modificati, negli Stati Uniti. Fu sotto
l’amministrazione Clinton che venne messo a punto il concetto di sicurezza
economica, che afferma che “la difesa degli interessi economici è al centro della
politica estera degli Stati Uniti” 2 .
La geopolitica è fondamentalmente un’analisi fra territorio, spazio e area
politica. Almeno in questo modo venne definita agli inizi del Ventesimo secolo.
L’analisi dei rapporti fra spazio e strategia merita di essere intrapresa anche da
parte dell’impresa.
La strategia d’impresa si sviluppa entro uno spazio ormai riconfigurato. Una
simile riconfigurazione è il risultato di tre fattori: la situazione geopolitica, la
mondializzazione ed il comportamento delle imprese internazionali stesse.
2. La geopolitica delimita lo spazio
Così, si costituiscono raggruppamenti regionali (come l’Unione Europea oggi
composta di 15 paesi e domani di 25) e scompaiono imperi (il blocco dell’Est
dopo la caduta del comunismo). Domani, nei confronti dell’Oriente, una nuova
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carta delle influenze commerciali, e quindi di fette di mercato, sarà il risultato di
un intervento americano. La distribuzione dei PSA (Production Sharing
Agreement) ne subirà le conseguenze. Gli effetti sulle imprese sono notevoli
perché tali accordi fra una compagnia petrolifera e uno Stato danno diritto
all’impresa di inserire in bilancio le riserve controllate in questo modo, con tutte
le implicazioni di borsa che si possono immaginare.
2.1 La geopolitica come determinante dei mercati
Quando la Cecoslovacchia si è divisa in due parti, fra la Repubblica Ceca e la
Slovacchia, il commercio mondiale è numericamente aumentato di un montante
calcolabile nella notte dal 31 dicembre 1992 al primo gennaio 1993. In effetti, una
transazione commerciale fra Praga e Bratislava ha ottenuto in una notte lo statuto
di esportazione ed è stata registrata dall’OMC come tale. La decolonizzazione
(negli anni ‘60), la dislocazione della Yugoslavia e dell’URSS, per esempio,
hanno portato alla creazione di un numero notevole di nuovi Stati. Una tale
“proliferazione di stato”3 , per riprendere l’espressione consacrata, non ha soltanto
effetti sulla balcanizzazione politica di alcune regioni del mondo. Essa ha delle
forti conseguenze sulla configurazione dei mercati mondiali, ben al di là
dell’impatto statistico fondamentalmente aneddotico, sul commercio mondiale
che sembra, in fondo, essere sfuggito agli economisti. È raro, in effetti, leggere
analisi sulla crescita del commercio mondiale che facciano un qualche riferimento
a questo fenomeno.
La guerra fredda ha segmentato l’universo commerciale nell’arco di
quarant’anni, al punto che il GATT4 che produceva le statistiche sul commercio
mondiale aveva l’abitudine di indicare l’insieme dei paesi a economia pianificata
in una rubrica statistica speciale chiamata “Paesi dell’Est”.
Le guerre fanno nascere o scomparire i mercati che tendono ad affrancarsi dai
dati demografici ed economici per essere invece determinati dai dati geopolitici.
Quali sono gli effetti dei conflitti sui mercati? Dal lato della domanda,
generalmente si osserva un concentrarsi delle spese per quanto riguarda i prodotti
di prima necessità. La domanda tende verso prodotti e marche di livello meno
prestigioso. Dal lato dell’offerta, si assiste all’insorgere di un settore informale:
piccoli commerci, punti vendita mobili, installazioni precarie, mercati
d’occasione, importazioni parallele, mercato nero e di contrabbando.
Generalmente, le multinazionali, gestite più efficacemente, guadagnano quote di
mercato rispetto ai concorrenti locali rovinati. Le sanzioni economiche, come
quelle che l’ONU impone all’Iraq (petrolio contro alimenti) favoriscono
l’emergere delle pratiche di baratto e di commercio triangolare. Infine, il
dopoguerra e la ricostruzione successiva generano nuovi mercati, spesso colossali
e dotati di finanziamenti associati.
2.2 Le sanzioni economiche impattano sulle strategie d’impresa
Le sanzioni economiche costituiscono uno strumento importante per la politica
estera, a metà strada fra la diplomazia e l’utilizzo della forza.
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L’efficacia delle sanzioni è abbondantemente dibattuta. Si fa giustamente notare
che esse toccano in primo luogo le popolazioni civili, e l’impatto che hanno sulle
imprese è senza dubbio irrilevante rispetto ai costi che subiscono gli uomini e le
donne. Non di meno, le imprese sono ugualmente ostaggio di tali sanzioni, il cui
carattere e le disposizioni pratiche che ne discendono sono essenzialmente
economiche. Bisognerebbe entrare in una tipologia più dettagliata di queste
sanzioni, e distinguere quelle emanate dal Consiglio di Sicurezza da quelle decise
dagli Stati, le sanzioni multilaterali e le sanzioni unilaterali. Sono queste ultime,
ed in particolare l’embargo, che hanno il maggior numero di conseguenze sulle
transazioni commerciali private e, quindi, sulle strategie delle imprese
internazionali. Quello che colpisce in queste misure è il loro carattere sempre più
extraterritoriale. Quando un Paese come gli Stati Uniti definisce delle sanzioni,
cerca di coinvolgervi altri stati allo scopo di aumentarne l’efficacia, ma anche, da
un punto di vista più cinico, al fine di condividere il fardello delle conseguenze
negative fra più paesi per evitare che solo le imprese americane vengano
penalizzate.
Una legge come la legge americana chiamata D’Amato-Kennedy rappresenta un
buon esempio delle conseguenze commerciali a proposito delle decisioni
politiche. In nome della lotta contro il terrorismo internazionale e della difesa
della pace e della sicurezza internazionale, la legge D’Amato-Kennedy limita la
capacità dell’Iran di sfruttare, di estrarre, di raffinare o di trasportare attraverso gli
oleodotti le risorse petrolifere.
La legge D’Amato sanziona gli investimenti esteri in Libia e in Iran superiori ai
40 milioni di dollari. Gli Americani, sotto la pressione dell’Unione Europea,
hanno dovuto rinunciare a far applicare tale legge al di fuori degli Stati Uniti, nel
caso di un’impresa petrolifera francese.
Attraverso l’impatto che hanno sulle relazioni commerciali, le decisioni di
embargo trasformano il rischio politico in un rischio commerciale dal momento in
cui la sanzione scelta nelle controversie internazionali è di ordine economico.
Anche se l’embargo è la sanzione economica più conosciuta, ne esistono in realtà
molte altre: la limitazione delle importazioni e delle esportazioni, il congelamento
dei beni all’estero, l’aumento dei diritti doganali, la rottura delle relazioni
diplomatiche, il rifiuto dei visti, il blocco dei crediti o ancora l’annullamento delle
relazioni aeree. Gli Stati Uniti utilizzano ampiamente l’arma delle sanzioni
economiche nella loro politica estera. Il Congresso americano stima che le
sanzioni economiche americane stabilite in quattro anni (1997-2000) tocchino 61
paesi, il 42% della popolazione mondiale, il 19% del mercato mondiale
all’esportazione. Gli Stati Uniti hanno imposto delle sanzioni economiche
unilaterali un centinaio di volte a partire dalla fine della Seconda Guerra
Mondiale. Le più celebri restano quelle concernenti l’isola di Cuba, e se l’HelmsBurton Act fa oggi scuola è perché al suo carattere unilaterale si aggiunge una
nuova dimensione: l’extraterritorialità. The Cuban Liberty and Democratic
Solidarity Act, più noto sotto il nome di Helms-Burton Act, è un chiaro esempio
di “boicottaggio di secondo grado”: uno Stato A cerca di impedire ai cittadini
residenti all’estero di un paese B di commerciare con uno Stato C o di investirci.
Producendo degli effetti di extraterritorialità, questa legislazione americana ha
sconvolto le regole del diritto internazionale e quelle del gioco concorrenziale
internazionale. In nome dei valori universali come la democrazia, i diritti
dell’uomo, la lotta contro il terrorismo o la prevenzione della proliferazione di
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armi di distruzione di massa, alcuni Stati, per mezzo di decisioni unilaterali di
embargo, pretendono di sottrarre ad altri Stati il diritto di partecipazione agli
scambi commerciali ed economici. Il ragionamento alla base di una tale
applicazione extraterritoriale di sanzioni è che, dal momento in cui un’impresa di
un paese terzo sviluppa un flusso di affari con un paese “boicottato”, ciò rinforza
la capacità di questo paese di nuocere agli interessi del paese che ha deciso la
sanzione.
3. La globalizzazione crea nuovi spazi
Non è questo l’ambito più adatto per addentrarsi in un dibattito sulla
mondializzazione, né di aggiungere ad una lista già cospicua un tentativo di
definizione del fenomeno.
Ricordiamo solamente che ciò che distingue la mondializzazione
dall’internazionalizzazione (sarebbe più corretto dire l’inter-nazionalizzazione) è,
propriamente, che nella mondializzazione lo Stato Nazione non è più l’entità
spaziale pertinente. In altri termini, la mondializzazione ha generato nuovi spazi
all’interno dei quali attori pubblici o privati, tradizionali o nuovi, leciti od illeciti,
ecc., mettono in opera le proprie strategie usufruendone su base mondiale. Oltre
ad essere un modo per rimettere in causa lo Stato Nazione, la mondializzazione è
una vera e propria riconfigurazione dello spazio. Lo spazio di uno Stato rimane
ma è indebolito da trasferimenti di sovranità, da alcuni elementi di potere regale
(la moneta, la fiscalità, i diritti doganali...) verso nuove entità, o per mezzo di una
confutazione del principio di territorialità delle leggi sotto l’influenza delle leggi
comunitarie o delle decisioni nazionali di applicazione ritenuta universale, come
le sanzioni economiche citate più indietro.
Spazi sovra-statali hanno quindi visto la luce del giorno. La loro diversità
proibisce di designarli con un nome o un concetto unico (cos’hanno in comune
l’Unione Europea e il Mercosur?).
La creazione di spazi regionali si collega a sua volta a circostanze naturali
(prossimità geografica, linguistica, culturale), a sinergie fra i sistemi produttivi dei
paesi coinvolti, ma soprattutto a volontà politiche d’integrazione. La formazione
di simili insiemi regionali, zone di libero scambio o unioni economiche,
costituisce ciò che gli economisti chiamano effetto di profitto insperato per le
imprese. Tali accordi conducono alla creazione di mercati vasti ed unificati. Con
la formazione del Mercosur, l’Argentina, il Brasile, il Paraguay, il Cile, l’Uruguay
e la Bolivia sono diventati veri e propri meccanismi strategici per le imprese.
Attraverso i loro accordi commerciali, questi paesi formano una zona che
assembla le economie teoricamente con le migliori performance dell’America del
Sud. È perché tale insieme si è strutturato che le imprese, in particolar modo le
industrie automobilistiche, hanno deciso di investire. Lo stesso spazio geografico,
senza gli accordi commerciali, non avrebbe avuto il medesimo potere di
attrazione. L’esistenza di una tassa doganale comune permette a tale insieme di
“piccoli paesi” nel senso della teoria economica internazionale, cioè quelli la cui
domanda non ha influenza sui prezzi internazionali, di raggiungere la taglia critica
di un “grande paese” le cui variazioni della domanda hanno potenzialmente
influenza sui corsi mondiali.
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La mondializzazione è anche la capacità degli attori di muoversi all’interno di
nuovi spazi, autonomi rispetto agli stati, e nei quali le regole del gioco, e
singolarmente le regole di diritto ispirate al principio della territorialità, non si
applicano. Attraverso questi nuovi territori e spazi autonomi, indipendenti dagli
Stati, si può citare internet, o cyberspazio. Si conosce la difficoltà di regolarizzare
e di controllare i siti su internet; ma per l’impresa, internet è un vettore favoloso.
Ha permesso infatti lo sviluppo dell’e-business e in particolar modo dell’ecommerce. L’esplosione della bolla della nuova economia non ha messo fine
all’e-business. Ne ha semplicemente ammortizzato gli eccessi. Per la prima volta
nella storia della relazioni commerciali, grazie a internet, si risponde al mercato
internazionale attraverso una tecnica assolutamente mondiale. Fino ad oggi si
mettevano in opera delle tecniche per rispondere ad un mercato sempre più
mondiale. Con internet, lo strumento è finalmente proporzionato al tipo di
problema posto: è mondiale.
I mercati finanziari sono anch’essi un terreno di manovra “a-territoriale” sui
quali le imprese dispiegano le proprie attività e la propria immaginazione. Ma non
sono lo sole: si conosce l’utilizzo che ne sanno fare le organizzazioni mafiose e le
organizzazioni terroriste attraverso le attività di imbiancamento o di annerimento.
3.1 La proliferazione e la disseminazione nel commercio estero
Si sa che la crescita delle relazioni economiche internazionali si è accompagnata
con una forte crescita in potenza degli scambi di beni immateriali. Questo
fenomeno di dematerializzazione del commercio mondiale ingloba le prestazioni
dei servizi transfrontalieri, le cessioni di proprietà industriali e intellettuali, i flussi
di tecnologie, e più in generale gli scambi virtuali.
Tale dematerializzazione degli scambi e il contenuto sempre più immateriale e
virtuale dei prodotti scambiati, hanno notevolmente aumentato gli ambiti di quelli
che si chiamano i “prodotti sensibili”. Per mezzo del licencing, del franchising e
con gli accordi di subappalto o di outsourcing, gli accordi di compensazione
commerciale (countertrade) e di offset, il rischio di trasferimenti indesiderati di
competenze e di tecnologie cresce notevolmente. Le tecniche moderne di
commercializzazione internazionale sono generatrici di “fughe tecnologiche”
involontarie.
In materia di flussi tecnologici, la situazione geopolitica recente (fine degli
scontri Est-Ovest e disorganizzazione dei paesi un tempo sviluppati su
un’economia di Stato), ha instaurato la comparsa di una nuova forma di
“commercializzazione”. Accanto agli scambi di tecnologie fra paesi sviluppati e ai
trasferimenti, che caratterizzano i flussi dai Paesi sviluppati verso Paesi in via di
sviluppo, sono apparse nuove transazioni fra Paesi emergenti sotto forma di
disseminazione e di proliferazione. Bisogna aspettarsi che un tale modo di
“commercializzazione” si estenda a prodotti meno “sensibili” rispetto ai prodotti
strategici per i quali è comparso. La diffusione del Viagra nei Paesi in via di
sviluppo è certamente emblematica rispetto ad un simile approccio commerciale.
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Tabella 1: Modalità di diffusione internazionale della tecnologia
Paesi sviluppati
Paesi emergenti
Paesi sviluppati
Paesi emergenti
Scambi di tecnologie
Trasferimenti di
tecnologie
Scambi inesistenti
Disseminazione e
proliferazione
3.2 Società civile e spazio economico
Lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e dei mezzi di trasporto ha
portato all’intensificarsi dei flussi culturali che concorrono alla creazione di
movimenti di opinione internazionali. L’accesso del grande pubblico ai nuovi
media ha favorito la creazione di uno spazio pubblico senza frontiere. È questo lo
spazio che, la cosiddetta “società civile”, ha saputo occupare al punto da acquisire
un vero e proprio status sulla scena politica diplomatica e geopolitica
internazionale. Si osserverà che queste organizzazioni, che denunciano le
conseguenze di una mondializzazione e cercano di lottare contro di essa, non
giungono a far conoscere la loro causa se non grazie alla globalizzazione. La
globalizzazione dei mezzi di comunicazione ha fornito una tribuna mondiale alle
organizzazioni no-global! È risaputo da molto tempo che la creatura finisce
sempre per rivoltarsi contro il suo creatore.
Il concetto di società civile, introdotto da Hegel nei ‘Principi di filosofia del
diritto’, distingue tra vita civile e vita politica. Allora la società civile cercava di
ridurre il ruolo dello Stato riportando alla sfera civile le problematiche della sfera
politica, dimostrando così che l’interesse generale non poteva essere regolato
dalla sola potenza pubblica. Per una sorta di sviamento dal concetto, oggi, invece,
la società civile cerca di dimostrare al contrario che l’interesse comune e i
meccanismi legati ai valori universali non devono essere lasciati agli interessi
privati e alle imprese internazionali. Richiama a maggiori regolamentazioni in
vista della difesa di valori che sarebbero minacciati dalle imprese internazionali.
Reclamando più norme, la società civile chiede di più allo Stato. Le
rivendicazioni contro gli organismi geneticamente modificati e la protezione
dell’ambiente hanno messo in luce questo paradosso che non è che una
conseguenza diretta della globalizzazione e del disimpegno degli Stati.
L’emergere di una società internazionalizzata e mediatizzata, ma soprattutto
organizzata e dotata di una riserva considerevole di fanti, reclutati più tra i giovani
dei paesi sviluppati che tra i “dannati della terra”, fa nascere un nuovo rischio per
le imprese: quello di essere il bersaglio di una campagna di denigrazione anzi di
disinformazione. La società civile esercita ormai una potente sorveglianza sulle
imprese: sulla qualità dei loro prodotti, sui loro processi produttivi, sulle norme
sociali. Se gli Stati hanno le loro leggi, la società civile ha i suoi valori e i
boicottaggi stanno alla società come le sanzioni giuridiche ed economiche stanno
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agli Stati. Una campagna di disinformazione o di boicottaggio può per un’impresa
costare più cara di una multa comunitaria o di una perdita di quote di mercato
conseguente a un embargo.
4. La geopolitica delle imprese
Anche le imprese sono arrivate a disegnare uno spazio mondiale che sia loro
proprio. Esse hanno a lungo utilizzato la nazione o il paese come livello pertinente
di aggregazione per definire i mercati o segmentare il mercato mondiale. Era
comodo: si assimilava spazio nazionale e spazio sociale e culturale.
L’organizzazione politica corrisponde solitamente a un’unità linguistica, una
strutturazione amministrativa, un sistema educativo e uno spazio regolamentato.
Con la globalizzazione, l’equazione “un paese=un mercato” non ha più senso
strategico, poiché l’impresa ragiona in segmenti di mercato trasnazionali nei quali
sono raggruppati i consumatori e i clienti che hanno attese comparabili, senza
tener conto dei confini politici. Qui si sono creati ancora degli spazi commerciali
autonomi in rapporto agli spazi politici come i mercati delle “diaspore” o delle
comunità etniche. Il comunitarismo è forse una cura politica e sociale, ma
costituisce anche un mercato. Gli ispanici rappresentano un mercato
panamericano che le imprese di prodotti cosmetici per esempio sanno
perfettamente capire e soddisfare con prodotti e marketing specifici. Queste
strategie costituiscono dei contropoteri e delle considerevoli armi economiche in
mano alle imprese che possono a volte cambiare l’aspetto del mondo.
Ricordiamoci il ruolo rivestito dalle televisioni occidentali nella caduta del muro
di Berlino e guardiamo come i processi di consumo occidentali stanno
trasformando la Cina. I soldati hanno l’abitudine di dire “non si disinventa la
bomba atomica”; potremmo aggiungere: “non si disinventeranno i jeans”.
5. Verso una diplomazia d’impresa
Di fronte a questi rischi generati dall’instabilità del contesto geopolitico
l’impresa può rispondere con due attività strategiche: l’anticipazione e la
negoziazione. L’anticipazione consiste nella sorveglianza dell’ambiente, la veglia
e l’intelligence economica. La negoziazione è la diplomazia di impresa. I
diplomatici si lamentano a volte che gli interessi politici passino in secondo piano
dietro ai principi di Realpolitik (che infatti sono principi di economia reale). Per
simmetria le imprese dovrebbero dotarsi di competenze diplomatiche. All’arma
della diplomazia economica messa in atto dagli Stati dovrebbe rispondere un
management diplomatico, del quale restano da definire i limiti.
Questa diplomazia di impresa deve essere parte integrante della comunicazione
internazionale d’impresa. L’impresa sa inviare un messaggio di carattere
commerciale a un consumatore o a un cliente. Deve essere allo stesso modo
capace di rivolgere un messaggio a contenuto diplomatico a uno Stato o ai suoi
rappresentanti. Nel primo caso, fa legittimamente pubblicità, nel secondo, le si
nega troppo spesso il diritto di fare diplomazia. La lobbying che si è tanto
sviluppata in Europa in conseguenza dell’impatto delle decisioni della
Commissione Europea sulla vita degli affari, è una manifestazione di questa
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intensa attività diplomatica dell’impresa. Questa lobbying può essere affidata a
una struttura interna all’impresa o ad un ufficio specializzato, o delegata
all’interno di un gruppo di pressione di cui fa parte l’impresa, che azionerà a sua
volta uno studio di lobbying. In ogni caso, l’obiettivo è sempre lo stesso: si tratta
di dominare il rischio di cambiamento della regolamentazione.
La lobbying è stata a lungo mal vista in Francia. Ora a Bruxelles, i gruppi di
lobby sono una fonte permanente di informazione per la Commissione che
esternalizza così le attività di comunicazione. Si stima l’esistenza di 3000 gruppi
di interesse a Bruxelles e di 500 rappresentanti di impresa, incaricati di questa
missione. È stato addirittura creato un gradito statuto di “lobbysta”.
Non bisognerebbe limitare la diplomazia internazionale dell’impresa agli attori
statali o alle organizzazioni internazionali. Conviene estenderla agli attori della
società civile. L’influenza crescente dei movimenti consumeristi fa gravare un
rischio commerciale importante sulle imprese. Al fine di minimizzare questo
rischio, molte imprese hanno deciso di integrare la loro politica di comunicazione
con un’imposta sociale ed etica.
Le imprese che hanno delocalizzato le proprie unità di produzione nei Paesi a
basso costo di manodopera sono oggi desiderose di salvaguardare la propria
immagine e di evitare campagne di boicottaggio in modo che non si scopra che
fanno lavorare nelle fabbriche prigionieri o bambini con meno di quattordici anni.
Di fronte al proliferare delle inchieste, delle indagini, delle campagne di
informazione e disinformazione, tutte largamente diffuse dalla stampa, le imprese
adottano codici di buona condotta, carte per conciliare etica e business. Dinnanzi
a questi contro-poteri, le imprese internazionali hanno inventato una forma di
diplomazia civile che talvolta è detta “cittadinanza”, o Corporate Social
Responsibility, e che permette loro di prender parte al dibattito sociale, con
l’ambiguità di una pratica che i sessantottini avrebbero definito di “recupero”.
Gli Stati si invitano nei loro giochi concorrenziali. Di fronte a questa strategia di
influenza commerciale ed economica che gli Stati mettono in atto per completare
la loro politica di difesa e di sicurezza, le imprese devono dotarsi di una vera e
propria diplomazia. La strategia internazionale dell’impresa è ripresa dalla
geopolitica. Non c’è che un unico ambiente internazionale. La sfera commerciale
non è distinta da quella politica. La geopolitica è la risultante dei giochi di tutti gli
attori sulla scena internazionale. In questo teatro né gli Stati né le imprese
possono pretendere di giocare da soli; ma non perdiamo di vista un principio
essenziale: in materia politica, contrariamente a ciò che avviene in materia
economica, il rischio non ha in sè alcun premio di rendimento. È pura perdita per
l’impresa.
Note
1
Richard Bunégas: “De la guerre au maintien de la paix: le nouveau business mercenaire”. Critique
Internationale, Presses de Science Po, n°1, autunno 1998, p. 179-194.
2
Denis Lacorne: “Où est l’interet national américain?”, Critique Internationale, Presses de Sciences
Po, n°8, luglio 2000, p. 97-116.
3
Pascal Boniface: “La prolifération étatique: un défi stratégique majeur”, Revue internationale et
stratégique, n°37, primavera 2000, p. 59-64.
4
GATT: General Agreement on Tariffs and Trade.
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