Prime pagine - Codice Edizioni

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Prime pagine - Codice Edizioni
Prefazione
La fotografia di Kim Phuc resta una delle immagini indelebili della
guerra del Vietnam. Scattata l’8 giugno 1972, nello stesso anno è stata pubblicata sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, e da
allora riprodotta innumerevoli volte. Con George Esper, l’ultimo responsabile dell’agenzia Associated Press a Saigon, trattenutosi in città
fino all’ordine dei comunisti di espellere tutti i giornalisti stranieri,
ho discusso della forza di quella fotografia e del suo impatto sulla
guerra in Vietnam: “Non si limita a cogliere l’efferatezza di una
guerra, ma l’efferatezza di ogni guerra”, ha spiegato. “Ci sono state
molte fotografie di vittime, ma quella era ossessionante… Nell’espressione della bambina c’erano paura e orrore, ciò che la gente
provava riguardo la guerra. Quell’immagine mostrava le conseguenze del conflitto, dava la misura di quanto esso fosse sbagliato e devastante. La gente la guardava e diceva:‘La guerra deve finire’”.
Quello scatto dell’otturatore cristallizzò, come sanno fare le macchine fotografiche, un istante di storia, tanto che la bambina ritratta rimase bambina per sempre. Ma il tempo non si fermò per la guerra del
Vietnam. Per gli americani sarebbe durata ancora un anno, per i vietnamiti altri tre. La sua fine è documentata negli annali di storia – la firma del cessate il fuoco a Parigi; l’ultimo elicottero per l’evacuazione
che decolla dal tetto dell’ambasciata americana a Saigon; la trasmissione
della resa sudvietnamita su Radio Saigon; il primo carro armato nordvietnamita che sfonda i cancelli del palazzo presidenziale. Lo strazio
della guerra, però, non si esaurisce con tanta facilità. E mentre molti
continuano a ragionare sulle cause della guerra del Vietnam e del suo
esito finale, quel capitolo di storia d’America resta incompiuto.
La bambina della fotografia non aveva nome quando la sua immagine transitò per l’agenzia giornalistica AP, ma nel giro di due
giorni un giornalista le aveva già attribuito un’identità. Kim Phuc
guarì dalle ustioni e passò dall’infanzia all’età adulta. E così, per mezzo di questo libro e con la lucidità acquisita nel tempo, si è presenta-
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ta un’occasione per rivedere attraverso la lente della sua esistenza
cosa abbia significato la guerra per una qualsiasi contadina sudvietnamita, come abbia influito su di lei la sua fine, oltre che per esaminare l’impatto della fotografia sulla sua vita. Rimettere a fuoco i
miei pensieri prescindendo dall’inquadratura della celebre immagine è stato più facile dopo aver – letteralmente – scoperto l’istante
della sua vita immortalato subito dopo. Colto da David Burnett,
che aveva perso l’opportunità di scattare la foto più famosa perché
intento a caricare la pellicola mentre la bambina gli sfilava davanti, il
secondo ritratto la mostra di spalle, mentre prosegue lungo la strada.
Un giornalista – forse Alexander Shimkin, caduto in guerra un mese
più tardi – le corre accanto, le braccia protese verso di lei. L’umanità
del gesto sembra alleviare l’orrore delle sue carni carbonizzate.
La vita di Kim è stata segnata dalla volontà di altri di trascinarla
nuovamente sotto i riflettori. Una volta che il regime comunista
l’ebbe “riscoperta” quale protagonista di una fotografia famosa in
Occidente, la fotografia stessa divenne una presenza dominante e regolatrice nella sua vita. Fu usata a scopi di propaganda, ma allo stesso
tempo rappresentò un simbolo vivente accettabile delle sofferenze generate dalla guerra. Innanzitutto, perché gli schizzi di napalm le
risparmiarono il volto e le mani, consentendole di nascondere le cicatrici sotto gli abiti. Paradossalmente, dove è lasciato all’immaginazione, l’orrore delle ferite inflitte dal napalm – un’arma fabbricata
negli Stati Uniti, che ne fecero per la prima volta un uso massiccio
durante il conflitto in Vietnam – è più intenso, perversamente più
accettabile. Kim, per giunta, era una sudvietnamita ferita dalla sua
stessa fazione, e serviva dunque da monito: gli incidenti di guerra
potevano coincidere con le sue atrocità.
Intervistata per questo libro, Kim è stata una testimone sollecita,
anche se non sempre semplice. È cresciuta in un clima di guerra.
Fatta eccezione per gli americani, gli amici e i nemici avevano gli
stessi volti, quindi meno la gente parlava, più al sicuro si sentiva. La
guerra creava confusione – tanto più per una bambina. Kim era nata
durante il conflitto, aveva nove anni quando fu ferita nel bombardamento al napalm e solo dodici quando la guerra finì. Da allora fino
all’età di ventinove anni, nel 1992, quando fuggì in Occidente, è vissuta sotto un regime comunista e in una cultura politica in cui ogni
informazione è considerata rilevante.
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La defezione ha dato a Kim la possibilità di parlare apertamente, ma
ha generato un ostacolo alla mia ricerca. Dopo la sua fuga, girò voce
che in patria fosse considerata persona non gradita. Di conseguenza,
quando nel 1996 mi sono recata in Vietnam, non ho intervistato né
chiesto di intervistare alcuna autorità comunista (non solo verosimilmente il regime avrebbe respinto la mia richiesta, ma avrebbe
potuto rifiutarmi addirittura il visto d’ingresso per il paese). Sono
entrata in Vietnam con un visto turistico, invece, e mi sono arrangiata con gli interpreti ricorrendo a chi un tempo aveva collaborato
con gli americani, anche se non parlava inglese da allora; in questo
modo ho tranquillamente intervistato la famiglia di Kim, i suoi amici e gli ex vicini di casa. I funzionari comunisti delle pagine di questo libro, dunque, sono voci ricostruite sulla base dei ricordi di altri;
finché la società vietnamita non sarà più aperta, questo è il meglio
che si possa fare. Sono stata anche a Cuba, dove il regime vietnamita
mandò Kim all’università.Ancora una volta ho viaggiato con un visto turistico, svolgendo ricerche analoghe anche laggiù.
Il lettore potrebbe trovare utile qualche spiegazione sui nomi
vietnamiti. Dato che i cognomi sono pochi e comuni, per identificarsi i vietnamiti tendono a usare il nome proprio. Il cognome viene usato di rado, e spesso è noto ai soli familiari più stretti. Per esempio, dopo la prima menzione nel testo, Pham Van Dong, ex primo
ministro del Vietnam, viene semplicemente indicato con il suo
nome, Dong. La prassi occidentale, al contrario, imporrebbe di riferirsi al suo cognome, Pham. Infine, due commenti sul vietnamita
scritto nel testo. Per semplicità ho omesso i segni diacritici che precisano la pronuncia di una parola, e quindi il suo particolare significato. Inoltre ho spesso combinato diverse sillabe in un’unica parola,
sebbene nell’idioma vietnamita ogni sillaba costituisca un termine a
sé stante.Vietnam, per esempio, è composto da due parole, che qui
verranno sempre combinate in una.
Capitolo I
Kim scostò delicatamente un lembo delle tende della camera da letto. Solo da lì riusciva a cogliere segni di vita all’esterno. Le finestre
del soggiorno si affacciavano sul muro di mattoni della casa accanto.
Nonostante un lucernario lasciasse filtrare un po’ di luce in quella
stanza, il secondo piano dell’appartamento trasmetteva una sensazione di claustrofobia, riflettendo quella del vicolo a senso unico in cui
abitava la famiglia Bui, in un quartiere povero e congestionato sorto
alle spalle della più piccola delle due Chinatown originarie di Toronto. Eppure, dalla finestra della camera da letto, alzando lo sguardo
sopra la fila ininterrotta di automobili parcheggiate e la congerie di
tetti piatti o appuntiti di fronte, si godeva la vista dello skyline del
moderno centro di Toronto.
Gli occhi di Kim ispezionarono il marciapiede per assicurarsi che
nessuno tenesse d’occhio l’appartamento. Poi fecero lo stesso con il
portico scoperto di sotto. Nessuno. Ma la prova rimaneva: una lattina
schiacciata e il significativo cartoccio rosso e bianco di un pasto della Kentucky Fried Chicken preso al negozio in fondo alla strada. Il
giorno prima, al crepuscolo, lei e Toan, convinti che nessuno li avesse visti entrare nel loro appartamento dalle scale sul retro, avevano
guardato da quella finestra, e notando la lattina e il cartoccio erano
giunti all’identica conclusione: le due donne appena incontrate sul
marciapiede avevano sorvegliato il loro indirizzo per buona parte
della giornata, abbastanza a lungo, almeno, da farsi venire fame. Una
di loro aveva una macchina fotografica. Kim diffidò il marito dall’aprire la porta principale per buttare l’immondizia. Un obiettivo a focale lunga vede molte cose: tanto le bastava.
La notte precedente Kim era andata a letto in stato di agitazione.
Aveva chiamato Michael Levine, l’avvocato che, facendole da agente, si occupava delle sue relazioni esterne, comprese le richieste dei
media. “Se quelle donne cercano di entrare in casa vostra”, le aveva
detto lui,“chiama la polizia”. L’immagine degli uomini in uniforme
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rese ansiosa Kim, che quella notte ebbe uno dei suoi ricorrenti incubi di guerra.A volte nel sogno c’erano bombe, altre volte colpi di
mortaio o cannoneggiamenti. Ma in tutti era una bambina. Quella
notte il sogno cominciò con lei in mezzo a un gruppo di soldati che
parlavano fra loro. Scoppiava una lite. Cominciavano a piovere colpi
di cannone. “Dobbiamo scappare!”, strillava Kim. Si metteva a correre, terrorizzata dall’idea di rimanere uccisa. Ma correre la stancava, e non sapeva quanto a lungo avrebbe potuto continuare.
Come al solito, si svegliò per sfuggire alla morte. Raggelata, fece
quel che faceva sempre: svegliò Toan. “Abbracciami”, gli sussurrò.
Quando le lacrime smisero di scendere, come accadeva ogni volta,
fu lei a dover consolare lui:“Va tutto bene. È così che devo soffrire”.
Toan si alzò per andare a cercare lavoro, e uscendo raccolse la lattina e il cartoccio. Kim pensò a come si sarebbe svolta la giornata: la
collega della fotografa, o, meglio, quella senza macchina fotografica,
su richiesta di Kim aveva acconsentito a chiamare il suo avvocato.
“Dopo che l’avrà chiamato potrò lavorare con lei”, le aveva spiegato
Kim. Per tutto il giorno Kim attese che il telefono squillasse e Levine le dicesse che le due donne avevano richiesto un’intervista.
Nemmeno la solita ora di teleromanzi in lingua spagnola riuscì a distrarla dagli interrogativi che le affollavano la mente. Come facevano
le due donne a conoscere il suo indirizzo? Perché avevano aspettato
tutto il giorno sul marciapiede? La giornata finì, segnando l’inizio
del fine settimana, in cui l’ufficio legale di Levine restava chiuso.
Quella domenica fu la chiesa a tenere occupata la mente di Kim,
dandole sollievo. La parola di Dio le faceva dimenticare ogni preoccupazione. La chiesa di famiglia era ad Ajax, a un’ora di viaggio da
Toronto con il servizio navetta della parrocchia, e laggiù nessuno,
eccetto il sacerdote, conosceva la storia di Kim. Dato che lei e Toan
erano gli unici vietnamiti della congregazione, era molto improbabile che il suo passato riaffiorasse. Ogni domenica seguivano le messe sia del mattino sia della sera, trascorrendo l’intervallo a casa di un
amico della congregazione.
Dopo la prima messa, lei e Toan andarono a prendere il figlioletto di undici mesi,Thomas, all’asilo nido della chiesa.
Kim sentì qualcuno picchiettarle insistentemente sulla spalla. Era
un altro genitore.“La sua foto è sul giornale!”, esclamò.
L’uomo, responsabile dell’acquisto dei giornali per la sala di lettu-
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ra della chiesa, sfoderò un quotidiano popolare di Toronto, il Sunday
Sun. Era l’edizione del giorno stesso, il 19 marzo 1995.“La fotografia
che ha sconvolto il mondo”, era lo strillo in prima pagina, sopra l’immagine di una ragazzina nuda che correva terrorizzata. C’era anche un
altro titolo,“La bambina della guerra è una donna e vive a Metro”, accanto a una seconda foto di Kim, con il cappotto che indossava da tutta
la settimana.
Kim sollevò lo sguardo dal quotidiano. Era chiaro che le due
donne erano riuscite a scattare la foto che volevano. “Sì”, rispose.
“Sono io la bambina nella fotografia”.
Il quotidiano che rivelò la notizia – che la protagonista di una delle
più famose foto del Vietnam era andata a vivere in Occidente – fu il
Mail on Sunday, un giornale popolare britannico. Fra gli altri, aveva
venduto la storia al Sunday Sun di Toronto, che le aveva dedicato la
seconda e la terza pagina.Ad accompagnare l’articolo c’erano immagini di Kim e Toan che spingevano la carrozzina del loro bimbo per
una strada di Toronto, e dei genitori di Kim davanti alla loro capanna
di fango a Trang Bang, in Vietnam. L’articolo cominciava così:
Per i suoi vicini del quartiere operaio di Toronto è solo un’altra giovane
madre, anonima e titubante. Ma per il mondo resterà per sempre il simbolo incarnato della brutalità sterile e del crudele costo della guerra in Vietnam. Il mese prossimo saranno vent’anni dal giorno in cui la vana campagna militare americana finalmente ebbe fine…
Delle innumerevoli immagini e pellicole cinematografiche che hanno
raccontato quella guerra terrificante e sanguinosa, ne resta una potente e
irresistibile: una ragazzina, nuda e terrorizzata, urla tutto il suo dolore mentre fugge dalle bombe al napalm sganciate sul villaggio dei suoi genitori,
Trang Bang, a 40 miglia da Saigon.
Oggi Phan Thi Kim Phuc è una donna di 32 anni. Già sfruttata dai
vietnamiti per la loro propaganda anticapitalista, sbandierata dal regime
marxista come dolente prova del colonialismo americano, oggi vive e si nasconde in Occidente, in fuga dai comunisti che l’hanno manovrata per
quasi tutta la sua vita…
Lo scoop fu ripreso dalle agenzie di stampa internazionali. Nel giro
di un paio di giorni, il telefono di Kim prese a squillare, e non si
fermò più. Non ci mise molto a stancarsi di rispondere a perfetti
sconosciuti che chiedevano di parlare con Kim Phuc. Si abituò a far
suonare il telefono a vuoto, lasciando che fosse Toan, quando era a
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casa, ad alzare la cornetta e dare il numero di telefono dell’agente di
Kim. Quando il citofono gracchiava con insistenza, la coppia andava
a spiare la persona di sotto dalla finestra sul fronte della casa. Invariabilmente si trattava di un giornalista – o almeno così supponeva
Kim, giudicando da un borsone fotografico in spalla o un taccuino
in mano. Spesso c’era un taxi in attesa. Alla fine, non ricevendo risposta, il giornalista se ne andava.
Notte e giorno la coppia teneva tirate le tende della finestra affacciata sulla strada. Kim aveva paura a uscire di casa, tormentata
com’era dal pensiero di essere sorvegliata, o che qualcuno si nascondesse in attesa dell’occasione di scattarle una foto. Ogni volta che il
citofono suonava, cercava di non far piangere il bambino e di evitare
i punti del pavimento in cui il legno scricchiolava. Il sonno non alleviava la sua ansia, ma la sprofondava nel buio dei suoi frequenti incubi. Esausta, trascorreva intere giornate nella sua vestaglia turchese.
Non era quello lo scenario che aveva contemplato quando, pochi
mesi prima, aveva deciso di contribuire al sostegno della sua famiglia
rinunciando alla sua vita privata per vendere la sua storia; sarebbe stato
il suo “lavoro”.Aveva chiesto consiglio a Nancy Pocock, ottuagenaria
attivista sociale di lungo corso. Kim e Toan, come molti rifugiati vietnamiti e salvadoregni in Canada, la chiamavano “Mamma Nancy”.
“Mamma, voglio smetterla di tacere. Per favore, come posso
fare?”, le aveva chiesto Kim.
Un amico di famiglia di Nancy conosceva un avvocato di grido
di Toronto specializzato nel mondo dello spettacolo, ma prima di
presentarglielo la donna volle essere certa che Kim avesse capito una
cosa: una volta accettato di rendere pubblica la sua vita, non sarebbe
più potuta tornare indietro.
“Sì, lo so. Non potrò tacere di nuovo”, aveva risposto Kim.
Dopo un mese di nervi tirati e incubi ricorrenti, tuttavia, Kim
cominciò a ripensarci. Temeva che il piano, elaborato con il suo
agente, di far pagare i media per la sua storia avrebbe fallito, e che,
come le due donne del quotidiano scandalistico britannico, chiunque avrebbe provato a ottenere le informazioni e le immagini che la
riguardavano senza spendere un centesimo. Sentì che gli avvoltoi dei
giornali l’avrebbero trasformata ancora una volta in una vittima.
“L’episodio di quelle due donne sul marciapiede”, si lamentò con
Toan,“è stato come una bomba che piove dal cielo”.