UNIVERSITA` PONTIFICIA SALESIANA Facoltà di Scienze dell

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UNIVERSITA` PONTIFICIA SALESIANA Facoltà di Scienze dell
UNIVERSITA’ PONTIFICIA SALESIANA
Facoltà di Scienze dell’Educazione
Curricolo di pedagogia sociale
CORSO MONOGRAFICO DI SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA
L’Inghilterra degli anni ’60: tra subculture e delinquenza giovanile
Professore: Giuliano Vettorato
Studentessa: Federica Pero
Anno Accademico 2012 – 2013
INTRODUZIONE
Lo studio delle aggregazioni giovanili, il loro contesto urbano e le loro forme, sono uno dei
più antichi oggetti di preoccupazione del mondo adulto.
Con il seguente lavoro si intende approfondire il tema della delinquenza giovanile inglese da
quelli che furono gli anni ’60 fino ad arrivare alla delinquenza e alle subculture dei giorni
d’oggi. Tutto ciò attraverso la descrizione dei fenomeni più importanti che avvennero in
questo campo.
Il primo capitolo tratta infatti delle subculture inglesi che hanno marchiato, a volte usando la
violenza, la cultura dell’Inghilterra nel corso della storia, come gli skinheads, le bande di
strada e gli hooligans.
Il secondo capito approfondisce le teorie delle subculture delinquenziali dalla Scuola di
Birmingham, analizzando il pensiero dei suoi “padri fondatori” Hoggart e Williams. I primi
Cultural Studies per opera di Hoggart e Williams riguardano la cultura popolare di massa.
L'indirizzo si consolida successivamente come corrente definita nell'area culturale britannica
intorno al Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS) dell'Università di Birmingham,
fondato dallo stesso Hoggart nel 1964. Lo scopo primario del centro era lo studio dei
cambiamenti nella cultura del proletariato inglese dal secondo dopoguerra in poi e in
particolare dei mutamenti nell'orientamento della gioventù della working class. Secondo
Hoggart e Williams la cultura è la somma delle interrelazioni tra le pratiche sociali (cioè le
azioni concretamente effettuate dagli individui sia a livello mentale che pratico).
Questo approccio si basa sull'attribuzione di senso alla realtà e allo sviluppo di una cultura
vista anche come insieme di significati e valori comuni.
È il terzo capitolo che, dopo aver fatto una panoramica sulle teorie studiate
precedentemente, studia i possibili interventi in campo educativo per apprendere la realtà
odierna e cercare di migliorarla (questo sempre nei limiti perché ciò che si leggerà saranno
per lo più proposte d’intervento).
Nella conclusione vengono delineati i pensieri e le critiche personali riguardo l’intero studio
e il lavoro svolto.
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CAPITOLO 1: “La delinquenza giovanile e le subculture inglesi dagli anni ‘60 al
giorno d’oggi”
L’Inghilterra è stato il paese che ha assistito, dal dopoguerra ad oggi, al più spettacolare
susseguirsi di subculture giovanili legate al tempo libero, mentre la vera e propria
criminalità giovanile di banda si presentava in modo meno generalizzato e minaccioso di
quanto non accadesse nelle città americane. Per di più, esistevano in Inghilterra, una
tradizione di studi dedicati alla cultura della classe operaia che ne aveva più volte rilevato
l’apparente paradosso: da un lato la cultura operaia manteneva intatte nel tempo
caratteristiche separate e del tutto antagoniste nei confronti della cultura dominante,
dall’altra aveva per lo più evitato di esprimere questo antagonismo in forma politica,
assumendo posizioni di esplicito e radicale dissenso.
L’adesione a una subcultura rappresentava per gli adolescenti della classe operaia un modo
di risolvere problemi di identità, di autostima, di auto espressione, fuori dal contesto del
lavoro o della scuola all’interno del quale erano nati. Era un modo di opporsi, anche se
parziale e limitato, ad un “sistema di significato” non condiviso.
Le subculture “spettacolari” inglesi si svilupparono e presero corpo sempre all’interno di un
territorio geografico e simbolico con contorni precisi: il quartiere operaio o una parte di
esso, il pub, lo stadio, un angolo di strada, una discoteca.
Il gruppo nasceva quindi per ragioni d’appartenenza e contrasto con la classe dominante.
Di seguito analizzeremo i più emergenti.
1.1 I primi skinheads
Skinhead: testa rasata.
È il nome di appartenenza a un movimento giovanile sorto in Gran Bretagna alla fine degli
anni sessanta: si tratta di una subcultura con connotazioni estetiche, iconografiche ed
ideologiche
contraddistinta
da
generi
musicali,
capi
d'abbigliamento,
canoni
comportamentali e beni di consumo peculiari.
Durante la metà degli anni sessanta in Inghilterra, l'irruzione del movimento hippie provocò
una scissione all'interno del movimento mod. Il primo gruppo era quello dei modaioli
benestanti che vestivano abiti costosi, frequentavano il college, connotavano una passione
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per la musica rock, facevano uso di droghe e si lasciavano coinvolgere dall'universo più in
voga. Il secondo gruppo era invece costituito dai giovani della classe lavoratrice con valori
più radicati e da un certo scetticismo verso gli hippies. Questi non erano particolarmente
affascinati dalla musica rock e si orientavano sulla musica ska, reggae, rocksteady, soul,
jazz, blues o R&B, diffusa nel Regno Unito dai rude boy, immigrati giamaicani anch'essi
appartenenti alle classi più basse. La loro condizione economica, non gli permetteva l'uso di
droghe costose, inoltre, non frequentavano college né indossavano vestiti all'ultima moda,
anzi adattarono il loro look a quello della classe di appartenenza, anche in contrasto con i
mod influenzati dal movimento hippy.
Questa costola dei mod si sviluppò nelle periferie di Londra, autodefinendosi subcultura
hard mod, frutto della fusione tra mod e rude boy, diversificata in parte dal movimento mod
original e dai modaioli benestanti, pur conservando alcuni elementi in comune con essi,
come buona parte dell'abbigliamento e la passione per gli scooter Vespa e Lambretta. L'hard
mod ereditò inoltre, grazie anche all'influenza dei rude boy, un atteggiamento più
aggressivo, violento, tradizionalista e orgoglioso di appartenere al proletariato e alla classe
lavoratrice. L'hard mod (più tardi riconosciuto come skinhead), però, non fu un movimento
politico: la posizione politica era soggettiva e non aveva a che fare con l'appartenenza alla
subcultura, anche se si può notare una posizione multietnica e antirazzista dovuta alla
socializzazione con i rude boy (neri) e al loro determinante contributo culturale nello
sviluppo del movimento.
Il movimento negli anni sessanta, dopo esser stato soprannominato in diversi modi come
"nohead", "baldhead", "crophead", "egghead", "peanut", venne riconosciuto ufficialmente e
definitivamente come skinhead nel 1969.
Questa data ispirò un motto tutt'oggi usato tra gli skinhead original, ovvero "Spirit of '69".
L'incontro tra queste due subculture giovanili nella metà degli anni sessanta, diede vita ad un
nuovo modello giovanile, basato sull’ abbigliamento, l’amore per la musica,
prevalentemente ska e reggae, e la fede calcistica: molti skinhead appartenevano infatti alla
schiera degli hooligans.
La subcultura skinhead nacque come fenomeno giovanile inglese con attitudini fortemente
rivendicative della classe lavoratrice (lotta di classe), che sfociò, anche in frequenti scontri
con gruppi considerati rivali: pakistani, hippie, omosessuali (lotta di razza). Questi scontri
vennero sarcasticamente chiamati boot-party (risse con gli stivali).
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Bisogna precisare che non solo gli skin erano ben organizzati in squadre (crews), ma c'erano
altre bande con le quali avvenivano gli scontri, fra le quali gli immigrati appartenenti ad
altre subculture. Ciò avveniva per l'esigenza di spazio vitale per gruppi di persone che
sceglievano l'alternativa al conformismo; senza contare che in alcuni casi nelle risse erano
coinvolte anche le forze dell’ordine. Per questo motivo il potere dominante etichettò gli
skinheads come principali colpevoli degli scontri con le forze dell'ordine.
Di conseguenza, durante la prima metà degli anni settanta, la subcultura skinhead conobbe
un graduale declino dovuto a duri interventi repressivi, quali il divieto d'ingresso negli stadi,
nei bar e discoteche: si stava concludendo il suo primo ciclo vitale.
In seguito all'esplosione del punk rock si ebbe un'ondata di risveglio e il revival
skinhead che riprendeva gli antichi valori della prima fase, si trovò a condividere la vita di
strada con la subcultura punk, che per spontaneità e irriverenza somigliò, almeno
inizialmente, allo stesso germe di quella skin.
1.2 Gli scooter boys
La subcultura degli scooter boy ha avuto origine nel Regno Unito nei primi anni Ottanta,
emergendo dalle subculture dei mod e degli skinhead, ma era considerato un movimento
separato e distinto dagli ultimi due sebbene abbia avuto molte influenze in comune.
Il nome proveniva dalla forte passione per gli scooter come la Vespa e la Lambretta.
Spesso organizzavano dei raduni nelle principali città britanniche, raduni che prevedono
accampamenti, concerti live, musica, DJ, e varie attività relative agli scooter.
Come subcultura avevano un proprio tipo di abbigliamento molto preciso: giubbotti bomber,
parka, giacche di pelle o di jeans spesso adornate con toppe dei vari raduni o gare, pantaloni
di jeans o mimetici, anfibi Doctor Martens, scarpe Adidas, polo, e camicie Ben Sherman.
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1.3 Gangs e bande di strada
Quello delle gangs e delle bande di strada è uno dei fenomeni inglesi più antichi, basti
pensare a come Charles Dickens, nel 1837, scriveva il primo romanzo sociale Oliver Twist,
romanzo in lingua inglese che metteva in rilievo i mali della società inglese ottocentesca: la
povertà, il lavoro minorile, la criminalità urbana e la intrinseca ipocrisia della cultura
vittoriana.
La criminalità, quindi, specialmente quella organizzata in gruppi e sottoforma di gangs, è
sempre stata una “macchia” presente nella cultura inglese che, con il passare del tempo, si è
sviluppata e ingrandita fino ad arrivare negli Stati Uniti.
Se prima (per esempio nell’età vittoriana), le bande e la delinquenza di strada erano
riconducibili ad un fenomeno emerso per ragioni di povertà, la criminalità odierna, come
quella degli anni ’60, alla base delle proprie fondamenta ha sempre l’unione dei membri del
gruppo, ma gli atti di violenza sono il mezzo per esprimere la forza della gang, per
delimitare il proprio territorio ed essere “conosciuti” fino a raggiungere i media.
Proprio perché è un fenomeno con origini remote, le gangs di strada del giorno d’oggi hanno
come modelli da seguire le gangs più famose che hanno fatto “la storia” della delinquenza
inglese.
Qui di seguito sono riportate alcuni nomi delle maggiori bande inglesi di ieri e di oggi:
Tamil Snake: gang di strada inglese. I capi del gruppo ad oggi non sono stati ancora
identificati sebbene all'organizzazione siano imputati diversi crimini, dalle estorsioni ad
omicidi.
Quality Street: una delle più influenti gang di strada a Manchester durante gli anni Sessanta e
Settanta.
Elephant and Castle Mob: una delle più importanti gang di strada del malaffare londinese
durante
il
periodo
compreso
tra
le
due
grandi
guerre
del
XX
secolo.
Erano rivali del boss italo-inglese Charles "Darby" Sabini insieme alla gang dei Birmingham
Boys. Furono soppiantati dallo stesso Sabini e dai gruppi siciliani alla fine della seconda
guerra mondiale e scomparvero definitivamente dallo scenario criminale della metropoli
inglese dopo qualche anno.
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Peckham boys: gang di strada dell'area di Peckham, a Londra.
La gang è composta soprattutto da ragazzi di origine afro-caraibica. I membri sono divisi in
gradi: tinies, youngers e olders, a seconda dell'età, e sono circa un centinaio.
Ghetto Boys: ("i ragazzi del ghetto"): gang di strada che opera nei quartieri londinesi di New
Cross e Deptford . I componenti sono di origine afro-caraibica e molti dalla zona di Borough
of Lewisham di Londra. La maggior parte degli elementi del gruppo sono minorenni.
Birmingham Boys: ("i ragazzi di Birmingham"): importante gang di strada londinese durante
gli anni venti del XX secolo.
Hoxton Gang: gang di strada operante nel distretto di Soho, a Londra, nel periodo tra le due
grandi guerre del XX secolo. È stata una delle tante gang che si contrappose violentemente
al boss Charles "Darby" Sabini e alla mafia italiana, soprattutto per il controllo delle
scommesse clandestine (come i Birmingham Boys).
Oggi quello delle gangs criminali in Gran Bretagna, è un fenomeno allarmante e molto
difficile da arginare nonostante la continua attività delle forze dell’ordine. Secondo
l’Agenzia inglese che controlla il crimine organizzato, le gangs si concentrano
principalmente intorno a Londra, Manchester, Liverpool e Birmingham, dove vengono
registrati oltre il 65% degli omicidi e dei crimini, ma il fenomeno è comunque diffuso in
tutta la Gran Bretagna.
Di solito queste bande gestiscono il traffico di zona della droga, della prostituzione, delle
scommesse clandestine, dei furti d’auto, dei furti nelle abitazioni e, recentemente, hanno
cominciato anche a controllare il traffico degli immigrati attraverso la produzione illegale
dei visti, necessari per tutti coloro che non provengono dalla Comunità Europea e intendono
rimanere in Inghilterra.
Spesso, come accade anche in Italia, sono gli stessi connazionali che sfruttano coloro che
arrivano alla ricerca di una seconda possibilità.
I crimini imputati alle gangs odierne sono moltissimi e il numero degli adepti sembra
moltiplicarsi di anno in anno. In molti quartieri di Londra e Manchester la gente rispetta una
sorta di coprifuoco e vive nel terrore di imbattersi in questi gruppi che non risparmiano
nessuno. Non capita di rado di leggere sui giornali di violenze sessuali, borseggi e pestaggi
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causati da queste bande che spesso agiscono senza un apparente motivo o sotto l’effetto di
stupefacenti.
Secondo un recente censimento delle forze di polizia britannica, circa un quarto dei membri
delle gangs di Londra si riconosce oggi nei Bloods o nei Crips, due note bande americane
che si sono contese per anni il traffico della droga a Los Angeles a colpi di pistola,
seminando il panico e macchiandosi di moltissimi delitti.
Secondo un’inchiesta eseguita dal quotidiano “The Sun”, moltissime bande criminali si
stanno associando per cercare di appartenere a queste supergangs di cui hanno ripreso il
modus operandi e persino il gergo.
Secondo le statistiche dell’Osservatorio della criminalità inglese, si abbassa sempre di più
l’età dei minori in possesso di un coltello o, addirittura, di un’arma da fuoco.
Il quotidiano Daily Telegraph ha riportato recentemente che, secondo Scotland Yard, al
momento ci sono oltre 1.500 gangs composte da adolescenti dediti al crimine, che
posseggono coltelli e armi da fuoco e non esitano ad utilizzarli.
Le gangs delimitano i loro territori, lasciando graffiti ovunque con la loro firma o il codice
postale che li identifica.
Ogni anno negli ospedali inglesi arrivano circa 5mila persone con ferite da arma da taglio o
vittime di pestaggi. Spesso questi reati sono commessi da ragazzini dodicenni, che per una
banale lite si accoltellano fino alla morte.
Inoltre, secondo un rapporto diffuso dal Ministero dell’Interno inglese, esistono ben 2.800
gang criminali attive nelle strade e nei quartieri periferici di Londra, Manchester,
Birmingham, Bristol, Leeds e Liverpool e, secondo ammissioni fatte dalla stessa polizia al
Times, le forze di sicurezza non sono in grado di fronteggiare efficacemente la situazione a
causa della mancanza di equipaggiamenti e di analisi approfondite del fenomeno,
dell’inadeguatezza della sorveglianza delle strade e della carenza di un reale coordinamento
fra le forze dell’ordine.
Al giorno d’oggi le autorità britanniche hanno preso pienamente coscienza del problema e
hanno iniziato a fronteggiare la situazione, anche grazie a consulenze rese dagli esperti
dell’FBI e delle polizie di New York e Los Angeles sul fenomeno delle gang.
L’attività delle forze dell’ordine inglesi si muove su un doppio binario: da un lato, è stata
inaugurata una campagna di informazione da parte di psicologi e ufficiali di polizia nelle
scuole dei quartieri più disagiati, onde privare le bande del terreno fertile per poter attecchire
nelle coscienze dei più giovani, limitando l’attività di reclutamento di nuove leve; dall’altro,
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è stata lanciata un’offensiva a tutto campo dalla polizia e dalla magistratura, a livello non
più locale ma nazionale, utilizzando i modelli di coordinamento interforze già collaudati con
successo nelle azioni di contrasto al terrorismo, quali la Serious Organized Crime
Agency (SOCA), l’agenzia preposta alla repressione del crimine organizzato in tutto il
Regno Unito.
1.4 Gli hooligans
La parola hooligans nasce nei primi decenni del Novecento.
Riguardo l’origine della parola ci sono varie ipotesi: potrebbe derivare dalla "Hooley's
Gang", banda di delinquenti nata nel quartiere londinese di Islington, oppure dal termine
irlandese "hooley" che significa festa sregolata. Il fenomeno degli hooligans associato al
football si diffonderà solamente alla fine degli anni Sessanta.
Alla fine dell’Ottocento con la regolarizzazione del gioco, a seguito della fondazione della
football association, in Inghilterra il calcio diviene uno sport professionistico e di
conseguenza seguitissimo. Le bande giovanili di inizio secolo portano alle partite i
comportamenti ed i linguaggi usati nelle strade, appropriandosi quindi del football che
diventa sport per la working class, la classe operaia. Sono i ragazzi dell’età vittoriana, i
victorian boys che, fieri di essere temuti dalle classi più agiate, monopolizzano l’ambiente
circostante il gioco del calcio, dando luogo ai primi disordini con tentativi di invasioni di
campo ed insulti a giocatori ed arbitri. Giornali dell’epoca di Londra e di Glasgow
documentano svariati disordini: per la strada le bande attuano rappresaglie a chiunque
attraversi la strada che loro giudicano di loro proprietà (il cosiddetto “holding the street”).
Il passaggio alla partita di football è automatico e nessuno quindi deve attraversare lo spazio
attorno al campo di gioco.
Lo scenario degli “ hooligans” di inizio Novecento cambia radicalmente con l’inizio della
prima guerra mondiale. I campionati di calcio vengono sospesi e, quando si torna a giocare,
il pubblico che segue il football non proviene più esclusivamente dalla working class: sono
presenti membri delle classi più altolocate. Per questo motivo che nasce il mito del tifoso
inglese sportivo ed educato che resisterà fino agli inizi degli anni ’60.
E’ in questi anni che anche le donne si avvicinano per la prima volta al fenomeno calcio.
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Mentre l’Inghilterra assiste impotente allo sgretolarsi dell’impero coloniale tornano alla
ribalta i ragazzi della working class, che accentuando lo stile dei victorian boys, creano una
rough working class ( rude classe operaia ) dando luogo al fenomeno giovanile dei teddy
boys. Sono ragazzi che vogliono recuperare i valori di inizio secolo quali il maschilismo, il
sessismo ed appunto la rudezza. Intorno agli stadi tornano violenza e disordini, specie nei
derby tesissimi (anche per ragioni religiose) tra Celtic e Rangers a Glasgow e tra Liverpool
ed Everton a Liverpool.
Ma l’Inghilterra agli inizi degli anni Sessanta è l’ombelico del mondo: moda, musica,
tecnologia, tutto quello che nasce in Inghilterra diviene tendenza.
Nasce in questi anni, come spiegato precedentemente, il movimento skinheads che si
approprierà delle football ends (le curve degli stadi inglesi) alla fine degli anni Sessanta.
Si comincia a vedere negli stadi una nuova tipologia di tifoso: capelli rasati, sciarpe con i
colori della propria squadra, giubbotto imbottito e ai piedi anfibi con punta in metallo. E’
proprio quest’ultima caratteristica che da origine al nome del nuovo gruppo giovanile:
vengono soprannominati i boot boys (boot, stivale) e il loro credo è la violenza.
Gli skinheads considerano lo stadio un luogo d’aggregazione, un punto fermo dove poter
affermare la propria autorità basandosi sulla violenza. Questi ragazzi si conoscono a
prescindere dallo stadio, spesso fanno parte di gangs di strada dei vari sobborghi cittadini,
odiano visceralmente i mods, colpevoli secondo loro di sminuire la figura rude e maschilista
della classe operaia.
Le football ends (le tribune poste dietro le porte degli stadi inglesi) diventano territorio
skinheads e i vecchi tifosi, anziani e pacifici, vengono in fretta emarginati ed allontanati.
E’ in questo momento storico che nascono i primi nomi per le gangs da stadio. Sono nomi
che incutono volutamente timore: ad esempio Headhunters (cacciatori di teste) tifosi del
Chelsea, Zulu Warriors (guerrieri Zulu) tifosi del Birmingham, Suicide Squad (squadra
suicida) tifosi del Burnley, Red Army (armata rossa) tifosi del Manchester United, e gli Inter
City Firm tifosi del West Ham.
Nello stesso momento anche le ends prendono per la prima volta un nome: nascono la Kop
di Liverpool, la North Bank di Londra (sponda Arsenal), la Shed sponda Chelsea, la
Stretford End del Manchester.
Conseguenza di ciò sono le battaglie fra gruppi di tifoserie avversarie, che hanno l’unico e
solo obiettivo di prendere letteralmente la end (take an end) mettendo in fuga il gruppo
nemico.
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Il dato sconcertante è la facilità con cui queste bande generano scontri all’interno e
all’esterno dello stadio, dando vita al panico tra il pubblico pacifico. Motivo di tale facilità è
la completa impreparazione delle forze dell’ordine alla nuova ondata di violenza.
Moltissime sono le partite interrotte per le invasioni di campo, facilitate dalla totale assenza
di barriere a bordo campo. In funzione di ciò la televisione inglese, tramite la trasmissione
“Match of the day”, inizia a trasmettere le immagini delle partite e il fenomeno diventa
visibile all'intera nazione che chiede provvedimenti. Vengono sistemate barriere per isolare
le curve, sperando di arginare il fenomeno delle invasioni di campo, le forze dell’ordine
vengono impiegate dentro e fuori gli stadi e vengono introdotte le telecamere a circuito
chiuso. Le misure adottate non frenano però la violenza, al massimo la spostano in luoghi
vicini agli stadi.
Gli organi di stampa fanno da cassa di risonanza alle violenze hooligans, ma a questi ragazzi
leggere le loro gesta sui giornali non fa altro che piacere.
Nascono poi le rivalità fra gruppi, specie nei derby londinesi fra West Ham, Milwall,
Tottenham, Arsenal e Chelsea, gruppi londinesi che però fanno squadra quando dal nord
scendono le bande organizzate del Manchester o del Liverpool. Si creano così i cosiddetti
gemellaggi: gruppi che aiutano altri nel tentativo di contenere e superare l’altro, spesso per
vendicare sconfitte subite negli scontri precedenti.
Il primo morto accertato in conseguenza del fenomeno hooligan è datato 1974 e nello stesso
anno si verificano anche i primi incidenti di tifosi inglesi all’estero. Altri morti si registrano
nel 1976 e nel 1977 e paradossalmente tifare e cantare all’inglese diventa una moda nelle
tifoserie di tutta Europa.
È nel 1974, dopo un’invasione di campo nel derby Manchester City-Manchester United, che
vengono elevate le barriere di separazione intorno alla Streetford End, operazione che oltre a
unire e a dare il senso di orgoglio per l’isolamento dai tifosi normali, fa crescere il loro
prestigio tra tutte le ends (curve) del Paese.
Verso la fine degli anni Settanta si assiste ad una inversione di tendenza del fenomeno
violenza che innescha un meccanismo perverso nella classe politica e nei mass media: ci si
convince che gli hooligans vanno messi sullo stesso piano delle mode giovanili quali i mods
e i punk e che, come nascono, muoiono. Ciò autorizza a non prendere provvedimenti su
misura né a reprimerli con asprezza.
Tali considerazioni, molto superficiali, si dimostrano come il classico boomerang per la
società inglese che assisterà agli anni più duri e difficili della piaga hooligans. Piaga che è
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ben presente anche in Galles, quando a seguito di una partita, un tifoso muore. Ne seguono
altri e la politica e l’opinione pubblica tornano a parlare di fenomeno da arginare con
provvedimenti seri. Alcune tifoserie, in particolare quelle del Chelsea, del Leeds e del West
Ham, allacciano rapporti con il Fronte Nazionale di estrema destra, che vedevano le ends
come un possibile reclutamento politico e un attivo braccio armato.
È così che la politica inglese addossa la colpa della violenza negli stadi all’estrema destra,
continuando a sottovalutare il fenomeno di ribellione e caos generato dalle tifoserie
britanniche. Lo stesso Fronte nazionale non metterà mai radici profonde nelle ends, anche
perché gli stessi tifosi rifiutano il sistema gerarchico esistente in politica: il gruppo è gruppo
e agisce in massa, senza un ordine né un vero e proprio capo e sono gli stessi hooligans a
rifiutare imposizioni dall’esterno.
Anche la nazionale inglese non rimane esente dal fenomeno hooligans e sono proprio gli
anni Ottanta che registrano incidenti di tifosi al seguito della squadra dei tre leoni.
Ogni volta che un club inglese, o la nazionale, gioca all’estero, si instaura un clima di
tensione e di guerriglia urbana, spesso alimentato dagli organi di informazione, in primis
quelli britannici, che nella maggior parte dei casi ingigantiscono anche fatti occasionali e
marginali contribuendo alla nomina, spesso a torto, di “feccia d’Europa” dei supporters
inglesi.
Nonostante le nomine negative attribuite, il “fenomeno” degli hooligans sarà uno dei più
copiati dai tifosi di tutta Europa.
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CAPITOLO 2: “ Le teorie delle subculture delinquenziali della Scuola di Birmingham”
La letteratura sociologica che si occupa dello studio del fenomeno delle bande in
connessione con il tema delle subculture giovanili, parte dall’Inghilterra, nello specifico
dalla Scuola di Birmingham, e approfondisce lo studio delle prime forme di resistenza a
partire dagli anni Cinquanta.
L’analisi dei fenomeni di gruppo giovanili basati sulla costruzione di un’immagine comune
e di gusti e stili capaci di identificare il gruppo, e non necessariamente intesi come devianti,
risale proprio in questi anni e l’Inghilterra ne è assoluta protagonista: in quel periodo infatti
fa la sua comparsa un’enorme varietà di culture spettacolari, le cui caratteristiche si
differenziano però da quelle americane per la minore violenza e i caratteri meno minacciosi.
In Inghilterra, inoltre, i quartieri operai hanno mantenuto una particolare organizzazione
urbana e gli studi legati alla cultura operaia hanno una radicata tradizione.
Il Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS), la Scuola di Birmingham, fondato da
Richard Hoggart nel 1964 e in seguito diretto da Stuart Hall, fa riferimento alla teoria
marxista e in particolare alla teoria dell’egemonia di Gramsci, dove per egemonia ci si
riferisce a una situazione in cui un’alleanza provvisoria di certi gruppi sociali può esercitare
una “autorità sociale totale” su altri gruppi subordinati, attraverso la conquista e la
regolamentazione del consenso, in modo che il potere delle classi dominanti appaia insieme
legittimo e naturale.
La sfida all’egemonia che le sottoculture rappresentano non è emessa in maniera diretta,
bensì in “maniera obliqua”, attraverso i principi di unità e coesione della cultura dominante
che contraddice il principio del consenso.
Uno stile sottoculturale è definito quindi attraverso la selezione, la combinazione e la
ricontestualizzazione di oggetti, simboli e parole appartenenti a orizzonti culturali differenti,
rimossi dal loro contesto originario, privati di alcuni dei loro caratteri convenzionali e
riutilizzati dai membri del gruppo in un insieme nuovo e coerente nel quale acquistano uno
speciale significato.
Questa violazione simbolica dell’ordine sociale è, secondo gli studiosi di Birmingham, tipica
della cultura della classe operaia e viene analizzata secondo alcune direttrici teoriche ben
precise. Innanzitutto, la classe sociale, e non l’età o la generazione, è l’elemento esplicativo
della produzione di subculture giovanili.
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In secondo luogo, la produzione di subcultura, e non la devianza, spiega il comportamento
giovanile di banda. Le subculture nell’Inghilterra di quegli anni sono dunque nuove e
mutevoli espressioni della tradizionale cultura operaia, ed esprimono antagonismo simbolico
nei confronti della cultura egemone: quella della classe media. Le subculture, infine, pur
essendo alimentate e generate dall’industria culturale, assumono una posizione di autonomia
e di iniziativa anche nei confronti della moda, indirizzandone i movimenti e usandola in
modo imprevedibile e innovativo.
Non si tratta dunque di sostituire l’appartenenza di classe all’età, ma di analizzare le precise
modalità secondo cui l’età agisce come mediazione della classe sociale.
La resistenza alla cultura dominante diventa un modo per attribuire significato alla propria
marginalità.
In più le reazioni dei giovani della working class, agli ambiti classici di negoziazione tra
classe ed età (scuola, lavoro, famiglia), si presentano congiuntamente ad un altro ambito
della vita: quello del tempo libero. Il tempo del divertimento è considerato il luogo del
tradizionale risarcimento per i membri della classe operaia, il momento che fornisce
gratificazioni che non possono essere soddisfatte né sul lavoro né nello studio.
L’appartenenza di classe trova in questo contesto diverse forme di espressione in cui
esercitare delle scelte, determinare la propria autonomia, tentare di assumere maggiore
controllo sulle proprie condizioni di vita.
Le subculture mod e skinhead, per esempio, vengono interpretate
come opposizioni
simboliche che permettono la ricostruzione di un’identità minacciata: i mod sono una
caricatura dell’immagine di correttezza che la cultura dominante associa all’immagine di
ascesa sociale; gli skinhead effettuano lo stesso procedimento in senso inverso: riassumono
nel loro stile rozzo e provocatoriamente maschile i classici valori della cultura operaia.
L’esistenza delle nuove sottoculture giovanili è quindi, per gli studiosi della Scuola di
Birmingham, manifestazione dell’antica cultura operaia. Di questa le varie subculture
continuano a presentare quell’atteggiamento di opposizione e di separatezza nei confronti
della classe dominante. L’attenzione che la scuola pone alle differenziazioni interne alla
cultura giovanile, precedentemente mai analizzate, è importante: non tanto quello posto alle
differenze di classe, bensì a quelle territoriali, etniche e generazionali.
La resistenza simbolica messa in atto dalle sottoculture permette così di conquistare tempo e
spazio (sociale e simbolico), marcando i confini di un proprio territorio all’interno della
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città/metropoli: il vicolo, la strada, la discoteca, la notte, l’automobile, lo stadio, il “doing
nothing”.
Riassumendo in forma schematica i fondamenti teorici dei Cultural Studies, è possibile
individuare quattro concetti chiave: l’ideologia che riguarda il rapporto vissuto dagli uomini
con il mondo; l’egemonia, secondo la prospettiva di Gramsci e correlata al concetto di
cultura popolare; l’autonomia della cultura e dell’ideologia; il genere, inteso come modalità
di fruizione e come pratica d’uso dei testi mass-mediatici.
2.1 Hoggart
Nasce a Leeds, in Inghilterra, studia nell’università della sua città natale e nel 1946 inizia la
sua carriera accademica nell’università di Hull (1946-1959), carriera che continua a
Leicester (1959-1962).
Hoggart ebbe modo di vivere a presa diretta con la cultura proletaria, sia per le sue origini
che per il suo intenso coinvolgimento in iniziative di educazione degli adulti.
Proprio per questo motivo il suo interesse si muove verso la progressiva scomparsa di una
genuina cultura popolare e sulle modalità di funzionamento della società urbana dell’epoca,
società caratterizzata da forme di aggregazione sempre più complesse.
Nel suo testo, The uses of literacy, del 1957, analizza sia come stesse avvenendo, in modo
progressivo, la scomparsa della sua “vecchia” classe lavoratrice e come, invece, ne stesse
affiorando una “nuova”.
Il libro è infatti diviso in due parti: “l’ordine vecchio” e “l’ordine nuovo”. Nell’ordine
vecchio egli descrive la cultura della classe lavoratrice della sua infanzia (anni Trenta) come
una cultura “viva e tradizionale”; mentre nell’ordine nuovo afferma la minaccia della cultura
tradizionale della classe lavoratrice dalle nuove forme di divertimento di massa degli anni
Cinquanta.
I dati descritti che provano il declino culturale rappresentato dalla cultura popolare degli
anni ’50, sono tutti materiali raccolti durante la sua attività di lettore e ricercatore
universitario: il vecchio ordinamento si basa sull’esperienza personale, il nuovo sulla ricerca
accademica.
L’oggetto del suo attacco non è il “declino morale” della classe lavoratrice, ma quello che
egli percepisce come il declino della “serietà morale” della cultura prodotta per la classe
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lavoratrice. Conferma però la sua fiducia nella classe operaia a resistere a gran parte delle
manipolazioni della cultura di massa: è convinto che essa è dotata di una forte capacità di
sopravvivenza ai cambiamenti, adattandosi e assimilando tutto ciò che volesse del nuovo, e
ignorando tutto il resto.
Hoggart descrive l’estetica della classe lavoratrice come l’interesse per il dettaglio privato
del quotidiano , un interesse verso ciò che fosse già conosciuto. Inoltre, il consumatore
operaio, non cerca una via di fuga dalla vita ordinaria, come invece fa l’uomo della classe
dominante, ma ricerca la sua intensificazione.
È il nuovo divertimento degli anni ’50 a sovvertire quest’estetica: i piaceri del divertimento
di massa non solo sono irresponsabili, ma distruggono la stessa cultura di base della classe
lavoratrice più antica e sana.
In questo modo Hoggart anticipa la dinamica molto sfaccettata delle trasformazioni cui
sarebbe di lì a poco andata incontro la cultura operaia e urbana inglese, con gli effetti della
massificazione e della americanizzazione dei consumi. Le ricerche di Richard Hoggart,
quindi, analizzano la cultura popolare come una strategia di resistenza agli effetti congiunti
della cultura dominante e della cultura di massa.
Hoggart, pur sostenendo di non essere animato da un intento politico quanto dalla
preoccupazione del declino in Inghilterra delle istituzioni di famiglia, di comunità e di
classe, utilizza una serie di strumenti e indicazioni mutuati dall’antropologia nell’analisi del
folklore che assumono un carattere inequivocabilmente politico. Ciò fu determinante per la
nascita della Università di Birmingham, dove fonda, nel 1964, il Center for Contemporary
Cultural Studies del quale è direttore fino al 1973 per poi essere sostituito da Stuart Hall.
Sia Richard Hoggart che gli altri esponenti del Cultrual Studies non hanno una formazione
prettamente sociologica: Hoggart è un esperto di letteratura inglese così come Raymond
Williams, a cui pure si ispirano i primi lavori della Scuola di Birmingham.
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2.2 Williams
Nasce a Llanfinhangel Crucorney, un paese del Galles, nei pressi di Abergavenny.
La famiglia di Williams è piuttosto modesta. Suo padre lavora come segnalatore presso la
cabina della stazione ferroviaria del suo villaggio. I suoi avi erano semplici contadini oppure
operai, quindi è presente una forte consapevolezza della propria collocazione sociale, dove il
senso di una organic community era molto vivo.
Williams assolve agli obblighi scolastici superiori frequentando la King Henry VIII
Grammar School di Abergavenny. Poi, entra al Trinity College a Cambridge. Nell’inverno
del 1940, davanti agli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale, interrompe gli studi per
arruolarsi nell’esercito: è assegnato, con il grado di ufficiale, all’artiglieria Anti-Tank.
Inviato in Normandia all’indomani del D-Day, segue l’esercito in Germania, sino al 1945.
Nel 1946, torna a Cambridge e trova lavoro per alcuni anni come tutor nei corsi per
l’educazione degli adulti presso l’University of Oxford.
Nel 1958, pubblicando lo studio “Culture and Society”, acquisisce la reputazione di studioso
della cultura nell’epoca della società industriale, confermata nel 1961 con la pubblicazione
di “The Long Revolution”. E’ subito invitato a tornare a Cambridge, per assumere la cattedra
di Professor of Drama, peraltro da lui retta dal 1974 al 1983.
Nel 1973 è, per un anno, Visiting Professor of Political Science presso la Stanford
University, dove compie gli studi sulla televisione come forma culturale e tecnologia delle
comunicazioni di massa. Nel 1983, lascia Cambridge per ritirarsi a Saffron Walden, nel suo
amato Galles.
I concetti chiave per comprendere le teorie di Williams sono i seguenti:
Culture (Cultura). Williams scrive: “L’idea di cultura poggia su una metafora: curare lo
sviluppo naturale. E in verità, è sullo sviluppo, come metafora e come fatto, che in definitiva
si deve porre l’accento.”
In che modo? Quando si parla di cultura e di comunicazione il pensiero va immediatamente
al concetto di “comunità”. Nella società industriale, però, convivono due nozioni di
comunità: una di servizio, propria delle classi medie, l’altra di solidarietà, specifica delle
classi lavoratrici. La cultura di massa sintetizza l’una con l’altra disattivando l’idea di
“mutua responsabilità attiva” che è parte della comunità come servizio, enfatizzando il
17
servizio (sociale) come prestazione di funzioni. Da qui, i Cultural Studies affermano che la
cultura dominante, da un lato, influenza in modi diversi i diversi gruppi sociali, dall’altro, è
alla base di un processo di conflitto e negoziazione tra i gruppi sociali.
Ideology (Idéologie, Ideologia). Ritenendo questo termine indispensabile nell’analisi
sociologica per la sociologia della cultura, Williams chiede di interrogarne l’uso, per vedere
se è usato per descrivere le credenze formali e consapevoli di una classe sociale o di un
gruppo sociale; o la visione del mondo di una classe o di un gruppo, ovvero gli
atteggiamenti, le abitudini, i sentimenti, i comportamenti e gli impegni inconsapevolmente
assunti. L’analisi, allora, deve investire l’area delle prospettive generali in cui si manifesta la
“cultura mutevole” di un classe sociale a valenza storica: in proposito, occorre considerare:
1) la “falsa apparenza” vissuta;
2) la pratica sociale reale;
3) la produzione culturale manifesta.
In tal modo, Williams focalizza il senso del termine “ideologia” nel rapporto tra il peso
dell’uso linguistico, il senso delle credenze organizzate e la produzione culturale che
scaturisce dalla riproduzione sociale di tali credenze.
Inteso come produzione di significati da parte delle credenze o delle istituzioni culturali
storiche o delle organizzazioni di genere – tra cui occorre annoverare anche i mezzi di
comunicazione di massa –, il concetto di “ideologia” ha avuto un ruolo centrale all’interno
dei Cultural Studies. A ciò, va associato il concetto di “egemonia”, ripreso dalle opere di
Antonio Gramsci, come forma di controllo sociale esercitata essenzialmente tramite la
sovrastruttura sociale (tradizioni, credenze, cultura letteraria, arti, ecc).
Al riguardo, Wiliams parla invece di “superstruttura”, riferendosi alle istituzioni culturali;
alle forme culturali di consapevolezza; alle pratiche politiche e culturali.
Mass Communication (Comunicazioni di massa). L’industrializzazione della società, la
concentrazione urbana delle classi lavoratrici e l’avvento della società di massa hanno
rappresentato una minaccia per la cultura. Le comunicazioni di massa sono il prodotto più
evidente della democrazia contemporanea che fa ricorso ai nuovi mezzi di comunicazione
(stampa popolare, telegrafo, fotografia, pubblicità, fumetti, cinema, radio, televisione) come
fattori di progresso tecnico e formula politica di governo della comunicazione per le masse.
18
Circa gli effetti, Williams scrive: “Se il nostro scopo è l’arte, l’educazione, la trasmissione di
informazioni o opinioni, la nostra interpretazione sarà nei termini dell’essere razionale e
interessato. Se, d’altra parte, il nostro scopo è l’influenzare (persuadere un gran numero di
persone ad agire, sentire, pensare, conoscere in un determinato modo), la formula adatta sarà
quella delle masse.”
Ma la comunicazione non è solo trasmissione, è anche ricezione, quindi risposta. Quindi
dobbiamo chiedere alla scienza della comunicazione di interrogarsi sul suo modo di essere,
da un lato, sulle capacità di comunicare dei mezzi di comunicazione, dall’altro.
Technology and Cultural Form (Tecnologia e Forma culturale). Sono i due capisaldi che
fanno della televisione il mezzo principale delle comunicazioni di massa nella seconda metà
del Novecento. La televisione è una formazione culturale ad alto sincretismo, generata da
una nuova tecnologia che polarizza degli assetti economici, interessi sia privati che pubblici,
sistemi di produzione e dinamiche di distribuzione e consumo, e forme di tipo drammatico.
La televisione in quanto tecnologia culturale “ha cambiato il mondo”: è un mezzo di massa
per l’informazione e l’intrattenimento; trasforma le istituzioni e le forme di relazione
sociale; cambia la nostra percezione del reale, quindi le relazioni interindividuali ed il
rapporto con il mondo; muta la scala e la forma della nostra società; sottrae vitalità ed
importanza agli altri mezzi di comunicazione; deprime i processi di vita familiare e sociale;
fornisce in maniera centralizzata le risorse per l’intrattenimento, la formazione
dell’opinione, i modelli di comportamento; incrementa l’economia del consumo di
tecnologie per la vita domestica; esalta i fattori di passività psicologica e inferiorità
culturale; è a servizio dello sfruttamento sociale dei bisogni di una società grande,
complessa, ma atomizzata.
A Williams è riconosciuto il merito di avere introdotto, da una parte, gli studi culturali
anglosassoni all’opera di Antonio Gramsci, nonché il concetto di “ideologia come cultura”;
dall’altra, aver promosso la connessione tra gli studi storici della cultura industriale, la
sociologia culturale e la sociologia dei mezzi di comunicazioni di massa.
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2.3 Altre teorie
Secondo Sherif, psicologo statunitense a cui si devono importanti contributi alla psicologia
sociale e alla ricerca sulla formazione dei gruppi, le bande di adolescenti sono un fenomeno
costante e normale delle società, che diventa particolarmente visibile nelle periferie delle
grandi città ma che riguarda in realtà, tutti gli strati sociali. Secondo la sua ricerca, anche
quando queste aggregazioni svolgono attività illegali, non è quasi mai l’attività illegale in se
stessa ciò che costituisce la ragione centrale dell’aggregazione: alla base di tutte le
aggregazioni giovanili sembra esistere sempre quel bisogno di socialità e di reciproco
riconoscimento che solo il gruppo dei pari può soddisfare, anche se poi il gruppo stesso può
assumere fisionomie molto diversificate, in rapporto anche alle risorse culturali esistenti in
un certo contesto spazio-temporale.
Gli elementi che strutturano, e definiscono, un gruppo sono: l'organizzazione di ruoli e
status, la divisione funzionale, la stratificazione delle posizioni ricoperte e del potere
correlato, un complesso di norme e valori regolanti i comportamenti individuali e collettivi.
Ogni gruppo non ha vita isolata, ma opera in situazioni di scambio con altri aggregati.
Per effetto di questo collegamento, ogni aggregazione sociale muta la sua struttura nel corso
del tempo e le variazioni longitudinali avvengono a scopo di perfezionare l'adattamento
all'esterno.
Moscovici, psicologo e sociologo degli anni ’50, ritiene che tutte le persone possono essere
sia fonte che bersaglio di influenza sociale anche se in misura diversa e in funzione del loro
status. Secondo lo psicologo-sociologo, spesso la coscienza di appartenere ad un gruppo
minoritario, sollecita l’assunzione di atteggiamenti innovativi e di comportamenti di rottura
che tracciano le linee di un’identità sociale, elaborata dai membri, in una auto
rappresentazione più gratificante. Quando il gruppo minoritario non vive la propria
condizione in modo decisamente negativo, ma la marginalità viene accettata e rivalutata
positivamente, può accadere che il gruppo ricorra a diversi strumenti per darsi un’immagine
sociale alternativa, in opposizione ai caratteri dominanti nella società più vasta.
La visione di Farrington rientra in quella della “carriere criminali” e la sua teoria viene
inserita nell’ambito delle teorie psicologiche della criminalità. Gli studi effettuati hanno
permesso di costruire una nuova teoria mettendo in luce che la delinquenza è solamente uno
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degli elementi di una più ampia sindrome antisociale che ha inizio nell’infanzia e persiste
nell’età adulta.
Secondo Farrington il comportamento criminale è spesso preceduto da forme di antisocialità
infantile come bullismo o aggressività, atti di crudeltà, da iperattività e disattenzione. È poi
seguito da forme di antisocialità adolescenziale, come atti di vandalismo, rifiuto scolastico,
danneggiamento a cose e persone, dall’uso di sostanze stupefacenti. La tappa successiva è
seguita da forme di antisocialità adulta: come il maltrattamento dei figli o l’abuso di alcool.
Questa però non accade sempre: non tutti i bambini che nell’infanzia mostrano aggressività
o disattenzione saranno poi ragazzi violenti o pessimi genitori. Tutto dipende dall’ambiente
in cui si vive, dalle persone che si frequentano e dal modo in cui si sceglie di vivere la
propria vita.
Questi sono aspetti molto importanti che verranno approfonditi nel prossimo capitolo.
21
CAPITOLO 3: “Le teorie di ieri e la realtà di oggi: le possibili soluzioni in campo
educativo”
I fenomeni descritti nel primo capitolo, quelli delle gangs di strada, delle bande criminali e
degli hooligans, sono fenomeni appartenenti a sottoculture prettamente giovanili: sono
sempre di più i giovani che aderiscono a questi “stili di vita”. Ma perché?
La condizione adolescenziale e giovanile richiede la soddisfazione di particolari bisogni, che
riguardano soprattutto la formazione della personalità, l’integrazione nella società e nel
gruppo dei pari, il contatto con persone significative di riferimento ecc.
Ogni determinazione dei compiti di sviluppo, inoltre, deve tener presente il contesto
culturale, il livello di evoluzione sociale, le aspettative ed i compiti sociali attribuiti da
quella società a questa determinata età.
È noto come l’adolescenza sia quella fase d’età in cui il rapporto tra individuo e società si fa
particolarmente conflittuale. È la fase in cui il ragazzo sente il bisogno di “rischiare”: si
tratta di condotte che consentono all’adolescente di mettere alla prova le proprie abilità e
competenze, di concretizzare i livelli di autonomia e di controllo che ha acquisito
precedentemente e di sperimentare nuovi stili di comportamento.
Tuttavia questa sperimentazione del rischio può portare il ragazzo a mettere in atto
comportamenti dannosi per se stesso e per gli altri, comportamenti devianti.
Attraverso la trasgressione, probabilmente vuole comunicare il suo stato di disagio per le
risposte che non riceve dalla società, o che non trova adeguate ai suoi bisogni. L’atto
deviante sarebbe quindi parte di un’azione comunicativa che vuole informare la società
(quella degli adulti) del suo stato di disagio. Comunicazione che avviene colpendo i bersagli
ritenuti più cari alla società degli adulti: la proprietà, l’ordine, la salute, le figure o i luoghi
istituzionali ecc.
Dare una possibile soluzione in campo educativo a questo fenomeno così allargato e
discusso sarebbe troppo, in tal caso penso che sarebbero già stati presi i dovuti
provvedimenti, ma si potrebbe suggerire qualche idea da poter mettere in pratica per
prevenire il disagio e il rischio di devianza.
Il comportamento deviante è un implicito atto d’accusa alla società che nega ai giovani
interessati quelle risorse che dovrebbero essergli garantite per il raggiungimento degli
obiettivi inderogabili. Se così è, diventa un’implicita domanda educativa che si rivolge in
primis alle azioni educative. Per combattere il disagio educativo, però, non basta l’impegno
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di qualche educatore specializzato e professionista poiché si tratta di ricostituire un rapporto
con la società gravemente compromesso; e questo è un tipo di disagio che va contrastato con
l’azione preventiva e promozionale.
L’elemento guida che deve sorreggere questa azione preventiva è l’idea di cambiare
qualcosa, e quindi il cambiamento.
Una prima soluzione potrebbe essere quella di fare del territorio interessato al disagio una
“comunità educante”: è necessario che il ragazzo ritrovi la comunità che l’attuale società in
cui vive non rappresenta più. Tutto sta nel diventare consapevoli delle potenzialità educative
del territorio preso in considerazione, accrescerle e aiutare a valorizzarle.
Creare una rete tra le varie realtà presenti sul territorio incrementando la loro relazione, per
esempio, accrescerà il servizio educativo attivando quei processi e quelle capacità per
affrontare i problemi comuni e la soddisfazione dei bisogni.
Una seconda soluzione, visto che stiamo parlando per la maggior parte di ragazzi, si
potrebbe creare nelle scuole. A livello ambientale si dovrebbe creare quel clima scolastico
positivo e di supporto incentrato sulla cooperazione, sull’autostima e sul rispetto per gli altri;
sotto il profilo della programmazione, invece, si potrebbero convincere gli insegnanti ad
inserire nella loro programmazione attuale dei progetti aventi tematiche che interessano il
mondo dei ragazzi, magari facendo intervenire terze persone esperte nella tematica scelta per
approfondire meglio il tema.
A livello individuale, infine, l’istituzione scolastica potrebbe offrire supporto (magari con
figure professionali d‘aiuto) agli alunni che presentano difficoltà di adattamento o dei veri
disturbi.
Si potrebbero quindi progettare delle attività finalizzate ad intervenire in modo più globale
possibile sulla formazione della personalità dei ragazzi e sull’acquisizione di quegli
strumenti che diano loro la capacità di auto-governarsi in un cammino di crescita di sempre
maggiore autonomia e responsabilità.
In un certo senso la scuola dovrebbe diventare un luogo finalizzato a scoprire ed esprimere
le risorse interiori dei ragazzi.
Una terza ipotesi d’intervento è centrata sul gruppo dei pari, questo perché le relazioni
d’amicizia sono molto importanti per i ragazzi, soprattutto nel delicato periodo
dell’adolescenza. Nel gruppo si impara a relazionarsi con il mondo e a trovare l’equilibrio
tra l’affermazione della propria identità e quella degli altri. Il gruppo però può influenzare i
comportamenti del singolo sia in positivo sia in negativo. Il forte senso di appartenenza e
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lealtà che si sviluppa all’interno di questo, a volte, impedisce al singolo di sottrarsi alle
proposte e di mantenere il proprio punto di vista, con il rischio dell’esclusione e l’accusa di
essere un “traditore”.
Il comportamento deviante si manifesta soprattutto in quei gruppi che fanno della violenza e
della trasgressione il loro codice di comportamento, stiamo parlando, quindi, dei fenomeni
descritti precedentemente: delle bande, delle gangs e della realtà hooligans. Se si fa parte già
di questa realtà non è facile intervenire perché a volte lo stretto legame che si instaura
all’interno tra i vari componenti è talmente forte che impedisce ogni tipo intervento.
Difficile ma non impossibile, soprattutto se si interviene prima che un ipotetico gruppo di
formi.
In questo caso diventano necessari progetti educativi per insegnare ai giovani come gestire il
proprio tempo libero, fornendo spazi, momenti, attività in cui possano esprimere al meglio le
loro risorse. Una possibile esperienza da proporre potrebbe essere quella della “peereducation”: in questo modello di educazione i coetanei con determinate esperienze,
assumono il compito di stimolare in modo positivo i compagni. Un’altra soluzione non
troppo invasiva potrebbe essere l’animazione di strada perché viene effettuata sul posto,
senza che i ragazzi debbano “spostarsi” o lasciare i loro luoghi abituali. L’importante è
capire che il gruppo è importante per l’adolescente perché soddisfa bisogni d’affiliazione o
di appartenenza, di indipendenza dagli adulti e di organizzazione autonoma. La cosa
fondamentale è favorire la canalizzazione della devianza in forme espressive creative e
costruttive, evitando quelle distruttive.
È vero che stiamo parlando di fenomeni che hanno radici ben salde, ma è anche vero che
iniziare pian piano vedendo anche un piccolo risultato (che potrebbe essere l’apertura di un
centro giovanile che coopera, ad esempio con una palestra, nelle periferie di Manchester o
Londra), potrebbe essere l’inizio di un intervento più grande.
Tutto sta nella volontà di chi effettua il progetto e successivamente l’intervento educativo, e
in quella dei destinatari.
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CONCLUSIONE: “ Pensieri e critiche personali alle teorie studiate”
La delinquenza giovanile è una realtà che è sempre stata presente in qualsiasi società: è parte
di essa.
Ho scelto come argomento quello della delinquenza e delle subculture in Inghilterra a partire
dagli anni ’60 perché, si sa, quelli furono gli anni della grande rivoluzione giovanile.
Se in passato la delinquenza e la nascita di nuovi gruppi e bande era legata, la maggior parte
delle volte, alla povertà delle classi più basse, negli anni ’60 tutto ciò si verificò per pura
contestazione a quella che era la classe dominante.
Anche se a fare propria questa “rivoluzione” erano i giovani della classe operaia, il loro
obiettivo non era quello di agire in modo violento verso gli esponenti della classe
dominante, il loro intento era quello di evidenziare alla società dell’epoca la propria cultura,
il proprio modo di vivere, i propri valori e il proprio modo di essere.
Da qui, il boom delle nuove tendenze, dei nuovi modi di vita e di comunicazione giovanile.
È proprio per questo che mi sono interessata al tema: la realtà giovanile mi è sempre
interessata, specialmente nelle varie forme di aggregazione.
È stato interessante vedere come gli studi dell’Università di Birmingham interpretavano le
forme culturali dei gruppi e dei soggetti subalterni della società: attraverso lo studio delle
“pratiche culturali” andavano a studiare quei processi di costruzione della soggettività.
Ma è stato ancor più interessante studiare come le ideologie dei diversi gruppi sono
cambiate nel tempo: il movimento degli skinhead, per esempio, usava la violenza solo per
l’esigenza dello spazio: le risse nascevano tra gruppi di persone che sceglievano l'alternativa
al conformismo, e quando qualcuno di questi varcava il loro territorio, la risposta era la
violenza.
Oggi le cose sono cambiate: chi appartiene al movimento skinhead si ritiene razzista e
addirittura nazista, facendo proprie tutte le teorie assurde riguardo la superiorità della razza
ariana, l’inferiorità di altre e così via.
Inoltre l’essere violenti verso gli altri è una delle caratteristiche fondamentali dell’essere un
“testa rasata”.
Gruppi come le gangs di strada e gli hooligans sono tutt’ora presenti nella società inglese e
per alcuni paesi sono diventati esempi da seguire (un esempio sono le gangs americane e il
movimento ultras italiano).
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Se negli anni ’60 i giovani prendevano parte a gruppi o movimenti che andavano contro la
cultura dominante, era per sottolineare la propria cultura e la propria diversità alla società.
Al giorno d’oggi i ragazzi prendono parte a gruppi o a determinati movimenti perché la loro
paura, il più delle volte, è quella di rimanere emarginati dalla società: essere parte di una di
queste realtà significa “essere qualcuno”, appartenere a una specifica “famiglia”, avere una
propria identità.
Ciò sta a significare che i ragazzi, di qualsiasi nazionalità essi siano, hanno bisogno di
identificarsi in qualcosa o in qualcuno: soprattutto nella delicata età dell’adolescenza tutto
ciò dona al ragazzo quell’identità e quel senso di appartenenza che lo rende sicuro di se e
forte.
Il problema è quando il ragazzo entra a far parte di un gruppo delinquente o che, comunque,
usa la violenza come mezzo di comunicazione.
È proprio per questo motivo che tutte le istituzioni dovrebbero attuare una politica di
prevenzione della delinquenza, attuando progetti in vari ambiti che diano la possibilità ai
ragazzi di avere una solida e valida formazione personale ed essere, quindi, in grado di
incanalare tutte le proprie energie in qualcosa di costruttivo e positivo per se stessi e per la
società in cui vivono.
Il cambiamento è possibile e migliorare si può.
26
INDICE
Introduzione…………………...…………………………………………………………pag 2
CAPITOLO 1: “ La delinquenza giovanile e le subculture inglesi dagli anni ‘60 al giorno
d’oggi”…………………………………………………………………………………...pag 3
1.1 I primi skinheads……………………………………………………………………..pag 3
1.2 Gli scooter boys…………………………...…………………………………………pag 5
1.3 Gangs e bande di strada…………………………………………………………..…pag 6
1.4 Gli hooligans………………...……………………………………………………….pag 9
CAPITOLO
2:
“
Le
teorie
delle
subculture
delinquenziali
dalla
Scuola
di
Birmingham”…………………………………..………………………………………..pag 13
2.1 Hoggart………………………………………………………………….………….pag 15
2.2 Williams………………………………………………………………………….…pag 17
2.3 Altre teorie………………………………………………………………………….pag 20
CAPITOLO 3: “ Le teorie di ieri e la realtà di oggi: le possibili soluzioni in campo
educativo”………………………………………………………………………………pag 22
CONCLUSIONE: “ Pensieri e critiche personali alle teorie studiate…………….…….pag 26
BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA…………………………………………………….pag 28
27
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