Alla ricerca del sapere Si trovava all`interno di un

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Alla ricerca del sapere Si trovava all`interno di un
Si sa come vanno a volte le cose: pura casualità.
Alla ricerca del sapere
Si trovava all’interno di un borghese bistrot nell’arrondissement VI Luxembourg, non troppo lontano dagli omonimi giardini parigini, sorseggiando un café
au lait con un croissant alla marmellata per il petit
dejeuner quotidiano che amava fare ogni mattina in
un posto nuovo.
Si dilettava infatti a compilare una sorta di guida
dei bistrot di Parigi che forse nei suoi sogni avrebbe
potuto un domani mandare alle stampe e guadagnare
un buon gruzzoletto che gli sarebbe senz’altro servito
per oltrepassare una nuova crisi, se mai ce ne fosse
stata un’altra in agguato dopo quella della fine degli
anni zero del XXI secolo.
Che bello sognare. I sogni sono per antonomasia
quasi sempre considerati positivamente, tranne quando si trasformano in vividi incubi, e quest’ultimo probabilmente era proprio il suo caso.
E del tutto casualmente mentre si aggiustava il bavero del trench e annotava la qualità della brioche sul
suo notes dando solo tre stellette sulle cinque massime
previste con una postilla: “marmellata acidula e pasta
ben cotta”, ebbe l’occasione di sentire i suoi vicini di
tavolo parlare in estrema libertà di argomenti che colsero la sua attenzione.
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Massimo Corda
“Marion, sai che sono andato in quel posto che mi
avevi indicato sei settimane fa?” Così iniziò la conversazione un signore sulla settantina, voce rauca e
affannata e respiro corto. I capelli bianchi erano riportati sul lato sinistro della sua testa ma l’immancabile
vento parigino li aveva scompigliati rendendo il viso
di quell’uomo quello di una persona da film comico.
Il tavolino rotondo in vimini lo metteva seduto proprio di fronte a lui tant’è che lo poteva quasi fissare
negli occhi mentre continuava ad annotare la qualità
della pulizia e del servizio in tavola e pure la lista dei
giornali gratuiti messi a disposizione della clientela.
L’anziano signore cinse con le due mani il bicchiere di juice d’orange quasi per scaldarlo e cercò di ricomporsi passandosi la mano nei capelli mentre le due
signore lo guardavano divertite.
La curiosità di sapere in quale posto potesse mai
essere andato quell’uomo rese più intrigante la faccenda. Forse un viaggio nel deserto a bordo di un
cammello che impazzito lo faceva sobbalzare dalla gobba? Forse ad attendere appostato su una jeep
l’uscita dalla sua tana di una mangusta? A una corsa
su un ovale americano? Sorridendo tra sé e sé aspettò
qualche istante che la conversazione continuasse.
“No, Jacques. Non mi ricordo di averti nominato altri posti se non Arturo il parrucchiere di rue de
Grenelle” cercò di abbozzare la signora dai capelli
violastri, seduta con lui.
“Macché! Credi ne abbia bisogno di Arturo? Un
giorno mi raso a zero come quel tenente di quel serial
televisivo e così questi dannati fili d’argento non saranno più una preoccupazione” sbottò.
“Mon Chere Jacques, non ricordo nessun altro luogo. Su coraggio dimmi, che non ricordo...” aggrottando la fronte gli rispose preoccupata.
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Battiti d’anime
“Sono andato in rue... ora non ricordo neppure il
nome... insomma sulla strada che dal Pantheon porta
al quartiere latino...” cercò di spiegarsi meglio aiutandosi anche con le mani, quasi a indicare gli angoli o i
grossi edifici che potevano trovarsi in quella direzione che lui ben vedeva ma che non riusciva altrettanto
bene a spiegarle.
“Mio Dio Jacques, dimmi da chi sei andato e tralascia il nome della via!” non resistendo più alle cose
inutili su cui si basano molti racconti di uomini che
puntualizzano i dettagli tralasciando le cose basilari
del racconto.
L’uomo aveva nel frattempo riposto il notes e la
penna a sfera, regalo amoroso di qualche tempo prima, e fece cenno al garçon di portare il conto quando
la persona di fronte a lui affermò a voce sostenuta:
“Sono andato a farmi ipnotizzare da quella signora che mi avevi raccomandato per leggermi il sogno
dell’invasione delle formiche.”
Anche l’attempato anziano che aveva appena profferito parola vide lo scatto dell’uomo con l’impermea­
bile di fronte al suo tavolo ma la sua attenzione durò
solo una paio di secondi o tre e seguitò la spiegazione:
“Quando sono entrato in quell’edificio non mi sarei
aspettato di trovarmi di fronte a una bella donna con
il camice bianco, forse per luoghi comuni pensavo di
vedermi una donna con il velo, rugosa e quasi sdentata, dalla pelle olivastra e dalle lunghe unghie e dai pesanti pendagli che voi donne chiamate orecchini che le
allungavano i lobi. E invece mi sono trovato... ah, sì!
Ecco!” esclamò soddisfatto. “La dottoressa Alcaraz!”
La seconda donna, dopo aver girovagato con la mente
su una carovana gitana in compagnia di questa vecchia fattucchiera, tornò ben presto alla realtà pensando a una distinta signora.
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Erano tanto presi dal discorso dell’uomo che il tè
alla pesca che entrambe le donne avevano ordinato si
stava raffreddando, ma tanto il motivo di quell’incontro non era di certo la colazione ma l’appuntamento
con quell’uomo ricco di cose da raccontare che spezzavano la monotonia delle giornate.
Jacques era stato nella legione straniera e la sua
vita era costellata di aneddoti, quasi fosse un cantastorie siciliano che con le sue marionette affrescava il
palcoscenico o un pittore francese che dava alla tela
bianca estratti di vita fuori dal comune e comunque
non era così importante se le cose che diceva appartenevano totalmente alla realtà, le due donne lo avevano
sempre adorato per quel suo fare così avventuroso. E
lui giocava su questo fatto rendendo i racconti arditi e
talvolta oltre la ragione.
Ma andava bene così.
“Mi ha messo su un lettino e quando io ero pronto
per dirle la mia versione lei con un clic mi ha addormentato e mi ha fatto parlare. Si è appuntata tutto ciò
che ho detto, sono ritornato dopo due giorni e così ho
finito il mio sogno.”
“E che ti ha detto?” Cécile reagì rapita dalle parole.
Il ragazzo venne a portare il conto e disse qualcosa
che fece perdere l’attenzione dell’uomo che cominciò
a frugare all’interno della giacca ed estrasse il portamonete. Pagò lasciando sul piattino di ceramica inglese bianco il conto aggiungendo un euro di mancia per
“lo spedizioniere” come amava chiamare i camerieri
la straniera che gli regalò la penna quando, ancora alle
prime armi e stentando in quella nuova lingua, uscì
con quella espressione alquanto strana ma che rendeva bene l’idea.
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La sua curiosità non venne appagata, purtroppo si
perse proprio quella frase, ma questo particolare non
gli tolse la voglia di origliare ancora un poco.
“Ho consigliato quel luogo anche a mio nipote
Fernand ma so che ha dovuto rimandare l’incontro
di domani perché doveva partire per il Giappone o la
Corea, in un paese del genere.”
“Beh, Marion, cosa mi racconti tu invece del Salon
du Livre a Porte de Versailles?”
Scostando leggermente indietro la sedia di vimini,
l’uomo che era stato ad ascoltare con celato interesse
si alzò, diede una spolverata dove qualche briciola si
era posata sui suoi vestiti, si passò la mano nei capelli
e camminando vicino al signor Jacques lasciò il bistrot.
Parigi profumava di aprile e parlava con il vocabolario di aprile. Dimenticandosi di “montagne”, “mare”,
“sdraio”, “sci” o “funivia” e preferendo “passeggiata”,
“primavera”, “jogging” e “risveglio della natura”.
La brezza di quel martedì mattina profumava di
fiori, il mercatino lì accanto aveva gentilmente inondato la zona di quei soavi odori naturali di cui ci stavamo stancamente dimenticando; una vecchia signora
accanto alla porta appoggiava cibo in una piccola scatola di tonno per qualche animale randagio che attendeva forse di vederla rientrare in casa per azzannare
quel pasto tanto atteso; lo spazzino si era fermato ad
accendersi una sigaretta con lo scopettone in mano e
la sua tuta fosforescente che lo esaltava tra tanti colori; il rumore del traffico poco lontano ricordava che la
grande metropoli lasciava solo scampoli di natura e di
gesti gentili, e che di lì a poco sarebbe stato un frenetico universo che si rincorreva senza avere né capo né
coda. Bastava infatti girare l’angolo che si sarebbe vi11
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sto un cosmo diverso da quello che si stava abbandonando, la magia dei grandi centri era anche questa, sapere che un mondo nuovo era lì a pochi passi. Bastava
avere il coraggio di spingersi sino là.
Volente o nolente l’uomo procedeva spedito. Trovandosi
di fronte a una baguetteria pensò bene di comprare del
pane e una bibita. Come solo i parigini sanno fare,
prese la baguette e la mise sottobraccio coperta da un
esile foglio di carta bianco con stampato il nome del
negozio, posò la bevanda in una tasca laterale e continuò la camminata.
Scese verso la metropolitana, estrasse l’abbonamento e lo fece passare nel lettore ottico che gli fece
oltrepassare il tornello. Ormai abituato al bailamme di
quel luogo e ben conscio della strada da percorrere,
con il viso a guardare il pavimento si avvicinò alle
rotaie.
Tanta gente a quell’ora era pronta a invadere uffici, un brusio costante era la colonna sonora. Gente
che parlava con l’auricolare telefonico, altri che si
dimenavano al ritmo della musica del proprio iPod,
altri che sfogliavano con arguzia il giornale del vicino
disgustandosi alle dichiarazioni del politico di turno,
altri invece masticavano chewing gum tanto che si poteva vedere addirittura l’ugola e qualche strano personaggio che seduto si godeva il panorama.
Era infatti facile vedere strane persone che erano lì
per guardare, non avrebbero preso neppure un treno,
avevano il loro biglietto in tasca e si dilettavano in
questa maniera a trascorrere il tempo.
Si era fatto un’idea in passato, “quelli sono pazzi”, ma più li incrociava più gli diventavano simpatici,
erano innocui e stavano emigrando dalla casella “mat-
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ti da legare” a quella “osservatori statici del mondo
frenetico”.
Il tabellone luminoso segnava l’arrivo del prossimo treno che puntuale giunse, le porte si spalancarono
con un rumore di ferraglia molto poco parigino e la
gente uscì nella fretta per essere prontamente rimpiazzata da altri elementi. Li differenziavano solo i colori
dei vestiti e dei capelli ma erano terribilmente uguali
a quelli precedenti.
Uno sciame di esseri umani che non comunicavano
tra loro.
Sveltamente i passi del raccordo tra le due linee si
susseguivano mantenendo il trend del gregge che si
apriva a ventaglio all’avvicinarsi delle uscite da dove
fiumi di carne fluttuavano in balia del destino.
Finalmente la luce che si intravedeva si andò
aprendo sempre più finché si arrivò a respirare aria,
non certo pura ma almeno non viziata e non sapeva di
sotterraneo e di piscio di qualche ubriacone che aveva
deciso di marcarne il territorio.
Ma nonostante ciò e molto altro era impossibile
non amare Parigi e lui l’amava veramente.
Arrivò al suo appartamento, fece in tempo a salutare con un sorriso carino la donna delle pulizie che
era chinata sulla scalinata con tanto di strofinacci,
secchio, spazzettone e intrugli per uno sporco meno
sporco, tanto poi passava l’inquilino del IV piano che
ci pensava lui a rendere il lavoro della signora un incubo.
La chiave nella toppa girò tre volte verso sinistra
e la porta si spalancò su un moderno appartamento,
piccolo ma ben curato nelle tende, nei divani color
panna, un bel tv lcd 37 pollici, quadri di un pittore
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amico di famiglia che aveva donato a pagamento di
un precedente lavoro, il tappeto iraniano ricordo di un
vecchio viaggio in quella terra dorata e vasi con fiori
stilizzati.
Non amava che un fiore venisse reciso solo per donare colore per poche ore in una casa e poi magari
l’indomani essere gettato tra la spazzatura e sostituito
da un nuovo fiore che avrebbe fatto la stessa fine.
Appoggiò la giacca sul bordo di una sedia, si slacciò i bottoni dei polsini e si arrotolò le maniche della
camicia, prese l’elenco telefonico e iniziò a girare le
pagine nervosamente alla ricerca di quel nome. Non
era un grande amante della tecnologia, solo quanto
bastava, non possedeva che un piccolo notebook che
usava di rado, una rapida occhiata su un motore di
ricerca in internet gli avrebbe reso il compito molto
più veloce ed esauriente dal momento che avrebbe
forse trovato pagine e informazioni sulla dottoressa
Alcaraz.
Poco male, se in una buona parte del mondo la comunicazione avviene ancora con il passaparola, con i
“pizzini” siciliani, con gli sguardi e i gesti perché mai
avrebbe dovuto rinunciare a un piacere “normale” facendosi esentare dall’apporto tecnologico?
La lista degli Alcaraz a Parigi era molto più lunga
di quanto avesse immaginato, senza considerare che
altrettanti non avrebbero messo il proprio numero per
la legge della privacy ma chiaramente non poteva essere il caso della dottoressa in questione, avere una
professione e non fare un minimo di pubblicità sarebbe stato controproducente e contrario al buonsenso.
“Dottoressa Alcaraz, eccola” disse a bassa voce
segnando con il dito indice, picchiettando due volte
su quel nome. Estrasse una biro rossa da un cilindro
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contenente matite e penne di vario genere e colore e
sottolineò l’indirizzo: rue Descartes.
“Oh la la” sorrise sommessamente “proprio un filosofo pensatore, quello che fa per me.”
Senza esitare ancora prese il ricevitore, strizzò gli
occhi quel tanto da focalizzare bene il numero e lo
compose, pensando a cosa avrebbe detto.
Driiiin, driiiiiin. Il telefono dall’altra parte dava
libero.
“Hello, studio della dottoressa Alcaraz, sono Yvonne,
come posso esserle utile?”
“Ah, buongiorno mi chiamo Fernand, Fernand xxyz.”
Qui il tocco magico fu che per due volte disse chiaramente il nome forzando su quello mentre biascicò il
cognome quasi come fosse un codice fiscale. Attendeva
una contromossa per vedere come cavarsela ma prima le
offrì su un piatto d’argento il servizio: “Avevo fissato un
appuntamento per domani che poi sono stato costretto
a disdire per un viaggio, ma ora volevo chiedere se era
possibile venire, le cose sono cambiate in queste ultime
ore e posso dare la mia disponibilità.”
“Ah, lei è il signor Duprex, mi scusi la linea era
disturbata e non avevo capito, il nipote del signor
Jacques Duprex!” Il tono della signorina era squillante, si vede che il vecchio Jacques l’aveva ammaliata
con le sue parole.
“Mi faccia controllare se il suo posto è ancora libero... dunque... dunque... mmm... no, purtroppo vedo
l’appunto della mia collega, sa io sono in attesa di un
bebè e ci dividiamo le giornate e nel frattempo lei fa
un po’ di pratica... le dicevo che quel posto ora è occupato ma... aspetti aspetti!” Ora la sua voce si era fatta
più alta di una tonalità e sembrava aver ripreso vigore
e entusiasmo.
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