Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
scheda tecnica
titolo italiano: Bowling a Columbine
titolo originale: Bowling for Columbine
durata: 120 minuti
nazionalità: usa
anno: 2002
regia: Michael Moore
sceneggiatura: Michael Moore
produzione: ALLIANCE ATLANTIS COMMUNICATIONS - SALTER STREET FILMS
INTERNATIONAL - DOG EAT DOG FILMS - UNITED BROADCASTING INC.
fotografia: BRIAN DANITZ, MICHAEL MCDONOUGH
montaggio: KURT ENGFEHR
musiche originali: JEFF GIBBS
interpreti: JOHN NICHOLS (SE STESSO), MICHAEL MOORE (SE STESSO), GEORGE W.
BUSH (SE STESSO), DICK CLARK (SE STESSO), CHARLTON HESTON (SE STESSO)
Michael Moore
nato a Flint, Michigan (USA)
il 23 aprile 1954
filmografia
Sicko (2005) in lavorazione
Fahrenheit 9/11 (2004) in lavorazione
Bowling a Columbine (2002)
"Awful Truth, The" (1999) Serie TV
And Justice for All (1998)
Big One, The (1997)
TV Nation (1995) (V)
TV Nation 2 (1995) (V)
Canadian Bacon (1995)
"TV Nation" (1994) Serie TV
Two Mikes Don't Make a Wright (1992) (episodio "Pets or Meat: The Return to Flint")
Pets or Meat: The Return to Flint (1992) (TV)
Roger & Me (1989)
premi e festival
Academy Awards, USA 2003 vincitore Oscar Miglior documentario a Michael
Moore, Michael Donovan
American Cinema Editors, USA 2003 vincitore Eddie Miglior Montaggio –
categoria documentario a Kurt Engfehr
Amsterdam International Documentary Film Festival 2002 vincitore Premio del
Pubblico a Michael Moore
Atlantic Film Festival 2002 vincitore Premio del Pubblico a Michael Moore
Australian Film Institute 2003 nomination Miglior film straniero
Bergen International Film Festival 2002 vincitore Premio del Pubblico a Michael
Moore
Broadcast Film Critics Association Awards 2003 vincitore BFCA miglior
documentario
Cannes Film Festival 2002 vincitore all’unanimità del premio 55th Anniversario a
Michael Moore, nominato Palma d’Oro a Michael Moore
Chicago Film Critics Association Awards 2003 vincitore CFCA miglior
documentario
César Awards, France 2003 vincitore César Miglior film straniero a Michael
Moore
Dallas-Forth Worth Film Critics Association Awards 2003 vincitore DFWFCA
miglior documentario
Florida Film Critics Circle Awards 2003 vincitore FFCC miglior documentario
Independent Spirit Awards 2003 vincitore Independent Spirit Award miglior
documentario a Michael Moore
Kansas City Film Critics Circle Awards 2003 vincitore KCFCC miglior
documentario
Las Vegas Film Critics Society Awards 2003 vincitore Sierra Award miglior
documentario
National Board of Review, USA 2002 vincitore NBR Award miglior documentario
Online Film Critics Society Awards 2003 vincitore OFCS Award miglior
documentario
San Sebastián International Film Festival 2002 vincitore Premio del Pubblico a
Michael Moore
Southeastern Film Critics Association Awards 2002 vincitore SEFCA Award
miglior
Sudbury Cinéfest 2002 vincitore Premio del Pubblico a Michael Moore
São Paulo International Film Festival 2002 vincitore Premio del Pubblico a
Michael Moore – miglior documentario
Toronto Film Critics Association Awards 2002 vincitore TFCA Award miglior
documentario
Toronto International Film Festival 2002 vincitore Premio del Pubblico a
Michael Moore
Vancouver International Film Festival 2002 vincitore Most Popular Film a
Michael Moore
Writers Guild of America, USA 2003 vincitore WGA Award miglior sceneggiatura
Michael Moore
MICHAEL MOORE
Autore/Produttore/Regista
Nel 1989, Michael Moore ha diretto Roger & Me, un film che ha fatto storia e che
raccontava la sua personale odissea per riuscire a contattare il Presidente della General
Motors, Roger Smith al quale voleva chiedere spiegazioni sulle disastrose conseguenze
che il ridimensionamento della General Motors aveva avuto sulla sua città natale, Flint, nel
Michigan. Il film, che è stato il documentario che ha incassato di più nella storia del
cinema, è entrato in più di 100 Liste dei Migliori 10 Film dell'Anno redatte dai critici
americani; ha vinto, tra gli altri, il premio come Migliore Documentario del New York Film
Critics Circle. I profitti del documentario sono stati devoluti da Moore alla creazione del
Center for Alternative Media, una fondazione che dalla sua creazione ha speso già più di
mezzo milione di dollari per sovvenzionare le opere di registi esordienti o le attività di
gruppi che operano nel sociale.
Michael Moore è nato e cresciuto a Flint; a 18 anni è stato nominato direttore della scuola
diventando così uno dei più giovani funzionari pubblici del paese. A 22 anni ha fondato
"The Flint Voice", uno dei quotidiani alternativi più rispettati del paese del quale è stato
editore per 10 anni. Alla metà degli anni 80 è stato produttore, regista, autore e conduttore
della serie televisiva premiata con l'Emmy Tv Nation, trasmessa prima dalla NBC e poi
dalla Fox.
Inoltre, Michael Moore ha anche scritto e diretto il film comico Canadian Bacon (Un
Certain regard, Canne 1995). Il secondo documentario lungo di Michael Moore, The Big
One, anch'esso vincitore di numerosi premi, ha fatto conoscere al pubblico le malefatte
delle grandi industrie e dei politici insensibili e indifferenti, costringendo la Nike a smettere
di impiegare i bambini come forza lavoro a basso costo in Indonesia. Come autore, Moore
ha scritto diversi libri campioni d'incassi, tra i quali Downsize This! Random Threats
from an Unarmed American, che è stato per un mese nella lista dei Bestseller del New
York Times e Adventures in a Tv Nation, scritto in collaborazione con la moglie Kathleen
Glynn.
Nel 1999 e 2000, Michael Moore ha prodotto due stagioni della serie televisiva di grande
successo The Awful Truth per Bravo TV (US e Canada) e Channel 4 (GB), definita dal
Los Angeles Time "la più comica, buffa e divertente satira… politica".
Michael Moore è stato anche il regista dei video musicali dei REM e Rage Against the
Machine e ha partecipato diverse volte a programmi televisivi quali Politically Incorrect;
The Late Show with David Letterman; e Late Night with Conan O'Brien.
L'ultimo libro di satira politica di Michael Moore, intitolato Stupid White Men and Other
Sorry Excuses for the State of the Nation, è da nove mesi nella lista dei best-seller del
New York Times. Il libro ha scalato le classifiche di vendita anche in Canada e in Gran
Bretagna ed è attualmente all 19° ristampa.
NOTE DI PRODUZIONE
dal pressbook del film
"Siamo una nazione di maniaci delle armi, o siamo semplicemente pazzi?"
Michael Moore
La strategia di Michael Moore e le motivazioni che lo hanno spinto a realizzare questo
lungo documentario sono molto diverse da quelle che hanno ispirato il suo lavoro
precedente. Roger & Me parlava di una sola città e della società colpevole della sua
distruzione. BOWLING FOR COLUMBINE invece, affronta argomenti molto più vasti
perché prende di mira un'intera società che ha perso il controllo di sé stessa dopo essersi
armata fino ai denti (negli Stati Uniti, si calcola che ci siano 250 milioni di pistole nelle
case).
Il film tratta un argomento molto delicato che richiede una buona dose di buon senso e al
tempo stesso un grande coinvolgimento. "La cosa fondamentale che dovete capire
riguardo Michael Moore è che ci troviamo di fronte all'ultimo dei patrioti ed è proprio per
questo che è così critico nei confronti del suo paese. Ama il suo paese ed è quasi una
beffa che uno dei maggiori critici dell'America sia anche uno dei suoi più strenui difensori,"
afferma il produttore Michael Donovan.
Moore ci spiega la sua teoria della paura attraverso uno schema e uno stile che sono
ormai diventati un classico: nessun argomento è troppo insignificante per essere
affrontato, nessuna figura pubblica è troppo sacra per essere attaccata. Questa volta, il
suo credo viene espresso in una divertente e allegra sequenza animata: "A scuola, la
prima lezione di Storia comincia con queste parole: "I pellegrini vennero in America perché
temevano di essere perseguitati". Ecco le parole timore, paura. E poi cosa è successo? "I
Pellegrini sono arrivati in America, timorosi e impauriti, hanno incontrato gli Indiani e
hanno avuto paura di loro e così li hanno uccisi; poi hanno iniziato ad avere paura dei loro
concittadini, hanno cominciato a vedere streghe ovunque e le hanno messe sul rogo; in
seguito, hanno vinto la Rivoluzione ma avevano paura che gli Inglesi tornassero indietro. A
quel punto, qualcuno ha scritto il Secondo Emendamento che recita: 'Tenete le vostre armi
perché gli Inglesi potrebbero tornare'. E cosa è successo? Gli Inglesi sono tornati sul serio!
E qual è la cosa peggiore che si possa fare ad un paranoico? Dare corpo alle sue paure!"
"Nel frattempo, tutti dicevano: per fortuna che abbiamo conservato le armi! Quel Secondo
Emendamento è stato proprio una bella idea!" La maniera in cui Moore affronta la storia è
molto divertente. Invece di offrirci un resoconto arido e asciutto dei fatti, pensa che il
pubblico sarà più ricettivo se si farà anche una bella risata".
"La paura così diffusa tra gli Americani", spiega Moore, "risale all'epoca in cui nel paese
viveva una popolazione di schiavi che, negli 86 anni
intercorsi dalla Guerra
d'Indipendenza nel 1776 alla Guerra Civile nel 1861, è cresciuta a dismisura passando da
700.000 a 4 milioni di individui. In alcune regioni del sud rurale, i neri superavano i bianchi
con un rapporto di 3 a 1; ci furono diverse sommosse, molti disordini e tante teste bianche
tagliate. I bianchi erano terrorizzati all'idea che i neri potessero ottenere la libertà".
"E così, nel 1863," continua Moore, "Samuel Colt inventò la 6 colpi. Prima di allora, era
impossibile sparare più di un colpo alla volta. Nei 10.000 anni precedenti, era sempre stato
necessario ricaricare l'arma prima di tirare un secondo colpo, di qualunque arma si
trattasse. La Colt invece era portatile ed economica. E fu così che i bianchi del sud si
armarono con quella che chiamarono la "Pacificatrice" e riuscirono a mantenere la
schiavitù per altri 25 anni".
A scuola, però, nessuno ci ha mai insegnato la storia in questa maniera. Continua Moore:
"Anche l'esercito americano ricevette queste armi in dotazione che vennero usate per
sterminare gli Indiani nei 40 anni che seguirono; la strategia fu molto efficace visto che gli
Indiani erano armati di fucili che andavano ricaricati ad ogni colpo. Quando il Sud perse la
Guerra Civile, i bianchi cominciarono ad avere veramente paura e così, nel 1865, alcuni di
loro fondarono il Ku Klux Klan. Nel 1871 il KKK venne messo fuori legge ma dopo qualche
mese venne fondata un'altra associazione, la National Rifle Association (NRA) il cui
obiettivo era la diffusione delle armi esclusivamente tra i bianchi. I neri non potevano
possedere armi, era illegale. Negli 80 anni successivi, le armi vennero utilizzate per tenere
al loro posto i cosiddetti neri liberi e la situazione restò immutata fino agli anni 50, quando
la popolazione di colore ne ebbe veramente abbastanza e si ribellò una volta per tutte."
"E a quel punto cosa fecero i bianchi? Corsero terrorizzati a rifugiarsi nelle periferie,
creando i quartieri residenziali. Una volta lì, hanno comprato milioni e milioni di armi. E
questo è il risultato: gran parte dei 250 milioni di pistole e fucili diffusi negli Stati Uniti sono
di proprietà dei bianchi che vivono in quartieri residenziali molto tranquilli e sicuri, dove
praticamente non c'è delinquenza. E' per questo che in America la maggior parte dei
crimini avvengono tra le mura domestiche tra moglie e marito, tra fidanzati, tra colleghi di
lavoro.
LA GENESI DEL FILM
dal pressbook del film
Nei tredici anni trascorsi tra Roger & Me e BOWLING FOR COLUMBINE, Michael Moore
ha messo a punto uno stile che può essere definito conflittuale, audace e divertente. I suoi
documentari sono la vetrina del suo approccio organico verso le materie che desidera
investigare: "A volte, soprattutto quando si tratta di interviste, è meglio lavorare pensando
sempre e solo al presente. Se arrivi ad un'intervista con un ordine del giorno già stabilito,
alla fine il film risulterà rigido e limitante. Per me la cosa fondamentale è che i film o i
documentari seguano il loro corso."
Nella primavera del 1999, Michael Moore, regista di documentari pluripremiati, produttore,
regista e autore televisivo, era impegnato nella serie televisiva The Awful Truth, la cui
messa in onda era prevista per quell'autunno su Bravo (US e Canada) e Channel 4 (UK).
Famoso per la sua capacità di andare sempre a pescare nel posto giusto e toccare le
corde più sensibili della coscienza collettiva, il regista aveva appena completato un
episodio satirico e "noir" al tempo steso, intitolato Teen Sniper School (N.d.T. "Scuola per
Baby Cecchini"). "Avevo pensato ad un insegnante di tiro che insegnasse ai bambini di
appena due anni di età a usare le armi da fuoco. Il film era ambientato in una scuola dove
gli alunni imparavano la maniera migliore per far fuori il capitano della squadra di football
oppure a dimenticare la dose quotidiana di anti depressivi per poter scatenare tutta
l'aggressività e cose simili.
A causa della censura, l'episodio in questione non venne mai mandato in onda. Qualche
giorno dopo la fine della lavorazione e del montaggio, 12 studenti ed un insegnante del
liceo di Columbine a Littleton, Colorado, vennero uccisi a colpi di arma da fuoco. Con il
suo film, Moore aveva chiaramente superato la satira mostrandoci in anticipo il lato più
tossico e oscuro della cultura americana. A quel punto però, l'argomento meritava una
riflessione più approfondita. "Volevo fare qualcosa di più grande, volevo parlare più a
fondo dell'argomento", racconta Moore. E mentre divorava pagine e pagine di notizie sulla
tragedia di Columbine, cominciò a notare alcune coincidenze inaspettate. Eric Harris, uno
degli autori del massacro, aveva trascorso parte della sua infanzia in una base
dell'aeronautica vicina alla città nella quale era cresciuto Moore, nel Michigan. E poi c'era
Terry Nichols, partner di Timothy McVeigh nell'attentato di Oklahoma City, del 1995, che
aveva frequentato la scuola vicina a quella di Moore. E infine, Charlton Heston, il
gladiatore della National Rifle Association, che era cresciuto ad un'ora e mezzo di distanza
dalla casa di Moore. A quel punto il regista cominciò ad interessarsi all'esplorazione
dell'ambiente culturale nel quale era cresciuto.
Poco dopo, Moore era seduto in un bar di Manhattan con Michael Donovan, il
comproprietario della Salter Street, già produttore della serie candidata all'Oscar e
prodotta da Moore The Awful Truth. "Gli ho detto chiaro e tondo che volevo fare un
documentario lungo sulle armi," racconta Moore. "Non avevo ancora completato la frase e
Donovan mi aveva già detto: Voglio farlo. Penserò io a trovare i soldi e lo faremo."
Michael Donovan e Charles Bishop della Salter Street Films erano convinti che Moore
fosse l'uomo giusto per realizzare quel documentario. "E' il maggiore critico sociale della
televisione e del cinema di oggi," dice Bishop. "In quel periodo Michael aveva in mente un
progetto su un altro tema scottante, vale a dire la previdenza sociale", spiega Donovan.
"Ma poi, si è accorto che c'era qualcosa di più urgente, di più grande, di più pericoloso del
quale parlare e ha cambiato idea". Per pura coincidenza, anche Donovan stava pensando
allo stesso argomento. "Columbine, l'ossessione americana per le armi. E' una faccenda
che ha implicazioni internazionali perché quello che succedeva con le pistole stava
succedendo su vasta scala con i missili e le bombe nucleari. E' tutto frutto di una cultura
che reagisce in maniera sproporzionata alla realtà della situazione".
Kathleen Glynn, moglie di Michael Moore e produttrice dei suoi film, lavora al suo fianco
da anni. Questo le ha permesso di seguire da vicino la sua evoluzione e l'affinamento delle
sue qualità artistiche. "Quando si tratta di cinema, Michael ama spingersi oltre e mettersi in
situazioni estremamente delicate," spiega la moglie. "Questo film è un documento molto
importante e pesante anche perché è stratificato. Chi si accontenterà di restare in
superficie, lo troverà semplicemente attuale, reale e scioccante ma chi vorrà scendere più
in profondità scoprirà tutto un arco di sentimenti e di emozioni fondamentali per la
comprensione del film. L'obiettivo di Michael è fare in modo che il pubblico esca dalla sala
con sentimenti e sensazioni ben precisi su quello che ha appena visto".
Continuando su questo punto, il regista aggiunge: "Credo che qualcun altro, al posto mio,
avrebbe risolto le cose in questa maniera: 'Hey, ragazzi, andiamo un po' in giro per il
paese dietro a quei pazzi scatenati e armati e prendiamoli in giro con il nostro film'. Io
invece, sono convinto che la gente non vada al cinema per sentire sermoni o prediche su
quello che fa. La gente va a vedere un bel film perché ama essere sfidata, messa alla
prova ma soprattutto perché vuole divertirsi e passare un po' di tempo. Come si fa allora a
divertirli e a metterli di fronte a quesiti seri allo stesso tempo?"
Moore sembra soddisfatto della teoria della paura. "C'è qualcosa di particolare nel cervello
umano. Ci piace avere paura, amiamo i film dell'orrore, la festa di Halloween. Credo che
tutto risalga alla preistoria dell'uomo, al nostro istinto primario di lottare e fuggire. Si tratta
del desiderio, sempre vivo dentro di noi, di essere continuamente all'erta cosicché, quando
sentiamo il pericolo, riusciamo a scappare e a metterci in salvo. Ed è qui che entra in
gioco una differenza fondamentale: spaventarsi al cinema è una cosa, essere manipolati
dai media, dai programmi di pseudo giornalismo o da un presidente che ti dice che esiste
un impero del male pronto a inseguirti su tutta la terra e a schiacciarti è completamente
un'altra."
Per il produttore Charles Bishop, BOWLING FOR COLUMBINE è nato da un'ottima idea;
inoltre, mano a mano che andavano avanti con la stesura del progetto, i tragici eventi reali
lo hanno reso ancora più significativo. "All'inizio, ed è questa la chiave per capire il film, il
progetto era incentrato interamente sul massacro di Columbine; sei mesi dopo, però, c'è
stato l'omicidio di Kayla Roland, una bambina di 6 anni uccisa da un suo coetaneo a Flint,
nel Michigan. Flint è la città in cui è nato Moore e quel tragico avvenimento lo ha colpito
profondamente al punto da spingerlo a spostare un po' la mira e a concentrare l'attenzione
del film su Flint."
"Il film ha superato tutte le nostre più selvagge aspettative," afferma Donovan con
soddisfazione. "Guardandolo, ci rendiamo conto che le immagini viste sul grande schermo
sono di gran lunga più potenti di quello che avessimo immaginato. L'11 settembre ha
cambiato radicalmente Michael Moore e, di conseguenza, il film. Quel giorno Moore era a
Los Angeles per la consegna degli Emmy, ed è rimasto bloccato in California. Non riusciva
a trovare un volo che lo riportasse a casa, a New York. Alla fine ha deciso di tornare in
macchina, attraversando gli Stati Uniti da costa a costa. Era la prima volta che lo faceva e
mentre viaggiava attraverso il suo Paese, tutti quelli che incontrava gli parlavano
naturalmente dell'11 settembre. Quel viaggio gli ha fatto toccare da vicino l'angoscia
dell'America intera".
Il viaggio da costa a costa, che inizialmente sarebbe dovuto durare solo tre giorni, si è
trasformato in un viaggio di meditazione ed analisi sull'America. Michael e sua moglie
hanno scelto di passare per gli stati del sud e hanno attraversato l'Oklahoma, il Texas e il
Missouri. "Prima dei tragici eventi dell'11 settembre, stavamo ancora cercando il vero
significato del nostro film. Durante quel viaggio abbiamo avuto la possibilità di parlare con
tante persone, di ascoltare quello che avevano da dire al riguardo. La cosa che mi ha
stupito maggiormente è stata che in quella prima settimana nessuno aveva voglia di
vendetta. Il sentimento dominante era il dolore, profondissimo, seguito da tutta una serie di
quesiti: Perché? Chi può aver fatto una cosa del genere? Perché ci odiano così tanto?
Che cosa gli abbiamo fatto? Quel viaggio è stato fondamentale, anche a livello personale,
e mi ha spinto a rivedere completamente la prospettiva del mio film che da quel momento
è stato inserito in una prospettiva più ampia e globale".
La prospettiva più ampia e globale della quale parla Moore è lo schema fisso e ripetitivo
dei comportamenti aggressivi e paranoici, in cui l'unica differenza che scorge è l'ordine di
grandezza. "Avrei potuto fare questo film dieci anni fa, e il risultato sarebbe stato lo stesso,
perché in realtà il film non parla del massacro di Columbine o delle armi. In questi dieci
anni, l'America non è cambiata da questo punto di vista. Il film parla della nostra cultura
della paura e di come questa paura così diffusa conduca inevitabilmente ad atti di
violenza, in casa nostra e a livello internazionale."
Il materiale girato ammonta in totale a 200 ore, una parte delle quali sono dedicate alle
interviste, che sono diventate un po' la firma di Moore. E' facile essere accademici; è
semplice intervistare testimoni inermi davanti alla macchina da presa, tuttavia è compito di
questo tipo di cinema, il "cinema verità", affrontare direttamente le persone e le grandi
società responsabili di quelli che sono i temi chiave del film. "Una prima spiegazione del
successo delle interviste di Michael è che lui rivolge agli altri le domande che tutti noi
vorremmo poter fare," afferma la produttrice Kathleen Glynn. "Scendendo un po' più in
profondità, potremmo affermare che il pubblico ama le sue interviste perché Michael
rivolge domande ben precise proprio alle persone che, secondo il pubblico, dovrebbero
essere in grado di rispondere; e di rispondere onestamente soprattutto."
"Michael è sempre elettrizzato all'idea di fare un'intervista, anche se ormai dovrebbe
esserci abituato. Io sono spesso con lui in quei momenti e guardandolo lavorare penso:
'Oh mio Dio, non ci posso credere. Non è possibile che gli stia facendo proprio questa
domanda!' Osservarlo mentre fa un'intervista è come osservare un chirurgo al lavoro. E'
un'operazione molto delicata; Michael deve essere estremamente delicato e per farlo
occorre una lunga preparazione. Come negli interventi chirurgici, non sa mai cosa troverà
una volta una volta che ha cominciato ad aprire e a scavare."
Per Moore, le interviste sono l'unica maniera per prendere le distanze dal suo
documentario anche se è consapevole che il suo film è l'enunciazione della sua personale
posizione riguardo ad un tema così scottante e urgente. La cosa alla quale tiene molto
però, è che ogni spettatore riesca a farsi un'idea personale e a trarre le proprie conclusioni
partendo da quelle interviste.
"Non voglio dire che Michael sia impavido," afferma Kathleen Glynn, che lo conosce ormai
da vent'anni. "Direi invece che è sempre alla ricerca della verità e lo fa continuando a
porre domande e mantenendosi sempre pronto ad ascoltare risposte che non sempre
coincidono con ciò che ha in mente. E lo fa con una grande onestà".
"Mi hanno sempre detto che andando avanti con gli anni si diventa più equilibrati, saggi e
conservatori," commenta il regista. "Ma non credo che funzioni con me. Anzi mi sembra
che mi stia succedendo esattamente il contrario. BOWLING FOR COLUMBINE è
sicuramente la cosa più provocatoria che abbia fatto finora e la prossima settimana
compirò 48 anni!".
27/10/2002: Bowling for Columbine - Una nazione sotto tiro
dal sito di expanded cinemah
Coincidenze in trasparenza sul film di Moore: un killer ex marine in Iraq, convertito alla Nation
of Islam, scorrazza per gli Usa su una chevrolet bianca, catturato dopo 10 morti; un altro killer
scorrazza per il mondo, mietendo vittime a migliaia, la sua chevy è ugualmente bianca: la
White House; il suo fucile non lo abbiamo ancora noi.
All my rivals will see what I have in store.
My gun.
I've been harboring fleets in this reservoir.
Red sun.
And this nations about to explode.
You're disciples are riddled with
metaphors. Well hung.
Better pony up and bring both your
barrels full. Not one.
As we release this unspeakable toll. Woh
[Tutti i miei rivali vedranno cosa tengo in serbo, la
mia pistola.
sto nascondendo un intero esercito qua sotto, sole
rosso
e questa nazione sta per esplodere
Siete discepoli crivellati di metafore, ben costruite
meglio saldare il conto e impugnare entrambe le
canne, non una sola
così da scaricare questo indicibile peso]
(Rival, Pearl Jam)
20 aprile1999. Ventisettesimo giorno di bombardamenti NATO sulla Serbia. Dopo alcuni giorni
di forzata inattività, causa maltempo, gli allegri top gun americani possono nuovamente
dedicarsi a colpire, con precisione chirurgica, i loro obiettivi preferiti: centri abitati (a Belgrado,
Nis, Pristina, Kragujevac, Kraljevo, Valjevo, Novi Pazar), fabbriche, acquedotti, scuole,
ospedali, installazioni televisive, ... Quella primavera sulle teste dei serbi piove un nugolo di
bombe, quasi un record assoluto, e le vittime civili sono centinaia, compresi 16 lavoratori della
RTS, la televisione di Stato serba, morti sotto le macerie della sede centrale a Belgrado...
falciati come birilli in uno strike del bowling.
20 aprile 1999. Littleton, Colorado. Nella ridente cittadina americana (conosciuta più che altro
per essere sede della famigerata multinazionale bellica Lockheed Martin) due studenti della
locale Columbine High School (Columbine è il nome di un fiore del posto ma anche il
soprannome del bombardiere Constellation che fu l'Air Force One ai tempi di Eisenhower)
decidono di andare a farsi una partitina a bowling, tanto per sgranchirsi un po' prima di andare
a lezione. Eric Harris e Dylan Klebold sono due diciottenni bianchi un po' introversi, tormentati,
politicamente confusi, vestono dark, ascoltano musica pesante (i teutonici KMFDM e
Rammstein)... Quella mattina, dopo aver tirato giù un po' di birilli, i due fanno il loro ingresso a
scuola armati di bombe a mano, tubi esplosivi autocostruiti e armi automatiche e per sei ore
seminano il terrore fra i compagni prima di suicidarsi. Il bilancio finale è di 15 morti e una
ventina di feriti.
Interview 1: satanismo e media
Today I am dirty, I
want to be pretty,
tomorrow, I know
I'm just dirt
We are the
nobodies, we
wanna be
somebodies when
we're dead
they'll know just
who we are
Some children died
the other day, we
fed machines and
then we prayed
puked up and
down in morbid
faith, you should
have seen the
ratings that day
(The Nobodies,
Marylin Manson)
[Oggi sono sporco, voglio essere carino, domani, so di essere solo
sporcizia.
Siamo i nessuno, vogliamo essere qualcuno ma solo quando saremo
morti sapranno chi siamo.
Dei ragazzini sono morti l'altro giorno, abbiamo riempito le auto e siamo
andati a pregare, facendo
su e giù nella fede morbosa, dovresti dare un'occhiata alle statistiche]
Una strage così efferata scatenò subito la libidine dei media che scavarono nelle giovani vite
dei due assassini (senza trovare gran che) e imposero pletore di "esperti", i migliori a proporre
il proprio parziale punto di vista, gli altri già ad invocare il pubblico linciaggio per i presunti
mandanti. Nazismo, satanismo, razzismo... tutto uno stuolo di "ismi" che, siccome lasciavano
lo spettatore a bocca asciutta, si condensarono presto intorno al capro espiatorio di turno:
Marylin Manson.
L'orripilante, a dire il vero, rockstar che si proclama l'Anticristo (a torto, perché Bush senz'altro
ha più titoli di lui) fu accusata di aver corrotto, con la sua musica demoniaca e i messaggi
anarco-nichilisti, i teneri virgulti della nazione americana. Poteva quasi sembrare che Marylin
Manson fosse la causa principale delle migliaia di morti violente che si registrano ogni anno
negli USA fra la popolazione giovanile. Marylin Manson fu comunque costretto a cancellare
alcune date del suo tour e non rimise piede in Colorado se non due anni più tardi.
Così documenta il film, non dimenticando nemmeno le dimostrazioni dei più fervidi paladini
della democrazia americana in occasione del concerto. Una parentesi, nel fluire del racconto e
nell'incontro di personaggi della enorme provincia americana, che comincia a porre le basi per
arrivare alla fine alla reale arringa contro i primi responsabili di tutto ciò: i media che
costringono ad avere paura un'intera nazione.
Non mi meraviglio che i ragazzi stiano crescendo più cinici... Sanno di vivere in un mondo di
merda. Nel passato c'era l'idea che se le cose ti andavano male tu potevi correre altrove e
cominciare una vita migliore. Ma ora l'America è diventata un grande centro commerciale...
non c'è più altro posto dove correre (Marylin Manson - non certo un assassino, semmai uno dei tanti
prodotti sugli scaffali del Global Discount - intervista tratta dal sito del Marylin Manson Italian Official Fun
Club)
Interview 2: industria e media
Ma il regista-investigatore Michael Moore non è certo uno che abbocca o che si accontenta di
facili soluzioni. Quindi, sgomberato il campo da cazzate fuorvianti, con metodo maieutico ci
conduce alla ricerca di verità non precostituite.
Tre anni è durata l'indagine di Moore ed il suo docu-film Bowling for Columbine ne è il risultato
stupefacente e convincente. Tre anni di duro lavoro a partire da alcuni dati statistici e dalla
profonda conoscenza che Moore ha di certa provincia americana, di alcuni suoi protagonisti e
dei processi di trasformazione in corso.
Moore è originario di Flint, nel Michigan, luogo natale anche della più grande produttrice di
automobili del mondo, la General Motors. Già, proprio lei... la corporation che si sta
aggiudicando la Fiat decotta... insomma, il nostro nuovo padrone. E allora sarebbe bene che
tutti andassimo a rivederci uno dei primi lavori di Moore, Roger & me, in cui il regista, tentando
e ritentando inutilmente di incontrare il manager della GM Roger Smith, descrive come nel
1989, in piena fase di crescita commerciale, i vertici della multinazionale decisero la chiusura
degli impianti e la loro delocalizzazione in Messico e Brasile, dove il costo del lavoro è 15 volte
inferiore. Oltre 30.000 lavoratori americani si trovarono in mezzo alla strada; il governo
federale fu costretto a distribuire viveri alla popolazione; suicidi, alcolismo e criminalità
crebbero esponenzialmente.
In questo film intervista i boss della Lockheed, dimostrando che si può fare giornalismo senza
sdraiarsi come zerbini.
Ma c'è di più: a Flint ha vissuto Timothy Mc Veigh, l'attentatore di Oklahoma City, che in
Michigan frequentava gli ambienti della destra radicale e i gruppi paramilitari antifederali che
abbondano da quelle parti... Il film ritrae il fratello del suo complice Terry Nichols dapprima
nella classica posa di fronte alla sua casa, quella dei padri fondatori, ma già qualcosa si
percepisce... un tarlo nascosto da qualche parte nell'inquadratura... o forse è l'atteggiamento
guardingo dell'intervistatore, probabilmente il lugubre humus di molti film dell'orrore che
adottano quell'ambiente e adesso comprendiamo perché: ce lo svela la visita all'interno. La
pistola sotta il cuscino, ma ancora di più il gesto del dito che sancisce una decisione punitiva,
la risata folle.
Ed inoltre: Charlton Heston, icona di Hollywood e presidente della potente lobby delle armi Nra
(National Rifle Association) è originario di una città vicina a Flint... E ancora: a Flint c'è una
base dell'US Air Force dove prestava servizio, prima di trasferirsi in Colorado con la famiglia, il
padre di uno dei due attentatori della Columbine High School... E per finire: Flint detiene un
triste record... lui sparò a lei uccidendola, avevano entrambi 6 anni.
Moore sa bene quindi che i mali radicati nel paese non sono imputabili al terrorismo islamico o
al cecchino o al Marylin Manson di turno, piuttosto a certe politiche economiche (un tempo
erano note come reaganomics) e finanziarie (vedi il succedersi di scandali in stile Enron)
dissennate, alla xenofobia, all'intolleranza razziale, al paramilitarismo e al culto psicotico delle
armi di cui è preda da quelle parti un cittadino su quattro... tutti ingredienti di un distillato molto
nocivo prodotto e diffuso negli Usa quasi quanto il Jack Daniel's.
Interview 3: lobbies, weapons and media
«Essendo necessaria alla sicurezza di
uno stato libero una ben ordinata milizia,
il diritto dei cittadini di tenere e portare
armi non potrà essere violato» Secondo
Emendamento alla Costituzione degli USA
«La dipendenza di tutti i diritti da quello a
essere armati spiega perché l'attuale
presidente della National Rifle Association
(NRA), Charlton Heston, parla della libertà
di possedere armi (garantita dal Secondo
Emendamento) come della nostra 'prima
libertà'».
Paul H. Blackman, Ufficio legale della Nra
Se si considera il triennio 1999-2001 ammontano ad 11.000 in media ogni anno negli USA gli
omicidi con arma da fuoco (contro i 68 del Regno Unito e i 165 del Canada). Secondo i dati
ufficiali le armi da fuoco in circolazione sono 250 milioni su una popolazione complessiva di
circa 288 milioni di individui. Il dato è agghiacciante... ma Moore non rinuncia all'ironia e ci
mostra come in alcune banche sia possibile ricevere una carabina in omaggio
contestualmente all'apertura di un conto corrente; come sia normale passare dal barbiere per
una spuntatina e lì acquistare le munizioni per il proprio fucile.
Più risoluto che divertito appare invece Moore quando, accompagnato da due superstiti della
Columbine rimasti feriti e gravemente menomati, si reca ai grandi magazzini K-Mart, dove Erik
e Dylan si erano riforniti delle centinaia di proiettili poi vomitati sui compagni, e riesce a
strappare alla dirigenza l'impegno a non vendere più le munizioni per armi non destinate
esclusivamente alla caccia. Davvero micidiale risulta infine Moore quando riesce a farsi
ricevere da Charlton Heston, l'avvoltoio della Nra che con il suo carrozzone propagandistico è
sempre riuscito a speculare su tragedie come quella di Littleton o di Flint. Moore finge all'inizio
di essere un sostenitore della prima libertà ma nel corso dell'intervista mette a nudo la
tracotanza, il malinteso patriottismo, la demagogia intrisa di razzismo del vecchio Ben Hur il
quale, ormai malfermo sulle gambe, non trova di meglio che battere in ritirata mentre il regista
lo insegue mostrandogli una foto di quella bambina di 6 anni uccisa a Flint da un suo
coetaneo.
Un pezzo di giornalismo alla Bruno Vespa si configura quello in cui gradualmente l'attore
realizza di essere scrutato nelle sue reazioni da un non benevolo ammiratore: l'espressione si
fa tirata, ma anche l'inquadratura che continua a oscillare alla ricerca di un segno di
nervosismo, lo inchioda, preparando quella uscita vergognosa, quasi impaurita... che non
avesse il fido winchester al fianco sembra proprio una bizzarra dimenticanza.
1. Confronti: la paura come spettacolo
«È l'American Way. Abbiamo sempre terrore di finire sulla strada. Un enorme numero di
americani fa un lavoro che odia solo per poter mantenere l'assicurazione. Perché da noi
il 50% delle tasse va ad ingrassare il budget del Pentagono, non l'assistenza sanitaria.»
Michael Moore, intervistato da Giulia D'Agnolo Vallan, Il Manifesto 18.05.2002
Ok. L'enorme diffusione delle armi da fuoco, sostenuta e incoraggiata dalla lobby
rappresentata dalla Nra, è certamente un grave problema... ma Moore il Testardo ancora una
volta non si accontenta. Come mai, si chiede, in Canada - paese di cacciatori, patria dei
signori Smith & Wesson - ci sono anche lì milionate di sputafuoco ma la gente non si spara
addosso tutti i momenti? Eppure anche i canadesi hanno i loro bei problemi, vivono anche loro
in una società complessa e i dati rivelano che la recessione economica degli ultimi anni li ha
colpiti più duramente che non gli statunitensi (d'altra parte gli effetti del Nafta, l'accordo
commerciale trilaterale sottoscritto nel 1994, sono stati ben più nefasti per Messico e Canada
che non per gli USA). Non sarà piuttosto che in Canada la gente è più tranquilla perché non è
bombardata da media che spettacolarizzano il crimine e diffondono paure e perché può
contare ancora su un modello di Stato sociale impegnato a garantire livelli accettabili di vita?
Invece nel Far West americano, dove ognuno è suae quisque faber fortunae, il 20% della
popolazione possiede oltre la metà dell'ammontare totale dei redditi individuali mentre sono 33
milioni le persone che vivono sotto la soglia di sopravvivenza (oltre 13 milioni quelle nella più
disperata miseria), neri, asiatici e ispanici soprattutto, ma negli ultimi anni la povertà è
proporzionalmente aumentata più tra i bianchi che tra le solite minoranze sfavorite.
Forse la differenza è che a Windsor lo stabilimento più grosso è Ford, mentre a Detroit è GM a
farla da padrona; c'è solo un ponte che divide le due nazioni e apparentemente nient'altro che
il casinò; ma è palese a chiunque percorra il tunnel o scavalchi il fiume che l'atmosfera è
diversa, anche solo osservando i pochi passanti dei due luoghi. La paura è palpabile lungo
tutti gli anelli delle strade che cadenzano le miglia attorno alla downtown del Michigan. I ghetti
delle varie etnie che compongono la silenziosa e ovattata cittadina canadese invece sono
tranquilli, se non proprio ospitali: sono almeno percorribili i marciapiedi nel gelo dell'inverno a
meno 25° o sul lungo lago dell'afa estiva e le casette non sono rinchiuse in reticolati che
decretano l'appartenenza a un villaggio o l'emarginazione da esso, difeso come fort alamo o il
classico quadrato di carri delle carovane dell'epopea western, perché è lì che bisogna andare
a cercare la radice di questo innamoramento per le armi. Moore, più attento a fattori
contingenti e galoppando sulla sua sottile ironia preferisce non confondere con un'analisi
diacronica, rimane nella sincronia e gli unici approcci sociologici sono offerti dalla intervista
all'autore di South Park, che può fornire un ritratto delle condizioni di vita in provincia, avendo
vissuto da gay l'adolescenza a Littleton, ritratta nella nota serie d'animazione. E parla di
"resistenza", come quella partigiana, fino al momento in cui si può sfuggire da quella mentalità
perversa.
Il bimbo di 6 anni che a Flint aveva ucciso una sua coetanea era ospite dello zio e in casa di
questi aveva trovato la pistola. La madre non poteva permettersi un affitto e aveva quindi
chiesto aiuto al fratello. Ma non poteva occuparsi del figlio perché, aderendo a un programma
governativo, era stata costretta a fare due lavori, in una città parecchio distante, per pagare
l'assicurazione senza cui non avrebbe potuto "comprare" scuola e assistenza per il bambino...
Un sistema disumano e perverso che mette davvero paura...
«Abbiamo creato una cultura della paura e permesso a quelli che stanno al potere di
manipolarci per ottenere quello che vogliono. Ci terrorizzano con le creme per la pelle,
con il colorante per capelli, con le diete. È un costante farti sentire che se non sei
migliore dell'altro rischi di perdere qualcosa... » Michael Moore, intervistato da Giulia D'Agnolo
Vallan, Il Manifesto 18.05.2002
«La violenza, anche se orribile e deplorevole, è accettabile... basta che nessuno dica le
parolacce! Ecco il fulcro di questa guerra. È per questo che combattiamo»
Da South Park: il film (Più grosso, più lungo e tutto intero), di Parker, Stone e Brady, USA 1999.
Dunque l'americano spara perché ha tante armi, spara perché è incazzato, spara perché ha
paura.... Il punto è questo: la cultura della paura che l'americano medio quotidianamente
assorbe e che alimenta non solo un paranoico e distorto istinto di conservazione ma infonde il
bisogno di un nemico a tutti i costi. Una cultura della paura che è funzionale a un modello di
sviluppo che è lo stesso da sempre. E Moore ce lo dimostra ricorrendo alle animazioni
realizzate dai creatori della serie South Park, uno dei quali è originario - guarda un po' - di
Littleton... Il cartoon ci offre una versione assai poco gloriosa della storia americana, assente
dai manuali scolastici... gli USA sono costruiti sulla paura dell'altro: paura degli indiani, paura
degli schiavi in catene, paura degli schiavi liberati, paura di tutto ciò che non è bianco...
«E così, nel 1863 Samuel Colt inventò la 6 colpi. Prima di allora, era impossibile sparare
più di un colpo alla volta. Nei 10.000 anni precedenti, era sempre stato necessario
ricaricare l'arma prima di tirare un secondo colpo, di qualunque arma si trattasse. La
Colt invece era portatile ed economica. E fu così che i bianchi del sud si armarono con
quella che chiamarono la 'Pacificatrice' e riuscirono a mantenere la schiavitù per altri 25
anni» Da Bowling for Columbine 2. Seghiamo le foreste, così evitiamo gli incendi
Una cultura della paura che è funzionale ad un sistema di potere dotato di un appetito
smisurato. Scorrono velocemente in Bowling for Columbine le immagini delle più recenti
"guerre giuste" a stelle e striscie: Iran 1953, Guatemala 1954, Vietnam, Indonesia 1965, Cile
1973, Panama 1989... fino all'Iraq e ai Balcani e all'Afghanistan. Un sistema di potere che,
manipolando l'informazione ed il consenso, ha creato «un imperialismo particolarmente
distruttivo basato (...) su una distorsione etica primordiale che fa piazza pulita di secoli di
storia: 'l'altro da me' non mi somiglia e se non accetta di conformarsi al mio modello, io ho tutto
il diritto di sbarazzarmi di lui» (Valerio Evangelisti, "Carta", n. 40, ottobre 2002). Un sistema di
potere che non esita a condannare alla fame il 12% dei suoi cittadini, che fomenta gli abusi e
le rapine delle grandi corporation e società finanziarie, che se ne fotte della legalità
internazionale e dell'ambiente, che non si vergogna, e anzi nasconde, di aver creato e
sostenuto fino a ieri i nemici di oggi, che ha gravissime responsabilità nell'attentato dell'11
settembre e nello stesso tempo ne sfrutta gli effetti a proprio vantaggio, che il prossimo anno
prevede di spendere 355 miliardi di dollari per difendersi (esclusi i costi delle operazioni
militari, finanziati su capitoli speciali) ... I due ragazzi non ne potevano più e hanno cominciato
a sparare: non c'è condanna nella tesa riproposizione delle immagin riprese dalle telecamere
nella scuola mentre si compiva il massacro, maggire è lo scherno per una società mediatica
nel momento in cui il sonoro è affidato a una voce angosciata, ma che non può esimersi dallo
scandire il rituale: "complimenti per la trasmissione", quando viene intervistata in diretta.
Sembra quasi una spiegazione, una comprensione del gesto dei due folli, esasperati dalla
provincia, che restituiscono un po' di quella violenza e finiscono con offrire materiale per
perpetuare quelle riprese che suddividono il quadro in quattro parti: l'ennesimo controllo al
quadrato. Gli assassini di Littleton e il cecchino di Washington non hanno agito in modo
sostanzialmente diverso dal loro Presidente: hanno tirato giù un po' di birilli. Solo che i due
della Columbine High School non erano che degli invasati nazistoidi, il cecchino sembra
essere un ex marine afroamericano convertito all'Islam (l'ideale traditore della patria) mentre
ancora troppi sono convinti, ahi noi, che Bush stia lavorando per il "bene supremo della
nazione e del mondo".
"I vostri bambini non sono al sicuro, in nessun luogo"
«The Sniper», Washington, USA, ottobre 2002
Una nazione che spara è una nazione sotto tiro.
Bibliografia e riferimenti in internet:
Valerio Evangelisti, Black flag, Einaudi, Torino 2002.
Nafeez Mosaddeq Ahmed, Guerra alla libertà. Il ruolo dell'amministrazione
Bush nell'attacco dell'11 settembre, Fazi editore, Roma 2002.
William Rivers Pitt, Guerra all'Iraq - intervista all'ex ispettore ONU Scott
Ritter, Fazi Editore 2002
Il sito del regista – www.michaelmoore.com
The Columbine Memorial Resources Center – www.redhare.com/columbine
Il massacro di Littleton raccontato dall'inviato de La Repubblica
Una banda di giovanissimi fa strage in una scuola di Denver. Dopo sei ore di assedio due
assassini si uccidono
Usa, massacro razzista - 16 morti in un liceo
Tre studenti armati di mitra e bombe sparano contro compagni e professori. Clinton:
pregate per le vittime
dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONII
WASHINGTON - Ai piedi delle Montagne Rocciose l'incubo di un western che esce dallo
schermo e sbrana la vita di innocenti: una gang di studenti, alcuni vestiti di nero con
l'impermeabile lungo, altri in T-Shirt o in tuta mimetica militare danno l'assalto a una scuola, la
loro scuola, il loro liceo, forse per vendicarsi dei compagni che li disprezzano, forse per fare
una "pulizia etnica" di neri, latinos, nemici, forse per pura, incontrollabile rabbia.
E' un'operazione paramilitare perfetta, demenziale e suicida: bombe a mano, fucili da guerra,
assalto con le armi automatiche in pugno contro studenti inermi che dopo sei ore di atrocità
lascia sul campo di battaglia 16 morti, venti feriti e i cadaveri di due degli aggressori, che
scelgono la morte del kamikaze e si suicidano dopo la strage. E per alcune ore il bilancio era
apparso ancora più drammatico: i testimoni parlavano di 25 vittime. Nella sera delle Montagne
Rocciose, questo liceo con il bugiardo nome rasserenante di "Columbine", questo pacifico
sobborgo della pulita, civile Denver diventano un altro mattatoio senza senso di creature
innocenti. Ancora dopo le sei ore di assedio, non soltanto il "perché" di questa mattanza, ma
anche il "come" restano senza spiegazione. Gli studenti che erano dentro il liceo, un enorme
complesso di aule, palestre, librerie, caffetterie che ospita quasi duemila allievi e centinaia di
adulti tra insegnanti e personale per questo sobborgo di classe media e tanto per bene di
Denver, raccontano adesso con lo sguardo vuoto e la voce monotona del profugo che i due
"commando" di punta sparavano soprattutto a neri, a latino-americani, a gente con la pelle un
po' troppo scura e con gli occhi troppo neri e miravano agli "stranieri".Molti dei ragazzi, degli
agnelli designati per il sacrificio umano da questi giustizieri del nulla, li avevano riconosciuti
subito, quando li avevano visti entrare: dicono che erano compagni di scuola e "soldati" della
"Trench Coat Mafia", la confraternita dell'impermeabile, come si facevano chiamare loro, una
ventina di studenti uniti in una gang di vigilantes razziali, di mentecatti, di reietti che i compagni
chiamavano "la merda della terra". Da mesi minacciavano di vendicarsi, di "far vedere a tutti
chi erano".Preparavano in segreto l'assalto studiando vecchi manuali di tattica militare e
rivivendo battaglie della Seconda Guerra Mondiale, come confermano piani, bombe, armi ed
esplosivi trovati nella casa di uno di loro. E ieri lo hanno fatto. I due, o forse tre, commando di
punta sono entrati a mezzogiorno, l'ora dell'intervallo per la colazione, spalancando a calci la
porta della caffetteria, come avevano visto fare nei film, armi alla mano e all'altezza della vita.
Gridavano "Revenge!", vendetta, e tra le urla di quelli che avevano capito al volo e si
gettavano sotto i tavoli e dietro i banchi della mensa, hanno cominciato a sparare. Nei corridoi,
negli atri e nei gabinetti esplodevano le "bombe tubo" che avevano sistemato per seminare
panico. I loro complici fuori dal liceo lanciavano granate, forse bombe a mano, per creare il
caos.I primi ragazzi cominciavano a cadere nel loro sangue. Amici si buttavano sul corpo di
amici feriti, di morose e di fidanzatini, per proteggerli dalle pioggia dei pallettoni e dai proiettili
di una machine pistole, forse una Uzi, che uno dei due stringeva in pugno. Altri si lanciavano
dalla finestra, fortunatamente al primo piano, sfondando i vetri o fuggivano verso i corridoi,
verso le loro classi, verso la vicina biblioteca della scuola credendo di trovare lì, tra quei libri
tanto noiosi e tanto familiari, la salvezza. Ma gli assassini li braccavano, la libreria diventava la
tonnara: il maggior numero dei corpi sarà trovato lì, nella biblioteca, insieme con i cadaveri dei
due kamikaze. Altri, più fortunati, riuscivano a rientrare nelle loro classi, con gli insegnanti, e
barricare la porta, mentre gli echi degli spari e delle esplosioni facevano tremare i vetri.
C'erano classi che pregavano, recitando i salmi della morte sotto la guida dei professori,
aspettando di vedere la porta spalancarsi, "...neppure se attraverso la valle della morte avrò
timore, perché il Signore è il mio pastore...", racconta una ragazza scampata. C'era chi
preferiva stare in silenzio, sdraiato a terra, la mano sulla bocca, sperando di non essere
sentito dai pazzi che perquisivano le stanze e le aule con le armi in pugno, ancora non sazi.
C'era chi telefonava, un ragazzo di cui conosciamo soltanto il primo nome, James, e che
aveva con sé un telefonino cellulare. E' riuscito a correre verso la sua aula deserta, a chiudersi
dentro da solo, sbarrando la porta con banchi e sedie e a chiamare la Cnn perché il centralino
della polizia, il 911, era bloccato dalle troppe chiamate. "Sento gridare.... sento correre nei
corridoi... qualcuno urla... c'è uno sparo... Cristo, un'esplosione" ansima il ragazzo nella diretta
dall'aula e l'anchorman che gli parla vince la tentazione dello scoop e gli consiglia di smettere,
di non telefonare, perché i televisori potrebbero essere accesi, nella scuola del massacro e i
predatori con l'impermeabile nero potrebbero essere all'ascolto e stanarlo. Dentro era puro,
squisito terrore senza nome. Pristina, Sarajevo, Rwanda, Etiopia, le stragi degli innocenti, la
storia umana. Fuori erano scene di guerra in Colorado. Le squadre degli "Swat", le truppe
d'assalto della polizia di stato, stringevano un cordone blindato attorno alla scuola, appoggiati
da mezzi corazzati della Guardia Nazionale immediatamente mobilitata dal governatore dello
Stato. Entravano in varie ali dell'edificio, ripulendole una a una dalle granate e dalle bombe
che i cani idrofobi con l'impermeabile avevano disseminato come trappole. Liberavano la
scuola aula per aula, aiutando a uscire decine di studenti troppo terrorizzati per fuggire da soli,
tenendo lontane migliaia di genitori, di parenti, di amici che accorrevano al liceo delle
Colombine, assediando l'assedio. All'ospedale arrivava una ragazza con nove proiettili in
corpo, ancora viva. Si è salvata per uno di quegli strani, incomprensibili misteri del destino. A
un ragazzo erano estratti 15 pallettoni da caccia, nessuno dei quali aveva toccato parti vitali.
Un'insegnante aveva il cranio fratturato da una pallottola che era rimbalzata senza penetrare.
Niente di simile era mai accaduto, in America. E se i due - forse tre, uno sarebbe stato
catturato dalla polizia, ma le notizie si accavallano, confondono, le voci si rincorrono - che
hanno fatto la strage non parleranno più, i loro quattro o cinque complici che la polizia ha
arrestato, che erano talmente idioti da avere assistito all'attacco dai dintorni del liceo
indossando la maglietta nera della loro "uniforme" avevano la stessa faccia vuota, normale,
banale della follia umana. Era la faccia del ginnasiale di 15 anni che il 21 maggio del 1998
uccise a fucilate due compagni di scuola nell' Oregon e poi tornò a casa, per ammazzare il
padre e la madre. Gli occhi vacui e lontani del diciassettenne "primo della classe" che nel
Tennessee freddò a rivoltellate il compagno più somaro ma più bello che gli aveva portato via
la ragazza tre giorni prima del ballo finale della scuola. Le figurine patetiche dei due bambini,
uno di 11 e l'altro di 13 anni, che aprirono il fuoco sopra la loro Media nell'Arkansas,
ammazzando quattro compagni e un'insegnante. Sono i volti di coloro che potrebbero essere i
nostri figli e, soltanto per il mistero della provvidenza, non lo sono. Clinton, alla sera, dirà che
"è una cosa terribile" e lui prega e invita la nazione a pregare per le vittime, per questi studenti.
Ma dove vanno i liceali idrofobi a procurarsi gli Uzi e le bombe a mano, presidente? (21 aprile
1999)
recensioni
il Manifesto - Mariuccia Ciotta
Il regista del Michigan che distrusse l'onore della General Motors con Roger and me,
contro-storia dello smantellamento della città-fabbrica di Flint, torna a interrogarsi nel suo
modo sarcastico sui mali dell'America, prima e dopo l'11 settembre. Partendo dalla
Columbine High School, Colorado. Nel `99 due teen-ager, armi automatiche in pugno,
uccisero dodici compagni, più un professore. Erano ragazzi come tanti, ragazzi del calibro
di 9mm di diametro, pallottole grandi come un accendino, comprate al supermercato
vicino. Perché gli americani si ammazzano tra di loro? Più di 11.000 all'anno contro i 60
della Germania, e guardate un po' se il Far West dei tedeschi è meglio del nostro, dice
Moore, e parte una clip di Hitler. Bowling a Columbine, caccia al tesoro di 2 ore, è
avvincente e disarticolato come il corpaccione del regista che si trascina di porta in porta,
per chiedere ai «vicini» le ragioni della paura che attanaglia l'americano. Paura amplificata
dai media, che bombardano gli spettatori con il bollettino dei crimini: il sospetto è sempre
l'«uomo nero» ripreso a terra seminudo, avvinghiato dal cop di turno, eroe della serie tv
sulle imprese poliziesche. Moore propone all'autore del reality show una variante, con gli
executives della city sbattuti sulle loro Mercedes per frode fiscale e corruzione.
Improbabile, ma l'Autidel è legge quando conviene. Vere invece sono le immagini che una
telecamera a circuito chiuso ha ripreso quel giorno a Columbine: due ombre armate
sparano alla rinfusa, gli studenti sotto i tavoli, voci fuori campo, registrate dai cellulari,
urlano aiuto. Un bambino che sembra un angelo, e ormai lo è, sorride da un cartellone
sostenuto dal padre in lutto, tra manifestanti contro la diffusione delle armi. Ce l'ha con
Charlton Heston, capo e testimonial della Nra, ex lega sportiva ora gang pistolera di
destra, finanziata dalla lobby potente dei mercanti d'armi. «Per prenderla, dovete passare
sul mio cadavere» declama l'attore ottantenne dal sorriso di Ben Hur sbandierando un
bazooka. È dunque la facilità di acquistare pistole che provoca stragi tipo Columbine?
Troppo facile. In Canada, dove ci porta Moore, ci sono 7 milioni di sputafuoco, ma
pochissimi si sparano addosso. È vero che in Usa se apri un conto in una certa banca ti
regalano un fucile, ma anche a Toronto abitano i signori Smith & Wesson. Allora? I
canadesi hanno l'assistenza sociale, se si ammalano sono curati, si tutela la multietnicità, i
disoccupati sono «ammortizzati» (al festival di Toronto e Vancouver il documentario di
Moore, pieno di humor e senso critico, e così sbilanciato a favore dello stato sociale
garantito da ottawa, ha stravinto i premi del pubblico...). Invece, i ragazzi di Columbine,
piuttosto che un futuro di terrore in un mondo dove vince il più forte, hanno scelto di
anticipare i tempi: uccidere e uccidersi. E se fosse tutta colpa di Hollywood, del rock e di
Internet, come sostiene la destra? Il «detective» Moore riparte e indaga. Il suo film
espanso è opera complessa, angosciata, tra tante gag, ed esprime un grande amore per
la propria gente che vive in una democrazia terrorizzata, col mitra in spalla. I suoi nemici
precedenti erano chiari: la Gm, le Nike, la globalizzazione... «Ma qui il problema è lo
stesso pubblico cui il film è dedicato, quello statunitense - ha detto Michael Moore a Les
Inrockuptibles - La ragione della violenza in Usa non sono le armi, siamo proprio noi. C'è
un problema nel nostro comportamento collettivo, nella nostra mentalità. È un avversario
molto più difficile da circoscrivere. L'etica europea dice: se qualcuno si ammala, se
qualcuno perde il lavoro, noi abbiamo la responsabilità collettiva di aiutare queste persone.
L'etica americana dice: vai a farti fottere». Il giorno di Colombine fu quello del record di
bombe Usa in Kosovo, morirono civili a centinaia. Moore non ci risparmia la visione di altre
stragi Usa, in America latina, Sudan, Iraq, Afghanistan. E la paura impressa sulle facce dei
newyorkesi quelll'11 settembre 2001. Ma, fosse colpa del rock? Risponde il «diabolico»
Marilyn Manson, intervistato in camerino, durante un tour sabotato dai benpensanti. Il
rocker è davvero cattivo, con Bush jr.. E incantevole quando alla domanda su cosa si
sentirebbe di dire ai ragazzi di Columbine, risponde: «Niente. Ascolterei quello che loro
hanno da dire, cosa che nessuno ha fatto». Le misure prese all'indomani della carneficina,
ci racconta il film, consistettero nel sospendere qualche ragazzino sospetto, un kid
sospeso per un mese perché minacciò il maestro con una coscia di pollo e quell'altro,
grande e grosso, oltretutto offeso per non essere stato nominato «nemico pubblico
numero uno» per bombe diligentemente fatte in cantine, e grandi come pallina di golf. E di
palle si tratta a proposito dei due sterminatori di Columbine, che proprio quel fatidico
mattino giocarono a bowling. Gioco sospetto. Tra uno scherzo e l'altro, Michael Moore
diventa il nostro eroe quando insieme a due ragazzi feriti dalle 9mm assedia il grande
magazzino che rifornì la coppia omicida, e lo costringe, dopo un braccio di ferro
incalzante, a promettere il ritiro entro 30 giorni delle micidiali pallottole. Boowling for
Columbine ci fa vedere l'America al di là dei pregiudizi, e la feroce critica al liberismo e al
governo Bush jr. è ritmata da manifestazioni, sorrisi, interviste, lacrime di chi fa resistenza
e prima o poi seguirà l'esempio dell'imponente Moore, che alla fine spegne il suo
sardonico ghigno quando incontra il «divo esplosivo» utilizzando per rintracciarlo una di
quelle «mappe delle case dei divi» che vengono vendute ai turisti di passaggio nella Los
Angeles chic di Bel Air e Westwood. In un'atmosfera ipnotica, la visita a Charlton Heston
nella villa di Beverly Hills diventa un requiem per una bambina di 6 anni ammazzata da un
suo coetaneo a scuola. Il regista, che si è spacciato per un fedele adepto della Nra («è
vero ha la tessera, «un tempo l'associazione aveva carattere prettamente sportivo»)
intervista l'attore difensore della libertà di sparare, che come un re si meraviglia della
richiesta di scuse alla popolazione di Flint (dove è morta la piccola). Heston trasecola
incredulo e barcollante se ne va sulle sue gambette sghembe di vecchio malato. Ma
offeso. Il giorno dopo l'omicidio da guinness dei primati (il più giovane assassino Usa, 6
anni), il divo era arrivato in città col suo carrozzone di esaltati per neutralizzare l'effetto
emotivo di quella morte. La piccola ringrazia Heston con un sorriso ironico, alla Moore,
impresso sulla foto poggiata a una colonna del grande giardino silenzioso.
Corriere della Sera - Maurizio Porro
La maggioranza silenziosa ma armata americana, che tiene la 44 Magnum sotto il cuscino
e si riconosce nell'arteriosclerotico Ben Hur con dentiera Charlton Heston, è la
protagonista di questo straordinario, ironico, disperato documento del grande «no global»
Michael Moore, premiato a Cannes. Partendo dalla strage degli studenti di Columbine e
dall'assassinio di una bimba, Bowling a Columbine traccia uno spietato identikit degli
States, e le stragi collegate, che oggi, con la guerra in vista, è più attuale che mai. Tra
cronaca e storia, virando necessariamente nel grottesco naturale, il regista «extra large»
guarda negli occhi la lobby delle armi (ne girano 250 milioni), racconta delle banche che
offrono in omaggio la carabina, dall'infuocato Michigan fa una puntata nel pacifico Canada,
che ha finanziato il progetto, e mette sul banco degli imputati violenza e razzismo; e
accusa i media di travolgere e stravolgere la realtà. Da vedere: i riferimenti sono ottimi e
abbondanti, tutti sono giustizieri della notte.
La Stampa - Lietta Tornabuoni
A Washington il presidente americano lancia proclami di guerra contro l´Iraq e il resto del
mondo islamico, a Washington il serial killer americano senza volto nè nome ha
ammazzato la sua nona vittima: non c´è momento più adatto per vedere «Bowling a
Columbine» di Michael Moore, appassionato documentario-pamphlet sull´uso delle armi
negli Stati Uniti e sul diritto di possedere armi che la Costituzione garantisce ad ogni
cittadino. Nel 1999, due ragazzi uccisero tre persone al bowling della cittadina di Littleton
nel Colorado; alla non lontana Columbine High School massacrarono tredici studenti e un
professore; poi si ammazzarono. Lo strano titolo evoca questo episodio esemplare, ma il
film ricorda anche il bambino di sei anni che uccise una coetanea a colpi di pistola, la
strage dei due che eliminarono con le bombe 168 persone. Il numero delle armi da fuoco
in circolazione negli Stati Uniti è superiore al numero degli elettori o dei televisori. I morti
ammazzati con armi da fuoco nel 2001 sono stati 11.127 (al confronto, sono stati 65 in
Inghilterra, 381 in Germania, 75 in Australia). Certe armerie fanno vendite in saldo di
munizioni; il terribile M16 è in libera vendita come ogni altro tipo di arma; alcune banche
regalano un fucile ai nuovi correntisti; c´è chi dorme con la 44 Magnum sotto il cuscino. La
rivoluzione armata è all´origine della storia americana; battendosi con le armi contro altri
Paesi gli Stati Uniti sono diventati un impero mondiale. Nella cultura della violenza,
sparare è un sistema, un uso, una reazione coatta. Parallela alla cultura della violenza è la
cultura della paura: prima che dal terrorismo, gli americani sono stati indotti al panico da
api assassine, lamette occultate nelle mele, virus del computer, neri criminali, acque
avvelenate. Michael Moore, americano del Michigan, 48 anni, fondatore e direttore di
giornali alternativi, scrittore, realizzatore di serial televisivi tra i quali «Miami Vice», già
autore di «Roger & Me», documentario contro la General Motors, e di «The Big One»
contro le multinazionali, è un cine-idolo dell´estrema sinistra americana. Grasso,
malconcio, indomito, demagogico, spiritoso, accumula cifre, episodi, testimonianze,
analogie, contraddizioni, affronta la sua materia con implacabile coraggio. Le connessioni
tra Storia e presente, tra fatti diversi, non sono quelle ordinate e settoriali delle
documentazioni televisive, giornalistiche: sono i legami emotivi dell´ansietà politica (come
nel primo Brian De Palma, «Ciao, America», «Hi Mom»), sono i grovigli di realtà, sospetto,
certezze, diffidenza e sdegno d´una visione non mutilata, umanistica, dei nostri giorni
difficili. Da quarantasei anni, dal 1956 de «Il mondo del silenzio» di Jacques-Yves
Cousteau e Louis Malle, il festival di Cannes non metteva in concorso un documentario: lo
ha fatto nel 2002 con «Bowling a Columbine», e ha fatto benissimo.
Il Giorno - Silvio Danese
Michael Moore è l'unico cineasta al mondo che può permettersi di fare un documentario e
vederlo uscire nelle sale, premiare ai festival e tirar su dei soldini. E' ironico, informato, fa
critica sociale fuori dalla politica delle fazioni. Dopo il libello sulla General Motors, "Roger &
Me", negli Stati Uniti l'establishment lo considera un pericolo pubblico. Qui la cosa è più
seria e più tragicamente americana. Sullo sfondo della strage al liceo Columbine in
Colorado, Moore ci accompagna nel tunnel della diffusione, proprietà e uso delle armi
negli Stati Uniti (ce ne sono 250 milioni di pezzi, più degli abitanti), alla radice di una
cultura diffusa di sospetto e giustizia privata, mai smantellata dai tempi della corsa verso il
West al Ku Klux Klan. Dai miliziani del Michigan al pensionato con la 44 Magnum sotto il
cuscino questa è l'epopea di un paradosso: prima spara, poi parla. La dedizione di Moore
al tema non è soltanto analitica: si chiede perchè l'America ha avuto e ha sempre tanta
paura di se stessa.
Film TV - Alberto Crespi
Michael Moore non a mai stato tanto attuale: rivedere il suo vecchio "Roger & Me" sarebbe
il miglior modo per documentarsi sulle "brillanti" strategie industriali della General Motors
(Fiat, attenta!), andare al cinema a vedere "Bowling a Columbine" sarà utilissimo per
capire dove nasca l'irrefrenabile desiderio degli Usa di menar le meni in Irak o in altre parti
del mondo. Il nuovo documentario di Moore (premiato a Cannes 2002) a infatti una lucida
analisi dell'ossessione squisitamente americana per le armi da fuoco; nonché un etto
d'accusa alla NRA, la National Rifle Association, ovvero la lobby di fabbricanti d'armi che
controlla importanti settori dell'economia e dell'opinione pubblica. Come sempre, Moore
dice cose estremamente serie con stile graffiante, veloce, qua e là divertentissimo: vederlo
in azione con la sua mole ingombrante e l'eterno berrettino da baseball, è a suo modo
comico; ma il "messaggio" che arriva è sempre una stilettata per le coscienze. Memorabile
l'irruzione in casa di Charlton Heston, da sempre sponsor e portavoce della NRA; ma
anche l'intervista con Marilyn Manson a da antologia. "Bowling a Columbine" è il trionfo del
politicamente scorretto. Da vedere assolutamente.
l'Unità - Alberto Crespi
Sul valore squisitamente politico di Bowling Columbine ci siamo ampiamente diffusi nei
giorni scorsi, registrando anche il successo di pubblico che il film sta riscuotendo in
America. Ma nel momento in cui esce anche in Italia, vale la pena di ritornare sull'opera in
sé, magari partendo dall'autore, Michael Moore. Non si tratta di un semplice regista. Moore
é, al tempo stesso: un documentarista che agisce nel sociale, un agitatore politico, un
uomo di spettacolo, un grillo parlante - e si intenda quest'ultima definizione nel senso più
nobile e positivo del termine Michael Moore é un uomo che andrebbe in mezzo alle gambe
del diavolo per strappare un'intervista, una dichiarazione, un'immagine utile a dimostrare
la sua tesi; in più é, appunto, un uomo (un artista) con una tesi da dimostrare, che non si
nasconde dietro il falso mito dell'oggettività. Ai tempi di Roger Me, il primo film che lo rivelò
in America e nel mondo, non voleva solo raccontare come la General Motors avesse
rovinato numerose famiglie chiudendo una fabbrica in quel di Flint, Michigan. Voleva
vendicarsi. Lui, a Flint, é nato e cresciuto: ha vissuto la monocultura di una fabbrica di
automobili che in una piccola comunità è luogo di lavoro, fonte di riconoscibilità, collante
sociale le e psicologico, padre e madre, sorella e fratello. Chiudendo, la GM aveva
distrutto tutto ciò e Moore voleva fargliela pagare: il Roger del titolo era il direttore della
fabbrica, e Moore andava a perseguitarlo dovunque pur di metterlo di fronte alle sue
responsabilità. È la stessa cosa che Moore fa con Charlton Heston in Bowling a
Columbine in qualità di portavoce e sponsor della Nra (la lobby dei fabbricanti d'armi), il
vecchio divo non può rifugiarsi nei no-comment quando qualche americano - che ha
potuto comprare un fucile a pompa al supermarket impazzisce e fa una strage. Bisogna
stanarlo. Bisogna, appunto, fargliela pagare. Il cinema di Michael Moore é un cinema che
la fa pagare sempre: a chi tocca, tocca. Lo fa rompendo le scatole in modo totalizzante e
scientifico, esibendo statistiche e pezze d'appoggio, facendo parlare amici e avversari ma
non facendosi alcuno scrupolo se é opportuno ascoltare i primi e sfottere i secondi. Per
questo motivo é un cinema fazioso, partigiano, fragorosamente divertente e
dolorosamente istruttivo. Bowling a Columbine é un documentario, ma vedendolo non ci si
annoia nemmeno per 1o secondi. Partendo dal massacro avvenuto nella scuola di
Columbine in Colorado (alcuni studenti armati fino ai denti massacrarono numerosi
compagni), analizza l'ossessione americana per le armi da fuoco fornendo al proprio
paese un lucido, terribile (e NON deformante) specchio nel quale rimirarsi. Il montaggio
del film é raffinatissimo, il ritmo é incalzante, la presenza di Moore - quando entra in scena
- é paragonabile a quella di un caterpillar. Bowling a Columbine é da vedere
assolutamente. Uscirete sognando che un Michael Moore spunti anche in Italia (non
paragonatelo né a Chiambretti né alle Iene, per cortesia qualche similitudine c'è ma questo
é un cineasta serio, un essere pensante, non un clone televisivo) e giri un finn simile su
Berlusconi. Probabilmente, forzando la legge Cirami, esprimerebbero su di lui un "legittimo
sospetto", lo chiuderebbero in galera e butterebbero via la chiave.