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Ten Magazine SS 16
LA FORZA DI PRADA
Testo Alexander Fury
Miuccia Prada è probabilmente la donna più importante della moda.
Ma non avete bisogno che ve lo dica io. È al timone dell’azienda di famiglia da quasi 40 anni, e crea
vestiti da quasi 30.
È tanto tempo per la moda ma poco per una rivoluzione.
L’influenza della signora Prada sulla moda è stata rivoluzionaria. Negli anni ‘70, prima di entrare
nell’azienda di famiglia, è stata comunista, un periodo della sua vita che è stato molto commentato.
Da un lato, perché sembra strano che una stilista di prodotti di lusso fosse alleata di un regime che
rifiuta il lusso. Però Miuccia Prada vestiva Saint Laurent Rive Gauche mentre picchettava, e riflette
alzando le spalle, che essere comunisti era “molto normale all’epoca. Ogni ragazzo giovane che fosse
vagamente intelligente era di sinistra, per cui non è che fossi così speciale”.
Trovo interessante il concetto di comunismo nelle creazioni di moda della signora Prada – trovo
affascinante tutto dei vestiti della signora Prada ma il fatto che, ideologicamente, abbia preso ai
poveri (un nylon militare chiamato pocone, allacciature funzionali, tessuti “dozzinali”, come il
poliestere, in colori poco di moda, un’aria generale di bruttezza — è lei a dirlo, non io) per vestire i
ricchi, come un Robin Hood al rovescio, è un’interpretazione interessante. Sta livellando le classi
sociali, vestendo la borghesia con gli indumenti del proletariato e facendoglieli pagare una fortuna.
Il fatturato di Prada per il 2014 è stato di 1,85 miliardi di sterline, senza contare gli altri marchi del
gruppo (Car Shoe, Church’s e naturalmente Mill Miu). La signora Prada ha descritto la sua prima
collezione, per l’inverno del 1988, come “uniformi per le donne leggermente diseredate”. “Quando
ho cominciato” racconta con un ampio sorriso “tutti si sono mangiati quello che facevo!” Adesso, se
lo divorano.
Il vero nome di Prada è Fratelli Prada. Intendo l’azienda, non la donna. Il vero nome di lei, tra
l’altro, è Maria Bianchi. Suo padre, Luigi Bianchi, era un produttore di macchinari; Prada è il
cognome di sua madre. Il che è paradossale, considerato che suo nonno, Mario Prada – che, insieme
a Martino Prada, costituiva i fratelli che hanno fondato Prada nel 1913 —pensava che le donne non
dovessero lavorare. Prada è partita con un negozio piccolo ma ben fornito nella Galleria Vittorio
Emanuele II di Milano, che importava bagaglio inglese. Quando il figlio di Mario si rifiutò di
continuare l’attività, nel 1958 toccò a Luisa dirigerla; sua figlia entrò in azienda nel 1970 e ne
assunse le redini nel 1978, dopo studi poco convenzionali di scienze politiche. Negli anni ‘80, fu
adottata dalla sorella non sposata di sua madre e poté così prendere legalmente il cognome Prada.
Così come Maria Bianchi divenne Miuccia Prada solo negli anni ‘80, quello fu anche il periodo in
cui emerse l’azienda Prada, fino ad allora sonnacchiosa. Per prima cosa, gli accessori del marchio –
gli zainetti pratici in nylon nero, antidoto alle borse cariche di logo, penosamente ostentate, che
avevano fino ad allora proliferato. Poi la prima sfilata di moda della signora Prada. “Ricordo che
Women's Wear Daily scrisse: ‘Gli Antenati incontrano i Pronipoti’. Lo apprezzai molto, era proprio
quello che volevo”, commenta oggi. “Fu considerata mostruosa... Ma se guardate le mia prima
sfilata, è come adesso. C’è tutto”.'
Sicuramente. La collezione ha gli scolli leggermente ampi che scendono dalle spalle per cui Prada
ha una propensione, le gonne a grosse pieghe in stile dirndl, la sovrabbondanza di nero, i tailleur
che rappresentano circa l’80% della sua ultima sfilata PE16. Quella sfilata recente, per me,
sembrava intrinsecamente correlata, ancora una volta, alla politica. La politica dell’Europa di
questo momento, con il conservatorismo in ascesa incapsulato in una parata di femminilità quasi
convenzionale, archetipale, gonne e tacchi e ovviamente labbra truccate e orecchini tintinnanti. È
più ricca, naturalmente, di quella prima collezione, una reazione anche oggi ai nostri concetti
stereotipati dell’abbigliamento eccessivo degli anni ’80. Alla signora Prada piace andare
controcorrente, respingere il cliché. “Voglio essere più intelligente”, afferma. “O più difficile, o più
complicata, o più interessante, o più nuova.”
Parlare di Prada ti riporta sempre a Miuccia, anche quando non si sta parlando con lei. Ma oggi, sto
parlando con l’incarnazione fisica, femminile del marchio. È stata lei la motivazione della
ramificazione nell’abbigliamento. “Vestivo molto vintage”, racconta. “Negli anni ’80 ho cominciato
a fare vestiti per me. Tutto era vintage o divise, da cameriera, qualsiasi tipo di divisa. I vestiti da
bambini, ho cominciato a farmi fare i vestiti da una sarta per bambini. Perché c’era pochissimo che
mi piacesse all’epoca.”
Oggi veste solo Prada e Miu Miu. “Questo completo è tutto Miu Miu”, dichiara infervorata
scavallando le gambe e dando uno strattone al collo dell’abito, sulla schiena, per rivelare una
striscia di tessuto azzurro chiaro. “Ma con un’etichetta Prada!” Indossa un tubino grigio al
ginocchio, con le maniche corte e uno scollo a V poco profondo. È fatto di seta impalpabile,
leggermente lucida, fortemente pressata per lasciare profonde pieghe e dare forma al corpetto,
enfatizzando un pannello di forme geometriche in bianco sporco e un verde giallognolo e bilioso che
fa molto Prada e che si potrebbe battezzare “fanghiglia Miuccia”. “La borsa è Miu Miu, le scarpe
sono Miu Miu” continua, gesticolando verso una borsa di serpente verde scuro con una catena
tintinnante e verso le scarpe con inserti di pitone e brillantini. Sono dell’AI15: non riesco a collocare
il vestito. Spiega che è un ibrido. “Un mix della silhouette di una stagione con queste toppe perché
avevo un’ossessione per questo materiale. Ho cercato di farci qualcosa per una sfilata, sono tende
degli anni ‘70. Adesso, le tengo per me.”
Sorride, di un sorriso ampio e bello. La signora Prada adora gli anni ‘70: il decennio che viene
spesso definito quello dimenticato dal gusto. Nel 1996, ha creato due collezioni di abbigliamento
donna che riproponevano i motivi grafici dell’era dei piani dei tavoli in formica e delle carte da
parati, in arancio, marrone e quel “fanghiglia Miuccia”. Altri hanno resuscitato i vestiti eleganti e
sexy proposti da Halston, o le figlie dei fiori hippie; la signora Prada ha scelto deliberatamente
un’altra strada. Si è ribellata, perché lo fa sempre. Da studentessa ha rivolto i suoi interessi al
femminismo, e c’è un’impronta femminista nel suo lavoro, per il fatto di esplorare un concetto
alternativo di bellezza, o addirittura di rifiutare del tutto il concetto. La signora Prada ha chiamato
quelle due collezioni “ugly chic” (eleganza brutta). In precedenza ha descritto il suo lavoro come
vestiti brutti in tessuti orribili.
Non è da prendere tutto troppo sul serio. La signora Prada ha un grande senso dell’umorismo. A
una cena qualche settimana dopo il nostro incontro, mi ha raccontato che in un ritratto recente
Francesco Vezzoli l’ha raffigurata nei panni della Regina Caterina Cornaro, la nobildonna del
Quattrocento che possedeva un tempo la terra su cui è costruito il suo ultimo progetto, la
Fondazione Prada di Milano. Ha detto che Vezzoli la stava prendendo in giro. C’è però qualcosa di
terribilmente rinascimentale nella Fondazione Prada, con la sua torre dorata progettata da Rem
Koolhaas e le sale piene di arte contemporanea, come i mecenati di altri tempi che riempivano i
palazzi di Bernini e Caravaggio. Wes Anderson ha ideato il Bar Luce della Fondazione, non è certo
la Cappella sistina, ma il tutto ti colpisce come una fatica di Ercole.
“La cultura, in ogni caso, è molto importante per un’azienda in generale”, decreta la signora Prada,
e quel sostantivo assume un tono erudito, come se fosse una docente di moda che impartisce
conoscenza alla sua brutta nidiata (io). “Se le persone nella tua azienda sono colte è molto meglio. E
respingo l’idea che l’arte, o la cultura, sia qualcosa che fa bella l’azienda e basta. Io non voglio
farmi bella – in realtà, detesto l’idea di usare la Fondazione per farmi bella. Ma la cultura aiuta
profondamente un’azienda, non per farsi bella. La cultura è necessaria. E questo è il ruolo della
Fondazione, dimostrare che l’arte fa parte della vita.” Lascio vagare lo sguardo per il suo ufficio,
verso il famoso scivolo di Carsten Holler (simile a quelli installati l’estate scorsa nella Hayward
Gallery di Londra). Qui da Prada, l’arte fa parte dell’arredamento. A volte sembra più Prada di
Prada.
Ciononostante, malgrado tutta la cultura e l’arte, la signora Prada non denigra mai né rifiuta la
moda. A differenza di molti stilisti, non ha mai collaborato con un artista per dei capi di
abbigliamento. Beh, quasi mai. Nel 2013, ha creato una serie di borse con Damien Hirst. Quando
sollevo l’argomento, rotea gli occhi. “Damien è un mio amico... Ho detto, “Senti, non voglio fare una
‘borsa’. Così ho fatto una borsa davvero repellente. Era così repellente che nessuna donna l’avrebbe
mai voluta.” Di nuovo quell’ampio sorriso, con un pizzico di malizia. Miuccia Prada ha creato una
serie di borse con insetti intrappolati sotto il plexiglass all’esterno. All’epoca, rimasi colpito dal
disgusto evocato dall’idea stessa di ficcare le mani nelle loro profondità invisibili. Che è esattamente
il messaggio che lei voleva trasmettere.
Ma torniamo alla moda, perché la signora Prada sottolinea che è quella la sua passione, malgrado
l’importanza dell’arte, sia alla Fondazione che fuori (Prada sottolinea il fatto che non ci sono
legami tra la casa di moda e il suo spazio artistico, ma nella sede centrale a sud di Milano si trovano
opere come lo scivolo di Holler e una pecora in salamoia di Hirst). “Non è che la moda non esista,
in realtà. La moda è il centro”. Si china in avanti. “Ho dimenticato di dirle che la cosa più
importante per me è la moda. Dopo tutto, che cosa vuole? È già stato fatto. Che cosa potrebbe
esserci di nuovo? E quella è una mia ossessione personale sin da quando ero giovane. Ho sempre
voluto essere diversa ed essere la prima, se possibile... è la moda. Quindi, che cosa c’è di nuovo?”
La ricerca incessante della novità e della prossima tendenza è la fonte della forza di Prada. È
anche, forse, ciò che causa costernazione tra i non iniziati quando vedono per la prima volta i suoi
cloni. Ho discusso e dibattuto e pontificato su Prada come su nessun altro marchio, con persone
esterne al settore e con addetti ai lavori. Mi dicono che è brutto, molto. Mi chiedono chi lo
indosserebbe. Mi chiedono quale sia il senso. Disturba molte persone.
Mi piace pensare che la signora Prada ne sarebbe soddisfatta. Mi racconta che preferisce non
compiacere nessuno, compresa l’azienda. “Mi piace fare per Prada quello che faccio per Miu Miu, e
viceversa, no? Se i capi lo sapessero, avrei il più grande nemico in azienda. C’è chiarezza e mescolo
tutto in segreto.” Ride di nuovo. “Mischio le carte – ai capi non piace.” Ma sicuramente sarà lei il
capo? “Il capo è l’azienda,” ribatte realisticamente la signora Prada. “Quando pensi ai buyer, sono
loro i capi. Non io, in un certo senso.”
Forse è per questo che alla signora Prada non piace neanche compiacere se stessa. Ha spesso detto
di lavorare con cose che detesta, di occupare uno spazio scomodo. Penso che “scomodo” sia una
parola che le piace – una volta ho definito “noiosa” la sua collezione e ho ricevuto un biglietto di
ringraziamento scritto a mano su una spessa carta Pinaider color crema impressa a mano. La
signora Prada odia, per esempio, il termine “ugly chic” (eleganza brutta) — “una parola terribile, ma
è così che è venuta” – che ha finito per caratterizzare non soltanto quel paio di collezioni che hanno
avuto un impatto sismico sulla moda della metà degli anni ‘90, ma anche il suo approccio alla
moda agli occhi del pubblico. Denotava un’intera sezione della retrospettiva del 2012 dedicata a
Schiaparelli-Prada al Metropolitan Museum of Art di New York.
Mi domando come la signora Prada definirebbe il suo stile? Che cosa pensa, per esempio,
dell’etichetta che il più delle volte le viene appiccicata: quella di intellettuale? “Non so. Non è così
sbagliata da indurmi a protestare. È un cliché.” Un altro ampio sorriso. “Così nel momento in cui lo
dicono, voglio essere quella stupida. Perché scelgo sempre il contrario. Quel cliché significa che sei
noiosa, che sei seria. E questo, lo detesto. Così probabilmente dopo un commento come quello, mi
viene voglia di fare una sfilata molto stupida. Essere la regina degli stupidi.” Ride.
Ride perché niente di ciò che fa Prada potrebbe mai essere stupido. Anche cercando di essere
banale, lo trasforma in un concetto. “Quando lavoro dico sempre: ‘Sì, è bello, ma chi se ne importa?
Qual è il motivo?’ Prima di tutto, ci deve essere un concetto. E dopo, quando arrivo al concetto,
molto spesso dico, Oh, andiamo a casa’. Perché per me, il lavoro è fatto. Ma la trasformazione del
concetto in realtà, è questa la parte difficile. Anche un po’ noiosa, ma difficile.”
Mi domando cosa sia quel processo, quella parte difficile per la stilista più potente e più intelligente
della moda. Temo che pensi che è una domanda banale, focalizzata sui dettagli invece che sul
quadro generale. Ma ecco la particolarità dell’anomala, intrigante, sempre sorprendente Miuccia
Prada: sembra divertirsi in quel processo. Quando cominciamo a parlare, mi diletta con la
complessa costruzione del satin duchesse spugnoso, simile a neoprene, che è stato uno degli elementi
chiave della collezione AI15. Nel backstage, ha confessato di essere ossessionata, ma dopo ha parlato
delle difficoltà tecniche per cucire veramente il materiale, per costruire le forme che le servivano. È
sconcertante da sentire e dimostra quando sia incorporata nella fisicità della moda che crea.
Certamente mette fine all’immagine consueta della signora Prada come di una fredda intellettuale,
ossessionata dai concetti, più che dai vestiti. “Dicono che sono un’intellettuale. Forse lo sono, ma
sono molto più umana, vera”, riflette. “È una cosa che la gente, a meno che non siano amici intimi
o persone che mi conoscono veramente, non capisce. Pensano che sia sofisticata, ma non lo sono. La
mia vera anima è del tutto umana e realistica, probabilmente è per questo che la gente non mi
capisce. Hanno un’idea di me che penso sia incompleta. Se devo scegliere tra il completamente reale
nel modo di vivere più sporco o l’intellettuale, sceglierò sempre la realtà. È questa la mia realtà.”
Ripenso agli echi proletari del suo lavoro, alla bruttezza, ai tessuti che mettono in discussione i
concetti del lusso, vestiti che riescono a provocare un dibattito, non sul fatto che si tratti o meno di
abbigliamento, come, per esempio, il lavoro di Rei Kawakubo (“Dico sempre grazie a Dio Rei non
vuole essere commerciale”, mormora la signora Prada. “Altrimenti saremmo tutti morti”), ma su
cosa costituisca effettivamente la moda. “Ciò che è stato ben sviluppato nella letteratura, al cinema,
nell’arte è la bruttura”, dice la signora Prada says. “Era così normale. Nella moda non era
accettata.” La moda può sembrare povera? Può sembrare dozzinale? Può sembrare reale?
Oggi, questi interrogativi sono la norma, ma alla fine degli anni ‘80, quando Miuccia Prada ha
cominciato, il suo mettere in discussione le norme – gli stereotipi — della moda sembrò eretico.
“Ancora adesso, penso che una parte – quella più conservatrice — del mondo della moda pensi di
attenersi all’idea di glamour e di bellezza che è molto evidente, molto vecchia”, dice aggrottando le
sopracciglia. “Nel profondo, c’è una ribellione a cui non ho mai pensato. È probabilmente quello
che mi porta a fare tutte queste cose contro. È il mio modo di pensare.”
Alexander Fury è fashion editor di The Independent e i