Demenze - Gruppo di Ricerca Geriatrica

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Demenze - Gruppo di Ricerca Geriatrica
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TRIMESTRALE - ANNO X NUMERO 4 DICEMBRE 2007
Demenze
Demenze
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In copertina:
Vincent Van Gogh,
Autoritratto con cappello di paglia
Anno X, Numero 4, Dicembre 2007
SOMMARIO
EDITORIALE
La città e la persona affetta da demenza
M.Trabucchi
5
REVIEW
La riabilitazione nel decadimento cognitivo
G. Bellelli
7
LAVORI ORIGINALI
L’anziano affetto da demenza in unità di cura intensiva
E. Mossello, M. Boncinelli, M. Baccini,
M.C. Cavallini, N. Marchionni
I trattamenti terapeutici nella demenza grave
F. Mangialasche, P. Mecocci
13
17
TERAPIA FARMACOLOGICA
Trattamento farmacologico a lungo termine
nella malattia di Alzheimer: uso di galantamina
G. Zappalà
26
STRUMENTI DI LAVORO
Clinica e strumenti di valutazione nella demenza
grave
A. Bianchetti
NEWS
A cura di C. Mattanza e S. Boffelli
30
36
LA PULCE
La nuova diagnosi della malattia di Alzheimer
Una proposta di rivalutazione dei criteri
NINCDS-ADRDA
A cura di S. Boffelli
38
RECENSIONE
I vecchi e la depressione
A cura di S. Boffelli
39
Demenze
LA RIABILITAZIONE NEL DECADIMENTO
COGNITIVO
Giuseppe Bellelli
INTRODUZIONE
La riabilitazione delle persone affette da decadimento cognitivo rappresenta oggi una nuova frontiera della scienza medica, ed in particolare di quella riabilitativa. Fino a qualche anno fa, la diagnosi di
demenza costituiva in modo più o meno esplicito
una chiara controindicazione al ricovero nei reparti
di riabilitazione. Oggi, invece, la necessità di dare risposte articolate ad una tipologia di utenti in rapida
espansione fa sì che un numero sempre maggiore
di pazienti affetti da varie forme di decadimento cognitivo, ed in varie fasi di gravità, afferisca a questi reparti. In questo senso, la pressione crescente esercitata dagli ospedali per acuti per una dimissione in
tempi rapidi dei pazienti ricoverati (in funzione del
sistema di tariffazione a DRG) rappresenta un potente induttore di trasferimenti nei reparti riabilitativi delle persone con decadimento cognitivo. Queste, infatti, sono, per caratteristiche cliniche, molto
più esposte al rischio di sviluppare sindromi ipocinetiche ed altri eventi clinici avversi, che finiscono
con il ritardare o rendere impossibile il ritorno al
domicilio (Ottenbacher et al., 2004).
ATTIVITÀ FISICA E PREVENZIONE
DELLA DISABILITÀ FISICA E DELLA DEMENZA
Un dato sempre più consolidato in letteratura è che
l’attività e l’esercizio fisico sono in grado di prevenire
la comparsa di disabilità fisica e di declino cognitivo.
Pubblicato nel dicembre 2006 sulla prestigiosa rivista
Journal of Gerontology Medical and Biological Sciences
(The life study investigators, 2006), lo studio LIFE-P (Lifestyle Interventions and Independence for Elders Pilot
Study) ha randomizzato 424 pazienti anziani (età 70-
89 anni) sedentari ed a rischio di disabilità, a due differenti regimi di intervento (attività fisica ad intensità
moderato-elevata vs. intervento educativo di promozione della salute nell’anziano), dimostrando un
chiaro vantaggio a favore del primo. In particolare, a
6 e 12 mesi, il gruppo randomizzato ad attività fisica
di intensità moderata manteneva un miglior punteggio allo Short Physical Performances Battery (SPPB a 6
mesi = 8,7 ± 0,1 vs = 8,0 ± 0,1, p < ,001; SPPB a 12
mesi = 8,5 ± 0,1 versus 7,9 ± 0,2, p < ,001, rispettivamente) in confronto al gruppo allocato al solo intervento educativo. Nel gruppo randomizzato ad attività fisica di intensità moderato-severa miglioravano
significativamente anche le prestazioni motorie nel
percorrere 400 metri ed, al termine dell’osservazione, si registrava una minor incidenza di disabilità motoria (definita come incapacità nel percorrere, camminando, 400 metri) (Hazard ratio = 0,71, 95% intervalli di confidenza = 0,44-1,20).
Per quanto concerne il rapporto tra esercizio fisico e
rischio di sviluppare decadimento cognitivo, l’Honolulu-Asia Aging Study (Weuve et al., 2004), che ha arruolato 2.257 uomini, di età compresa tra 71-93 anni, ha dimostrato che esiste un rapporto di tipo “dose-effetto”: il rischio di decadimento cognitivo aumenta di quasi due volte in coloro che praticano una
blanda attività fisica (camminare in media 400 m al
giorno), in confronto ad individui, di pari età e sesso,
che, invece, riescono a praticare un’attività fisica più
sostenuta (in media 3,2 km al giorno). L’effetto sembra anche associato alla velocità: tanto più è veloce il
cammino, tanto minore è il rischio di sviluppare demenza. A questo proposito, il Sydney Older Persons
Study (Waite et al., 2005) ha dimostrato che soggetti con impairment cognitivo (ma non demenza) e minor velocità dell’andatura al momento della valutazione iniziale, avevano una maggiore probabilità di
convertire a demenza nei successivi 6 anni, rispetto a
soggetti con impairment cognitivo ma senza deficit
DEMENZE - ANNO X - N. 4 - 2007 -
PP. 7
- 12
review
UO Riabilitazione Polifunzionale Specialistica Casa di Cura “Ancelle della Carità”, Cremona
Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia
7
review
Demenze
8
dell’andatura.Anche la durata dell’attività fisica sembra
giocare un ruolo determinante. Nel Nurse’s Health
Study (Weuve et al., 2004), condotto su 121.700 donne, è stata dimostrata una correlazione significativa
tra durata dell’attività fisica e stato cognitivo. La migliore prestazione cognitiva era associata ad un consumo energetico di 5.2 MET/ora/settimana. Nello
stesso studio, un’attività fisica regolare riduceva del
20% il rischio di deterioramento cognitivo, corrispondente ad un guadagno di circa tre anni rispetto
al declino cognitivo atteso in funzione dell’età. Più recentemente, uno studio svolto dal Group Health Cooperative di Seattle ha arruolato oltre 1700 persone
cognitivamente integre e con età maggiore di 65 anni. Larson e collaboratori hanno dimostrato che anche una blanda attività fisica, purché svolta regolarmente, può ritardare la comparsa di demenza e di
malattia di Alzheimer (i benefici erano evidenziati già
per attività fisica comprendente 15 minuti di camminata a passo sostenuto, per tre volte a settimana)
(Larson et al., 2006).
LA RIABILITAZIONE NELLA PERSONA
CON DETERIORAMENTO COGNITIVO
L’efficacia degli interventi riabilitativi nel soggetto con
deterioramento cognitivo è ancora oggetto di discussione. Studi che abbiano affrontato questa tematica sono ancora scarsi e di piccole dimensioni, o hanno seri problemi di interpretazione dei risultati. Ad
esempio, risulta alquanto difficile discriminare quanto,
in termini di efficacia dell’intervento, sia da ascrivere
al trattamento delle patologie determinanti disabilità
e delle comorbilità associate, e quanto invece sia da
ascrivere al trattamento fisioterapico riabilitativo. Il
paziente demente, infatti, ha una maggior probabilità
di sviluppare, durante l’ospedalizzazione, una serie di
eventi clinici avversi (Doraiswamy et al., 2002) che
possono significativamente compromettere lo stato
funzionale. In linea con questa asserzione, dati non
ancora pubblicati dal nostro gruppo, riferiti ad una
popolazione di anziani ricoverati in un reparto di riabilitazione geriatrica, evidenziano una strettissima
correlazione tra delirium (che può comparire in seguito ad una riacutizzazione di patologia somatica) e
prestazioni funzionali misurate con test di performances oggettivi (Trunk Control Test e scale).Alla comparsa di delirium anche lo stato funzionale peggiora
in modo significativo per poi recuperare lentamente
i livelli premortosi dopo che il delirium è stato risolto. I dati sono in accordo con precedenti segnalazioni di Marcantonio e collaboratori che avevano trovato un’analoga correlazione, utilizzando tuttavia scale
di misurazione soggettiva dello stato funzionale (Kiely
et al., 2006).
In assenza di instabilità clinica, il ruolo esercitato dal
decadimento cognitivo sull’outcome funzionale è
controverso. In uno studio pubblicato sul British Medical Journal, che ha incluso oltre 240 pazienti anziani operati per frattura di femore, gli Autori riportarono un’associazione inversa tra gravità del deterioramento cognitivo ed efficacia del trattamento riabilitativo (Huusko et al., 2000). Anche Lieberman e
colleghi avevano dimostrato che l’efficacia del trattamento riabilitativo è associata in modo indipendente e significativo ad un ridotto punteggio al
MMSE, con una probabilità di successo del trattamento riabilitativo 20 volte inferiore nei soggetti
dementi (Lieberman et al., 1996). Più recentemente, un trial randomizzato e controllato pubblicato
sugli Archives of Physical Medicine and Rehabilitation
(Faber et al., 2006) ha dimostrato che un’attività fisica di moderata intensità può esercitare un’efficacia
preventiva nei confronti delle cadute soltanto in
soggetti robusti o “pre-fragili” ma non nei soggetti
anziani fragili, suggerendo indirettamente l’inefficacia
del trattamento in presenza di una consolidata disabilità. Di segno opposto, uno studio statunitense su
58 pazienti con frattura di femore ricoverati in una
struttura riabilitativa, dimostra che i 35 soggetti con
impairment cognitivo avevano la stessa probabilità
di essere dimessi al domicilio con uno stato funzionale (punteggi FIM) sovrapponibile a quello dei 23
pazienti senza impairment cognitivo, suggerendo indirettamente che la demenza non costituisce di per
sé una barriera al trattamento riabilitativo (Goldstein et al., 1997). Sulla stessa linea, un lavoro di Rozzini e collaboratori ha evidenziato che l’efficacia dell’intervento riabilitativo è indipendente dalla gravità
GIUSEPPE BELLELLI
del decadimento cognitivo (Rozzini et al., 1997). A
parziale supporto di questi ultimi studi, una recente
metanalisi di 30 studi clinici randomizzati (19702003), per un totale complessivo di 2020 soggetti,
sembra dimostrare l’efficacia del trattamento riabilitativo anche in soggetti affetti da decadimento cognitivo (Heyn et al., 2004).
QUALE TIPO DI TRATTAMENTO RIABILITATIVO
NELLA DEMENZA?
Il rapporto tra intensità di trattamento riabilitativo e
performances cognitive è argomento di vivace dibattito scientifico negli ultimi anni. Si potrebbe infatti ipotizzare che la presenza di deterioramento cognitivo
possa condizionare il recupero funzionale non tanto
mediante un’influenza diretta sulle performances fun-
zionali, quanto attraverso una minor partecipazione
del paziente al progetto riabilitativo. Due studi sembrano supportare tale ipotesi. Uno studio pubblicato
nel 2002 sul Journal of American Geriatric Association
riguardava un gruppo di 70 anziani ricoverati in un’unità di riabilitazione geriatrica. Gli Autori dimostrarono che livelli differenti di comorbilità somatica si associavano a differenti tipologie di interventi riabilitativi proposti dal terapista della riabilitazione (Bellelli et
al., 2002). In particolare, tanto maggiore era il grado
di comorbilità, tanto minore era la complessità degli
esercizi proposti, suggerendo indirettamente che la
comorbilità esercitasse in qualche modo un effetto
induttore di “semplificazione” del trattamento riabilitativo (Tab. 1). In un altro studio, all’interno di un
gruppo di anziani ricoverati in reparto riabilitativo
dopo intervento chirurgico per frattura di femore, 80
sono stati sottoposti ad un trattamento fisioterapico
con protocolli di intervento già predefiniti e standar-
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Demenze
Tabella 1. Caratteristiche cliniche, funzionali e cognitive di 80 pazienti anziani ricoverati consecutivamente in un reparto di Riabilitazione Geriatrica dopo stratificazione per comorbilità e stato funzionale (scala di Tinetti) all’ingresso.
Età
Sesso femminile, n (%)
Body Mass Index (kg/cm2)
Livelli serici di albumina (mg/dl)
Charlson Index
Numero di farmaci
Durata della degenza (giorni)
Mini Mental State Examination
Geriatric Depression Scale (15 items)
Instrumental ADL (funzioni perse)
Barthel Index
Delta Tinetti (miglioramento dimissione-ingresso)
Numero totale di procedure fisioterapiche
Rehabilitative Procedure Index #
Bassa comorbilità
Elevata comorbilità
Tinetti 0-12 Tinetti 13-28
(n = 24)
(n = 26)
Tinetti 0-12 Tinetti 13-28
(n = 17)
(n = 13)
74,5 ± 12,6
18 (36,0)
25,8 ± 4,5
3,5 ± 0,4
1,5 ± 1,0
5,0 ± 2,0
19,4 ± 6,0
24,7 ± 3,7
4,4 ± 3,2
2,0 ± 2,3
47,0 ± 17,4
16,6 ± 4,6
7,6 ± 2,5
21,3 ± 14,5
71,5 ± 8,9
17 (34,0)
27,2 ± 4,5
3,5 ± 0,2
1,5 ± 1,1
4,5 ± 1,4
16,0 ± 5,4
27,0 ± 2,6
4,4 ± 4,0
2,3 ± 2,2
71,2 ± 13,3
6,0 ± 8,0
5,3 ± 3,1
13,6 ± 16,3
77,8 ± 7,2
9 (30,0)
23,4 ± 4,6
3,5 ± 0,5
6,1 ± 1,7
5,4 ± 1,5
27,0 ± 9,5
17,0 ± 9,7
5,2 ± 4,1
5,7 ± 2,7
29,7 ± 22,5
6,5 ± 5,8
6,7 ± 2,3
11,6 ± 10,9
76,0 ± 9,1
5 (16,7)
24,4 ± 7,2
3,5 ± 0,6
5,1 ± 1,7
4,3 ± 1,6
18,3 ± 3,7
22,1 ± 3,6
6,0 ± 3,4
4,2 ± 2,4
66,4 ± 10,0
4,9 ± 2,6
4,7 ± 1,9
8,1 ± 5,1
9
p
,41
,14
,18
,99
,000
,24
,000
,000
,54
,008
,000
,000
,003
,02
I dati sono rappresentati come media ± deviazione standard se non specificato altrimenti. Bassa comorbilità = Charlson Index 0-3; Elevata comorbilità = Charlson Index ≥ 4. P = significatività all’ANOVA; # indica il livello di complessità ed intensità delle procedure fisioterapiche ed è
stato ottenuto moltiplicando il numero totale di procedure per un livello predefinito di complessità /durata della degenza.
Modificata da Bellelli et al., 2002.
LA
RIABILITAZIONE NEL DECADIMENTO COGNITIVO
review
Demenze
10
dizzati (Bellelli et al., 2007). Utilizzando come proxy
di intensità del trattamento riabilitativo il numero degli esercizi effettuati, gli Autori osservarono un’associazione inversa tra performances cognitive ed intensità riabilitativa. Sebbene non si possa escludere che
la minor intensità del trattamento fosse dovuta in
qualche modo ad una più elevata fragilità biologica
degli individui, che venivano sottoposti ad un minor
numero di procedure riabilitative, è tuttavia anche
plausibile l’ipotesi che il deficit cognitivo abbia condizionato la relazione con il fisioterapista. In altri termini, l’incapacità di costruire una relazione partecipativa
tra fisioterapista e paziente avrebbe portato a sottotrattare i pazienti più compromessi dal punto di vista
cognitivo. Se così fosse, sarebbe necessario ed urgente individuare protocolli di intervento differenziati sulla base delle prestazioni cognitive dei soggetti
anziani, per evitare che il sottotrattamento dipenda
dall’inadeguatezza dei protocolli riabilitativi proposti.
In genere, infatti, l’approccio riabilitativo è desunto
dall’esperienza acquisita su individui più giovani e non
compromessi dal punto di vista cognitivo e ciò pone
seri problemi in termini di appropriatezza del trattamento. Il rilievo è peraltro assolutamente in linea con
un precedente studio di Lenze e collaboratori, nel
quale è stata osservata una correlazione tra la partecipazione del soggetto al trattamento riabilitativo
(misurata con la Pittsburgh Rehabilitation Participation
Scale) ed i punteggi ai test di performances cognitiva
(MMSE) e ad una scala di depressione (Hamilton Rating Scale) (Lenze et al., 2004). Tanto più compromesse le funzioni cognitive e più elevati i sintomi depressivi, tanto minore era la collaborazione del paziente al trattamento riabilitativo ed il recupero funzionale alla dimissione.
IL TRATTAMENTO RIABILITATIVO NEI SOGGETTI
quelle abilità (cognitive) che consentono alle persone
di creare obiettivi, conservarli in memoria, controllare le azioni, prevedere gli ostacoli al raggiungimento
degli obiettivi. Non servono per compiere attività
routinarie, ma sono necessarie nelle situazioni nuove
e non familiari: sono modalità di risposta non iper-apprese. Le disfunzioni esecutive possono essere riscontrate anche in soggetti apparentemente integri
dal punto di vista cognitivo, ad esempio con un punteggio al Mini Mental State Examination >25/30. Lo
studio denominato InChianti ha dimostrato un’associazione inversa tra capacità esecutive e prestazioni
funzionali. In questo studio, che ha arruolato oltre 900
soggetti anziani residenti al proprio domicilio, la velocità del cammino e la capacità di superare gli ostacoli erano dipendenti dall’integrità di queste funzioni misurate con il Trail Making test (Ble et al., 2005). Precedentemente (Lundin-Olsson et al., 1997) Lundin-Olsson aveva valutato l’effetto di un semplice test (Stop
walking when talking), sul rapporto fra mente e funzione: consiste nel porre una domanda al paziente
che deambula ed osservare se mentre risponde tende ad arrestare il cammino. Il test era in grado di predire il rischio di cadute a 6 mesi in modo indipendente e statisticamente significativo. Dati non ancora
pubblicati si riferiscono alla nostra esperienza clinica
su una popolazione di soggetti di varia età, sottoposti
ad intervento chirurgico di sostituzione protesica di
ginocchio (con un punteggio di MMSE >25/30 all’arruolamento). In questi pazienti un deficit nelle funzioni esecutive predice l’incapacità di utilizzare correttamente gli ausili nel cammino ed è associato al tipo di
ausilio prescritto alla dimissione (più grave l’alterazione più ampio il supporto necessario). Anche in quest’ambito si attendono studi futuri in grado di verificare la possibilità di modificare l’outcome riabilitativo,
esercitando un trattamento riabilitativo sulle funzioni
esecutive.
CON DECADIMENTO LIEVE
Recentemente la letteratura scientifica si è occupata
anche di un altro interessante argomento correlato al
decadimento cognitivo, e cioè del rapporto tra performances funzionali (ed outcome riabilitativo) e disfunzioni esecutive. Sono definite funzioni esecutive
LA RIABILITAZIONE NEI SOGGETTI
CON DETERIORAMENTO COGNITIVO AVANZATO
Nelle forme di demenza severa i problemi sono
molteplici e di non facile soluzione. Non sono stati
GIUSEPPE BELLELLI
accertati né gli elementi clinici per orientare la prognosi funzionale né quale approccio da parte del
clinico e del riabilitatore sia più conveniente. In linea
con queste affermazioni, un interessante articolo
recentemente pubblicato sugli Annals of Long Term
Care (Davis et al., 2007) descrive il caso di una paziente ultranovantenne, affetta da deterioramento
cognitivo di grado severo e ricoverata in un reparto di riabilitazione a seguito di frattura di femore. La
persona, inizialmente assegnata ad un reparto di
lungodegenza per pazienti non deambulanti (“non
mobile ward”) sulla base di una valutazione prognostica basata su un mix di informazioni (età, gravi comorbilità, decubiti ad entrambe le caviglie, dismetria degli arti inferiori e presupposta incapacità a
collaborare all’intervento riabilitativo) veniva successivamente rivalutata con un differente approccio
finalizzato ad ottenerne la collaborazione e riabilitata con successo dal punto di vista motorio. A distanza di un anno la paziente era in grado di deambulare autonomamente con supervisione. Il caso
pone in rilievo alcuni aspetti di gestione pratica -clinica e riabilitativa- che possono rivestire un ruolo
molto rilevante nei pazienti con demenza severa,
come recentemente sottolineato (Bellelli et al., in
press). Il primo aspetto riguarda la capacità di ottenere la collaborazione del paziente. Sebbene non
invariabilmente, i pazienti affetti da demenza severa
hanno sovente difficoltà di comprensione e di
espressione verbale, ed è pertanto necessario utilizzare un approccio comunicativo specifico. Il tono
della voce e le espressioni non verbali, ad esempio,
possono essere molto importanti per ottenere la
partecipazione all’intervento riabilitativo. Allo stesso
modo deve essere tenuto in considerazione che la
capacità di mantenere l’attenzione per periodi prolungati è spesso compromessa e che i rumori dell’ambiente possono rappresentare elementi di distrazione e di interferenza sull’esecuzione del compito. È dunque buona norma proporre esercizi
semplici e raccomandare un ambiente tranquillo in
cui effettuare le sedute riabilitative. Potrebbe essere, ad esempio, indicato l’uso di schemi di trattamento ed orari più flessibili, prevedendo sedute di
minor durata (per evitare che dopo 15 minuti il paziente si distragga e non collabori), da ripetersi più
LA
volte nell’arco della giornata per garantire l’intensività del trattamento. Un altro aspetto importante
riguarda la tipologia degli esercizi a cui sottoporre i
pazienti. È ormai evidente che trattamenti che richiedono compiti motori complessi potrebbero
non essere ottimali per questi pazienti. Per i pazienti con “fear of falling syndrome” una recente segnalazione propone l’utilizzo del Body-Weigth Supported
Treadmill (BWST) (Bellelli et al., 2006). Il BWST è un
tapis roulant dotato di imbracatura (nella quale il
paziente viene assicurato ed uno o due terapisti
della riabilitazione hanno la possibilità, stando ai lati
del tapis roulant, di controllare il camino del soggetto e controllarne lo schema del passo). L’efficacia
del BWST è ampiamente dimostrata nella riabilitazione di persone con esiti di stroke e/o morbo di
Parkinson, ma potrebbe rivelarsi molto interessante
anche nei soggetti con demenza in fase avanzata in
quanto permette di accorciare i tempi del carico, favorisce una maggior intensità di trattamento, a parità di tempo dedicato, e garantisce un buon confort
al paziente riducendo la paura di cadere mediante
l’imbracatura.
review
Demenze
11
CONCLUSIONI
Nel prossimo futuro, chi lavora nell’ambito della disciplina riabilitativa si troverà ad intervenire su soggetti affetti da decadimento cognitivo. In quest’ottica, la capacità di individuare risposte concrete sul
piano programmatorio e clinico rappresenterà uno
snodo cruciale. La formazione teorica (sia nel campo delle demenze che nel campo della riabilitazione) dovrà sapersi coniugare con l’esperienza clinica,
rifiutando atteggiamenti ageistici o di superficiale nichilismo terapeutico che ancora oggi, purtroppo,
sono uno stigma di questa terribile malattia. Oggi, a
distanza di un certo numero di anni da quando ci si
è incominciati ad occupare del problema della riabilitazione nei soggetti affetti da decadimento cognitivo, sembrano profilarsi all’orizzonte nuovi scenari e sembra più vicina la comprensione dei meccanismi patogenetici che mettono in relazione la
demenza e l’attività fisica. Inoltre sembrano più chia-
RIABILITAZIONE NEL DECADIMENTO COGNITIVO
Demenze
review
re anche le relazioni tra intervento riabilitativo e recupero funzionale. Restano aperti ancora molti interrogativi a cui fornire risposte adeguate sul piano
umano, etico e clinico. Un compito difficile ma non
impossibile per tutti coloro che credono in questa
professione.
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GIUSEPPE BELLELLI