PARIS KEBAB Capitolo I

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PARIS KEBAB Capitolo I
Paris Kebab
Capitolo I
Un mese e ancora nulla all’orizzonte. Parigi è viva e rigogliosa. Algeri e lo Sceicco Afid li ho lasciati
dietro le spalle nel momento in cui sono salito sulla barca dei disperati, abbandonando le coste
della miseria e dei testimoni del tempo(3). Ero uno di quelli che partiva da disperato per fare della
disperazione il pane quotidiano. Desideravo solo l’incontro con le Uri nel Giardino di Allah. Al di là
del caldo mare spezzerò le genti come loro spezzano il pane infedele.
Le cose nascono da sole e ti raccontano cosa fare, il destino non ti lascia scampo. Ti fa prendere
impervie strade senza ritorno. Strani e imprevisti eventi ti coinvolgono e tu non puoi far altro che
attenderne la fine. Tu sei lì, nudo, dritto davanti a loro, ac aspettare il momento in cui ti prendono e
ti portano lontano.
Afid mi prese e mi portò verso il Creatore… io porterò con me anche la sua ricompensa.
La miseria girava per Fez, ma le sue case e le sue vie ci davano da mangiare. Il paese da dove venivo aveva dato a mio padre una sposa bella e giovane e tanto nulla con il quale vivere. Il mangiare
era desiderio e attesa, la sua ricerca era dannazione per l’anima.
Mio padre ci prese e ci caricò su un camion arancione; io, Karim appena nato e Aasha(4). Tutti
schierati attorno a mia madre, a sentirne l’angoscia che le cingeva i fianchi.
Di mio padre ho cancellato il nome, ma ne resta il ricordo in un figlio che rivive ancora oggi l’angosciante fremito della madre che guarda negli occhi del suo primogenito per l’ultima volta.
Fez era di fronte a noi. Grandiosa nelle mura della città vecchia e sfumata dalla polvere smossa
tutto attorno a noi dal vento che dall’est si schianta sull’Atlante e raggiunge il mare aperto. Non pensavo esistesse così tanta gente nel mondo. Da dove venivo tutti erano parenti, tutti a pregare per gli
stessi martiri e per le stesse bocche.
La Medina avvolgeva con le sue mura il mio nuovo mondo.
Le case e le vie ci davano tutto. Mio padre si dannava per non poter bere e fumare e picchiava mia
madre, che con gli occhi bagnati di lacrime e in silenzio ci guardava con amore. Era così ogni sera
al ritorno dalla ricerca di lavoro e denaro. Io viaggiavo solo nella città e trovavo cibo a sufficienza per
tutti. Bisognava correre e stare attenti. I bidoni erano pericolosi se non conoscevi la Medina.
Ciò che è tuo non lo è mai per sempre e devi correre per salvarti la pelle.
In un bidone nei pressi della conceria conobbi Mohamed. Lui era fortunato perché era solo; non gli
avevano mai detto chi fossero i suoi genitori, né il motivo per il quale si trovasse lì. Lui esisteva e
basta.
Attendeva tutto il giorno che qualcuno riempisse i bidoni, girando schivo per strade e vicoli. Conosceva gli orari dei ristoranti e della servitù delle case ricche e non appena sentiva il rumore della
spazzatura rimbombare sulle lamiere dei cassoni per rifiuti, si buttava a prendere ciò che voleva.
Mohamed era saggio, prendeva le cose per sé e lasciava il resto a chi fosse arrivato dopo di lui.
Il lavoro di mio padre non arrivava e non c’era latte per Karim. Mio padre sapeva tingere fili e tessuti,
le sue mani danzavano davanti ai miei occhi di bambino, caleidoscopiche, colorate di ocra e blu che
mi sembravano le mani di Allah. Diventarono presto ruvide e bianche, le unghie lunghe e scure; è
così che le rivedo nei miei più vivi ricordi.
Quando entrò dalla porta, la luce del sole me ne fece distinguere solo la sagoma lunga e possente.
Quell’uomo portava con sé i profumi del sandalo e delle rose, il senso libero del mare era scritto
sulla sua faccia e la passione ne aveva levigato gli occhi cingendoli di rughe profonde come le onde
dell’oceano.
Offrì a mio padre un lavoro e lui pianse come un bimbo di fronte alle sue ginocchia, accovacciato
davanti al giudeo giustiziere e salvatore. Dov’è Dio, se non nell’uomo?
Il giudeo si accompagnava a mia sorella, già in età da marito, e frequentava la casa in tutte le ore
del giorno e della notte. Aasha non parlava più; Aasha era muta come mia madre, viveva di sensi e
paure. Una foglia secca che aspetta il vento dell’inverno per staccarsi dal suo rigido ramo.
I suoi occhi parlavano più di quanto lei avesse mai detto nella sua vita. Nel profumo in cui io sentivo
sandalo e rose, lei sentiva rovi e sangue. Il giudeo ci dava tutto; mio padre beveva e fumava, mia
madre mangiava e le prendeva, Karim aveva il latte.
Una notte, attesi con Mohamed il calare del sole per passare nei bidoni di un ristorante vicino alla
porta sud. Bisognava stare attenti e fare in fretta. Mio padre non voleva che tornassi nei bidoni; oramai eravamo ricchi e avevamo da mangiare. Aasha bastava per tutti.
Al ritorno, con il mangiare sufficiente per due giorni, passai nell’ombra del vicolo che portava all’entrata delle due stanze dove vivevamo, e da quella adibita per la notte, sentii lamenti, rumore e respiri.
Il panno rosso preso dai bidoni della conceria danzava al vento del nord e lasciava superare la riservata linea del privato, lasciando lo spazio a fotogrammi che sarebbero dovuti restare privi di luce.
Aasha, la faccia schiacciata a terra e lo sguardo verso l’infinito, muoveva le gambe a ogni colpo del
giudeo. Le ossa stridevano per terra e i suoi piedi si muovevano graffiando il cemento del pavimento. Tracciava profondi solchi con le unghie delle mani per aggrapparsi a un terreno che non era più
quell’amico caldo sul quale giocavamo; non diceva nulla, ma piangeva.
La lunga sagoma urlava e si dimenava. Finì e se ne andò nella prima stanza, quella dell’entrata. Mio
padre lo accolse con un sorriso, si inchinò e ringraziò Allah e il giudeo per le grazie ricevute. Offrì
datteri e fichi secchi e aprì un vino di Meknes. Aasha giaceva immobile nella stanza accanto con mia
madre che le accarezzava i capelli e le parlava a voce bassa di grandi cose e grossi cambiamenti.
Non ne capivo il senso, ma gli occhi di Aasha non mi parlavano di cose diverse dal dolore. Nella
stanza per il giorno il giudeo, rivestito e ben sistemato, mangiava i datteri e tirava lunghe boccate
di narghilè.
«Ho in mente di intraprendere cose nuove, di cambiare le vite delle persone che mi hanno capito e
che mi hanno seguito…»
Un respiro profondo, una pausa a occhi chiusi. Lo sguardo si rilassò e i muscoli della schiena si
distesero sotto l’effetto del fumo. «…Non è stato facile costruire la mia fortuna in un paese come
questo, intendo dire, da ebreo tra di voi». Mio padre versava il vino in punta di piedi.
«Ti dobbiamo molto e tutto questo che mi circonda c’è solo grazie alla tua bontà…»
«Ma a sentire i tuoi amici della moschea è Allah a dare la via chiara e a guidarti verso ciò che desideri. Che la smettano di romperci i coglioni! Tu mi hai seguito e io ti voglio ricompensare». Mio padre
tremava di emozione e felicità; gli occhi irradiavano luce viva in tutta la stanza.
«Tu hai già fatto tanto, non devi sentirti in dovere…» disse con voce rotta dall’emozione e con palpiti
di felicità. Il giudeo tese la mano verso di lui per trattenerlo da troppe effusioni e limitarne i gesti di
gratitudine. Gli indicò con la mano la sedia e gli fece cenno di accomodarsi.
«Ho deciso di trasferirmi a Marrakesh per commerciare con la Spagna e la Francia… è una base
migliore di questa città di merda per gli affari della pelle e dei tessuti. Il turismo è in crescita e molti
occidentali hanno costruito alberghi e comperato case lussuose per viverci. Parto fra due giorni,
giusto il tempo di sbrigare le ultime cose e preparare i bagagli. In questa città ci chiamano empi solo
perché, anche se abbiamo una condotta di vita retta e misericordiosa, abbiamo la nostra Verità…
forse laggiù saremo meno empi che a Fez… la vostra lucente capitale spirituale». Un velo gelido
smorzò l’ebbrezza di felicità di mio pare. «Cosa ne sarà di quello che hai a Fez…»
La voce tremava come se stesse per esalare l’ultimo respiro. «…Dai da mangiare a tanta gente
della Medina, non puoi chiudere… siamo figli tuoi».
«Domani arriva mio figlio da Israele, ha studiato economia e seguirà, come il mio braccio fa ora,
tutto ciò che accade nelle attività di Fez. Ho bisogno di uomini e donne di talento, con braccia forti
e animo fiero. Aasha viene con me e la tratterò come una moglie devota merita. Le regalo un futuro
ricco e tranquillo».
«Aasha è tua promessa, forse è piccola per un viaggio così. Sua madre non sarà d’accordo. È una
donna tenace e che a volte non ragiona nel modo giusto… ma ama la famiglia e i figli».
«Aasha viene con me, tu sai come far ragionare tua moglie. È un tuo problema. Che le cose decise
dagli uomini siano fatte rispettare anche alle donne… sii uomo risoluto e coraggioso!»
Mio padre riaccese il narghilè ormai spento e il fumo riprese a riempire i respiri dei due.
«Le parlerò, non ci saranno problemi, Aasha è tua promessa e non attende altro che di accompagnarsi a te. A dodici anni sua madre lavorava già tanto da avere la schiena rotta… sarà pronta fra
due giorni».
Il giudeo non traspariva emozione o interesse, tutto ciò che voleva sarebbe stato fatto… il suo volere
materializzava le cose. Mio padre non fece troppo il difficile, prese altri fichi secchi e datteri e attese
che il fumo gli rilassasse il collo e l’anima.
«Mi serve un aiuto, una persona giovane e di buona stirpe, devota e tenace… che mi possa servire
nelle faccende di casa e nelle commissioni del lavoro». Si guardavano negli occhi, l’uno immobile e
forte, l’altro schivo e sottomesso.
«Vuoi che veniamo tutti a Marrakesh?… non è un problema! Mia moglie può pulire e rassettare
anche per te e la tua famiglia… e io posso fare le commissioni che ti occorrono al termine del mio
lavoro, sai quanto valgo e che il lavoro non mi spaventa».
«Non diciamo fesserie, tu mi servi qui!» esclamò picchiando il pugno sul tavolo, facendo riecheggiare un suono che aveva il sapore del comando e la forza dell’eloquenza.
«Anche se non sei intelligente, sai lavorare e dovrai aiutare mio figlio ad apprendere come si trattano i cani che per non lavorare si rintanano nei caffè nelle giornate calde, e lo devi istruire su come
si deve vivere in un posto dove tutti ti vogliono strappare la borsa del denaro… stronzi, cani, capre
buone a nulla…» borbottò sistemando il tascapane appoggiato ai piedi del tavolo.
La luce in quel momento era forte e dalla finestra rivolta a est un raggio dorato di sole illuminò il volto
del giudeo. Un dio dal profilo corvino baciato dalla luce calda del mattino. Sputò un seme di dattero
verso la porta d’entrata e sprezzante aprì la sua fogna.
«Voglio prendere con me tuo figlio, quello grande. Ha nove anni ed è forte». Il giudeo guardava mio
padre con occhi docili come un agnello e un sorriso che parlava di sicurezza e calore, dolcezza e
fiducia. Lo scrutava come un padre buono guarda il figlio che chiede una seconda possibilità dopo
essere cauto.
Il volto di mio padre non lo vidi, scorsi solo le sue mani che stropicciava l’una nell’altra e il movimento ondulante del busto, come a chiedere grazie, a versare il vino nel calice del proprio dio.
Non parlarono più. Rimasero a fumare finché il sole alto illuminò la voce del muezzin che, dalla
sommità del minareto centrale, faceva salire al cielo la preghiera del pomeriggio.
Non rincasai quel pomeriggio.
Salii per la scala che porta al secondo piano e, arrampicandomi per il condotto dell’acqua, mi inerpicai sulla sommità della piccola costruzione. Avevo cancellato la vista di casa, non i suoi rumori e
i suoi odori.
Le ore calde della giornata stavano passando e il sole bruciava i bordi delle mura. Il fresco mi portava sollievo e attenuava il senso di sete. Il vento umido mi portava il frastuono sordo di mia madre nel
suo contorcersi e piegarsi al convincimento del marito, uomo solo con il bastone e le mani serrate. Al
mio rientro mia madre non aveva più i denti davanti e il suo bell’abito azzurro, dono di nonna Jelca
per la fuga dal Rif(5), aveva il velo marrone come fango. Mi abbracciò e disse le uniche parole che
mi rimangono a suo ricordo.
«I figli devono essere liberi e non devono mai perdere la strada della verità. Non avete valore per
nessun uomo, ma siete oro per il regno di Dio. Vi strappano da me, ma non possono cancellare il
mio amore per voi».
Partimmo all’alba del tredicesimo giorno del secondo mese, e non tornammo mai più.
Fez ci salutava come ci aveva accolti, chiusa tra le sue alte mura che, da quell’istante, avrebbero
protetto anche il dolore di chi ci aveva amato più di se stessa.
Ci caricò su di un grand taxi marrone della Mercedes con le poche cose che ci appartenevano.
Lungo la strada non facevo altro che pensare a quanto stupido fosse nostro padre e al valore che
hanno gli affetti se sull’altro piatto della bilancia si pesano denaro e benessere.
Marrakesh ci accoglieva con il suo smisurato palmeto. Alla nostra destra, tra palme da dattero che
grattavano il cielo e carovane di cammelli ruminanti all’ombra, l’Atlante ci guardava impassibile, immerso nel blu cenere delle ore che precedono il tramonto. Arrivammo finalmente alla città.
Le grandi mura ocra che la cingevano sembravano masse di fango tenute insieme grazie alla magia
di una shuafa(6). Erano smisurate, intervallate da torrette di avvistamento e, a difesa delle porte,
enormi torri a intimorire chi le oltrepassi con passo ostile.
Ci lasciammo alle spalle le palme ed entrammo nella città vecchia. Percorremmo il lungo Avenue
Mohamed V, in fondo al quale troneggia la Moschea Koutoubia, e costeggiammo i giardini botanici
incorniciati da enormi agavi. Non avevo mai visto una costruzione grande come il minareto del sacro
Tempio: un’alta struttura in pietra compatta come un monolite, di color ocra chiaro. Dal vasto muro
di cinta alla base, a osservare severo il brulicare di fedeli, si erge un immenso parallelepipedo diviso
in tre tronconi da bifore e trifore cesellate e bordate da bassorilievi. I lati tagliano perfettamente il
cielo in verticale, innaturali nella loro precisione geometrica. Sulla sommità del solido, aguzza come
punte di frecce orientate verso il cielo, svetta una fila di merletti a difesa dell’area di preghiera. Un
parallelepipedo più piccolo troneggia a dominio della costruzione e porta in testa i simboli dell’Islam.
Giunti ai piedi del minareto svoltammo a sinistra verso la piazza principale. La luce aveva ormai
lasciato spazio alle ombre della sera.
La piazza Jemaa el Fna ci svelava le sue grazie. Scendemmo lentamente per la strada che costeggiava una fila di palme a protezione dell’hammam(7), all’imbocco dell’immenso piazzale. Il giudeo
rivolse la parola ad Aasha per la prima volta da quando eravamo in viaggio.
«Domani andrai a metterti a posto ai bagni, ti aspettano per sistemarti e per darti una lavata». Aasha
conosceva bene il rito della pulizia; nostra madre la portava spesso ai bagni di Fez anche se per
entrare doveva chiedere il denaro a mio pare. Mia sorella amava il rito della pulizia e lo praticava con
scrupolosa passione. Lui ne disprezzava l’odore e lei non era mai pulita a sufficienza per il giudeo.
La strada leggermente in discesa ci donava lo scorcio della piazza da una posizione di predominio,
dove migliaia di persone senza meta si muovevano tra fuochi e suoni di pifferi degli incantatori.
«Se esiste un inferno, allora è questo…» pensai, guardando Aasha.
Lei guardava un fazzoletto che nostra madre le aveva dato come unico ricordo di sé. Lo stringeva
tra le mani come fosse la sua vita. Tra i fumi dei banchi ristorante si scorgevano piramidi di arance e
i richiami dei venditori del loro succo risuonavano da ogni parte della piazza. Superammo l’immensa
distesa di anime erranti e ci inoltrammo nel suk(8).
Entrammo nello stretto budello di strade, tra botteghe e mendicanti. Sembravamo chiusi in una scatola troppo grande per i vicoli che la vedevano passare. Sulla sinistra un’imponente porta d’oro mi
abbagliò per la sua magnificenza; pochi metri dopo ci fermammo.
«Qui va bene, fermati!» intimò il giudeo al conduttore del taxi. «Cerca qualche facchino per i bagagli, noi saliamo in casa». Entrammo prima di lui, si chiuse la porta alle spalle e ci guardò come si
osserva, avidi e soddisfatti, il bottino di una rapina. Il tonfo sordo della porta alle nostre spalle assomigliava al sinistro rumore del coperchio della nostra bara.
Lo odiavo… e non meno lo odio oggi.
Tutte le mattine scendevo in cucina per incontrarlo e prendere la lista delle commissioni da sbrigare
nel corso della giornata.
La notte la passava con mia sorella tra gemiti e rumori, ritmati come lo scandire del tempo. Aasha
non diceva mai nulla. Tra il sudicio ansimare e i suoni gutturali ogni tanto distinguevo la sua voce.
Più che piacere, il suo tono disegnava paura e dolore, i suoi singhiozzi erano pianti. Gli schiocchi
degli schiaffi per gli ordini non eseguiti rapidamente, intesi a soddisfare i piaceri del giudeo, erano
pugnali nella mia schiena. La notte non dormivo quasi mai.
Sentivo il mio sangue bollire di rabbia e le mie braccia tremavano e non potevo controllarle. Non
bastava tapparsi le orecchie con le mani. Volevo mia madre … la agognavo, ma lei non c’era più a
prendere quello che spettava a noi.
Una mattina Aasha scese dalla camera da letto con un occhio nero e la pupilla piena di sangue raggrumato. Non ce la feci più. Volevo uccidere il lurido bastardo. Presi un coltello dal cassetto sotto il
tavolo e mi scagliai contro il giudeo stravaccato a bere tè sulla sedia di fronte a me. Afferrai la lama
tagliente come un pugnale e gli cercai il cuore, con un movimento rapido e la paura di sbagliare. Vidi
il sangue macchiare la kamis(9) bianca che usava per la notte. Godo ancora a pensare al suo viso
serrato in una smorfia di sorpresa per la ribellione e di dolore per lo squarcio dettato dalla mano di
Allah. Barcollò sulla sedia. Aasha si cingeva il volto con le magre mani e la sua bocca si era fatta
piccola a trattenere le urla nell’esile corpo. Il giudeo cade per terra sbattendo la testa sul pavimento
di legno. Avevo ucciso satana, avevo distrutto l’odio del mondo.
«Aasha, scappiamo! Il bastardo è morto e noi possiamo tornare da mamma…»
Non feci in tempo a terminare l’esortazione ad Aasha e a prendere i soldi dal tascapane sulla cre-
denza che il giudeo, più forte che mai, si alzò sicuro da terra, premendosi la mano sulla ferita sanguinante. Rimasi come una statua di sale, immobile con la bocca socchiusa a guardare il risorgere
dagli inferi del diavolo.
Non ci fu misericordia, la lama e la mia forza non erano stati sufficienti a far spirare il demonio
empio. La lama aveva procurato un profondo ma troppo breve taglio e la mia forza non era stata
sufficiente a fracassare le costole che proteggevano la sua misera vita. Aasha muoveva i piedi per
terra come fosse stata morsa da un serpente e i suoi occhi roteavano nelle orbite con l’immagine del
terrore scolpita dentro. Lui mi prese con forza la testa e la sbatté contro il tavolo più volte.
Non ricordo più nulla; so solo che quello fu delizia in confronto a ciò che successe quando mi risvegliai.
Ripresi i sensi per il pulsare del dolore che mi inondava la testa. Vomitai. Il puzzolente liquido mi colò
lungo i vestiti, scaldandomi la pelle al suo appiccicoso passaggio.
Aprii gli occhi e mi trovai in un luogo buio e freddo. Non un raggio di luce filtrava dalle pareti tra le
quali ero rinchiuso. Il dolore alla testa mi faceva contorcere le viscere.
Cercai di pulirmi il volto dal sangue coagulato e dal vomito, ma le mani non si muovevano. Avvertivo
le pareti attorno a me… fredde e umide come una tomba. Il giudeo mi aveva legato mani e piedi a
una cassa e mi aveva chiuso nella cantina scavata nella pietra che usava come deposito. C’era una
sola via di accesso ma, disorientato dal buio denso e scosso dai violenti colpi sul cranio che avevo
ricevuto, non riuscivo a capire dove si trovasse.
Provai a liberarmi dalle corde che mi tenevano legato, ma ogni sforzo aumentava la mia rabbia e la
mia paura. Dov’era Aasha? Cosa le era successo?
Provai a gridare il suo nome nella speranza di sentire la sua voce nella stessa stanza, ma l’unica
risposta fu l’eco gelido della mia voce rimbalzato dalla pietra che mi teneva segregato. Urlai il nome
di mia sorella fino allo spasmo, fino a quando svenni sfinito, privo di voce e con i polsi scorticati dagli
sforzi per liberarmi. Dalle profonde lacerazioni sgorgavano rivoli di sangue a solcare le mie mani.
Mi ripresi di soprassalto sentendo il rimbombo dell’apertura del chiavistello posto a sigillo della
prigione. La luce mi abbagliò e quando riuscii a riaprire gli occhi mi trovai di fronte il giudeo con il
torace fasciato e gli occhi iniettati di sangue. Si richiuse la porta a chiave dietro le spalle e accese
la lampada a olio posata su di una latta di datteri vicino all’ingresso.
Non disse nulla. Appoggiò il suo sudicio sedere su una sedia che mise al centro della stanza, a
pochi metri da me. Guardandomi dritto negli occhi il suo sguardo si faceva ancora più rabbioso e
sinistro. Ero solo e non potevo neppure muovere un dito per difendermi o ucciderlo.
Il suo respiro riempiva tutta la stanza. Avevo paura, provavo un senso di impotenza che solo le botte
di mio padre a Fez mi avevano fatto provare. Dopo qualche istante si sfilò gli scarponi e li ripose con
cura accanto alla lampada a olio.
«Tu non sai nemmeno se sei al mondo se non ti dico io di vivere e di respirare. Tu sei mio…» La
luce gli bordava il lato destro del volto e il tremore della fiamma faceva assumere al suo viso decine
di espressioni orribili e terrificanti.
«Tuo padre ti ha venduto a me!» urlava protetto dalle spesse mura di pietra. «…e ti ho pagato anche
caro, troppo caro per quel cazzo che vali!»
Non dissi nulla mentre si toglieva i pantaloni e li appoggiava allo schienale della sedia. Il suo pene
iniziava a ingrossarsi quando si avvicinò alla cassa e afferrò le corde che bloccavano i miei polsi
sbrindellati. Tagliò con il coltello la cima che mi teneva ancorato alla cassa, lasciando intatto il giro
di corde attorno ai polsi. Mi girò con forza a pancia in giù e tagliando la cintura che assicurava i
pantaloni, li abbassò fino alle caviglie.
Non capivo più nulla. Il terrore di subire quello che avevo visto fare ad Aasha a Fez mi accecava
di disprezzo e vergogna. Provai a urlare, ma solo un afono gemito di disgusto mi uscì dalla gola
strozzata. Premendomi la testa con forza contro il legno mi sputò sul culo. «Sono il tuo parone, il tuo
unico dio… finché non ti libero sei mio…»
Sentii sbattere il suo glande contro le mie cosce e poi farsi largo tra i miei glutei. Stavo male. Il dolore
mi fece vomitare nuovamente, e il movimento ritmico del suo corpo mi iniettava fuoco.
La mia schiena scricchiolava a ogni colpo e la mia pancia si rivoltava da dentro come se dovesse
uscirmi dagli occhi. Contorsi i piedi e le mani per liberarmi dalla morsa dell’empio, ma lui, nonostante
il mio spasmo e le mie contorsioni, non si fermava mai.
Smisi di combattere dopo qualche minuto. Con lo sguardo fisso verso la parete vuota di fronte a me
venivo sobbalzato sulla cassa dalle spinte violente del giudeo.
Non sentivo più nulla; l’unica sensazione che provai fu… morte.
Lì morii. Non avevo ancora dieci anni…
Quando mi risvegliai ero steso a terra, nella polvere di una strada sconosciuta, con il volto ancora
sporco di vomito e sangue. Andai alla fontana della Moschea Quessabine che sorge a nord della
piazza.
Tra corridoi di gente sconosciuta percorsi l’atrio centrale e superando i fedeli intenti nelle abluzioni
mi lavai nella fonte d’acqua purificatrice. Ero solo e spaesato; riconoscevo la piazza, ma non vi ero
mai più stato dal nostro arrivo a Marrakesh. Un vecchio si avvicinò a me e, toccandomi la testa, mi
chiese chi ero e che cosa mi fosse successo. Terrorizzato dalle sue mani luride sul mio corpo gli
scostai il braccio e scappai verso la piazza.
Il nome di quest’enorme piazzale descrive meglio di qualsiasi poeta l’essenza e l’anima della brulicante massa di persone. È la «piazza» dei morti. Le anime qui si mischiano tra di loro in un pellegrinare privo di senso, danzando tra fuochi e lampade ad acetilene. Vagano come in un incubo alla
ricerca della strada che conduce al perdono e alla carità. Avevo paura di ciò che vedevo, ma nulla
era peggio della mia morte.
Mi persi tra la gente per qualche ora, fino al risuonare delle voci del muezzin per la preghiera della
sera, che mi fecero ritornare verso la breve scalinata della Moschea Quessabine. Di fronte a me,
i fedeli che non erano riusciti a entrare nel luogo sacro si piegavano aritmicamente, come in una
danza spontanea, a lode di Allah, ed erano intenti a benedirlo per le grazie ricevute. Seduto sugli
scalini lo vidi entrare, bello e con gli occhi chiari di chi ha avuto la propria stirpe consumata dal vento
del deserto.
Rughe levigate dalla sabbia. Portava con sé il profumo delle spezie e del dattero, l’aria fiera e illuminata. Lo seguii nel Tempio con gli occhi di chi cerca, curioso, il proprio tempo e la propria via. La
veste bianca e lunga scolpita dal vento e, tutto attorno, i saggi con gli occhi da bimbo che ne ascoltavano i pensieri e le idee. Ho pensato fosse Maometto, il Messaggero sceso dall’Aldilà per preparare
il giorno del Re del giudizio.
Immerso nella folla venni spinto fino al patio centrale dove, in piedi su di una cassa ricoperta di stoffa
verde, il Santo alzava gli occhi al cielo.
Con gli occhi di brace brandiva il Libro sacro verso Allah e sfidava gli sguardi sperduti dei saggi e
dei maestri coranici. Gridava verso gli uomini parole di fuoco e tempesta.
«Questo è il libro su cui non ci sono dubbi, la guida per i timorati. Quelli che seguono la guida del
loro Signore, quelli sono coloro che prospereranno».Parlò per molto tempo e gli sguardi di chi lo
ascoltava si illuminavano della luce del cielo.
Quando il Santo ebbe terminato la sua predicazione scese agilmente dalla cassa e, sgusciato dal
gruppo folto degli Imam(10), si avvicinò a lui il vecchio lurido pervertito che mi aveva toccato qualche ora prima alla fontana. Il vecchio, chiuso in una tunica nera e con una folta barba bianca incolta,
mi indicò scambiando qualche parola all’orecchio del Santo.
«Forse non dovevo lavarmi in quella fontana» pensai, e disorientato mi feci largo tra le gambe della
folla, portandomi verso la porta che dà sulla piazza. Il Santo si fece largo tra la gente devota e mi
raggiunse tanto rapidamente che non riuscii neppure ad arrivare alla più vicina via di fuga. Mi toccò
la spalla per arrestare il mio affanno nel vederlo ergersi di fronte a me con l’imponenza di un minareto.
Lo Sceicco Afid mi prese con sé e mi aprì le porte del Paradiso delle Uri.
La mezzaluna dell’islam rischiarava il cielo e mi guidava verso una vita di devozione. La sua luce
scaldava il mare rosso che avevo dentro e cancellava il nero dolore che mi confondeva i pensieri.
Andai con lo Sceicco ad Algeri e, tra le calde mura della Casbah(11), mi insegnò le meraviglie del
Sacro Libro prendendosi cura di me con la passione di un padre e l’ardore di un devoto. Frequentai
il Msid(12) e la scuola coranica. Lui fu il mio Imam e il mio illuminato Fqui(13).