Discriminazioni sul lavoro

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Discriminazioni sul lavoro
1 LE DISCRIMINAZIONI SUI LUOGHI di LAVORO Il tema discriminazioni e della promozione delle pari opportunità nei luoghi di lavoro è un argomento di grande attualità perché investe profili di carattere tecnico-­‐ giuridico, ma soprattutto aspetti culturali, sociali ed economici. Ciò implica che se davvero vogliamo contrastare efficacemente il fenomeno delle diseguaglianze è necessario l’impegno di tutte le istituzioni, senza trascurare l’educazione civica e sociale e, proprio per questo, intendiamo iniziare dai giovani e, quindi, dalla scuola che è il momento principale della loro formazione. I dati attestano che le donne risultano ancora vittime di discriminazione in famiglia , sui luoghi di lavoro e in tutti gli ambiti della società. Gli strumenti giuridici, oggi a disposizione, sicuramente sono molto incisivi, ma è ancora lunga la strada sul piano culturale e politico per assicurare pari opportunità fra uomini e donne e, soprattutto, la consapevolezza che l’integrità psicofisica , il rispetto della dignità delle donne sono diritti inviolabili. Assicurare a tutti pari dignità è un punto di partenza per costruire una società più giusta in cui la donna non solo possa svolgere la sua funzione familiare ma possa ampiamente soddisfare le sue aspirazioni professionali. L’oggetto dell’argomento di questo incontro sono le discriminazioni sul luogo di lavoro e, proprio per focalizzare meglio il problema, vorrei entrare subito nel vivo della discussione e iniziare immediatamente a parlare di cosa siano le discriminazioni di genere sul luogo di lavoro Discriminazioni di genere significa differenza di trattamento fra uomini e donne sui luoghi di lavoro nei settori pubblici e privati che possono riguardare: •
L’accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendete che autonomo : l’ accesso al lavoro è un momento critico in cui si possono verificare le discriminazioni che si possono concretizzare nei criteri di selezione del personale e nelle condizioni di assunzione . 2 Inoltre discriminazioni sul lavoro si possono realizzare nella promozione, nell’attribuzione delle qualifiche,delle mansioni e nella progressione della carriera . Pertanto, per evitare forme di discriminazione nei concorsi pubblici e nelle forme di selezione al lavoro dei privati la prestazione richiesta deve essere sempre accompagnata dalle parole “ dell’uno e dell’altro sesso, fatta eccezione per quei casi in cui il riferimento al sesso costituisca un elemento essenziale per la prestazione ( come nel campo della moda o dello spettacolo) oppure nei casi espressamente previsti dai contratti collettivi; •
l’accesso a tutti i tipi e livelli di formazione, orientamento, perfezionamento, aggiornamento e riqualificazione professionali : nessun criterio deve consentire che ci si una facilitazione nella formazione professionale che favorisca persone appartenenti all’uno o all’altro sesso; •
facile momento di discriminazione è il licenziamento e al riguardo anche ultime modifiche legislative hanno reso nulli i licenziamenti di lavoratrici, attuati a causa di matrimonio intercorrenti dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio fino a un anno dopo della celebrazione del matrimonio. Inoltre il Decreto Legislativo 5/2010 estende il divieto di licenziamento , già previsto dall’art. 151/2001 ( fino a un anno di età del bambino) ai casi di adozione e di affidamento. Il divieto di licenziamento si applica fino ad un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare. In caso di adozione internazionale , il divieto opera dal momento della comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando , ovvero dalla comunicazione dell’invito di recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento. 3 •
La retribuzione non deve mai essere oggetto di discriminazione. Secondo l’art. 28 del D.Lgs 198/2006 , la lavoratrice ha diritto ala stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore; •
l’accesso a prestazioni pensionistiche deve essere uguale fra uomini e donne; •
Inoltre non deve essere discriminato un lavoratore che si sia ribellato ad un comportamento discriminatorio ( vittimizzazione). ESEMPI CONCRETI di DISCRIMINAZIONI Sono atti discriminatori : •
I test di gravidanza al momento dell’assunzione; •
I colloqui , in sede di assunzione, in cui viene richiesto se il candidato è sposato o ha figli; •
Il rifiuto di assunzione perché il candidato è donna; •
Il rifiuto di assunzione di una donna perché il lavoro prevede orari notturni; •
Il rifiuto di assunzione perché il candidato è incinta; •
Il rifiuto di assunzione di una donna perché il lavoro è pesante ( e ciò non è previsto dai contratti collettivi; •
Provvedimenti datoriali che escludono i periodi di maternità dalla base di calcolo per la corresponsione dei benefici di calcolo ai dipendenti; •
Mancata concessione di congedi parentali a cui hanno diritto i genitori lavoratori sia naturali che adottivi; •
Non prevedere nelle selezioni pubbliche la possibilità di posticipare l’esame per le donne in stato di gravidanza; •
Ogni trattamento economico meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità anche adottive; 4 •
Molestie sui luoghi di lavoro ; •
Molestie sessuali sui luoghi di lavoro. DISCRIMINAZIONI DIRETTE ED INDIRETTE Il divieto di discriminazione nel rapporto di lavoro è disciplinato dal D.Lgs. 198/2006 che coordina la disciplina normativa antidiscriminatoria già esistente. La disparità di trattamento tra uomo e donna nel rapporto di lavoro è una delle principali discriminazioni sul lavoro. Le discriminazioni possono essere classificate in discriminazioni dirette e discriminazioni indirette. Discriminazione diretta Le discriminazioni dirette consistono in un atto o un comportamento che produce un effetto discriminatorio e pregiudizievole nei confronti di uno o più lavoratori, in ragione del loro sesso, rispetto agli altri lavoratori in situazioni analoghe. Esempio di discriminazione diretta: •
il rifiuto di un datore di lavoro di assumere una lavoratrice per il suo stato di gravidanza; •
mancata promozione di una lavoratrice perché donna; •
il licenziamento di una lavoratrice durante il periodo di gravidanza; Discriminazione indiretta Le discriminazioni indirette consistono in atti o comportamenti che, pur essendo apparentemente neutri, determinano una posizione di svantaggio nei confronti dei lavoratori di un determinato sesso nei confronti dell'altro. 5 ESEMPIO di DISCRIMINAZIONE INDIRETTA •
Stabilire quale requisito di accesso ad una selezione di lavoro che uomini e donne debbano possedere un’altezza minima uguale; •
stabilire l’esclusione di una tipologia contrattuale utilizzata dalle donne (part-­‐time) DISCRIMINAZIONE COLLETTIVA La discriminazione collettiva è un’assunzione di atti , contratti e comportamenti che, discriminando i lavoratori in base al sesso, producono un danno o un trattamento diverso rispetto a quello di lavoratori di sesso diverso Esempi •
quando il datore di lavoro rimborsa ai soli lavoratori le spese della scuola per i figli; •
quando esclude dal computo del’anzianità di servizio utile per progressioni automatiche di carriera le assenze dl lavoro per la fruizione dell’astensione facoltativa; LE SANZIONI A CARICO DEL DATORE DI LAVORO A SEGUITO DEL D.L:vo 5/2010 •
con il decreto legislativo 5/2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale , è stata recepita la direttiva comunitaria 2006/54 in tema di pari opportunità e parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. 6 Il decreto modifica in primis il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (d.lgs. 198/06). Tra le modifiche: ·∙ l'estensione della nozione di discriminazione ai: -­‐ trattamenti meno favorevoli nell’ adozione di criteri di selezione, nelle condizioni di assunzione nonché nella promozione in ragione dello stato di maternità o paternità, anche adottive (modifica all'articolo 25); -­‐ trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifiutato o non essersi sottomessi a molestie (art. 30-­‐bis). ·∙ il divieto di ogni discriminazione relativa all'accesso e all'applicazione delle forme pensionistiche complementari, salvo consentire forme differenziate di trattamento tra uomini e donne giustificate da elementi di calcolo attuariale (art. 30-­‐bis). ·∙ il riconoscimento alle lavoratrici in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia del "diritto di proseguire il rapporto di lavoro fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini". A tal proposito è stato escluso l'obbligo di comunicazione preventiva al datore di lavoro ed è stato abrogato il rinvio alla legge 604/66 che prevede il solo risarcimento, e non il reintegro, in caso di annullamento del licenziamento. (modifica all'art. 30) ·∙ infine, la tutela giurisdizionale, prevista dal d.lgs. 198/06 avverso i comportamenti pregiudizievoli posti in essere dal datore, è estesa a qualsiasi reazione da parte di quest'ultimo alle attività dirette ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne (art. 41-­‐bis). La legge prevede sanzioni a carico dei datori di lavoro che non osservano le disposizioni in materia antidiscriminatoria . In particolare: inosservanza delle disposizioni riguardanti il divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro , alla formazione e alla promozione, nella progressione di carriera e nelle prestazioni previdenziali. 7 AMMENDA da 250 euro a 1500 euro Inottemperanza alla sentenza del giudice che accerta discriminazione di carattere collettivo AMMENDA fino a 50.000 euro e arresto fino a sei mesi + 51 euro al giorno per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Inottemperanza al decreto del giudice di cessazione della condotta antidiscriminatoria Ammenda fino a 50.000 euro e con l’arresto fino a sei mesi A CHI SPETTA L’ONERE DELLA PROVA? Spetta al datore di lavoro (convenuto) la prova dell’insussistenza della discriminazione qualora il ricorrente fornisce elementi di fatto desunti anche da dati statistici relativi alle assunzioni, alle assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti progressioni di carriera e licenziamenti, idonei a fondare in termini preisi e concordanti , la presunzione dell’esistenza di atti, patti e comportamenti discriminatori in ragione del sesso. MOLESTIA SESSUALE SUI LUOGHI di LAVORO Le molestie sessuali sul luogo di lavoro sono state oggetto di definizione normativa, in ambito giuslavoristico, a seguito della Direttiva CEE n. 2002/73, che ha fornito la definizione specifica di molestie sessuali in aggiunta a quelle di discriminazione (diretta e indiretta) e di molestie o “mobbing di genere” (descrivendo queste ultime, lo si ricorda, come situazioni in cui si verifica un comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona avente lo scopo o l’effetto di 8 violare la dignità di tale persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo). In particolare, le molestie sessuali sono definite dalla direttiva menzionata come tutti quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare creando, anche in tal caso così come nel mobbing di genere, un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo. In ragione di tale ultima caratteristica, la molestia, sia di genere (o mobbing di genere) che sessuale, si può configurare anche quando non sia ravvisabile un’intenzionalità dell’autore e attraverso ogni ipotesi di comportamento, purché sia indesiderato: l’elemento soggettivo in capo all’autore della molestia pertanto non assume alcuna rilevanza in relazione alla concreta configurabilità della fattispecie, che può sussistere anche nel momento in cui l’autore della condotta denunziata riteneva che la stessa non costituisse né una forma di molestia, né una forma di molestia a carattere sessuale. Il legislatore italiano, recependo le linee guida comunitarie, ha statuito che sono considerate come discriminazioni le molestie sessuali, ossia “quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo” (art. 2 comma 1c del D.lgs. n. 145/2005, ora trasfuso nel d.lgs. 11 aprile 2006, n° 198, o Codice delle Pari opportunità, all’art. 26, comma 2°, che replica pedissequamente la formulazione comunitaria). Da una parte, quindi, le molestie in senso lato sono caratterizzate da comportamenti motivati da ragioni riguardanti il genere (art. 26, comma 1°, D.lgs 198/06), quali – frequenti nella casistica 9 giudiziaria -­‐ la marginalizzazione al rientro della maternità, il mobbing conseguente al matrimonio, il mobbing conseguente al rifiuto di un invito a cena, ecc., mentre dall’altra le molestie sessuali consistono in comportamenti aventi come contenuto proprio il sesso e la sfera dell’intimità sessuale della persona. Nell’esperienza concreta, la fattispecie di molestie sessuali si associa di frequente ad una più generale situazione di aggressione psicologica del lavoratore inquadrabile nel c.d. mobbing. Sono i casi in cui l’atteggiamento persecutorio tenuto nei confronti del lavoratore da parte del datore di lavoro o di altro collega o superiore gerarchico ha trovato origine nel rifiuto opposto alle avances o agli atteggiamenti a connotazione sessuale. La mancata condiscendenza alle richieste di carattere sessuale del superiore gerarchico è ripagata spesso da una pressione psicologica e da una sistematica opera di boicottaggio del lavoro svolto nei confronti della vittima, con frequente irrogazione di sanzioni disciplinari e conseguente arresto della carriera, fino ad arrivare alla definitiva estromissione della vittima dal contesto lavorativo, che nel caso di licenziamento assume un carattere discriminatorio e ritorsivo. Nei casi più gravi tale situazione di molestia può proseguire anche nella vita privata della persona; si tratta in questi casi di stalking occupazionale, intendendosi per tale una forma di stalking in cui l’effettiva attività persecutoria si esercita nella vita privata della vittima, ma la cui motivazione proviene invece dall’ambiente di lavoro, dove lo stalker ha realizzato, subito o desiderato una situazione di conflitto, persecuzione o mobbing. Sono i casi, ad esempio, in cui il rifiuto di avances non viene accettato dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico della vittima, la quale comincia ad essere “tempestata” di telefonate anche dopo l’orario di lavoro, o pedinata nel tragitto casa lavoro o seguita in ogni spostamento, subendo un pregiudizio alle sue abitudini di vita associato a sofferenza psichica o paura per la propria incolumità. 10 Gli strumenti di tutela Già ben prima dell’entrata in vigore delle disposizioni richiamate, si è registrato un attivismo giudiziario volto a definire e individuare le tecniche più appropriate per la tutela del lavoratore o della lavoratrice (nella maggior parte dei casi, purtroppo, tali condotte hanno come vittime proprio le donne), che subiscano comportamenti molesti quali quelli sopra esemplificati. In assenza di una disciplina specifica infatti, la giurisprudenza ha infatti svolto per lungo tempo un ruolo di supplenza rispetto al legislatore nell’elaborazione dei precetti giuridici e delle relative sanzioni, richiamandosi principalmente ai generali principi dell’ordinamento che tutelano la dignità e la libertà di autodeterminazione della persona umana. Con riguardo alla configurazione della fattispecie concreta, si è esaminata una vasta casistica dei possibili comportamenti ora tipizzati, almeno in parte (come noto manca ad oggi sia una legge sul mobbing che una legge sullo stalking), dal legislatore: si va dagli apprezzamenti allusivi, alle battute a sfondo sessuale, dagli inviti a cena tendenziosi alle telefonate continue con costanti ricadute sul piano sessuale, dalle proposte di approccio all’approccio tramite baci o toccamenti anche in parti intime. La giurisprudenza, soprattutto di merito, ha svolto dunque una funzione di guida alla qualificazione giuridica delle molestie, procedendo attraverso un’analisi sulla gravità e sull’idoneità offensiva dei fatti addebitati alla luce dei diritti fondamentali della persona, come il diritto alla salute (art. 32 Cost) e il diritto alla dignità umana (art. 41 Cost.). Le fonti di responsabilità per il molestatore e il datore di lavoro Gli strumenti utilizzati dal giudice per accordare protezione alle vittime di molestie sessuali sono molteplici. Le opinioni di dottrina e giurisprudenza si sono orientate prevalentemente nel 11 ricondurre le molestie sessuali poste in essere sul luogo di lavoro alla violazione dell’obbligo di sicurezza e di protezione dei lavoratori ex art. 2087 c.c. In particolare, considerato che tale norma tutela non solo l’integrità fisica, ma anche la “personalità morale” del lavoratore, l’applicazione in campo lavoristico del generale principio del neminem laedere fa assumere a tale principio la forma giuridica di un’autonoma obbligazione contrattuale in capo al datore di lavoro. Sul punto la prevalente giurisprudenza, principalmente di merito, ha statuito che se il datore era a conoscenza o doveva ragionevolmente sapere delle molestie e non è intervenuto per far cessare tali condotte, egli non possa esimersi da responsabilità, da cui deriva il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per il lavoratore, data la natura costituzionale dei beni lesi. In base a tale orientamento, ai sensi dell’art. 2087 c.c. l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure necessarie a tutelare non solo l’integrità fisica ma anche la personalità morale dei dipendenti; tale obbligo di protezione impone al datore di lavoro, cui sia noto il compimento di molestie sessuali nell’ambito dell’impresa, di intervenire, adottando tutte le misure, anche di natura disciplinare e organizzativa, necessarie a garantire la tutela dei dipendenti. Con riferimento alla tutela risarcitoria, la giurisprudenza ha accordato alla vittima di molestie sessuali il diritto al risarcimento di tutti i tipi di danno, compresi quelli non patrimoniali, nelle componenti di danno biologico, morale ed esistenziale. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, l’obbligo di risarcire tali danni grava cumulativamente sia sull’autore del fatto lesivo sia sul datore di lavoro. Nel caso in cui non si possa accertare che il datore di lavoro abbia violato gli obblighi di protezione di cui all’art. 2087 c.c., la giurisprudenza ritiene che lo stesso potrebbe essere ritenuto responsabile in via extracontrattuale ai sensi dell’art. 2049 c.c. per il fatto illecito commesso dal 12 proprio dipendente nello svolgimento delle funzioni assegnate e in solido con lo stesso. Sotto tale profilo, è stata ammessa la prova liberatoria del datore solo nel caso in cui il dipendente autore del fatto illecito abbia agito con dolo e al di fuori di un rapporto di occasionalità necessaria con le proprie mansioni, ossia qualora l’evento lesivo si sia verificato sul luogo di lavoro solo in via del tutto accidentale e casuale. Infatti, il solo dolo del commesso, di per sé, non esclude il rapporto di occasionalità necessaria con le mansioni affidategli, quando l’illecito venga reso possibile oppure agevolato dal rapporto di lavoro con il committente, il quale quindi ne risponde ai sensi dell’art. 2049 c.c. Vengono inoltre sanzionati con la nullità, in quanto discriminatori, ai sensi dell'art. 15 della legge 300/1970 nonché ai sensi dell’art. 26, comma 3° del d.lgs 198/06 cit. gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei lavoratori o delle lavoratrici vittime delle molestie sessuali, qualora vengano adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione a tali molestie. Naturalmente tali condotte hanno anche precisa connotazione di illecito penalmente rilevante.