UNA VITA
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UNA VITA
Guy de Maupassant UNA VITA Capitolo 1 Giovanna, fatte le valigie, si avvicinzalla finestra: che insistenza, la pioggia! L'acquazzone aveva battuto per tutta la notte sul lastricato e sui tetti. Il cielo basso, carico d'acqua, sembrava rompersi e vuotarsi sopra la terra; e spappolarla, la terra, fonderla come zucchero. Passavano raffiche piene d'un calore pesante. Il mugghiare dei ruscelli straripati riempiva le strade deserte ljdove le case bevevano l'umiditjcome spugne; l'umiditjche invade gli interni e fa sudare i muri dalla cantina al solaio. Giovanna era appena uscita di convento; ormai liberata per sempre, pronta a cogliere tutte le gioie della vita che sognava da cosugran tempo. Ora temeva che suo padre esitasse a partire se il cielo non si schiariva, e interrogava l'orizzonte senza sosta, fin dal mattino. Poi, non appena si accorse che aveva dimenticato di mettere il suo calendario nella borsa da viaggio, stacczdal muro il piccolo cartone diviso per mesi, che aveva in mezzo a un ghirigoro la data dell'anno in corso, 1819, in cifre dorate; e cancellzcon la matita le prime quattro colonne radiando ciascun nome di santo fino al 2 maggio: giorno della sua uscita dal convento. "Giannetta!" chiamzuna voce, dietro la porta. "Entra, papj." E comparve il papj. Il barone Simone Giacomo Le Perthuis des Vauds era un gentiluomo dell'altro secolo: un po' maniaco, ma buono. Discepolo entusiasta di Gian Giacomo Rousseau, aveva vere tenerezze d'amante per campi, boschi e bestie. Aristocratico di nascita, odiava per istinto il Novantatrp; ma, filosofo per temperamento e liberale per educazione, perseguiva la tirannia d'un odio inoffensivo, declamatorio. La bontjera la sua grande forza e la sua grande debolezza: una bontjche non aveva abbastanza braccia per accarezzare, stringere, donare: una bontjda creatore, diffusa e senza resistenza, simile al torpore d'un nervo della volontj, a una lacuna dell'energia, quasi un vizio. Uomo teorico, egli meditava tutto un piano d'educazione per sua figlia, volendola felice, retta e sensibile. Giovanna era rimasta in casa fino ai dodici anni: poi, malgrado le lacrime materne, l'avevano chiusa in convitto. Lui l'aveva voluta al Sacro Cuore, in clausura, ignorata e ignorante di tutto; affinchpgliela rendessero casta a diciassette anni quando l'avrebbe temprata egli stesso in una specie di bagno di poesia ragionevole, aprendo quell'anima, istruendo quell'ignoranza ponendola davanti all'amore semplice, alle tenerezze naturali delle bestie, alle leggi serene della vita. Usciva intanto dal chiuso, raggiante, piena di vivacitje di desiderio, pronta a tutte le gioie, a tutti i casi piacevoli che il suo spirito aveva gijpercorso nell'ozio dei giorni, nella lunghezza delle notti, nella solitudine delle speranze. Sembrava un ritratto del Veronese; coi capelli d'un biondo lucente che si sarebbe detto un po' scolorito sulla sua carne ombrata come da una leggera peluria, di una specie di pallido velluto che era il sole a svelare, lambendolo. I suoi occhi erano azzurri, di quell'azzurro opaco degli occhi di certe statuette di porcellana olandese. Aveva anche un piccolo neo sull'aletta sinistra delle narici; un altro a destra, sul mento, dove si arricciavano alcuni peli cosusomiglianti alla sua pelle che si distinguevano appena. Alta, col petto maturo, ondeggiava un poco nel corpo. La sua voce chiara sembrava talvolta troppo acuta; ma il suo riso schietto diffondeva tutt'intorno la gioia. Spesso, con un gesto consueto, portava le mani alle tempie come per lisciarsi i capelli. Ora Giovanna corse incontro a suo padre, e lo abbracciz: "Bene, si parte?" Egli sorrise, scosse i capelli che portava assai lunghi, gijbianchi, e accennzla finestra. "Partire con un tempo simile?" "Oh, papj" pregava carezzevole e tenera. "Farjbello dopo mezzogiorno. Andiamo, andiamo!" "Ma tua madre certamente non..." "Su , su . Vuole. Me ne incarico io." "Be', se riesci a convincere mamma..." Giovanna si precipitzverso la camera della baronessa; perchp aveva atteso il giorno della partenza con un orgasmo sempre piforte. Dopo la sua entrata al Sacro Cuore, non aveva pilasciato Rouen, non permettendole il padre alcuna distrazione prima dei diciassette anni fissati. Due volte soltanto l'avevano portata un paio di settimane a Parigi, ma Parigi era ancora una cittje lei sognava soltanto la campagna. Ora andava a passare l'estate nella tenuta dei "Pioppi", vecchio castello di famiglia situato sulla scogliera presso Yport, e si riprometteva una gioia infinita da quella vita libera sul mare. Era anche stabilito che le si sarebbe fatto dono di questo castello dove avrebbe abitato da sposa. E la pioggia che cadeva senza sosta dalla sera prima le dava il primo vero dispiacere della sua vita. Di lua poco usciva di corsa dalla camera di sua madre gridando per tutta la casa: "Papj, papj! Fa attaccare! Mamma qcontenta, qcontenta!" Continuava il mal tempo. Sembrava anzi che raddoppiasse la pioggia quando il calesse si fermzdavanti alla porta. Giovanna metteva il piede sul montante e la baronessa scendeva le scale fra il marito e una robusta cameriera che la sostenevano. Rosalu a, la cameriera vigorosa come un giovanotto, una normanna del paese di Caux, dimostrava almeno vent'anni benchpnon ne avesse pidi diciotto. In famiglia la trattavano un po' come una seconda figlia, perchpera stata la sorella di latte della padroncina. La sua mansione principale era di guidare i passi della signora divenuta enorme da qualche anno, in seguito a un'ipertrofia di cuore della quale la poveretta si lamentava ormai senza requie. Quando la baronessa raggiunse ansimando la scalinata del vecchio palazzo, guardznel cortile dove l'acqua scorreva a ruscelli e sostenne che, veramente, non era ragionevole partire. Il marito, sempre sorridente, intervenne: "Ma non siete voi, madama Adelaide, che avete dato il permesso?" Poichpaveva questo nome pomposo, lui la chiamava sempre "madama Adelaide" con una certa aria di rispetto un po' motteggiante. Quindi lei riprese a muoversi e salucon fatica sulla carrozza facendone piegare le molle. Il barone si sedette al suo fianco; Giovanna e Rosalu a presero posto sul seggiolino di fronte. La cuoca Liduina portzun mucchio di mantelli da mettere sulle ginocchia, poi due panieri da nascondere sotto le gambe, e si arrampiczfino a papjSimone, a cassetta, e qui si avviluppzin un'ampia coperta che la nascose quasi del tutto. Il portiere e sua moglie vennero a salutare chiudendo poi lo sportello, ricevettero le ultime raccomandazioni per le valigie che dovevano seguire in un carro: e si partu . Simone, il cocchiere, con la testa abbassata, il dorso curvo sotto la pioggia, scompariva nel suo soprabito a triplice collaretto. La burrasca batteva i vetri, inondava la strada. Al trotto dei due cavalli, la berlina scese veloce lungo il ciglio, costeggizla linea delle grandi navi i cui pennoni e cordami si alzavano tristi nel cielo piovoso simili ad alberi spogli, e si inoltrzsul bastione del monte Riboudet. Le praterie furono oltrepassate; e man mano un salice fradicio, coi rami cascanti in un abbandono cadaverico, si incideva forte attraverso un turbine d'acqua. I ferri dei cavalli scalpicciavano e le quattro ruote lanciavano girandole di fango. Tutti tacevano: anche gli spiriti parevano in ammollo come la terra. Mammina, riversata all'indietro, appoggizla testa e chiuse gli occhi; il barone osservava con occhio malinconico la campagna monotona cosuflagellata; Rosalu a, un pacchetto sulle ginocchia, sognava con la fantasticheria quasi animale della gente del popolo. Ma Giovanna, sotto la pioggia tiepida, si sentiva rivivere come una pianta che dal chiuso viene portata alla luce, e l'intensitjdella sua gioia era una specie di fogliame che riparasse il suo cuore dalla tristezza. Benchpnon parlasse, aveva voglia di cantare, di stendere fuori la mano per riempirla d'acqua da bere, e gioiva di essere portata via al gran trotto, seguendo la desolazione del paesaggio, sentendosi, in mezzo a quell'inondazione, al coperto. Sotto la pioggia incessante le groppe lucenti delle due bestie esalavano un vapore come d'acqua bollente. La baronessa, a poco a poco, si era addormentata. La sua faccia incorniciata da sei riccioli regolari e pendenti si ripiegzmollemente sostenuta da tre ampi giri di pappagorgia le cui ultime ondulazioni si perdevano nel pieno mare del seno. La testa si sollevava ad ogni respiro ma ricadeva subito in gi; le guance si gonfiavano quando, fra le labbra socchiuse, passava un sonoro russu o. Il marito si piegzverso di lei e insinuzpian piano un piccolo portafogli di cuoio fra le mani incrociate sul gran ventre. La signora al contatto si sveglia, guarda l'oggetto con uno sguardo assente, con l'ebetudine dei sonni interrotti: monete d'oro, biglietti di banca vanno qua e ljper il calesse. Si sveglia del tutto; la gaiezza della figliola esplode in uno scoppio di risa; il barone raccoglie il denaro e lo rimette in grembo alla dama. "Amica mia, ecco cizche rimane della fattoria di eletot. L'ho venduta per i restauri dei "Pioppi": ai "Pioppi", d'ora in poi, resteremo molto pispesso." La signora contzseimila quattrocento franchi; e se li mise in tasca tranquilla. Era la nona fattoria delle trentuno ereditate dai vecchi. Adesso possedevano ancora circa ventimila "lire" di terreni, che, bene amministrati, avrebbero reso facilmente trentamila franchi l'anno. Poichpessi vivevano senza sfarzo, questa rendita avrebbe potuto bastare; ma c'era in casa un buco senza fondo, sempre aperto, e cioqla bontjche prosciugava il danaro nelle loro mani come il sole prosciuga l'acqua degli stagni. Colava, fuggiva, spariva... In che modo? Nessuno sapeva. Uno dei due diceva a un certo momento: "Non so come sia, ma oggi mi ci sono andati cento franchi senza aver fatto una spesa importante". Questo di dare era d'altronde, per loro, una delle grandi felicitjdella vita: e si intendevano, su questo punto, magnificamente. "E' dunque bello adesso il mio castello?" chiedeva intanto Giovanna. Egli rispose allegro: "Bambina: vedrai." Diminuiva a poco a poco la violenza dell'uragano; non fu piche una specie di nebbia, una fine polvere di pioggia che volteggiava. L'arco delle nuvole sembrava alzarsi e impallidire: poi, improvvisamente, un lungo raggio di sole obliquo scese sulle praterie attraverso uno strappo invisibile. Rotte le nubi, il fondo azzurro del firmamento apparve, lo squarcio si ingranducome un velo che si sbrindelli, e un cielo puro d'un azzurro fresco e profondo si stese tutto sul mondo. Un soffio dolce e vivace passzcome un sospiro felice sulla terra, e costeggiando boschi e giardini si udiva talvolta il canto d'un uccellino che si asciugava le piume. Scendeva la sera. Tutti dormivano, ora, nella vettura: meno Giovanna. Ci si fermzdue volte: per lasciar riposare i cavalli, per dar loro acqua ed avena. Il sole era tramontato. Suonavano campane lontane. In un villaggetto si accese qualche fanale: si accese un formicolu o di stelle nel cielo. Case illuminate apparivano qua e lj, di quando in quando: ma, improvvisamente, sorse la luna, rossa, enorme, come intorpidita dal sonno, dietro la collina, tra i rami dei pini. L'aria era cosutiepida che i vetri potevano restare abbassati. Ora Giovanna si riposava, esaurita dai sogni, sazia di visioni felici. Talvolta l'intorpidimento d'una posizione prolungata le faceva riaprire gli occhi, e allora guardava fuori, nella notte luminosa, e vedeva passare gli alberi d'una fattoria o anche mucche sdraiate in un campo, qua e lj, che alzavano il muso. Cercava una posizione nuova, provava a riprendere un sogno appena cominciato, ma il rotolu o della vettura le riempiva gli orecchi, le affaticava il pensiero, cosuche riabbassava le palpebre, stanche le membra, lo spirito stanco. La vettura si ferma. Uomini, donne davanti agli sportelli, con lanterne. Arrivati! Giovanna salta gi prontamente, destata come di soprassalto. Un mezzadro fa luce al papje a Rosalu a che portano quasi di peso la povera baronessa estenuata, tutta un lamento: "Ah mio Dio! oh miei poveri figlioli!". E non vuol bere, non vuol mangiare, non vuol saperne di nulla: si corica e si addormenta, di colpo. Padre e figlia mangiano soli. Si guardano, si sorridono, si prendono le mani attraverso la tavola, e, invasi entrambi da una gioia infantile, decidono di visitare il castello. Una di quelle vaste dimore normanne, di pietra bianca divenuta grigia, un po' castello, un po' fattoria, con tanto spazio da alloggiare tutta una stirpe: un immenso vestibolo che divide la casa in due parti e l'attraversa da una parte all'altra aprendo le sue grandi porte sui lati: una vasta scalinata che sembra allargare questo atrio e lascia vuoto il centro unendo al primo piano le sue due rampe a mo' di ponte. Al piano terreno, a destra, si entra nel salone immenso, tutto tappezzerie a foglie in cui uccellini allegri svolazzano. L'arredo in tappezzeria a mezzo punto non qche una rappresentazione delle favole di La Fontaine: e Giovanna ha un sussulto di piacere ritrovando una poltrona, amata fin da piccina, con la storia della Volpe e della Cicogna. Di fianco al salone si aprono la biblioteca zeppa di vecchi libri e due altre stanze inutilizzate; a sinistra la sala da pranzo col tavolo nuovo, e poi guardaroba, credenza, cucina, un piccolo appartamento col bagno. Un corridoio taglia per il lungo tutto questo piano: dieci porte di dieci camere si allineano su questa sfilata. In fondo, a destra, ecco l'appartamento di lei. Padre e figlia ci entrarono. Egli l'aveva fatto rimettere a nuovo impiegando soltanto mobili e parati rimasti per lungo tempo in solaio. Vecchie tappezzerie di tipo fiammingo popolavano questo luogo di personaggi molto curiosi. Ma appena scorse il suo letto, la fanciulla lancizun grido di gioia. Ai quattro lati, quattro grandi uccelli di quercia, neri e lucenti di cera, reggevano il letto e sembrava ne fossero i custodi; i fianchi simulavano due larghe ghirlande di fiori e frutta scolpiti; quattro colonne finemente scanalate terminavano in capitelli corinzi e sollevavano una cornice formata da un intreccio di amorini e di rose. Letto monumentale, eppure grazioso, malgrado la severitjdel legno annerito dal tempo. Lo strapuntino e l'arco del cielo scintillavano come due firmamenti. Erano di seta antica il cui azzurro, densissimo, si costellava di grandi gigli ricamati in oro. Dopo aver molto ammirato il suo letto Giovanna sollevzil lume ed esaminzle tappezzerie per capirne bene il soggetto. Un giovin signore e una giovane dama vestita di verde, di rosa, di giallo, nel modo pi stravagante, parlano sotto un albero turchino su cui maturano candidi frutti. Un grosso coniglio dello stesso colore mangia un po' di erba grigia. Al di sopra dei due personaggi, in una lontananza convenzionale, cinque casine tonde, acuminate, e piin alto, quasi nel cielo, un bel mulino a vento, tutto rosso. Si insinuano per tutta questa rappresentazione grandi ramificazioni di fiori. Gli altri due pannelli somigliano al primo; eccetto per il fatto che si vedono uscire dalle case quattro omuncoli vestiti alla fiamminga aprendo le braccia al cielo con meraviglia e grande collera. Poi viene il dramma. Accanto al coniglio che bruca, il giovanotto steso a terra sembra morto, nell'ultimo pannello. La dama lo guarda e si trapassa il petto con una spada: e in cima all'albero i frutti diventano neri. Che vuol dire ciz? Giovanna rinuncia a capire; ma poi scopre in un angolo una bestiolina microscopica che il coniglio, se vivo, potrebbe mangiarsi come un filo d'erba: ed qinvece un leone. Allora comprende: la leggenda di Piramo e di Tisbe! E quantunque sorrida della semplicitjdel disegno, si sente felice di essere mescolata a questa avventura d'amore che parlerjal suo cuore di care speranze e farjlibrare ogni notte, sopra il suo sonno, quell'antica leggendaria mollezza. Tutto il resto dei mobili riunisce gli stili pivari: mobili che ogni generazione lascia dietro di spe fanno d'ogni vecchia casa una specie di museo dove si mischia un poco di tutto. Un superbo cassettone Luigi Quattordici, tutto corazzato di rame splendente, qfiancheggiato da due poltrone Luigi Quindici ancora coperte della loro seta a mazzetti. Ecco un armadio di legno di rosa di fronte al camino che presenta una pendola dell'Impero, sotto il suo globo rotondo, e questa pendola qun'arnia di bronzo sorretta da quattro colonnine di marmo al di sopra d'un giardino dai fiori dorati. Il sottile pendolo esce dall'alveare per una lunga fessura e fa dondolare eternamente su quel giardino una piccola ape dalle ali di smalto. E il quadrante di maiolica dipinta qincastrato nel fianco dell'alveare. La pendola scatta. Le undici. Il barone abbraccia sua figlia; si ritira poi in camera sua. Giovanna va a letto, non senza rammarico. Accarezza con un ultimo sguardo la stanza, e spegne il lume. Il letto si appoggia al muro con la sola testata, e sulla sinistra ha una finestra da cui entra un fascio di raggi che si allarga, a terra, in una bella chiazza lunare. Riflessi sono rimbalzati sui muri: riflessi che accarezzano dolcemente gli immobili amori di Tisbe e di Piramo. Dall'altra finestra, di fronte ai suoi piedi, Giovanna scorge un grande albero tutto inondato da una luce tenue. Si gira verso il piano, chiude gli occhi, ma poi li riapre. Crede di sentirsi ancora scossa dai sobbalzi della vettura che sembra riprodurre o continuare il suo rotolio in quella testolina. Tuttavia resta immobile sperando di favorire il sonno; ma ormai tutto il suo corpo qinvaso dall'irrequietezza del suo spirito, qualcosa come uno spasimo alle gambe, un'agitazione febbrile, che cresce, cresce. Allora si alza e, a piedi nudi, a braccia nude, con la sua lunga camicia che le djun aspetto di fantasma, attraversa la macchia di luce sul pavimento, apre la finestra, guarda nella chiarore della notte, riconosce come in pieno giorno il paesaggio amato fin dalla pitenera infanzia. Ha di fronte a spun largo piano erboso, giallo come il burro, sotto la luce notturna: due alberi giganti si ergono ai lati davanti al castello (a sud un tiglio, un platano a nord): in fondo alla verde distesa un piccolo fitto bosco segna il limite della tenuta che ha per difensori, durante gli uragani, quei grandi antichi olmi in cinque file, quegli alberi enormi, contorti, rasati, logorati, tagliati in discesa come un tetto dagli scatenati venti del mare. Questa specie di parco qlimitato a destra e a sinistra da due lunghi viali di pioppi smisurati, chiamati "popoli" in Normandia, che separano la residenza padronale da due fattorie attigue (questa occupata dai Couillard, l'altra dalla famiglia Martin), e sono questi "popoli" che hanno dato il nome al castello. Al di ljdei pioppi si stende un vasto piano incolto, cosparso di canne, dove la brezza giorno e notte fischia e galoppa: poi, di colpo, la spiaggia si imbatte in una costiera scoscesa di cento metri, bianca e diritta che bagna il piede nel mare. Giovanna guarda lontano la lunga superficie ondulata dei flutti che sembrano dormire sotto le stelle. In quella calma di sole assente tutti i profumi della terra si diffondono intorno: il gelsomino arrampicato ai balconi esala il suo alito penetrante che si mischia all'odore molto pilieve delle foglie che nascono: lente ventate portano il sentore forte dell'aria salina e dell'umore vischioso delle alghe: e la fanciulla si abbandona alla gioia di respirare e il riposo della campagna la calma come un bagno fresco. Tutti gli animali che si svegliano quando arriva la sera e nascondono la loro oscura esistenza nella tranquillitj della notte, riempiono la semioscuritjdi un'agitazione silenziosa. Grandi uccelli muti fuggono per l'aria come macchie, come ombre: ronzii di insetti invisibili sfiorano gli orecchi: corse mute traversano l'erba piena di rugiada o la sabbia dei sentieri deserti: solo qualche rospo malinconico manda alla luna il suo verso breve e monotono. Il cuore di Giovanna sembra che si allarghi pieno di mormorii proprio come quella notte chiara, formicola di mille desideri vagabondi simili a quegli animali notturni il cui fremito la circonda tutta; come un'affinitjla unisce a quella poesia vivente, e sul molle candore notturno si sente tutta percorsa da brividi sovrumani, palpiti di speranze inafferrabili, qualcosa come un soffio di felicitj. Comincia a sognare d'amore... L'amore! Da due anni la riempie con l'ansia del suo dolce muto avvicinarsi. Ormai qlibera di amare e le rimane soltanto da incontrare "lui". Come, come sarj? Non sa, non si chiede. "Egli" sarj"lui": ecco tutto. Sa soltanto che lo adorerjcon tutta l'anima e che lui le risponderjcon passione. Nelle notti simili a questa passeggeranno sotto il pulviscolo luminoso delle stelle e andranno cosu , con la mano nella mano, stretti stretti, sentendo il calore delle loro spalle, mescolando il loro amore alla limpidezza soave delle notti d'estate, talmente uniti che per sola forza di tenerezza penetreranno senza fatica nei loro pensieri pinascosti: e cizcontinuerjall'infinito nella serenitjd'un affetto indicibile. Le sembra di averlo lu , di sentirlo contro il suo petto, e bruscamente un vago brivido di sensualitjl'attraversa dai piedi ai capelli. Stringe le braccia al seno con un movimento incosciente come per spegnere il sogno, mentre sulle sue labbra tese verso l'ignoto passa qualcosa che la fa quasi svenire come se il soffio della primavera le avesse dato un bacio d'amore. D'un tratto, laggi, sulla strada dietro il castello, sente un calpestu o nella notte, e in uno slancio dell'anima esaltata, in un trasporto di fede nell'impossibile, nei casi della provvidenza, nei presentimenti divini, nelle combinazioni della sorte, Giovanna pensa a lui che cammina sulla strada dietro il castello. Dio, fosse lui! Ansiosa, ascolta quel passo; con la certezza che egli si fermerjal cancello chiedendo ospitalitj. Ma no, il viandante qpassato, e lei qtriste come dopo un crudele disinganno. Poi ancora sorride della sua follia, comprende l'esaltazione del suo spirito, lascia, calma, navigare il suo spirito in una fantasticheria piragionevole, cerca di penetrare l'avvenire architettando la sua stessa esistenza. Con lui vivrjqui dentro, in questo castello tranquillo che domina il mare. Avrj due figlioli: il maschio per lui, per spla mimmina. E gijli vede correre sull'erba, tra il platano e il tiglio, seguiti dagli sguardi estatici della madre e del padre che si scambiano occhiate piene di passione al di sopra delle due testoline. Cosufantastica a lungo mentre la luna compie il suo cammino nel cielo fino a scomparire nel mare. L'aria qpifresca. Impallidisce l'orizzonte, a oriente. Canta un gallo nella fattoria di destra: altri rispondono dalla fattoria di sinistra. Voci rauche che sembrano venire da molto lontano, attraverso i muri dei pollai; e gijle stelle spariscono nell'immenso arco del cielo albeggiante. Un piccolo grido di uccello. Escono dalle foglie mormorii timidi timidi, si fanno piarditi, diventano pi vibranti, piallegri, di ramo in ramo, di albero in albero. E lei qgijin piena luce. Alza la testa china sulla cavitjdelle palme, richiude gli occhi abbagliata da quello splendore di aurora. Una montagna di nubi purpuree, nascoste in parte dietro il gran viale dei pioppi, getta bagliori di sangue sulla terra cosu risvegliata. Appare a poco a poco l'immenso globo fiammeggiante, rompendo le splendide nuvole, crivellando di fuoco gli alberi, i piani, l'oceano, tutto l'orizzonte. E Giovanna qfolle, qfelice. Una gioia delirante, un intenerimento infinito dinanzi al fulgore delle cose inonda il cuore, e il cuore viene meno. E' il suo sole! E' la sua aurora! E' il principio della sua vita! E' la nascita delle sue speranze! Tende le braccia verso lo spazio radioso col desiderio di abbracciare il sole volendo parlare e gridare qualcosa di divino come quel prorompere del giorno, ma resta inerte, paralizzata in un entusiasmo impotente. Allora posa la fronte sulle mani, sente i suoi occhi pieni di lacrime, e piange, piange: piange e gode il suo pianto. Quando rialza la testa, il grande spettacolo del giorno nascente qgijfinito. Si sente esaurita, infreddolita, un po' fiacca, e senza chiudere la finestra si stende sul letto, sogna ancora qualche minuto, si addormenta cosuprofondamente che alle nove non sente la chiamata del padre e non si sveglia che quando egli qqui, nella stanza. Il padre voleva mostrarle gli abbellimenti del castello, del "suo" castello. La facciata che dava sull'interno dei terreni era separata dalla strada da un vasto cortile disseminato di meli: la strada, detta vicinale, che passava fra i muri dei contadini e raggiungeva, una mezza lega pilontano, la grande strada dall'Havre a Fpcamp. Una viale diritto raggiungeva la scalinata partendo dall'orlo del bosco. I locali di servizio, piccoli fabbricati in rocce marine, coperti di stoppie, si allineavano ai due lati del cortile, lungo i fossati delle due fattorie. I tetti erano nuovi, le serramenta erano state rifatte, i muri riparati, le camere ritappezzate, tutto l'interno ridipinto. E il vecchio scuro castello portava, come macchie, le imposte fresche di un bianco argenteo e le sue recenti intonacature sulla grande faccia grigiastra. L'altra facciata, quella su cui si apriva la finestra di Giovanna, guardava il mare lontano, sopra al boschetto e alla muraglia di olmi rosi dal vento. Padre e figliola visitarono tutto, senza tralasciare nemmeno gli angoletti; passeggiarono lentamente nel viale dei pioppi che chiudevano quel che si chiamava "il parco". L'erba era spuntata sotto gli alberi stendendovi il suo verde tappeto, e in fondo il boschetto grazioso arruffava i suoi sentieruoli tortuosi, separati come da tramezzi di fogliame. Una lepre schizzzbruscamente (Giovanna ne fu impaurita) e se la battpfra le canne marine, verso la spiaggia. Dopo colazione, poichpla signora Adelaide, ancora estenuata, avvertuche andava a riposarsi, il barone propose di scendere fino a Yport. Partirono padre e figlia attraversando subito il piccolo villaggio di Etouvent dove si trovavano i "Pioppi" (tre contadini li salutarono come se li avessero sempre conosciuti), poi entrarono nei boschi in discesa che si abbassavano fino al mare seguendo una vallata tortuosa. Ed ecco Yport. La strada inclinata, con un ruscello nel mezzo e mucchi di rifiuti dinanzi alle porte, esalava un acuto odore di salamoia. Donne sulle soglie che raccomodavano i loro poveri cenci guardarono quella coppia passare. Reti brunastre, dove erano rimaste scaglie lucenti simili a pagliuzze d'argento, si asciugavano contro le porte delle casupole da cui uscivano gli odori delle famiglie numerose brulicanti in una camera sola. Qualche colombo passeggiava sull'orlo del ruscello in cerca del cibo. Giovanna si interessava a tutto; tutto le sembrava curioso e nuovo come una scena di teatro. Ma improvvisamente, svoltato un muro, scorse il mare, d'un blu opaco e liscio che si stendeva a perdita d'occhio. Si fermarono sulla spiaggia, a guardare. Passavano al largo vele bianche come ali di uccelli: la scogliera, enorme, a destra o a sinistra: una specie di promontorio chiudeva la vista da un lato mentre dall'altro la linea della costa si prolungava indefinitamente fino a non essere piche una linea, Un segno appena segnato. Appariva un porto, altre case, in una delle spaccature piprossime, e le tre piccole ondicine che guarnivano il mare di frangette schiumose rotolavano sui sassolini con un leggero mormoru o. Le barche paesane, tirate a secco sul pendu o del ghiareto, riposavano su un fianco offrendo al sole le loro guance rotonde spalmate di pece. I pescatori le stavano preparando per la marea della sera. Un marinaio si avvicinzpresentando i suoi pesci, e Giovanna acquistzun grosso rombo che voleva portare ai "Pioppi" lei stessa. Allora l'uomo offrui suoi servigi per le passeggiatine in barca, ripetendo il suo nome spiccatamente, in modo da farlo entrar bene in mente ai signori. "Lastique, Peppino Lastique." Il barone promise di non dimenticarlo. Poi padre e figliuola ripresero la via del castello; e siccome il grosso pesce affaticava Giovanna, gli passznelle branchie il bastone paterno, e ciascuno ebbe la sua estremitj. Cosuessi andavano allegri risalendo la costa, chiacchierando come due ragazzi, la fronte al vento, gli occhi brillanti, mentre il rombo affaticava il loro braccio, a poco a poco, spazzando l'erba con la coda grassa. Capitolo 2 Una esistenza piacevole e libera comincizper Giovanna. Leggeva, sognava, girellava, sola sola, nei dintorni, o vagava lenta lungo le strade, con lo spirito perduto dietro le sue fantasticherie, oppure scendeva sgambettando per le piccole valli tortuose le cui groppe portavano, come una cappa d'oro, un vello di fiori di giunco. Il loro odore dolce e penetrante, esasperato dal calore, la inebriava come un vino profumato, cosuche lei cullava il suo spirito al sussurro lontano delle ondicine che rotolavano sulla spiaggia, anzi a quest'ultima ondata. La stanchezza a volte la faceva cadere sull'erba fitta di un pendu o: a volte, quando scopriva di colpo dopo una svolta, in un'insenatura, un triangolo di mare turchino, scintillante al sole e con una vela all'orizzonte, allora Giovanna provava una gioia disordinata, come al misterioso avvicinarsi di una felicitjlibrata su lei. L'amore della solitudine la afferrava nella dolcezza del fresco paese, nella calma del morbido orizzonte, e restava cosua lungo seduta in cima alle alture che i piccoli conigli selvatici venivano a saltellarle tra i piedi. Spesso si metteva anche a correre sulla scogliera sferzata dall'aria della costa, tutta vibrante della gioia squisita di potersi muovere come i pesci nell'acqua, come le rondini nell'aria. Ovunque seminava ricordi come si getta il seme sulla terra; ricordi le cui radici resistono fino alla morte; e le sembrava di gettare in quei luoghi anche un po' del suo cuore. Poi cominciza bagnarsi con passione. Nuotava a perdita d'occhio, forte e ardita com'era, senza coscienza del pericolo. Si sentiva bene in quell'acqua fredda, limpida e azzurra che la portava con sp, la cullava. Quand'era lontana dalla spiaggia, si metteva supina, le braccia incrociate sul petto, gli occhi perduti nell'azzurro fondo del cielo rapidamente attraversato dal volo di una rondine, dal biancore di un uccello marino. Non si udiva pi alcun rumore, se non il mormoru o lontano della risacca o un vago bisbiglio della terra che sembrava scivolasse nell'ondulazione dei flussi: ma confuso, pressochpinafferrabile. Poi Giovanna si sollevava e in un impeto di gioia gettava grida acute sbattendo l'acqua con tutte e due le mani. Se si avventurava troppo lontano, una barca veniva a cercarla. Rientrava al castello pallida per la fame, ma leggera, ilare, snella, il sorriso sulle labbra, la perfetta letizia negli occhi. Intanto il barone meditava grandi imprese agricole, voleva fare esperimenti, seguire il progresso, provare nuovi strumenti, acclimatare piante straniere, e passava buona parte della giornata a discutere coi contadini che scrollavano la testa un po' increduli. Spesso andava anche per mare, coi marinai d'Yport. Quando ebbe visitato le grotte, le fontane e le guglie dei dintorni egli volle pescare come un semplice marinaio. Nei giorni di brezza, quando la vela piena di vento fa correre sul dorso delle onde il guscio gonfio delle barche che trascinano fino in fondo al mare la gran lenza sfuggente che le schiere degli sgombri inseguono, egli teneva fra le dita tremanti per l'ansia la cordicella che si sente vibrare appena un pesce preso si dibatte. Partiva al chiaro di luna per alzare le reti calate alla vigilia; amava sentir scricchiolare l'albero della nave, respirare le raffiche fischianti e fresche della notte; e dopo aver lungamente bordeggiato per ritrovare i gavitelli dirigendosi verso una cresta di roccia, verso la cima di un campanile o verso il faro di Fpcamp, godeva a restare immobile sotto i raggi del sole che si levava e faceva brillare sul ponte del battello la groppa viscida delle larghe razze a ventaglio o il ventre grasso dei rombi. A tavola egli raccontava con entusiasmo le sue passeggiate, e mammina in compenso gli narrava quante volte aveva percorso il gran viale dei pioppi, quello di destra, confinante con la fattoria dei Couillard, non avendo l'altro abbastanza sole. Poichple avevano raccomandato di "far del moto" si accaniva a camminare. Appena il fresco della notte si era dissipato, scendeva appoggiata al braccio di Rosalu a, avvolta in un mantello e due scialli, la testa riparata da un cappellino nero che riparava a sua volta una rossa cuffietta. Allora, trascinando il piede sinistro, un po' pipesante, e dopo aver seguito per tutta la lunghezza del viale, l'uno all'andata, l'altro al ritorno, due solchi polverosi dove l'erba era morta, la poveretta ricominciava senza fine l'interminabile viaggio in linea retta dall'angolo del castello fino ai primi arbusti del boschetto. Aveva fatto collocare una panchetta a ciascuna estremitjdi questa pista e ogni cinque minuti si arrestava dicendo all'infinita pazienza di colei che la reggeva: "Ora sediamoci, figliola, perchpsono un po' stanchetta." E a ogni fermata lasciava su una panca prima la cuffietta rossa, poi uno scialle, poi l'altro scialle, poi il cappellino, poi il mantello, e tutto cizformava ai due capi del viale due grossi mucchi di indumenti che Rosalu a riportava sul braccio libero quando si rientrava per la colazione. Nel pomeriggio la baronessa ricominciava, con passo pimolle, con riposi pilunghi, sonnecchiando anche un po' di tanto in tanto su una sedia a sdraio che le portavano lufuori. Questo lei lo chiamava fare "il suo esercizio", cosucome diceva "la mia ipertrofia". Erano passati dieci anni da quando un medico chiamato d'urgenza perchpsoffriva di soffocazioni aveva parlato di ipertrofia: dopo di allora questa parola, di cui non capiva nemmeno il significato, si era conficcata nella sua testa. Da ostinata, voleva che il barone e Giovanna e Rosalu a le tastassero il cuore, che nessuno piudiva tanto era sepolto sotto la gonfiezza del seno, ma rifiutava con energia di lasciarsi visitare da un nuovo medico per la paura che le scoprissero altri malanni, e parlava della "sua ipertrofia" in ogni occasione e cosu spesso da sembrare che questo male fosse una sua particolaritj, le appartenesse come una cosa unica, sulla quale gli altri non avevano nessun diritto. E il barone diceva "l'ipertrofia della mamma", come avrebbe detto "il vestito", "il cappello", "l'ombrello". E pensare che era stata graziosa da giovane, e pisottile di una canna. Dopo aver ballato fra le braccia di tutte le uniformi dell'Impero, aveva letto "Corinna" che le aveva fatto versare tante lacrime, e le era rimasto come il sigillo di questo romanzo. Man mano che la sua figura si era ingrossata, la sua anima aveva acquistato slanci pipoetici, e quando l'obesitjl'aveva inchiodata su una poltrona, il suo pensiero cominciza vagabondare attraverso avventure tenere di cui si credette l'eroina. Oh, ne aveva sempre delle preferite da richiamare nei suoi sogni; come una scatoletta musicale che, a girare la manovella, ripete sempre la stessa canzone. Tutte le romanze in cui si parla di prigionieri e di rondinelle le inumidivano gli occhi, e poi amava anche certe canzoni libertine di Bpranger per i rimpianti che esprimono. Spesso restava immobile ore e ore, lontana nelle sue fantasticherie, e i "Pioppi" le piacevano infinitamente perchpquasi facevano da scenario ai romanzi della sua anima, ricordandole, e per i boschi dei dintorni e per la landa deserta e per la vicinanza del mare, le storie di Walter Scott che da qualche mese andava leggendo. Nelle giornate di pioggia restava chiusa nella sua stanza a far passare cizche chiamava le sue "reliquie", ed erano le sue vecchie lettere, quelle di suo padre e di sua madre, quelle del barone quando erano fidanzati: altre ancora. Le aveva chiuse tutte in uno stipetto di mogano che aveva agli angoli altrettante sfingi di rame e diceva con un'inflessione di voce particolare: "Rosalu a, figliola mia, portami il cassettino dei 'ricordi.'" La ragazza apriva lo stipetto, toglieva il cassetto, lo posava sulla sedia davanti alla sua padrona che si metteva a leggere lentamente, a una a una, queste lettere care, lasciandovi cader sopra, di quando in quando, una lacrimuccia. Qualche volta Giovanna rimpiazzava Rosalu a e faceva lei passeggiare mammina che le raccontava i suoi ricordi d'infanzia. La fanciulla si ritrovava in quelle storie d'altri tempi tutta stupita di quella comunanza di pensieri, di quell'affinitjdi desideri, perchpciascun cuore si immagina di aver trasalito prima d'ogni altro sotto una folla di sensazioni che hanno fatto battere i cuori delle prime creature come faranno palpitare ancora il cuore dell'ultimo uomo, il cuore dell'ultima donna. La lentezza del passo seguiva la lentezza del racconto, interrotto talvolta per qualche attimo dall'affanno della narratrice e allora il pensiero della figliuola, saltando al di ljdelle avventure cominciate, si slanciava verso l'avvenire, verso le speranze e la gioia. Un pomeriggio, mentre si riposavano sulla panchetta videro tutt'a un tratto, dal fondo del viale, avvicinarsi un gran prete. Egli salutzdi lontano, assunse un'aria sorridente, salutzancora quando fu a tre passi e gridz: "Ebbene, signora baronessa, come si sta?". Era il parroco del paese. Mammina, nata nel secolo dei filosofi, allevata da un padre poco credente, ai tempi della Rivoluzione, non frequentava molto la chiesa; benchpamasse i preti per un istinto religioso di donna. Ora aveva totalmente dimenticato l'abate Picot, il suo curato, e arrossual primo vederlo, poi si scuszdi non averlo avvertito della riapertura del castello. Ma il buon uomo non sembrava affatto scontento, e continuava a interessarsi a Giovanna, a farle i complimenti per il suo aspetto fiorente, poi si sedette, appoggizil cappello sulle ginocchia e si asciugzla fronte imperlata. Siccome era molto grosso, acceso e tutto sudato, si tirava fuori dalla tasca continuamente un fazzolettone enorme a quadretti, imbevuto gijdi sudore, e se lo passava sul volto, sul collo; ma appena la tela umida era rientrata nelle profonditjdella sua veste, nuove gocce spuntavano sulla sua pelle, nuove gocce cadevano sulla sottana raccolta sul ventre, e fermavano in piccole macchie circolari la danza aerea della polvere. Era gaio, un vero prete di campagna, tollerante, chiacchierone, un brav'uomo, tanto qvero che ora raccontava le sue storie, parlava della gente del paese, senza neppure mostrare che le sue due parrocchiane non si erano ancor fatte vedere alle funzioni. Ma in veritjla baronessa aveva gijmesso d'accordo la sua indolenza con la sua fede confusa e Giovanna era troppo felice di essersi liberata dal convento dove l'avevano saturata di pratiche religiose. Ed ecco il barone. La sua religione panteista lo lasciava indifferente ai dogmi. Fu cortese col parroco che conosceva da lungo tempo, e lo trattenne a pranzo. E il parroco seppe piacere, grazie a quella specie d'astuzia incosciente che la cura di anime djanche agli uomini pimediocri chiamati per caso a esercitare un potere sui propri simili. Quanto alla baronessa, lo trattava con ogni riguardo, attirata forse da una di quelle simpatie che avvicinano tutti coloro che si somigliano fisicamente, piacendo all'obesitjdella dama la figura sanguigna e il fiato corto della reverenda pinguedine. Alla frutta egli ebbe una vivacitjdi curato d'ottimo umore, quell'abbandono confidenziale che si ha nel finire degli allegri conviti. D'un tratto gridzcome se un'idea felice gli avesse attraversato il cervello: "Ma io ho un parrocchiano, il signor visconte di Lamare! Bisogna bene che ve lo presenti!" La baronessa che aveva sulla punta delle dita tutta l'araldica della provincia, scattz: "Appartiene alla famiglia di Lamare dell'Eure?" "Su , signora baronessa" rispose il prete con un inchino. "E' figlio del visconte Giovanni di Lamare che morul'anno passato." Allora la dama che adorava la nobiltjfece un mucchio di domande, e cosuseppe che, pagati i debiti del padre, il giovanotto aveva venduto il castello di famiglia per ridursi in un piccolo appartamento in una delle tre fattorie che possedeva ancora a Etouvent. Questi beni rappresentavano in tutto cinque o seimila "lire" di rendita, ma il visconte era economo e saggio e contava di vivere semplicemente due o tre anni in quel luogo modesto per metter da parte tanto da permettergli di figurare in societj, ammogliarsi bene, senza far debiti, senza ipotecare le sue fattorie. "E' un simpatico ragazzo" aggiunse il curato "e cosuordinato e cosuquieto! Ma non si diverte molto in questi paesi..." "Conducetelo da noi" disse il barone. "Qua si potrjdistrarre qualche volta..." E si passz ad altro argomento. Dopo aver preso il caffqnel salone, il prete chiese il permesso di fare un giro in giardino, essendo abituato a muoversi un po' dopo i pasti. Il barone volle seguirlo, e camminarono su e gilungo la facciata del castello. Le loro ombre, l'una magra, l'altra grossa e come coperta da un fungo, andavano e venivano, ora avanti, ora indietro, secondo che camminassero verso la luna o le volgessero il dorso. Il parroco masticava una specie di sigaretta che aveva tirato fuori dalla tasca, e ne spiegzl'utilitjcol parlar franco dei campagnoli: "E' per facilitare i rutti. Io ho le digestioni piuttosto pesanti..." Poi, improvvisamente, guardando il cielo dove nuotava l'astro lunare: "Non ci si sazia mai di quello spettacolo lj!" E rientrzin casa per congedarsi dalle signore. Capitolo 3 La domenica seguente la baronessa e Giovanna, per deferenza verso il curato, andarono a messa. Dopo la funzione lo attesero per invitarlo a colazione per il giovedu . Egli uscudalla sagrestia accompagnato da un giovane alto, elegante, che gli dava il braccio con confidenza; e appena vide le due signore fece un gesto di lieta sorpresa. "Come giungono a proposito! Signora baronessa, signorina Giovanna, permettete, permettete che vi presenti il vostro vicino. Il visconte di Lamare." Il visconte si inchinz, espresse il suo antico desiderio di conoscere le signore, si mise a parlare con disinvoltura, da uomo di mondo, da uomo che sa il fatto suo. Egli aveva nella fisonomia quel non so che d'attraente che seduce le donne ed qestremamente antipatico agli uomini. I suoi capelli bruni, arricciati ombreggiavano una fronte liscia e abbronzata e due grandi sopracciglia cosuregolari da parere artificiali rendevano teneri e profondi i suoi occhi scuri il cui bianco aveva una delicata sfumatura azzurrina. Ciglia fitte e lunghe davano al suo sguardo l'eloquenza della passione, quella stessa che nei salotti turba un poco la dama bella e superba e fa voltare per la strada la ragazza del popolo in giro col suo paniere. Il fascino languido di quell'occhio illudeva di una profonditjdi pensiero e dava importanza anche alle picomuni parolette. La barba lucida e fine occultava una mascella un po' forte. Nuovi complimenti, nuove cerimonie e il gruppo si sciolse. Due giorni dopo il signor di Lamare fece la sua prima visita ai "Pioppi". Giunse mentre si discuteva su una panchina messa a prova fin dal mattino sotto il gran platano di contro alle finestre del salone. Il barone voleva che sotto il tiglio si mettesse un'altra panchina: per simmetria. Nemica della simmetria, interveniva mammina opponendosi. E il visitatore le diede ragione. Poi il visitatore parlzdel paese che chiamz"pittoresco" in grazia dei tanti "punti" incantevoli che gli aveva offerto nelle sue passeggiate solitarie. Di quando in quando i suoi occhi incontravano gli occhi di Giovanna, come per caso, e Giovanna provava una sensazione strana sotto quello sguardo rapido, subito distolto, in cui spuntava una blandizia ammirativa, una simpatia gijvivace. Il signor di Lamare padre, morto l'anno prima, aveva appunto conosciuto un intimo amico del signor Cultaux, padre della baronessa: e la scoperta di questa conoscenza portza una conversazione interminabile di matrimoni, date, parentele. La dama faceva sforzi di memoria prodigiosi per fissare le ascendenze e le discendenze di altre famiglie muovendosi assai bene, senza perdersi nel labirinto complicato delle genealogie. "Dite, visconte, avete mai sentito parlare dei Saunoy-Varfleur? Il figlio maggiore, Gontrano, aveva sposato una signorina de Coursil, una Coursil-Courville, e il minore una delle mie cugine, la signorina de la Roche-Aubert che era parente dei Crisange. Ora il signor Crisange era intimo di mio padre e deve aver conosciuto anche il vostro." "Su , signora baronessa. Non qquel signor Crisange che emigrz, e il suo figliolo qandato in rovina?" "Proprio lui. Aveva chiesto in matrimonio mia zia dopo la morte di suo marito, il conte d'eretry; ma la zia non volle saperne perchp... perchptabaccava. A proposito, sapete che cosa qavvenuto dei Viloise? Hanno lasciato la Turenna verso il 1813 in seguito a rovesci di fortuna, e non ne ho pisentito parlare." "Credo che il vecchio marchese sia morto in seguito a una caduta da cavallo, lasciando una figliuola maritata con un inglese, e l'altra con un certo Bassolle, un commerciante, dicono, ricco, che pare l'avesse sedotta..." Ritornavano nella loro memoria nomi imparati nell'infanzia dalle conversazioni dei vecchi, e i matrimoni di queste famiglie loro pari assumevano attraverso il ricordo l'importanza di grandi avvenimenti pubblici. Trattavano di gente mai vista come se la conoscessero a fondo; e poichpaltrove quelle persone parlavano di loro nello stesso modo e linguaggio, baronessa e visconte sentivano di lontano quelle quasi amicizie, quelle quasi alleanze, per il solo fatto di appartenere alla stessa casta, di equivalersi nel sangue. Il barone, un po' selvatico per natura e, per educazione, in disaccordo continuo con le credenze e i pregiudizi di casta, non conosceva le famiglie dei dintorni e ne chiese al visconte. Il visconte rispose nello stesso modo con cui avrebbe dichiarato che non c'erano molti conigli intorno: non c'era molta nobiltjnei dintorni. Diede particolari. Tre sole famiglie in una cerchia relativamente vicina: il marchese di Coutelier, una specie di capo dell'aristocrazia normanna: il visconte e la viscontessa di Briseville, di nobilissima stirpe, ma che vivevano per conto loro: il conte di Fourville, una specie di orco, di cui si sussurrava che avesse fatto morire la moglie. Costui viveva da cacciatore nel suo castello della Vrillette, costruito sopra uno stagno. Poi c'erano i nuovi ricchi (quelli che si intendono fra loro) che avevano acquistato terreni, chi qua, chi lj. Il visconte non li conosceva. Si congedz, e il suo ultimo sguardo fu per Giovanna: come se le avesse rivolto un addio particolare, un piaffettuoso e dolce saluto. La baronessa lo trovzsimpatico e sopra tutto "molto distinto". Il barone ammise che era un giovanotto "molto educato". La settimana dopo egli sedette per la prima volta a mensa. Da quel giorno egli tornztutti i giorni. Giungeva in genere verso le quattro del pomeriggio, andava incontro a mammina nel "suo viale", le offriva il braccio per aiutarla nel "suo esercizio". Se Giovanna era in casa, era lei che sosteneva la baronessa dall'altra parte, e tutt'e tre camminavano lentamente da un capo all'altro del viale, andando e ritornando senza tregua. Quasi mai egli rivolgeva la parola a Giovanna, ma i suoi occhi che sembravano di velluto nero incontravano spesso quelli di lei che si sarebbero detti di agata azzurra. Ma poi c'erano le gite a Yport col barone. Una sera che si trovavano sulla spiaggia si fece avanti papj Lastique con la pipa. Senza pipa papjLastique sarebbe parso un papjLastique senza naso. "Signor barone, con questo vento si potrebbe andare domani fino a etretat e ritornare senza fatica." Giovanna giungeva le mani. "Papj, papj! Se tu volessi!" "Volete venire?" disse il barone al visconte. "Andiamo a far colazione a etretat?" Fu un'escursione decisa. Giovanna in piedi all'aurora: Giovanna che aspettava il padre pi lento a vestirsi: Giovanna che camminava al suo fianco sulla rugiada e attraversava la pianura e il bosco tutto vibrante di canti di uccelli. E il visconte e papjLastique erano seduti qua, sopra un argano! Al momento della partenza ci fu bisogno di due marinai di rinforzo, i quali, appoggiando le spalle al fasciame della barca, spingevano sua tutta forza, ma avanzavano a fatica sulla piattaforma del ghiareto. Lastique faceva rotolare sotto la chiglia un cilindro di legno unto di grasso e poi riprendeva il suo posto modulando con voce strascicata il suo interminabile "ohpop!" per regolare lo sforzo comune. Improvvisamente, quando avvertula discesa, la barca prese l'avvio e sdrucciolzsui ciottoli tondi con un gran sibilo di stoffa che si lacera. Poi si fermztra la spuma delle prime ondicine come a permettere a ciascuno di sedersi dentro finchpi due marinai rimasti a terra le diedero l'ultima spinta. Una brezza leggera e costante che veniva dal largo sfiorava e increspava la superficie dell'acqua. La vela fu issata, si arrotondzun poco e la barca filztranquillamente, cullata appena dal mare. Come si erano gijallontanati! Ecco il cielo abbassarsi all'orizzonte, confuso gijcon l'oceano. Ecco, verso terra, l'alta scogliera diritta che stende una grande ombra ai suoi piedi, tutta frastagliata dai pendii erbosi zuppi di sole. Vele brune escono laggidalla bianca scogliera di Fpcamp; una roccia di strana forma, laggiuno scoglio rotondo e forato da parte a parte, prende a poco a poco l'aspetto di un enorme elefante che tuffi la sua proboscide nelle onde, ed qla piccola porta di etretat. Giovanna, tenendosi in bilico, un po' stordita dal dondolio delle onde, guardava lontano lontano e le sembrava che al mondo ci fossero tre sole cose belle: la luce, l'acqua, lo spazio. Non parlava, e nessun altro parlava. PapjLastique teneva la barra e la scotta, ma di quando in quando beveva un sorso da una bottiglia nascosta sotto la panca, e fumava senza tregua in quel suo moncherino di pipa che sembrava inestinguibile. La pipa di Lastique! Ne usciva sempre un sottile filo azzurrognolo mentre la stessa spira di fumo sfuggiva a lui dall'angolo della bocca: npmai lo si vedeva occupato col suo fornello di terra, pinero dell'ebano, per accenderlo o per ricaricarlo di tabacco. Solo qualche volta egli avvicinava la mano alla pipa, se la toglieva di bocca, e dallo stesso angolo donde usciva la spira azzurrognola lanciava il suo sputo nero al mare. Il barone, seduto sul davanti, faceva da marinaio e sorvegliava la vela. Giovanna e il visconte erano vicini, entrambi un poco turbati. Una forza ignota faceva cosuche i loro occhi si incontrassero, che li alzassero allo stesso momento, come avvertiti da un'affinitjdi pensiero, perchpondeggiava gijfra di loro quel senso di tenerezza vaga e sottile che nasce cosupresto fra due giovani quando lei qgraziosa e lui non qbrutto. Forse si sentivano felici l'uno accanto all'altra, perchpsi pensavano. Il sole saliva come per contemplare da un pialto cielo il vasto mare che gli si stendeva lusotto; ma il mare ebbe come una civetteria e si avvolse in una bruma leggera che lo velava ai raggi del sole. Era una nebbietta trasparente, bassa, dorata, che non nascondeva nulla, ma che rendeva pisoavi le cose lontane. Il sole incalzava, il sole scioglieva la bella nuvola splendente: il sole era al colmo della sua forza; ed ecco svanire la caligine, ecco il mare liscio come un cristallo splendere di luce. "Com'qbello!" sussurrzGiovanna commossa. "Su , su , qbello" rispose il visconte. La serena chiarezza di quella mattinata risvegliava come un'eco nei cuori. E subito si scorsero le grandi arcate di etretat simili a due gambe della scogliera che camminassero nel mare cosualte da far arco ai bastimenti; mentre una guglia di roccia bianca e acuminata si ergeva davanti alla prima. Toccarono terra, e fu il barone che scese per primo per trattener la barca a riva tirando una corda, e fu il visconte che prese nelle sue braccia Giovanna per deporla a terra senza che avesse a bagnarsi i piedini: e i due giovani risalirono insieme l'erto banco di ciottoli, l'uno vicino all'altra, commossi, stupiti di quel rapido contatto, udendo cizche papjLastique diceva al barone: "C'qda farne una bella coppia, e... senza perdere tempo." La colazione, in una piccola locanda della spiaggia, fu deliziosa. L'oceano, paralizzando voce e pensiero li aveva fatti silenziosi: ora la tavola li mutava in ciarlieri. Erano tutti come scolaretti in vacanza. Una gaiezza interminabile saliva fino a loro dalle cose pisemplici. Ecco papjLastique che prima di sedersi a tavola nasconde la sua pipa: e la nasconde, ancora fumante, nel suo berretto e ne ride! Il suo naso rosso attira una mosca che viene a posarvisi sopra, e quando egli la scaccia con un gesto troppo lento per poterla afferrare, ecco la mosca posarsi su una tenda di mussolina che porta i segni delle sue sorelline, e di luadocchiare avidamente il lucido naso e tornar subito dopo a installarvisi. A ogni viaggio dell'insetto scoppiavano pazze risate; ma l'ilaritjfu smodata quando il vecchio si infastidudel solletico: "Ma qmaledettamente ostinata!" e Giovanna e il visconte si torcevano, con le lacrime agli occhi, soffocavano, tenevano il tovagliolo alla bocca. Giovanna disse dopo il caffq: "Se andassimo a far due passi?" Il visconte si alzz. Il barone preferiva la siesta sul ghiareto, e disse ai "ragazzi" che andassero pure, tornassero pure fra un'ora. E i "ragazzi" via tra le poche capanne del borgo, verso un piccolo castello che somigliava a una gran fattoria, verso una vallata che si scopriva e si allargava tutta per loro. Il dondolu o del mare li aveva illanguiditi turbando il loro normale equilibrio, l'aria salina li aveva affamati, la colazione storditi, la contentezza snervati, e ora si sentivano forse un po' matti, con una gran voglia di correre, di qua, di lj, per i campi. Giovanna poi con quei ronzii alle orecchie era tutta agitata da sensazioni rapide e nuove. Un sole scottante li investiva come quelle messi mature che si piegavano sotto il calore. Le cavallette si sgolavano, numerose come i fili d'erba, gettando ovunque, tra il grano, tra la segala, tra i giunchi marini delle rive, il loro grido stridulo e secco. Nessun'altra voce saliva sotto il cielo torrido, d'un azzurro cosuterso e ingiallito come se dovesse improvvisamente mutarsi in rosso scarlatto, simile ai metalli avvicinati troppo a un braciere. Finalmente apparve la linea di un boschetto; e andarono verso il boschetto. Vi conduceva uno stretto viale, incassato fra due scarpate, e cosufolto di alberi e fronde che non vi entrava raggio di sole. Una frescura umida li penetrzimprovvisamente, di quell'umiditjche fa accapponare la pelle e va nei polmoni. La delicatezza vellutata del muschio sostituiva l'erba non nata per mancanza di luce e di aria libera. "Guardate, oh, guardate! Non potremmo sederci un poco laggi?" Erano morti due alberi, suche approfittando del vuoto nel fogliame, come di una lacerazione nel verde, cadeva ljun fascio di sole; e questo sole scaldando quell'angolino, aveva risvegliato i germi delle erbe, quelli del lichene e della radicchiella, e faceva sbocciare dei fiorellini bianchi, fini come la nebbia, e digitali simili a fusi. Farfalle, api, tozzi calabroni, zanzare interminabili simili a scheletri di mosche, mille insetti volanti, animali del buon Dio rosei e maculati, bestioline infernali dai riflessi verdastri, bestioline nere con le corna popolavano questo pozzo splendido e caldo scavato nell'ombra gelida di un intrico di fronde. Sedettero. Avevano la testa in ombra e i piedi al sole e guardavano tutta questa vita minuta e brulicante che era nata da un raggio di sole. Giovanna ripeteva intenerita: "Come si sta bene qui! La campagna, oh, qpur bella! Ci sono dei momenti che vorrei essere una mosca o una farfalla per potermi nascondere in un fiore..." Parlarono a lungo di sp, delle loro abitudini, dei loro gusti, col tono basso, intimo e grave con cui ci si confida a vicenda. Egli si mostrava gijdisgustato del mondo, stanco di una vita futile giacchpera sempre la stessa cosa e non ci si trovava niente di genuino, niente di schietto. Il mondo! Oh su , avrebbe voluto conoscerlo; ma era gijconvinta che non valesse la bella campagna. E pii loro cuori si avvicinavano, pisi chiamavano cerimoniosamente "signorina" e "signore"; pii loro sguardi si sorridevano e si intrecciavano, pisembrava che una bontjnuova li prendesse, un affetto per tutte le cose, un interesse per le cose di cui non si erano curati, a cui non avevano fatto attenzione. Tornarono indietro. Il barone non c'era ancora perchpera andato a piedi fino alla Chambre-aux-Demoiselles, una grotta sospesa in una cresta della scogliera; e lo aspettarono al piccolo albergo. Egli non tornzche alle cinque del pomeriggio dopo una lunga passeggiata sulla costiera. Risalirono in barca. Andava molle la barca col vento in poppa, senza la pipiccola scossa, e non sembrava neppure che avanzasse. Giungeva la brezza a soffi lenti e tiepidi che sollevavano per un momento la vela e la lasciavano poi ricadere lungo l'albero, floscia. L'onda opaca sembrava morta. Il sole, un po' fiacco, seguendo il suo cammino circolare, si avvicinava all'acqua dolcemente. Il languore del mare faceva ancora tacita ogni cosa. Giovanna si scosse. "Come mi piacerebbe viaggiare!" "Su , su " rispose il visconte. "Ma viaggiar soli q triste. Bisognerebbe essere in due. Per comunicarsi le proprie impressioni..." "E' vero. Perzio amo passeggiare sola. Si sta cosubene soli quando si sogna!" "Si puzsognare anche in due..." Giovanna abbasszgli occhi perchpegli l'aveva guardata un po' a lungo. Era un'illusione? Forse. E fissz l'orizzonte come per veder pilontano. "Vorrei andare in Italia... o in Grecia... Oh su , in Grecia... anche in Corsica! La Corsica! Dev'essere bella... selvaggia." Egli preferiva la Svizzera per i suoi "chklets" e per i suoi laghi. "Oh no! Io amerei i paesi nuovi come la Corsica o i paesi molto vecchi e pieni di ricordi come la Grecia. Dev'essere cosudolce ritrovare le tracce dei popoli di cui sappiamo la storia fin dall'infanzia, vedere i luoghi dove si sono compiuti i grandi eventi!" "Io mi sento attirato dall'Inghilterra. E' un paese molto istruttivo." Allora percorsero tutto l'universo discutendo i pregi e le bellezze di ogni paese, dal polo all'equatore, estasiati all'idea di luoghi immaginari, di costumi inverosimili di popoli come i cinesi e i lapponi, e finirono col concludere che il pibel paese del mondo qla Francia. La Francia, su , col suo clima temperato, fresco d'estate e mite d'inverno, con le sue campagne opulente, le sue verdi foreste, i suoi grandi fiumi calmi, e un culto delle belle arti che non era esistito mai in nessuna parte del mondo dopo i grandi secoli di Atene. E poi rimasero zitti. Il sole si era fatto pibasso, e sanguinava: una larga striscia luminosa, una via splendente correva sull'acqua, allacciando l'orizzonte all'umile scia. Cessava l'ultima bava: si appianavano le increspature delle onde: la vela era immobile, rossa. Una calma infinita sembrava intorpidisse lo spazio, fasciasse di silenzio questo incontro dei due elementi; e l'acqua, fidanzata mostruosa, curvando sotto il cielo il suo ventre lucido e liquido, aspettava l'amante di fuoco, che doveva piombare su lei. Egli accelerzla caduta. Era divenuto tutto di porpora, come per la voluttjdell'amplesso. Ecco, ha toccato il segno: ma l'acqua a poco a poco lo inghiotte. Accorse allora dall'orizzonte un vento blando e leggero e un brivido piegzil seno mobile dell'acqua come se l'astro inghiottito avesse esalato un sospiro. Nell'atto che papjLastique afferrzi remi, gli altri si accorsero della fosforescenza del mare. Giovanna e il visconte, l'uno vicino all'altra, guardavano, guardavano insieme i mobili splendori che la barca lasciava dietro di sp. Non sognavano pi, ma si perdevano in una muta e vaga contemplazione aspirando la sera in un dolce vellutato benessere: e siccome lei teneva una mano abbandonata sulla panchina, un dito di lui si avvicinzcome per caso, sfiorando la pelle, e lei non si mosse, colpita, felice, confusa di quel contatto leggero. La sera, quando fu rientrata nella sua stanza, si trovzcosustranamente commossa, cosuintenerita, che tutto le dava come una voglia di piangere. Guardzla sua pendola, penszche la piccola ape batteva come un cuore (un cuore amico), che sarebbe stata la testimone della sua vita, che avrebbe accompagnato le sue ansie e le sue gioie con quel ticchettu o regolare, e fermzl'insetto dorato per mettergli un bacio sulle ali. Avrebbe abbracciato non importa che. Ricordzdi aver nascosto in fondo a un cassetto una bambola: la pesczfuori, la salutz, le fece festa come a un'amica adorata, la serrzal petto, le bacizle guance dipinte, le bacizi capelli di stoppa. Poi la tenne fra le braccia, e sognz. Era proprio "lui" lo sposo annunziato da mille voci segrete che la Provvidenza conduceva cosusulla sua via? Era quello l'essere creato per lei, l'uomo a cui consacrare la vita? Erano essi, lui e lei, i due predestinati le cui tenerezze incontrandosi dovevano stringersi unirsi, confondersi, e generare l'"amore"? No, non sentiva ancora quegli slanci tumultuosi di tutto il suo essere, quei rapimenti folli, quel profondo sconvolgimento che era o credeva fosse la vera passione, ma le sembrava di cominciare ad amare perchptalvolta si sentiva come mancare pensando a lui, e non cessava mai di pensarlo. La presenza di lui l'agitava, arrossiva e impallidiva ogni qualvolta incontrava il suo sguardo, rabbrividiva vedendolo parlare... Quasi non dormuquella notte. Poi, di giorno in giorno, il tormentoso desiderio di amare la invase sempre pi, sempre pi. Interrogava sempre se stessa, chiedeva ai petali delle margherite, consultava le nuvole, gettava in aria monete. "Fatti bella domattina" le disse una sera suo padre. "Perchp, papj?" Era un segreto. E il giorno dopo, quando scese tutta ilare e fresca in veste chiara, trovzsulla tavola del salone tante scatole di confetti, e su una sedia un gran mazzo di fiori. Proprio in quel momento un carro entrznel cortile, e vi si leggeva su un fianco: "Lerat, pasticcere a Fpcamp. Servizi per nozze", e Liduina aiutata dalla sguattera tirava fuori da uno sportello aperto dietro il veicolo grandi ceste piatte che odoravano di buono. Comparve il visconte. I suoi pantaloni erano tesi e tenuti fermi sotto piccole scarpe verniciate che facevano risaltare la estrema piccolezza del piede. La sua lunga "redingote", serrata alla vita, lasciava uscire dallo sparato i ricami della camicia, e una cravatta di seta a pigiri lo obbligava a tener alta la sua bella testa bruna che aveva quasi il suggello della distinzione. Aveva un'aria diversa dal solito, quel non so che di particolare che un abbigliamento nuovo djsubito ai volti pinoti. Stupita, lo guardava come se non lo avesse mai visto prima di allora e lo trovava straordinariamente gentile: gran signore dalla testa ai piedi. "Ebbene, siete pronta, madrina?" egli disse tutto sorridente, inchinandosi. "Ma perchp? Ma che c'q?" "Saprai fra poco" disse il barone. S'avanzzla vettura, e apparve la baronessa in gran gala al braccio di Rosalu a, la quale sembrz talmente rapita dall'eleganza del signor di Lamare che il barone fece osservare all'amico: "Vedete dunque che anche la nostra cameriera vi trova di suo gusto". Il visconte arrossufino agli orecchi, finse di non aver sentito, presentza Giovanna il mazzo di fiori, e Giovanna lo tenne, imbambolata. Poi salirono tutt'e quattro in vettura, e ci fu anche la dichiarazione della cuoca Liduina avanzatasi per recare alla baronessa un brodo freddo ristoratore: "Davvero, signora, che si direbbe uno sposalizio!" Quando furono a Yport, scesero e camminarono a piedi, e man mano che avanzavano nel cuore del villaggio, i marinai uscivano dalle casupole tutti vestiti a nuovo (lo si vedeva dalle pieghe degli abiti), salutavano, stringevano la mano al barone, seguivano il gruppo come in processione. Il visconte aveva offerto il braccio a Giovanna; e camminavano in testa aprendo il corteo. Dirimpetto alla chiesa si arrestarono. Comparve la grande croce d'argento sostenuta da un chierichetto, e dietro veniva un altro ragazzo metjbianco e metjrosso che portava il secchiello dell'acqua benedetta con dentro l'"asperges". Ed ecco i tre vecchi cantori (uno zoppica), poi quello dei fagotto, poi il curato il cui ventre aguzzo solleva la stola dorata: e djil buon giorno con un sorriso e un cenno del capo. Poi con gli occhi appena socchiusi, le labbra che biascicavano, il tricorno tirato sul naso, il buon parroco seguuil suo stato maggiore in cotta dirigendosi verso la spiaggia, dove una folla attendeva circondando festosamente una barchetta nuova, inghirlandata. Albero, vela cordame, erano allacciati in lunghi nastri che garrivano al vento, e c'era scritto a poppa: GIOVANNA: il suo nome a lettere d'oro. PapjLastique, capitano della barca costruita a spese del barone, si fece incontro al corteo e, nello stesso tempo tutti gli uomini insieme si scoprirono il capo e una turba di devoti incappucciati dentro neri mantelli a grandi pieghe si inginocchizin cerchio davanti alla croce. Il curato, fra i due chierichetti, avanzzverso un fianco della barca, mentre dall'altra parte i tre vecchi cantori in bianca tonaca, mento peloso, aria grave, occhi sul libro del cantofermo, tuonavano a gola piena nel chiaro mattino: e ogni volta che riprendevano fiato lo strumento proseguiva da solo il suo mugghio, cosuche il suonatore nella gonfiezza delle guance piene di vento, stringeva gli occhietti sino a farli scomparire quasi del tutto. Il mare, immobile e trasparente, sembrava assistere grave al battesimo della sua navicella sollevando deboli ondicine non pialte di un dito, con sul ghiareto un piccolo raspare come di rastrello. E i grandi gabbiani passavano ad ali tese, balenanti, descrivendo curve bianche nel cielo turchino, fuggivano, tornavano, roteavano ancora sulla folla inginocchiata, come per vedere che cosa mai si facesse. Il canto cesszdopo un "amen" durato ben cinque minuti, e il prete con voce strozzata biasciczalcune parole latine delle quali non si distinguevano che le finali sonore. In ultimo fece il giro della barca, aspergendola tutta di acqua santa, poi venne la volta degli "oremus" borbottati sotto la tolda di fronte al padrino e alla madrina che restavano zitti, immobili, la mano nella mano, lui con la sua gravitjdi bel giovane, lei con la gola stretta da un nodo improvviso, cosuche le battevano i denti per l'emozione e il tremore. Ecco: il sogno che la preoccupava da tanto tempo assumeva come improvvisamente, in quella specie di allucinazione, apparenze reali. Avevano parlato di nozze, e un prete era lue benediceva: uomini in cotta salmodiavano: chi si sposava? Ebbe come una scossa nervosa alle dita: il palpito del suo cuore era giunto correndo lungo le vene fino al cuore di lui, del vicino? Indovinava? Capiva? Egli pure invaso da quella specie di ebbrezza amorosa? O lo sapeva per esperienza che nessuna donna poteva resistergli, a lui? Allora Giovanna si accorse che egli le stringeva la mano dolcissimamente, poi un poco piforte, piforte ancora, oh Dio, fino a farle male, fino a spezzarle le dita. E senza che la sua persona avesse un sussulto, senza che nessuno se ne accorgesse, egli disse, su , certo, certo, egli disse cosu , distintamente: "Oh Giovanna, se voi voleste! Questo sarebbe il nostro fidanzamento..." Abbasszla testa con un moto lentissimo che forse voleva dire "su ". E il prete che diffondeva ancora acqua santa, gliene spruzzzsulle dita. Era fatto. Le donne si rialzavano. Il ritorno fu uno scompiglio. Nelle mani del chierichetto la lunga croce aveva perduto la sua dignitj, correva, oscillava, si sbandava da destra a sinistra o si curvava in avanti fin quasi a cadergli sul naso. Il parroco, che non pregava pi, galoppava anche lui dietro gli altri; i cantori e quello del fagotto scomparvero in un vicoletto per svestirsi piin fretta, e i marinai si affrettavano a gruppi a causa di quel pensiero piacevole che metteva nella loro testa come un odore di cucina, riempiva la bocca di saliva, scendeva fin nei meandri del ventre facendovi brontolar le budella. Era cosuche si allungavano le gambe verso il buon pasto dei "Pioppi". La grande tavola era stata portata nel cortile, lu , sotto i meli. Sessanta persone vi presero posto, marinai, contadini, e la baronessa sfolgorava al centro avendo ai lati i due parroci, quello d'Yport e questo dei "Pioppi" e di fronte il suo nobile sposo fra sindaco e sindachessa, una campagnola magra, gijvecchia, che dispensava salutini a destra e a sinistra. La sindachessa aveva un viso stretto e tutto chiuso nella gran cuffia normanna, una vera testa di gallina dalla cresta bianca, dagli occhi tondi e sempre stupefatti: mangiava a colpi rapidi come beccasse col naso nel piatto. Giovanna navigava nella gioia, accanto al padrino. Non vedeva pinulla. Non sapeva pinulla. Taceva, con la testa confusa nella felicitj. "Qual qil vostro nome?" gli chiese. "Giuliano. Non lo sapevate?" Ma lei non rispose, e pensz: "Quante volte ripeterzquesto nome!". A colazione terminata, i signori lasciarono libero il cortile ai marinai e passarono all'altro lato del castello. La baronessa si mise a fare il suo "esercizio", appoggiata al barone, scortata dai suoi due curati, e Giovanna e Giuliano si spinsero fino al boschetto, penetrarono nei piccoli viottoli ombrosi. Egli le afferrzle mani, all'improvviso. "Dite, dite, volete essere mia moglie?" Giovanna abbassa la testa. "Dite, vi prego, rispondete!" Giovanna alza gli occhi su lui, con infinita dolcezza. In quello sguardo egli ha la risposta. Capitolo 4 Una mattina il barone entrzin camera di Giovanna prima ancora che si fosse alzata. Sedette ai piedi del letto. "Il signor visconte di Lamare ci ha chiesto la tua mano." Quasi nascose la faccia sotto il lenzuolo. "Ci siamo riservati di rispondere." Ansimava e il papjaveva sulle labbra un fine sorriso. Diceva: "Non abbiamo voluto far nulla senza parlartene. Tua madre ed io non siamo contrari, ma non credere che ti si voglia obbligare. Tu sei molto piricca di lui: ma il denaro non conta quando si tratta della felicitjdi una vita. Egli non ha pinessuno. Se tu lo sposassi, sarebbe un figliolo che entrerebbe nella nostra famiglia, mentre con un altro saresti tu, figliola nostra, che andresti fra estranei. Il giovane ci piace. Piace a te?" Giovanna divenne rossa fino alla punta dei capelli, in quel balbettu o: "Io... sono contenta, papj." Papjla guardzin fondo agli occhi, con sulle labbra un fine sorriso. "Ne dubitavo un poco, madamigella." Restzfino a sera mezzo ubriaca, senza sapere quello che faceva, scambiando macchinalmente gli oggetti, con le gambe rotte dalla fatica senza aver camminato. Verso le sei era seduta sotto il platano con mammina, ed ecco il visconte. Il suo cuore batteva sempre piforte, sempre pida pazzo. E lui invece si avvicinava senza emozione, afferrava la mano della baronessa e la baciava, afferrava quest'altra mano tremante e la baciava: ma questo fu un lungo bacio, pieno di tenerezza e di riconoscenza. Comincizil fidanzamento, come una stagione ebbra di luce. Parlavano soli negli angoli del salone oppure sul rialzo del muro in fondo al boschetto, davanti alla landa selvaggia. Talvolta passeggiavano su e ginel viale della mamma, lui sempre parlando di avvenire, lei con gli occhi abbassati sulla traccia polverosa del piede materno. Decisa la cosa, se ne volle affrettare il compimento e cosusi fisszla cerimonia fra sei settimane, il I5 agosto e poi gli sposi sarebbero partiti per il viaggio di nozze senza indugio. Giovanna fu consultata sul paese da visitare in quella occasione. E la preferenza fu per la Corsica. In Italia non sarebbero stati cosusoli! Ora essi attendevano il grande momento senza un'ansia troppo vivace, ma avviluppati, trascinati da una tenerezza deliziosa, assaporando la grazia squisita delle carezze insignificanti, delle strette di mano, delle dita premute, degli sguardi sempre piappassionati, sempre pilunghi, oh, cosulunghi che le stesse anime vi sembravano confuse ed anche vagamente tormentati dal desiderio indeciso delle grandi strette. Fu stabilito che non avrebbero invitato nessuno al matrimonio, fuorchpla zia Lisetta, la sorella della baronessa, che viveva come in pensione in un convento di Versailles. La storia di questa Lisetta era un po' triste. Dopo la morte del padre, la baronessa avrebbe voluta tenerla con sp, ma la vecchia zitella, perseguitata dall'idea di recar disturbo a questo e a quello, convinta di essere inutile e importuna, si era ritirata in una di quelle case di preghiera che ospitano le persone stanche, sole al mondo. Di quando in quando veniva a passare uno o due mesi in famiglia. Era una donnina che parlava poco, si vedeva ancor meno, appariva solo all'ora dei pasti per risalire subito nella sua stanza dove restava chiusa ore e ore, sempre la stessa, con quell'aria di vecchia, benchpnon avesse che quarantadue anni, con quegli occhi malinconici e miti Non era mai stata tenuta in nessun conto dalla famiglia: bambina, non l'avevano mai accarezzata perchpnon era npgraziosa npallegra, e lei era rimasta tranquilla e serena in disparte: a diciotto e a vent'anni non aveva trovato nessuno che si occupasse un poco di lei. Era qualcosa come un'ombra o un oggetto familiare, un mobile vivente che si qabituati a veder tutti i giorni, ma di cui non ci si occupa mai. Sua sorella, per un'abitudine presa nella casa paterna, la considerava come un essere incompleto, insignificante, banale, npgli altri la trattavano con maggior riguardo, ma con quella familiaritjspiccia che nasconde una specie di bontjmista a disprezzo. Si chiamava Lisa, ma questo nome lezioso e giovanile non le era piaciuto, e quando i parenti si accorsero che non si maritava, che non si sarebbe mai maritata, allora Lisa scomparve e sorse Lisetta. Nacque Giovanna, e lei diventz"zia Lisetta": parente umilissima, ordinatissima, di una timidezza spaventevole: timida perfino con gli intimi, perfino con la sorella e il cognato, che pur le volevano bene, benchpfosse anche questo un affetto vago che confinava con la tenerezza indifferente, la compassione inconscia, la tenerezza istintiva. Qualche volta la baronessa quando parlava di cose lontane fissava una data cosu : "Fu al tempo del colpo di testa di Lisetta". Non si diceva di pi, e questo "colpo di testa" restava come avvolto nella nebbia. La veritjqche Lisa una sera (aveva allora vent'anni) aveva tentato di annegarsi senza che se ne sapesse il perchp, non essendovi mai stato nulla, nella sua vita, nei suoi modi, che potesse far presagire di queste follie. Salvatala a stento, i suoi genitori indignati, levate al cielo le braccia, invece di cercare le cause dell'atto inconsulto si erano accontentati di parlare del "colpo di testa" come parlavano dell'incidente capitato al cavallo che si era non molto prima fracassato una gamba in un fossato, e l'avevano dovuto ammazzare. Dopo di allora Lisa (poi Lisetta) fu considerata un debolissimo spirito, tanto che il dolce disprezzo che ispirava ai congiunti passza poco a poco nel cuore di tutti. Quanto alla piccola Giovanna, con quel senso di naturale divinazione che qdei ragazzi, non si occupava di lei, non entrava nella sua camera, non ne era affatto curiosa, lasciando che la cameriera Rosalu a vi facesse un po' d'ordine in fretta, poichpera la sola che sapesse veramente dove fosse questo trascurabilissimo vano. Quando la zia Lisetta si affacciava in sala da pranzo, la "piccina" andava per abitudine a offrirle la fronte, e nient'altro. Se qualcuno voleva parlarle, mandavano un servo a cercarla: se non la vedevano, nessuno si occupava di lei, nessuno pensava o avrebbe pensato mai di inquietarsi, di chiedere: "Come mai stamattina non si qvista Lisetta?". Non occupava un posto, era di quegli esseri che restano sconosciuti anche ai loro congiunti, come inesplorati, inspiegati: scompaiono, muoiono, e nessuno sente un vuoto, una mancanza in famiglia, perchpci sono pure esseri che non sanno entrare nell'esistenza, nelle abitudini e neppure nell'amore dei familiari con cui dividono la vita. Si diceva: "zia Lisetta", e non risvegliava nello spirito di chi pronunciava queste due parole nessun particolare sentimento come se si fosse nominata la caffettiera o la zuccheriera. Camminava sempre a passettini affrettati e leggeri, non faceva rumore, non urtava mai niente, era come se comunicasse agli oggetti la facoltjdi non rendere alcun suono. Le sue mani sembravano fatte di una specie di bambagia, tanta era la leggerezza, tanta la delicatezza con cui toccava e adoperava una cosa. Arrivzverso la metjdi giugno tutta sconvolta dall'idea di quel matrimonio, e con una gran quantitjdi regali, che erano di lei, di Lisetta, e passarono percizinosservati. Arrivz, e il giorno dopo non si sapeva piche ci fosse. Eppure si vedeva bene che era eccitata, che si agitava in lei una grande emozione, che i suoi occhi non lasciavano mai i promessi sposi, che si occupava del corredo con un'energia singolare, con un'attivitjsempre pimossa, pifebbrile, lavorando come una semplice operaia nella sua stanza dove nessuno andava a vederla. Eccola, di quando in quando, mostrare alla baronessa fazzolettini a cui aveva fatto l'orlo, tovaglioli a cui aveva fatto la cifra. "Va bene, Adelaide? Cosu ?" "Non t'affaticare tanto mia povera Lisetta" rispondeva mammina esaminando distrattamente la stoffa. Una sera, verso la fine del mese, dopo una giornata di pesante calura, la luna si levzin una di quelle notti chiare e tiepide che turbano, inteneriscono, esaltano, sembrano risvegliare una poesia segreta dell'anima. La dolce brezza dei campi entrava nel salone tranquillo. La baronessa e il marito giocavano a carte, svogliatamente, nel cerchio di luce della lampada familiare; la zia Lisetta lavorava a maglia lu accanto; e i due giovani, appoggiati alla finestra aperta, guardavano il giardino pieno di luce. Il platano e il tiglio spandevano le loro ombre sul prato erboso che si stendeva innanzi alla villa, pallido e luminoso fino al boschetto tutto nero. Attratta dal fascino di quella luce vaporosa che sembrava avvolgere alberi e pietre, Giovanna chiese il permesso di fare una passeggiata sull'erba, lufuori. "Andate pure, figlioli miei." Uscirono mentre ricominciava la partita, e camminarono lentamente sul gran prato bianco di luna, fino al piccolo bosco laggiin fondo. Le ore passavano senza che la coppia pensasse a rientrare, e la baronessa era stanca e voleva andare a dormire. Chi richiamava i due innamorati? Il barone, sulla vetrata, percorse d'un colpo d'occhio il vasto giardino dove le due ombre erravano labili nella luce. "Lasciamoli, cara. Si sta cosubene qui fuori! Ecco: li aspetta Lisetta. Vero, Lisetta?" "Certo, li aspetterz" rispose con voce timida lei, alzando gli occhi con una certa inquietudine. Rimasta sola, la zia Lisetta si alzz, lascizsulla poltrona il lavoro incominciato, il gomitolo e il ferro da calza, si appoggizalla finestra per contemplare la notte incantevole. I due fidanzati camminavano sempre attraverso il prato, dal boschetto alla scalinata, dalla scalinata al boschetto, e non parlavano pi, ma si stringevano la mano, come in un oblu o di sp, come fusi nella poesia visibile che esalava dalla terra. Lei, improvvisamente, scorse nel vano della finestra il profilo della zitella disegnato dalla chiaritjdella lampada. "Guarda, guarda! Lisetta ci osserva." "Si, zia Lisetta ci osserva" disse lui alzando la testa e con quella voce indifferente che parla senza pensiero. E ancora sogni e passi lenti e tenerezze sotto la luna. La rugiada copriva l'erba; gl'innamorati ebbero un primo brivido di freddo. "Rientriamo" disse Giovanna. La zia Lisetta si era rimessa a lavorare: la sua fronte era china sulla maglia: le dita magre tremavano un poco come se fossero stanche. Giovanna si avvicinz. "Zia Lisetta, andiamo a dormire?" La zitella alzzgli occhi: erano gonfi come se avessero pianto. Gl'innamorati non se ne avvidero; egli si avvide piuttosto che le scarpette di Giovanna erano bagnate di guazza. "Non avete mica freddo ai vostri cari piedini?" A questo punto le mani della zia Lisetta furono scosse da un tremito cosuforte che le sfugguil suo lavoro, il gomitolo della lana rotolzlontano sul pavimento, e la poveretta nascose la faccia tra le mani e scoppizin un pianto convulso davanti ai due fidanzati che la guardavano immobili, senza capire. "Ma che hai, zia Lisetta?" chiese Giovanna che le si era inginocchiata davanti e tentava di scostarle le braccia. "Che hai, che hai?" Allora la poveretta balbettz con la voce molle di lacrime, con tutta la persona contratta: "Giovanna, Giovanna, egli t'ha domandato... t'ha domandato... "Non avete freddo... ai vostri cari piedini..." A me... non me le hanno dette mai queste cose... Mai a me... mai a me..." Giovanna era sorpresa e impietosita; eppure aveva voglia di ridere. Era buffa infatti l'idea di un innamorato che avesse di queste tenerezze per zia Lisetta e il visconte si era voltato dall'altra parte a nascondere la sua ilaritj. Ma la zia si levzdi colpo, lascizla sua lana sul pavimento, il lavoro sulla poltrona, e fugguvia senza lampada, su per le scale buie, cercando la sua stanza a tentoni. "Povera zia!" "Dev'essere un po' matta, stasera." Si tenevano per mano senza decidersi a separarsi, e cosu , dolcemente, dolcissimamente, si scambiarono il primo bacio davanti alla poltrona lasciata vuota proprio allora dalla povera zia. E il giorno dopo non pensavano gijpia quelle lacrime. Le due settimane che precedettero il matrimonio lasciarono Giovanna tranquilla e serena e come stanca di dolci emozioni. Nemmeno il mattino del giorno decisivo si fermzun poco a riflettere. Provava soltanto una grande sensazione di vuoto come se tutto il suo corpo, la sua carne, il suo sangue le si fossero fusi sotto la pelle: si accorse, toccando gli oggetti, che le sue dita tremavano. In chiesa riprese il dominio di sp: e si era gijalla funzione. Sposa! Era sposa! La successione delle cose, dei movimenti, degli avvenimenti di quella mattina le parevano un sogno, un gran sogno, come nei momenti in cui tutto sembra cambiato intorno a noi, i gesti stessi hanno un significato diverso, le ore stesse non sanno compiere il giro ordinario. Si sentiva stordita, sbalordita. Solo il giorno prima nulla c'era di diverso, di modificato nella sua esistenza; c'era, su , la speranza costante della sua vita diventata piprossima, quasi palpabile. Addormentarsi fanciulla: svegliarsi donna. Era donna! Aveva dunque superato la barriera che sembra nascondere l'avvenire con tutte le sue gioie, con tutto il suo bene sognato, e sentiva che davanti a lei c'era una porta aperta: da questa porta entrava nell'"Atteso". La cerimonia finiva. Si passznella sagrestia quasi vuota, chpnon avevano invitato nessuno. Quando apparvero sulla porta della chiesa, un fragore inumano fece sobbalzare la povera sposina, e la baronessa gettzun alto grido: era una salva di fucilate tirate dai contadini e le detonazioni non cessarono pifino ai "Pioppi". Una colazione era stata preparata per la famiglia, per due curati, quello dei castellani e quello d'Yport, per i testimoni scelti tra i pigrossi coltivatori dei dintorni. Il barone, la baronessa, la zia Lisetta, il sindaco e l'abate Picot, aspettando di mettersi a tavola, percorrevano in su e in giil viale della mamma, mentre in quello di faccia l'altro prete leggeva il breviario camminando a gran passi. Giungeva, dall'altra parte del castello, la clamorosa allegria dei contadini che bevevano il sidro sotto i meli. Tutto il paese vestito a festa riempiva il cortile. I giovanotti e le ragazze si rincorrevano. In quel momento Giovanna e Giuliano attraversavano il boschetto, salivano sull'argine e, muti, insieme, guardarono il mare. Benchpsi fosse a mezzo agosto, faceva un po' fresco; soffiava il vento del nord; un gran sole splendeva incandescente nel cielo tutto turchino. E per trovare un riparo attraversarono la landa girando a sinistra, puntando alla vallata ondulata e boscosa che scendeva giverso Yport. Raggiunto il bosco, nessuna ventata li importunzpi, e lasciarono il viale per internarsi in uno stretto sentiero, sotto il fogliame. Ludentro si poteva appena camminare, cosu , l'uno dietro l'altro: allora sentu un braccio che le scivolava lentamente intorno alla vita. Ansimava senza parole, il respiro mozzo, il cuore convulso. I capelli erano toccati, accarezzati dai rami pibassi: bisognava chinarsi per passare. Giovanna colse una foglia: due bestioline del buon Dio, simili a fragili conchiglie rosse, vi si rannicchiavano sopra. E la sposina disse con innocenza, un po' rassicurata: "Un matrimonio. Guardate." Lui le sfiorzl'orecchio con la bocca. "Sarete mia moglie, stasera." Quantunque avesse imparato molte cose nella sua vita fra i campi, non pensava ancora che alla poesia dell'amore, e fu sorpresa. Sua moglie? Non lo era forse di gij? Allora egli si mise ad abbracciarla dandole dei piccoli baci rapidi sulle tempie e sul collo, ljdove si arricciano i primi capelli. Colpita ogni volta da quei baci di uomo a cui non era avvezza, rovesciava dall'altra parte il capo, d'istinto, per evitare una carezza che pur la rapiva. Eccoli dunque al confine del bosco. Si fermzcome impressionata di essere lu . Che avrebbero detto di loro? "Torniamo indietro" pregz. Egli ritirzil braccio che le cingeva la vita e, voltandosi entrambi, si trovarono faccia a faccia, vicini, oh cosuprossimi che ognuno sentiva sul proprio volto l'alito dell'altro: e si guardarono, si cercarono negli occhi, dentro gli occhi, ljdentro, dove l'ignoto dell'essere q impenetrabile; si esaminarono in una muta ostinata domanda. Che saranno mai l'uno per l'altra? Quale sarjla vita che cominciano insieme? Quali gioie, quali felicitje disinganni si riserbano reciprocamente nella lunga indissolubile comunanza del matrimonio? E sembrzloro che si vedessero per la prima volta in questo momento. Poi Giuliano, posando le mani sulle spalle di sua moglie, le diede un bacio sulla bocca cosuprofondo come lei non ne aveva mai ricevuti. Questo bacio discese, penetrznelle sue vene, nelle sue midolla, e ne sentuuna scossa misteriosa; cosumisteriosa che respinse con forza il suo sposo e poco mancznon cadesse riversa in quell'appassionato smarrimento. "Su, su... torniamo indietro..." Senza rispondere, egli le prese le mani e le tenne strette dentro le sue. Npparlarono pifino a casa. Il resto del pomeriggio parve interminabile. E si giunse al banchetto che era notte. Fu un banchetto semplice e breve, contrariamente agli usi normanni. Una specie di disagio paralizzava i convitati. Solo i due preti, il sindaco e i quattro fittavoli mostrarono un po' di quell'allegria grossolana che nelle feste nuziali qdi prammatica. Il riso sembrava spento: lo rianimzun'arguzia del sindaco. Poi venne il caffq, ed erano circa le nove. Fuori, sotto i meli del primo cortile, incominciava il ballo campestre. Dalla finestra aperta si vedeva tutta la festa con quei suoi lampioncini appesi ai rami che davano alle foglie certe sfumature di un color verde grigio. Villani e villanelle danzavano in tondo urlando un'aria di danza selvaggia che i suonatori (due violini, un clarino) accompagnavano un po' debolmente accoccolati sul palco lass, che era una modesta tavola di cucina. Il canto disordinato copriva talvolta il suono degli strumenti, e la debole musica, lacerata da quelle voci scatenate, sembrava cadere a brani dal cielo, a piccoli frammenti di poche povere note disperse. Due grandi barili circondati da torce fiammeggianti versavano da bere alla folla: due serve non facevano che risciacquare coppe e bicchieri in una conca, per metterli, ancora sgocciolanti, sotto i rubinetti da cui colava il filo rosso del vino o il filo dorato del sidro. E i ballerini assetati, i vecchi tranquilli, le ragazze pazze, sudate, si pigiavano, tendevano le braccia per afferrare a turno un recipiente qualsiasi e versarsi a gran sorsi nella gola il liquido preferito, rovesciando il capo all'indietro. Ciascuno si avvicinava alla tavola dov'erano pane, burro, salsicce, formaggio e inghiottiva di quando in quando un boccone, e quella festa sana e veemente sotto il soffitto delle foglie illuminate metteva anche nei taciturni convitati della sala il desiderio di ballare, di bere alle grosse botti e mangiare una fetta di pane, burro, formaggio, una cipolla cruda. "Perbacco!" gridzil sindaco che batteva il tempo col coltello "Cosuva bene! E' come chi dicesse le nozze di Ganascia!" Corse un sussulto di risa soffocate. Ma l'abate Picot, nemico naturale dell'autoritjcivile, corresse: "Volete dire le nozze di Cana?" "No, no, signor curato" si intestardiva quell'altro per non accettare la lezione "so quel che mi dico: quando dico Ganascia qGanascia!" Si alzarono da tavola, si unirono un po' alla gazzarra. Poi, ritiratisi gl'invitati, il barone e la baronessa ebbero fra loro, sottovoce, una specie di battibecco. La signora Adelaide, pi ansante che mai, sembrava rifiutare quel che il marito le chiedeva. "No, amico mio" disse infine quasi ad alta voce. " Non posso. Non posso. Non saprei da che parte incominciare..." Allora il barone la lascizbruscamente e si avvicinzalla figliola. "Vuoi fare un giro con me, bimba mia?" "Come vuoi, papj" rispose lei tutta commossa. Appena furono sulla porta a mare li assaluun venticello frizzante, uno di quei venti freddi d'estate che fan gijpresagire l'autunno. Le nuvole galoppavano per il cielo ora velando ora scoprendo le stelle. Il padre stringeva contro di spil braccio della fanciulla serrandole pure la mano in un tenerissimo fremito. Sembrava indeciso, turbato. Infine si decise. "Bimba mia, mi assumo adesso una parte difficile, una parte che veramente toccava a tua madre, ma siccome lei non vuole, bisogna bene che prenda il suo posto. Ignoro cizche tu sai della vita. Ci sono misteri che si nascondono gelosamente alla giovente specialmente alle fanciulle che debbono conservare la purezza dell'anima e restare illibate finchpnoi le rimettiamo nelle braccia dell'uomo che deve difendere la loro felicitj. Sta a lui, sta a lui togliere quel velo teso sul dolce mistero della vita. Ma le fanciulle, se nessun sospetto le ha ancora sfiorate, spesso si rivoltano davanti alla realtjun po' brutale nascosta dietro i loro sogni. Ferite nell'anima, ferite anche nel corpo, talvolta rifiutano allo sposo cizche la legge gli accorda come un diritto assoluto. La legge umana... la legge naturale... Basta, non posso dirti di pi. Ma non dimenticare questo, soltanto questo: tu appartieni interamente al tuo sposo." Che cosa veramente sapeva lei? Che cosa indovinava? Aveva cominciato a tremare oppressa da una malinconia snervante e dolorosa come un presentimento. Una sorpresa li fermzsulla porta della sala, quando rientrarono. La signora Adelaide singhiozzava sul petto di lui, dello sposo. I suoi singulti, le sue lacrime veementi, come risospinti da un mantice di fucina sembrava le uscissero nello stesso tempo dal naso, dalla bocca, dagli occhi; e lo sposo, interdetto, confuso, scontento, sosteneva la grossa signora che gli si abbandonava fra le braccia per raccomandargli la sua cara, la sua buona, la sua diletta la sua adorata figliola. Accorse il barone. "Non fate scene, non v'intenerite, no, no, ve ne prego..." E cosustacczla moglie dal giovane e la fece sedere su una poltrona per darle modo di asciugarsi le lacrime. "Andiamo, piccina mia" disse egli rivolto a Giovanna. "Abbraccia alla svelta tua madre, e va' a coricarti." Giovanna stava quasi per piangere anche lei: abbraccizi suoi genitori e fuggu . Zia Lisetta si era gijritirata nella sua stanza. Il barone e la baronessa rimasero soli con Giuliano. Erano cosuconfusi tutt'e tre che non sapevano spiccicare parola, i due uomini in abito nero, in piedi, con gli occhi smarriti, la signora abbattuta sulla poltrona con un resto di singhiozzi nella gola. Siccome questo imbarazzo diventava intollerabile il barone cominciza parlare del viaggio che i giovani sposi dovevano intraprendere dopo pochissimi giorni. Intanto Giovanna, nella sua camera, si lasciava spogliare da Rosalu a che piangeva dirottamente. Queste povere mani di Rosalu a erravano a caso, non trovavano pinpgli spilli npi nastri e sembrava davvero picommossa della sua padroncina. Ma come poteva pensare Giovanna alle lacrime della sua cameriera? Le sembrava di essere entrata in un altro mondo, partita da un'altra terra, separata da tutto cizche aveva conosciuto e prediletto. Ecco, d'un tratto, l'esistenza sconvolta! Le venne perfino un'idea strana: suo marito... lo amava? Ed ecco anche, di colpo, il suo sposo apparirgli come un estraneo: ma su , ma su , lo conosceva appena! Tre mesi prima non sapeva nemmeno che esistesse. Allora non sapeva nemmeno che esistesse, e adesso era sua moglie. Perchp? Perchpcader cosu presto nel matrimonio come in una buca aperta sotto i piedi? Scivolzrapida nel letto, e il contatto delle lenzuola la fece rabbrividire e aumentzquesta sensazione di freddo, di tristezza, di solitudine che le gravava da due ore sull'anima. Rosalu a se ne andz, sempre singhiozzando, e Giovanna attese. Attendeva ansiosa, col cuore convulso, non sapeva bene che cosa, qualcosa come di divino, o anche cizche le aveva annunziato confusamente suo padre, quella rivelazione misteriosa di cizche qil gran segreto d'amore. Furon battuti tre colpi leggeri, senza che lei avesse udito un passo su per la scala. Trasaluspaventata e non rispose. Fu bussato ancora, un po' piforte: e poi la serratura che stride. Nascose la testa sotto il lenzuolo, come se stesse per entrare un ladro. Quelle scarpe che scricchiolano sul pavimento... qualcuno che tocca il suo letto... Allora, in un sussulto nervoso, gettzun piccolo grido, e fu cosuche scoprula testa e vide Giuliano in piedi, davanti, lui che guardava e rideva. "Che paura m'avete fatto!" "Forse non m'aspettavate?" Non rispose. Egli era ancora vestito da cerimonia, in gran tenuta, con la sua faccia seria di bel giovane, e lei sentu una grande vergogna di essere a letto in presenza di un uomo cosuirreprensibile. Non sapevano pi che cosa dire, che cosa fare: non osavano nemmeno guardarsi in quel momento cosudecisivo da cui dipende l'intima felicitjdella vita. Egli forse intuiva vagamente qual pericolo offra, e quanta docile padronanza di se stessi, quale astuta tenerezza sia necessaria per non ferire nessuno di quegli istintivi pudori, delle infinite delicatezze di un'anima vergine e nutrita di sogni. Allora, dolcemente, le prese una mano e gliela baciz; poi si inginocchizai piedi del letto come davanti a un altare. "Mi amerete?" Tutta rassicurata, Giovanna sollevzsul guanciale il suo capo come aureolato d'un soffio di trine. "Ma io vi amo gij, amico mio." Egli prese in bocca le dita affusolate di sua moglie, e quell'impedimento di carne mutzla sua voce. "Volete dimostrarmi che mi amate?" Rispose lei, di nuovo turbata, senza capire quel che si diceva, ricordandosi delle parole paterne: "Sono tutta vostra, amico mio." Egli le copruil polso di baci umidi e, raddrizzatosi pian piano, si accostzalla faccia di lei che ricominciava a nasconderla. Improvvisamente, stendendo un braccio in avanti, al di sopra del letto, abbraccizsua moglie attraverso le lenzuola, mentre, introdotto l'altro braccio sotto il cuscino, le sollevava il docile capo. "Allora, allora" domandza voce bassa, molto bassa "volete farmi un posticino accanto a voi?" Ebbe paura, una paura istintiva, e balbettz: "Oh non ancora, no, vi prego!" Egli sembrzsconcertato, anche un po' urtato. Riprese con un tono ancora supplichevole, ma brusco: "Perchppitardi? Prima o poi, non sarjla stessa cosa?" Giovanna si sentucome punta da queste parole e tuttavia ripetpsottomessa e rassegnata: "Sono vostra, amico mio..." Allora egli scomparve nell'attiguo spogliatoio e la sposina intese distintamente quei movimenti di lui, quel fruscio di abiti tolti di dosso, il tintinnio del denaro nelle tasche, le scarpe posate per terra. D'un tratto egli attraverszrapidamente la stanza, in mutande e calzini, per andare a posare l'orologio sul caminetto: tornzcorrendo nella stanzetta vicina, si agitzancora un poco, e Giovanna si volse di colpo dall'altra parte, chiudendo gli occhi, quando lo sentuavvicinarsi. Egli arriva, egli arriva! Si scosse di soprassalto, come per buttarsi a terra, quando sentuscivolare contro la sua gamba un'altra gamba fredda e pelosa, e con la faccia tra le mani, smarrita, sconvolta, decisa a gridare di paura e di sgomento, si rannicchizsulla sponda del letto. Subito egli la prese fra le braccia, benchpgli voltasse le spalle, baciandole avido il collo e le trine fluttuanti dell'acconciatura notturna e il colletto ricamato e il tessuto della camicia. Non si muoveva irrigidita in un'orribile ansietj, sentendo una mano greve cercarle il seno nascosto, premuto coi gomiti. Ansimava sconvolta sotto quel contatto brutale e voleva fuggire, correre per la casa, rinchiudersi in un luogo qualsiasi ma lontana da lui, da quell'uomo. Egli non si muoveva pie Giovanna sentiva il calore di lui sul suo dorso: allora il suo spavento si calmzdi nuovo e penszimprovvisamente che non le restava che voltarsi per abbracciarlo. "Non volete dunque essere la mia mogliettina?" "E non lo sono forse?" rispose lei attraverso le dita. "Ma no, cara" disse egli con una sfumatura di cattivo umore. "Via, non vi burlate di me..." Giovanna si senti tutta agitata da quel tono di malcontento e si voltzsubito a lui come per domandargli perdono. E lui l'afferrzper la vita, rabbiosamente, affamato di lei, le percorse tutta la faccia e tutto il collo di baci rapidi, folli, mordenti, stordendola di carezze, e poi ancora il collo, la bocca, la gola. Aveva aperto le mani e rimaneva inerte sotto gli sforzi di lui, non sapendo quel che egli facesse, npquel che facesse lei stessa, in un turbamento di spirito che non lasciava comprendere nulla. Ma una sofferenza acuta la straziztutt'a un tratto, e si mise a gemere e a torcersi fra le braccia di lui che la faceva sua con violenza. Che avvenne poi? Non ricordz, perchpaveva perduto la testa: le parve soltanto che egli le coprisse le labbra di baci riconoscenti, fitti fitti, piccoli piccoli. Doveva averle anche parlato ed lei, forse, risposto. Poi egli fece altri tentativi che lei respinse con spavento; e siccome si dibatteva, incontrzsul petto di lui quel pelo ruvido che aveva gijsentito sulla gamba e si trasse indietro con orrore. Stanco di sollecitarla per nulla, egli rimase immobile, supino. Allora Giovanna si pensze si sentudisperata fin nel profondo dell'anima, nel disinganno di un'ebbrezza sognata cosudiversa, di una cara attesa distrutta, di una felicitjperduta per sempre: "Ecco, ecco cizche egli chiama essere sua moglie: qquesto, qquesto!" E rimase cosulungo tempo, angosciata, gli occhi erranti sulle tappezzerie della stanza, sulla vecchia leggenda d'amore che aveva avvolto e riempito il suo nido. Ma poichpGiuliano taceva e non si muoveva, girzlentamente lo sguardo verso di lui e si accorse su , che dormiva! Dormiva, la bocca socchiusa, il viso calmo... Dormiva! Quasi non poteva credere a questo: era indignata: si sentiva oltraggiata dal quel sonno piche dalla crudeltj, piche dalla brutalitj. Eccola trattata come la prima venuta giacchpegli poteva dormire in una notte simile! Oh Dio cizche c'era stato fra loro non aveva dunque nulla di straordinario per lui? Su , su , avrebbe preferito essere picchiata, violentata ancora, macchiata di carezze odiose, su , su , fino a perderne i sensi! E rimase immobile, appoggiata su un gomito, piegata verso di lui, ascoltando fra quelle labbra il passaggio del soffio leggero che somigliava alla volgaritjdel russu o... Venne il giorno, cupo in principio, poi chiaro, poi rosa, e poi sfavillante. Giuliano apri gli occhi, sbadigliz, guardzsua moglie e sorrise. "Hai dormito bene, mia cara?" Si accorse che le dava del tu e lo guardz stupefatta. "Ma su . E... voi?" "Oh! Io benissimo." Si volse verso di lei, la abbracciz, e si mise a ragionare tranquillo, manifestando i suoi progetti per l'avvenire, con strane idee, idee di "economia": e questa parola ripetuta pie pivolte stupula sposina. Lo ascoltava senza afferrar bene il senso delle parole, lo guardava, pensava a mille cose rapide che passavano e sfioravano appena il suo spirito. Suonarono le otto. "Suvvia, bisogna alzarsi" egli disse. "Saremmo ridicoli se restassimo a letto fino a tardi." Scese dal letto per primo. E quando fu vestito, aiutzpremuroso sua moglie in tutti i piminuti particolari della sua eleganza e non permise che chiamasse Rosalu a. "D'ora innanzi" egli disse fermandola al momento di uscir dalla stanza "fra noi soli ci si potrjdare del tu. Davanti ai tuoi genitori qmeglio attendere ancora. Il tu sarjnaturalissimo al ritorno dal viaggio di nozze. Va bene?" Non si fece vedere che all'ora di colazione. E la giornata passzcome sempre: come se non ci fosse nulla di nuovo. Non c'era, in casa, che un uomo di pi. Capitolo 5 Ecco, quattro giorni dopo, la berlina che deve portarli a Marsiglia. Passata l'angoscia della prima sera, Giovanna si era abituata al contatto di Giuliano, e alle tenerezze e ai baci e all'amore, benchpla sua ripugnanza nei rapporti piintimi non fosse per nulla diminuita. Ma lo trovava bello, lo amava, e ritornava gaia e felice. Gli addii furono brevi, senza tristezza. Solo la baronessa sembrava un poco commossa; e al momento della partenza mise nelle mani della figliola una gran borsa che pesava come se ci fosse dentro del piombo. "Per le tue piccole spese di sposina..." Giovanna intascz, e i cavalli partirono. "Quanto ti ha dato tua madre?" egli le chiese poi, verso sera. Non ci pensava pi, e rovescizin grembo la borsa. Un fiotto d'oro si sparse: duemila franchi. Giovanna battple mani puerilmente. "Farzdelle pazzie!" disse nascondendo il suo oro. Dopo otto giorni di viaggio arrivano, con un orribile caldo, a Marsiglia e l'indomani il "Re Luigi", il piccolo piroscafo che andava a Napoli passando da Ajaccio, li portava verso la Corsica. La Corsica! La macchia! I briganti! Le montagne! La patria di Napoleone! Giovanna credeva di uscire dalla realtjper entrare, cosudesta, in un sogno. L'uno accanto all'altra, sul ponte della nave, guardavano perdersi lontano le spiagge della Provenza. Il mare, immobile: d'un azzurro carico, come rappreso nella luce calante dal sole: il cielo, infinito, sotto il cielo di un turchino quasi esagerato, insolente. "Ricordi la nostra passeggiata nella barca di papjLastique?" Invece di rispondere, egli si chinzdi furia a baciarle un orecchio. Le ruote del vapore sbattevano l'acqua rompendone il sonno pesante e la lunga traccia schiumosa, una lunga pallida scia dove l'acqua mossa spumeggiava come champagne, prolungava fino a perdita d'occhio il solco del naviglio, dirittissimo. D'un tratto, ludavanti, a pochi metri balza un pesce dall'acqua, un delfino, vi rituffa la testa, scompare. Giovanna, sorpresa, ebbe paura, gettzun grido, si abbandonzsul petto di lui. Rise del suo spavento e guardzansiosa se l'animale ricomparisse. Ed eccolo, dopo un minuto, scattare ancora come un grosso giocattolo meccanico: ricadde e uscuun'altra volta: e furono due, tre, sei delfini che parevano saltellare intorno al pesante piroscafo e quasi scortare quel loro mostruoso fratello, quel pesce di legno dalle pinne di ferro, ora a destra, ora a sinistra, o tutt'insieme, o l'uno dopo l'altro, in un giuoco, in un rincorrersi allegro, slanciandosi in aria con la gran curva di un salto e ricadendo in fila nei tuffi. Giovanna batteva le mani entusiasta, trasaliva a ogni apparizione di quegli enormi agili nuotatori, il suo cuore balzava come quei delfini in una pazza allegria di bambino. Scomparvero. Si videro ancora una volta, lontani, lontani, in alto mare: poi niente. E questa scomparsa, per un momento almeno, dispiacque. Veniva la sera; una sera calma, radiosa, piena di chiarore, di pace serena. Non un fremito nell'aria o sull'acqua e questo riposo illimitato del mare e del cielo si stendeva sulle anime stanche, che non trasalivano pi. Il sole calava ljmollemente, verso l'Africa invisibile, verso la terra infuocata di cui si avvertivano quasi gli ardori; e una specie di fresca carezza sfiorava le fronti dopo che il sole era tramontato e scomparso, e non era nemmeno un soffio, ma una parvenza di brezza. Giovanna e Giuliano non vollero scendere in cabina, ljdove si sentiva l'orribile odore del piroscafo: si stesero fianco a fianco sul ponte, sotto i loro mantelli, e dormirono. Giuliano dormiva; lei rimaneva a occhi aperti, agitata dal senso d'ignoto del viaggio, cullata dalla monotonia delle ruote, guardando passar sul suo capo legioni di stelle, stelle cosuchiare, di una luce cosuacuta, cosuscintillante e come inumidita in quel puro cielo d'estate. Si assopuverso il mattino. Ma la svegliarono voci e rumori: erano i marinai che cantavano e rifacevano bella la nave. Scosse suo marito, lo obbligzad alzarsi, mentre beveva esaltata quel sapore di bruma salina che le penetrava fin nell'estremitjdelle dita. Quanto mare! Non altro che mare! Pure, ljin fondo, sembrava che qualcosa di grigio si posasse sulle onde, qualcosa di ancora confuso nell'alba nascente, qualcosa come un agglomeramento di nuvole strane, tutte sporgenze e frastagli. A poco a poco, nel cielo sempre pichiaro, i contorni si svelano, si eleva come una grande linea di montagne cornute e bizzarre: la Corsica! E' proprio la Corsica avvolta in una specie di velo leggero. Dietro le sorge il sole disegnando i rilievi delle creste in ombre nere e compatte, poi le vette si incendiano e il resto dell'isola rimane come annebbiata di vapore. Apparve il capitano sul ponte, un vecchio ometto disseccato, indurito, rattrappito dai crudi venti salmastri. "Lo sentite questo odore?" disse a Giovanna con una voce arrochita da trent'anni di comando, logorata dalle grida lanciate nelle burrasche. Sentiva infatti un odore singolare di piante; un aroma selvaggio. "E' la Corsica che fiorisce cosu , qil suo profumo di donna bella. La riconoscerei a cinque miglia di distanza dopo vent'anni. Io sono corso. Si dice che laggi, a Sant'Elena, Egli parli sempre dell'odore del suo paese. E' della mia famiglia." E il capitano si levzil cappello per salutare la Corsica: e salutzlaggi, attraverso l'oceano, colui che apparteneva alla sua famiglia: il grande imperatore prigioniero. Giovanna fu cosucommossa che si sentule lacrime agli occhi. "Le sanguinarie" annunzizpoi l'uomo di mare col braccio teso verso l'orizzonte. Giuliano e Giovanna guardavano lontano lontano (lui la stringeva alla vita) per scoprire il punto indicato. E finalmente scorsero alcune rocce in forma di piramide che la nave girzcon destrezza entrando in un golfo immenso e tranquillo, tutto contornato di cime. Il capitano indiczi pibassi pendii che parevano coperti di muschio: "Le macchie". Man mano che si avanzava il cerchio dei monti sembrava chiudersi dietro la nave che navigava lenta in un azzurro cosutrasparente che non se ne vedeva il fondo. E la cittjapparve di colpo, in fondo al golfo, ai piedi delle montagne, lambita dal mare. Alcuni piccoli bastimenti italiani ancorati nel porto. Quattro o cinque barche venivano intorno al "Re Luigi" per prenderne i passeggeri. Giuliano riuniva i bagagli; domandzsottovoce a sua moglie: "Bastano venti soldi per il facchino, no?" Da otto giorni Giuliano faceva continuamente la stessa domanda, e Giovanna ne soffriva quasi ogni volta. Rispose con un'ombra d'impazienza: "Quando si qsicuri di non dare abbastanza, si djtroppo." Egli discuteva sempre con tutti, coi padroni e coi camerieri degli alberghi, coi fiaccherai, coi venditori di ogni genere, e quando aveva a forza d'astuzia ottenuto anche un piccolo ribasso diceva a Giovanna: "Non mi piace d'essere derubato" e si fregava le mani. E lei tremava tutte le volte che gli presentavano i conti, gij sicura delle osservazioni che egli avrebbe fatto su tutto, umiliata per quel piccolo mercanteggiare, infiammata fino ai capelli sotto lo sguardo sprezzante dei camerieri che seguivano con la coda dell'occhio il suo sposo tenendo nel palmo della mano la mancia meschina. E ora anche una discussione col barcaiolo che li portava a terra. Il primo albero che vide fu una palma. Si fermarono in un grande albergo vuoto all'angolo d'uno spiazzo, e si fecero portare la colazione. Dopo colazione, mentre Giovanna si alzava per andare a veder la cittj, Giuliano le afferra un braccio e le dice qualcosa all'orecchio: "Se ci coricassimo un poco, tesoruccio mio?" "Coricarci? Ma io non sono stanca." "Non capisci?" disse stringendola a sp. "Non capisci che ti desidero? Dopo due giorni..." Giovanna arrossudi vergogna. "Oh, adesso! Ma che diranno? Che penseranno? Come oserai chiedere una camera di pieno giorno? Oh Giuliano, ti supplico...." "Me ne infischio di quel che puzdire e pensare l'albergo! Sta' a vedere" e suonz. Restava a occhi bassi, senza parlare. Ma sentiva che la sua anima si ribellava a quel desiderio inesausto, e che obbediva, su , ma con disgusto, e che era rassegnata, insieme, e umiliata e che vedeva in cizqualcosa di bestiale, di degradante, ecco, ecco... una porcheria! I suoi sensi dormivano ancora e il suo sposo la trattava come se gijdividesse il piacere! Il cameriere arriva, Giuliano gli dice di condurli in camera, l'altro non capisce e assicura che la stanza sarjpronta, gij, gij... per la sera. Giuliano, impazientito, si spiega: subito subito, bisogno di riposo, stanchi del viaggio... Allora un sorriso cala giper la barba del cameriere (un vero corso, peloso fino agli occhi) e Giovanna vorrebbe fuggire... Quando ridiscese, dopo un'ora, non osava passare davanti alla gente, persuasa che qualcuno avrebbe riso e bisbigliato dietro le sue spalle. Serbava rancore a Giuliano di non capir queste cose, questi delicati pudori, queste delicatezze istintive, e le sembrava che fra loro due ci fosse come un velo, un ostacolo; e poteva anche darsi che due esseri non potessero penetrarsi mai fino in fondo, e che essi camminassero sua fianco a fianco, magari abbracciati, ma non confusi, non immedesimati l'uno nell'altro, perchpl'essenza morale di ciascuno rimane sola per tutta la vita. I due giovani sposi passarono tre giorni in quella cittadina nascosta in fondo al golfo turchino, calda come una fornace dietro la sua cortina di montagne che non permetteva al vento di arrivare fin lu . Poi prepararono l'itinerario del viaggio, e per non indietreggiare davanti a nessun passaggio difficile decisero di noleggiare dei cavalli: due piccoli stalloni corsi dall'occhio furioso, magri e infaticabili. La partenza avvenne il giorno dopo, allo spuntar del sole. Seguiva una guida con le provvigioni, poichp gli alberghi sono sconosciuti in questo paese selvaggio. La strada correva dapprima sul golfo e si internava poi in una vallata poco profonda che si apriva verso le alture. Spesso attraversavano terreni quasi asciutti dove una parvenza di ruscello scorreva ancora sotto le pietre, come una bestia nascosta, gorgogliando timido timido. Il territorio incolto sembrava nudo, coi fianchi delle coste coperti di erbe alte e gialle per l'ardore dell'estate. Talvolta incontravano un piccolo montanaro a piedi o a cavallo o sul dorso di un asino, non pigrosso di un cane, e tutti avevano ad armacollo il fucile gijcarico: vecchie armi arrugginite ma, nelle loro mani, temibili. Il forte profumo delle piante aromatiche, che erano come il vello dell'isola, faceva l'aria sempre pidensa e la strada si elevava a poco a poco lungo la tortuositjdelle montagne. Cime di granito rosa e azzurro davano al paesaggio qualcosa di coreografico, e sui pibassi declivi foreste immense di castagni parevano soltanto cespugli tanto erano gigantesche in quei paraggi le ondulazioni terrestri. Talvolta la guida diceva un nome tendendo il braccio verso le cime dirupate; Giovanna e Giuliano guardavano, ma non vedevano nulla, poi scoprivano qualcosa di grigio, simile a un ammasso di pietre cadute dall'alto; ed era un villaggio, un casolare di granito, appollaiato lass, aggrappato come un nido di uccello, quasi invisibile nell'immensitjdella montagna. Quel lungo viaggio al passo snervava Giovanna. "Corriamo un poco" propose. E lancizil suo cavallo. Poi, siccome non udiva dietro galoppare il suo sposo, si volse e rise d'un riso vivace vedendolo accorrere pallido, tenendo la criniera dell'animale e balbettando in modo goffissimo. La sua stessa bellezza, il suo viso di "bel cavaliere" rendevano ancor piridicole la sua goffaggine e la sua paura. Allora cominciarono a trottare lentamente. La strada, adesso, si stendeva fra due boschi infiniti che coprivano tutta la costa come con un mantello. Era la macchia. Era la macchia impenetrabile, la macchia formata di querce verdi, di ginepri, corbezzoli, lentischi, alaterni, eriche, mirti, bossi. che allacciavano fra loro, arruffandoli come capigliature, cisti e caprifogli e rosmarini e lavande e rovi e felci mostruose, e gettavano cosusul dorso dei monti un inestricabile vello. Avevano fame. La guida li raggiunse e li condusse presso una di quelle sorgenti incantate, cosufrequenti nei paesi rocciosi, non pidi un sottile filo d'acqua gelata che esce da un buco di roccia cadendo e gemendo sull'estremitjdi una foglia di castagno messa li da un passante per condurre la lieve corrente fino alla bocca. Ne fu talmente felice che stentava a non gridare la sua gioia. Poi cominciarono a scendere girando il golfo di Sagona e verso sera attraversavano Cargese, il villaggio greco fondato da una colonia di profughi scacciati dalla loro patria. Ragazze alte e forti (mani lunghe, vita sottile) sostavano a capannello verso la fontana. Giuliano diede la buona sera e quelle risposero con voce cantante nella lingua del paese abbandonato. Giungendo a Piana, bisognz chiedere ospitalitjcome nei tempi antichi, nelle localitjpiselvagge. Lei sussultava tutta felice attendendo che si aprisse la porta a cui Giuliano aveva bussato. Oh, quello era proprio un viaggio, con tutto l'imprevisto delle strade inesplorate! E si trovarono in faccia a due giovani sposi che ricevevano quest'altri due giovani sposi come i patriarchi dovevano ricevere l'ospite mandato da Dio; e cosu dormirono sopra un pagliericcio di foglie, in una vecchia casa tarlata dove tutto il legname roso dai vermi, percorso dalle lunghe teredini, mangiatori di travi, bisbigliava occultamente, come se vivesse e sospirasse in segreto. Al sorgere del sole partirono; ma li fermzquasi subito una straordinaria foresta, una foresta di granito tutta di porpora; picchi, guglie, colonne, figure sorprendenti modellate dal tempo, dal vento roditore, dalle brume del mare, alte, snelle, tonde, contorte, difformi, strane, fantastiche rocce simili ad alberi, animali, uomini, statue, diavoli cornuti, monaci in tonaca, uccelli smisurati, un popolo di mostri, una famiglia di geni del male pietrificati per il capriccio di qualche iddio stravagante. Giovanna aveva il cuore serrato, non parlava pi, teneva la mano di Giuliano come invasa dal bisogno d'amare davanti alla bellezza del mondo. Poi, improvvisamente, uscendo da quel caos, un nuovo golfo cinto da una muraglia che sanguinava, di granito rosso. E tutte quelle rocce scarlatte che si specchiavano nel mare turchino! "Oh Giuliano..." balbettava lei senza trovare altre parole intenerita dall'ammirazione, la gola stretta, due lacrime luper lu cadere. "Che cos'hai, tesoruccio mio, che cos'hai?" Lei si asciugzle guance e sorrise. "Non qnulla... i miei nervi... Non so... Ero affascinata... Sono cosufelice che anche una piccolezza mi mette sottosopra..." Ma lui non capiva i languori femminili, le scosse di questi esseri vibranti per nulla, percossi da un entusiasmo come da una catastrofe, sconvolti e fatti pazzi di dolore o di gioia da una sensazione impercettibile. Era preoccupato dalla strada cattiva e lacrime simili gli parevano alquanto ridicole. Giovanna faceva meglio a badare al suo cavallo. Per la strada impraticabile erano scesi in fondo a quel golfo, poi girarono a destra per salire la cupa Val d'Ota. Ma che orrendo sentiero! Egli propose: "Se salissimo a piedi?" e Giovanna, felice di camminare, di essere sola con lui, dopo la commozione di dianzi, ringrazizla guida che doveva precedere con mulo e cavalli, e si avvizal suo fianco a piccoli passi. La montagna, spaccata dall'alto al basso, si apriva. Il sentiero si addentra in questa breccia, segue il fondo fra due muraglie prodigiose, un grosso torrente percorre il crepaccio, e l'aria qghiacciata, e il granito sembra nero, e cizche si vede ljin alto, di cielo azzurro, stupisce e stordisce. Giovanna trasalua un repentino strepito aereo e vide un uccello spiccare il volo da un buco: era un'aquila. Pareva che le ali aperte toccassero le due pareti del pozzo: salufin nell'azzurro: scomparve. Pilontano, la spaccatura del monte si divideva in due: fra i due burroni il sentiero si arrampicava in bruschi zigzag. Giovanna, allegra e leggera, andava avanti, come divertendosi a far rotolare i sassi sotto i suoi piedi, poi si sporgeva intrepida sugli abissi, e lui la seguiva un poco ansimante, con gli occhi a terra per timore della vertigine. Il sole li inondzquasi d'un colpo, cosuche credettero di uscire dall'inferno. Avevano sete. Una traccia umida li guidzattraverso un caos di pietre fino a una piccolissima sorgente incanalata in uno di quei bastoni a tubo dei caprai. Un tappetino di muschio vellutava il suolo luintorno. Giovanna si inginocchiz per bere. E mentre assaporava quella freschezza, Giuliano, stando in ginocchio, la prendeva per la vita, cercava di rubarle il posto all'imboccatura del tubo di legno. Lei resisteva: le labbra si urtarono, si incontrarono ancora, si respinsero. Nella lotta, afferravano quella sottile estremitje la mordevano, su , per non perderla, e il filo di acqua gelata, conquistato e lasciato senza tregua si spezzava e si rifaceva spruzzando volti, colli, abiti, mani. Goccioline simili a perle lucevano qua e ljfra i capelli, baci volavano come trasportati dalla corrente. Allora Giovanna ebbe un'ispirazione d'amore. Si riempula bocca del chiaro liquore e con le guance gonfie come otre mostrza Giuliano che voleva dissetarlo cosu ; labbra su labbra. Egli tese la gola, felice, arrovescizla testa, aprule mani e cosubevve alla fonte di carne che gli versava anche il desiderio d'amore. E lei gli si appoggiava con una tenerezza nuova, tutta in palpito, coi seni pisporgenti, con gli occhi che parevano molli, stillanti. Disse sottovoce: "Giuliano... ti amo..." e lo attirava a sp, riversandosi, nascondendo fra le mani un viso rosso di ansia e di vergogna. Egli si gettzsu lei e la strinse con forza mentre lei ansimava e gettava un gran grido, colpita come dalla folgore, dalla sensazione bramata. Quanto tempo impiegarono a toccare la cima di quella salita! Solo la sera giunsero a Evisa, presso il parente della loro guida, Paolo Palabretti. Quest'uomo di alta statura, un po' curvo, con l'aspetto di tisico, li condusse in una triste camera di pietra nuda, triste e pur bella per quel paese dove l'eleganza qignorata, esprimendo il piacere di riceverli nel suo dialetto corso, misto di italiano e di francese, quando una voce chiara lo interruppe e una brunettina schizzznella stanza. "Buon giorno, signora! Buon giorno, signore! Come la va?" La piccola donna bruna, grandi occhi neri, pelle abbronzata dal sole, vita stretta, denti in mostra, sorriso tenace si era slanciata, aveva fatto festa ai suoi ospiti, abbracciato lei, stretto la mano di lui. Ora prendeva i cappelli e gli scialli, faceva ogni cosa con un sol braccio, poichpportava l'altro fasciato, poi spinse tutti sull'uscio raccomandando al marito: "Fai fare a questi signori una passeggiata fino all'ora del pranzo." Il signor Palabretti obbedusubito. Si mise in mezzo ai due giovani per mostrar loro il villaggio, e strascicava i passi e le parole, tossendo frequentemente, lamentandosi a ogni colpo di tosse che l'aria fresca della vallata gli fosse caduta sul petto. "Qui mio cugino Giovanni Rinaldi fu ucciso da Matteo Lori" disse col suo accento monotono quando ebbe guidato gli ospiti per un sentiero perduto, sotto i castagni. "Guardate. Io ero ljvicinissimo a Gianni, quando Matteo comparve a pochi passi da noi." "Giovanni" gridz, "non andare ad Albertaccio, non andarci, Giovanni, o t'uccido." Io presi il braccio di Gianni: "Non andarci; quello qcapace di farlo...". Era per una ragazza a cui stavano dietro tutti e due, la Paolina Percupi. Ma Giovanni si mise a gridare "Ci andrz, Matteo, ci andrz! Non sei tu che me lo impedirai!". "Allora Matteo abbasszil fucile prima che io potessi spianare il mio... e sparz. Giovanni fece un gran salto con tutt'e due i piedi, come un ragazzo che salti la corda, sissignore, cosu , sissignore, e mi casczfra le braccia in modo che il fucile mi cadde dalle mani e rotolzfin verso quel castagno laggi. Egli aveva la bocca aperta, ma non disse pinessuna parola: era morto." Ora, stupefatti, i due sposi guardavano il tranquillo testimone di un tale delitto. "E l'assassino?" fece Giuliano. "Fugguper la montagna" disse Paolo Palabretti in un sussulto di tosse. "L'anno dopo lo uccise mio fratello. Voi sapete, mio fratello, Filippo Palabretti, il bandito." Giovanna ebbe un brivido. "Vostro fratello... un bandito?" "Su , signora" affermzil corso tranquillo, con un lampo di fierezza negli occhi. "Era celebre lui. Sei gendarmi ha abbattuto. E' morto con Nicola Morali, quando furono soverchiati dal Niolo, dopo sei giorni di lotta, che stavano per morire di fame." Poi aggiunse in tono rassegnato: "E' il paese che vuole cosu " non diversamente di come soleva dire: "ql'aria della valle che qfresca". Tornati a casa per il desinare la piccola corsa li trattzcome se li conoscesse da vent'anni. Ma un'inquietudine pungeva la giovane sposa. Avrebbe ritrovato ancora fra le braccia di Giuliano quella strana e veemente scossa di nervi che aveva avuto laggi, tra i muschi della fontana? Quando fu sola con lui, nella nuda stanza nuziale, tremava al pensiero di restare ancora insensibile sotto i suoi baci. Ma ben presto fu rassicurata, e fu quella la sua prima notte d'amore. Il giorno dopo, prima d'andarsene, non si decideva a lasciare l'umile casa dove le sembrava di aver trovato la felicitj. Chiamzin camera la piccola donna, e facendole ben comprendere che non voleva farle regali, insistette, quasi arrabbiandosi, per ottenere di mandarle da Parigi un ricordo, un oggetto qualsiasi che le piacesse, che avesse un significato, magari superstizioso, per lei. La corsa resistette a lungo: non voleva accettare: finalmente acconsentu . "Ebbene, mandatemi una pistola. Una pistola piccola piccola." Giovanna sgranzgli occhi. L'altra aggiunse pianissimo quasi all'orecchio, come se confidasse un dolce segreto: "E' per ammazzar mio cognato." E sorridendo e con un moto rapido sciolse le bende del braccio inservibile mostrando la sua carne rotonda e bianca, traversata da parte a parte da un colpo di pugnale, ma ormai quasi cicatrizzata: "Se non fossi stata forte come lui, sarei morta a quest'ora. Mio marito non qgeloso; lui mi conosce e poi qmalato, lo sapete, e cizgli calma il sangue. Io sono una donna onesta, signora, e mio cognato crede a tutto quel che gli dicono. Lui qgeloso per conto di mio marito, e ricomincerjcertamente. Ma allora io avrzla mia pistola e sarztranquilla: saprzvendicarmi." Giovanna promise d'inviare l'arma, abbraccizteneramente la sua nuova amica e partu . Il resto del viaggio non fu piche un sogno, un'ebbrezza, uno slancio, un continuo abbracciarsi. Non vide nulla, npi paesaggi, npla gente, npi luoghi dove si fermava. Non guardava piche Giuliano. Cosu comincizl'intimitjinfantile e incantevole delle sciocchezze d'amore, delle piccole paroline idiote e pur deliziose, cosusorsero i vezzeggiativi e i diminutivi per tutte le pieghe, i rilievi, le sinuositjdei loro corpi, ljdove la bocca indugiava. Siccome Giovanna dormiva sul fianco destro, la mammella sinistra restava spesso scoperta e Giuliano chiamava quella mammella "Signora Dormi-in-fuori" e l'altra "Signora Ardente" perchpil roseo capezzolo gli sembrava pisensibile ai baci. Il solco profondo fra le due mammelle divenne il "viale della mammina" perchpvi si passeggiava di continuo, e un'altra strada, questa pisegreta, fu chiamata "via di Damasco" in ricordo della Val d'Ota. Arrivati a Bastia, fu necessario pagare la guida. Non trovando l'occorrente nelle sue tasche, egli disse a Giovanna: "Giacchpnon ti servi dei duemila franchi di tua madre lasciali a me da portare. Saranno pi al sicuro nella mia cintura. E mi risparmierzdi far moneta." Giovanna gli diede la borsa. Giunsero a Livorno, visitarono Firenze, Genova, tutta la Costa Azzurra. Un mattino che spirava il maestrale si ritrovarono a Marsiglia, ed erano passati due mesi dalla loro partenza dai "Pioppi", era il I5 ottobre. Colpita da quel vento freddo che sembrava venir di laggi, dalla lontana Normandia, Giovanna si sentiva un po' malinconica. Giuliano non era gijstanco, indifferente, cambiato? Lei aveva paura, non sapeva bene di che. Ritardzancora di quattro giorni il viaggio di ritorno, non potendo decidersi a lasciare quel bel paese del sole, forse perchptemeva di aver compiuto il suo giro di felicitj. Finalmente partirono. A Parigi dovevano fare gli acquisti necessari al loro insediamento in campagna, e Giovanna gioiva al pensiero di portar cose splendide ai "Pioppi", grazie alla prodigalitjdella mamma, ma il primo pensiero fu per la giovane corsa d'Evisa a cui aveva promesso la pistola della vendetta. "Mio caro" disse arrivando "vuoi rendermi il mio danaro perchpio possa fare le compere?" Egli si volse verso di lei con una faccia scontenta. "Quanto ti occorre?" Balbettz, un po' sorpresa: "Ma... cizche vuoi..." "Ti darzcento franchi. Ma, badiamo, veh: niente spreco!" Non sapeva che dire. Era confusa, stordita. " Ma..." disse infine esitando "io t'avevo dato quel danaro per..." "Si, certamente. Che sia nella tasca tua o nella mia, che importa, dal momento che abbiamo la stessa borsa? Io non te lo rifiuto mica. Non vedi? Ti do cento franchi!" Giovanna accettzle cinque monete d'oro senza aggiungere una sillaba: non oszchiedere altro denaro: non comperzche la pistola. Otto giorni dopo si misero in cammino verso i " Pioppi". Capitolo 6 Famiglia e domestici aspettavano presso i pilastri del cancello bianco. La carrozza di posta si ferma, e gli abbracci non finiscono pi. Mammina piange; Giovanna intenerita si asciuga una lacrima; il padre va e viene, nervosamente, su e gi. Il viaggio qnarrato mentre si scaricano i bagagli davanti al caminetto del salone. Le parole fluiscono abbondanti dalle labbra della sposina, e tutto qdetto, tutto in meno di mezz'ora: eccetto forse qualche piccolo particolare lasciato per via nella foga del rapido discorso. Poi la sposina andza disfare i bauli; e Rosalu a, commossa e felice, aiutava la sua padroncina. Quando ebbero fatto, quando la biancheria, i vestiti, gli oggetti di toilette tornarono a posto, la buona ragazza scomparve e Giovanna si sedette un po' stanca. Che fare? Cercare un'occupazione per il suo spirito, un lavoro per le sue mani? Ah no, non le sorrideva il pensiero di scendere nel salone dove mammina certo sonnecchiava; forse avrebbe preferito una passeggiata, ma la campagna le sembrava ora cosutriste che solo a guardarla dalla finestra aveva un peso di malinconia nel suo cuore. Ammise cosuche non aveva nulla da fare, che non avrebbe avuto mai pinulla da fare. Nulla, nulla! In convento tutta la sua gioventera stata occupata dal pensiero dell'avvenire, da tutta una folla di sogni; il continuo agitarsi delle sue speranze riempiva, a quel tempo, tutte le sue ore senza che le sentisse passare. Poi appena uscita da quelle mura arcigne dov'erano sbocciate le illusioni, il suo sogno d'amore si era mutato di colpo in vita reale. L'uomo desiderato, incontrato, amato in poche settimane (cosuci si sposa in certe decisioni repentine) l'aveva presa fra le sue braccia senza lasciarla riflettere a nulla. Ma ecco che la realtjsognante dei primi giorni stava per diventare realtjquotidiana chiudendo le porte alle indefinite speranze, alle deliziose inquietudini dell'ignoto: l'attesa era finita. E poichpaveva finito di attendere non c'era pinulla da fare, npoggi, npdomani, npmai. Tutto cizle dava una vaga delusione. E' cosuche crollano i sogni. Si alzz, appoggizla sua fronte ai vetri freddi, guardzil cielo dove correvano nuvole cupe, penszdi uscire fuori. Quella la stessa campagna del mese di maggio? l'erba, i fiori di allora? Dove pila gaiezza luminosa delle foglie? e la verde poesia dei prati dove fiammeggiavano le radicchielle, dove sanguinavano i papaveri, splendevano le margherite; e le fantastiche farfalle gialle sorvolavano irrequiete come mosse da fili invisibili? Perduta, perduta anche quella dolce ebbrezza dell'aria cosudensa di atomi fecondanti, di aromi! S'allungavano i viali pieni di sangue con le continue piogge d'autunno, coperti da uno spesso tappeto di foglie morte sotto lo squallore rabbrividente dei pioppi quasi spogli; e i gracili rami tremavano al vento, agitavano ancora qualche foglietta prossima a volare nell'aria. Tutto il giorno, senza tregua, come in una pioggia triste, insistente, quelle ultime foglie ormai tutte gialle, simili a tanti soldoni dorati, si staccavano, roteavano, volteggiavano, giungevano a terra... Si spinse fino al boschetto. Triste come la stanza di un morente. Eccola dispersa qua e ljla parete di verde che separava i viottoli sinuosi circondandoli come di mistero. Gli arbusti aggrovigliati, come una trina di legno fino, i ramoscelli stecchiti urtavano gli uni contro gli altri, e il mormorio delle foglie secche cadute, spinte, sconvolte, ammonticchiate qua e ljdalla brezza, rendeva come un doloroso sospiro d'agonia. Qualche uccellino piccolo piccolo saltava di rametto in rametto con un leggero grido freddoloso, cercando riparo. Solo il tiglio e il platano, protetti dallo spesso velario degli olmi che fungevano da avanguardia contro il soffio marino, solo il platano e il tiglio erano sempre gli stessi dell'estate; e sembravano vestiti l'uno di rosso velluto, l'altro di una bella seta color arancio, colorati cosudai primi rigori, secondo la natura delle linfe. Giovanna andava e veniva, su e gi per il viale di mammina, lungo la fattoria dei Couillard. Che cosa dunque la opprimeva? Forse il presagio delle lunghe ore di noia che ormai non potevano tardare? Sedette sul pendio, dove Giuliano per la prima volta le aveva parlato d'amore. E rimaneva lu , vaneggiando, quasi senza pensare, illanguidita in una specie di sogno, col desiderio di coricarsi, dormire, sfuggire alla tristezza di quel giorno... Improvvisamente apparve un gabbiano che attraversava il cielo in una raffica, e si ricordzallora dell'aquila che aveva visto in Corsica, laggi, nella cupa Val d'Ota; la scossa fu cosuviva come quella che djal cuore il ricordo di una cosa buona e finita, e rivide di colpo l'isola calda e radiosa col suo profumo selvaggio, il suo sole che matura i cedri e gli aranci e le montagne dalle cime rosate e i burroni dove precipitano i torrenti. Allora fu avvolta come dalla desolazione del paesaggio umido e duro che la circondava (quella caduta di foglie! quelle nuvole trascinate dal vento!), non volle vedere pi nulla e rientrzper non piangere. Mammina, ormai avvezza a quelle malinconiche giornate, non le avvertiva pie sonnecchiava intorpidita accanto al caminetto. Giuliano e il padre erano usciti insieme parlando d'affari. Venne la sera, e diffuse una luce cupa nel vasto salone illuminato a guizzi dai riflessi del fuoco. Di fuori un resto di giorno lasciava appena distinguere dalle finestre quella natura sudicia di fine d'anno e il cielo grigiastro come se fosse anch'esso infangato. Il barone rientrzcon Giuliano. "Luce, luce!" tempestznella camera buia, e suonzil campanello. "Luce, luce! Perchpqueste tenebre?" E si sedette al caminetto guardando i suoi piedi umidi fumare alla fiamma e la crosta fangosa delle scarpe disseccarsi al calore e cadere. E si fregava le mani tutto contento. "Credo che gelerj. Il cielo si schiarisce a nord. E' luna piena. Il freddo pizzicherj, questa notte." Si volse verso Giovanna. "Ebbene, piccola, sei contenta di essere tornata al tuo paese, alla tua casa, accanto ai tuoi vecchi?" Una domanda cosusemplice intenerutalmente Giovanna che si gettzfra le braccia del padre con gli occhi pieni di lacrime e lo abbracciznervosa, sconvolta, come per farsi perdonare qualcosa; chp, nonostante i suoi sforzi di apparire un po' allegra si sentiva pitriste, triste a morte. E intanto pensava alla gioia che si era ripromessa nel rivedere i suoi cari e si meravigliava di certa freddezza che paralizzava il suo amore, come se, quando si qmolto pensato da lontano a coloro che si amano e si qperduta l'abitudine di averli sempre sott'occhio, si dovesse provare al ritorno una specie di arresto negli affetti finchpi legami della vita quotidiana non siano riallacciati. Il pranzo fu lungo. Nessuno parlz. Giuliano sembrava avesse dimenticato sua moglie. Pitardi, in salone, Giovanna si lascizintorpidire dal fuoco, di fronte a mammina che dormiva ormai completamente; e, risvegliata d'un tratto dalla voce dei due uomini che discutevano, tentzdi scuotere il suo spirito e si chiese se non stava per essere vinta da questa triste letargu a delle abitudini ininterrotte. La fiamma del caminetto, fiacca e rossastra lungo la giornata, eccola chiara, viva, crepitante, con questi grandi improvvisi bagliori gettati sulle tappezzerie scolorite, sulla volpe e sulla cicogna, sul malinconico airone, sulla cicala e sulla formica. S'avvicinava il padre sorridendo, tendendo le dita aperte verso i tizzoni che ardevano. "Ah, ah, che bel fuoco stasera! Gela, figlioli, gela!" E appoggiava la mano su una spalla di Giovanna, sempre mostrando il fuoco: "Ecco, figliola mia. Ecco cizche abbiamo di meglio: il focolare. Il focolare, coi nostri cari intorno. Non v'qnulla che uguagli il focolare. Ma se andassimo a letto? Sarete stanchi, ragazzi." Risalita nella sua stanza, si domandava come mai due ritorni agli stessi luoghi che credeva di amare potevano essere cosi differenti. Perchpsi sentiva come abbattuta? Perchpquesta casa, questo caro paese e tutto cizche fino allora aveva gonfiato di tenerezza il suo cuore le sembrava oggi snervante? In quel momento volse lo sguardo e incontrzla sua pendola. La piccola ape oscillava ancora da destra a sinistra col suo noto movimento rapido e continuo, al di sopra dei fiori di smalto. Allora, di colpo, si sentucolpita come da uno slancio d'affetto, commossa fino alle lacrime dinanzi a quel piccolo meccanismo che sembrava vivo, contava l'ora, palpitava come un cuore. Non era stata cosucommossa riabbracciando il padre e la madre... Per la prima volta dopo il suo matrimonio era sola nel suo letto, avendo Giuliano preferito un'altra stanza, col pretesto della stanchezza. D'altronde, era gijstabilito che ognuno avrebbe avuto una camera sua. Le fu difficile addormentarsi, sorpresa di non sentire un corpo al suo fianco, ormai disabituata al sonno solitario, ed anche turbata e irritata di quella tramontana rabbiosa che si accaniva contro il tetto. Ma la mattina la sveglizuna gran luce che tingeva il suo letto come di sangue, e i vetri delle finestre, tutti ricoperti di brina, erano rossi come se bruciasse l'intero orizzonte. Avvolta in un grande accappatoio, corse alla finestra e l'apru . Una brezza gelata, sana, frizzante penetrzsubito nella stanza e le sferzzla pelle d'un freddo acuto da svegliar le lacrime agli occhi. In mezzo a un cielo purpureo, il sole rutilante e tondo come la faccia di un ubriaco appariva ljdietro gli alberi. La terra solcata di brina bianca, ormai dura e secca, crepitava sotto i passi dei contadini. In quella sola notte i rami dei pioppi si erano spogliati dell'ultime foglie; dietro la landa appariva la grande linea verdastra dei flutti, tutta sparsa di candide strisce. Anche il platano e il tiglio si svestivano rapidamente sotto le raffiche, e al passaggio della brina gelata turbinii di foglie staccate si sparpagliavano nel vento come tante fughe di uccelli. Giovanna si vestu , uscue andza far visita ai fattori per far qualche cosa. I Martin l'accolsero allegri e la padrona l'abbraccize la bacizsulle guance; poi la costrinsero a bere un bicchierino di rosolio. Passzall'altra fattoria. I Couillard le fecero le stesse feste, la padrona la sbaciucchizsulle orecchie e il bicchierino fu, questa volta, di ribes. Dopo di che, rientrzper la colazione. E oggi fu come ieri: giornata secca invece che umida. Tutti i giorni della settimana rassomigliarono molto a quei due; tutte le settimane furono uguali alla prima. A poco a poco, tuttavia, il suo rimpianto dei paesi lontani si affievolu . L'abitudine metteva sulla sua vita come uno strato di rassegnazione simile a quel rivestimento calcareo che certe acque depositano sugli oggetti. Nel suo cuore rinacque un po' d'interesse per le mille cose insignificanti dell'esistenza quotidiana, una certa cura per le mediocri e semplici occupazioni consuete: si sviluppava in lei una specie di malinconia meditativa, una vaga stanchezza della vita. Che cosa le mancava? Che cosa desiderava? Non sapeva. Nessun desiderio mondano, sete di piacere nemmeno, nemmeno uno slancio verso gioie ancora possibili. E poi... quali gioie? Ecco le vecchie poltrone del salone sbiadite dal tempo: e come quelle, tutto si scoloriva dolcemente, si attenuava, prendeva ai suoi occhi una sfumatura pallida e triste. Come erano cambiate le sue relazioni con Giuliano! Egli sembrava un altro dopo il ritorno dal viaggio di nozze; simile a un attore che, recitata la sua parte, riprenda la fisionomia consueta. Si occupava appena di lei, quasi non le parlava; ogni traccia d'amore scomparsa; rare le notti che egli venisse a passare con lei. Ora egli aveva preso la direzione della casa e degli affari e rivedeva i conti, faceva tribolare i contadini, diminuiva le spese e, assunti i modi del gentiluomo di campagna, aveva perduto l'apparenza e l'eleganza di un tempo, di quand'era fidanzato. Figurarsi che non si decideva a smettere un vecchio abito da caccia (e non mancava, no, di frittelle) guarnito di bottoni di rame, ritrovato nel suo guardaroba di scapolo. E aveva anche smesso di radersi, cosuche la sua barba lunga e incolta lo rendeva brutto, bruttissimo; nple sue mani erano meglio curate; ma si capiva questa sua negligenza che era poi la negligenza stessa di quelli che non hanno bisogno pidi essere belli. E dopo il pasto era capace di tracannare cinque o sei bicchierini di cognac. Giovanna aveva provato a fargli qualche dolce rimprovero: egli era stato quasi sgarbato. "Mi lascerai tranquillo, no?" Non si arrischizpia consigliarlo. S'era adattata a questi cambiamenti in un modo che la stupiva. Che era piGiuliano per lei? Un estraneo. Tanto qvero che gliene restavano chiusi l'anima e il cuore. Ci pensava a volte, e si chiedeva come dopo essersi incontrati, amati e sposati in uno slancio di tenerezza, ecco, si ritrovassero estranei: estranei l'uno all'altro come se non avessero dormito nello stesso letto. E perchplei non soffriva maggiormente di questo abbandono? Questa, la vita? S'erano forse ingannati? L'avvenire non le serbava dunque pinulla? Se Giuliano fosse rimasto bello, accurato, elegante, avrebbe forse sofferto di pi? Era stato convenuto che dopo il capodanno gli sposini sarebbero rimasti soli e che papje mammina sarebbero ritornati a passare qualche mese nella loro vecchia casa a Rouen. Gli sposini, quell'inverno, non dovevano lasciare i "Pioppi", per finir di installarsi, di abituarsi, di affezionarsi ai luoghi dove avrebbero trascorso tutta la vita. Essi, d'altronde, avevano qualche vicino a cui Giuliano avrebbe presentato sua moglie: i Briseville, i Courtelier, i Fourville. Ma veramente gli sposi novelli non potevano ancora far queste visite, perchpnon era stato possibile fino a quel momento avere il pittore che cambiasse gli stemmi alle carrozze. Il barone aveva ceduto infatti a suo genero la vecchia carrozza di famiglia, e Giuliano per nulla al mondo avrebbe acconsentito a presentarsi ai vicini castelli se lo scudo dei Lamare non fosse stato inquartato con quello dei Perthuis des Vauds. Ora, in tutto il territorio, non esisteva che uno solo che avesse la specialitjdegli ornamenti araldici, un pittore di Balbec, certo Battaglia, chiamato a turno in tutti i castelli normanni per dipingere sugli sportelli dei veicoli quei preziosi segnacoli. Finalmente un mattino di dicembre, al termine della colazione, un individuo con una cassetta sulle spalle apruil cancello e avanzznel viale. Era Battaglia. Fu fatto entrare in sala da pranzo e gli dettero da mangiare come se fosse stato un signore; perchpla sua specialitj, i suoi continui rapporti con l'aristocrazia della provincia, la sua conoscenza di stemmi, emblemi, termini consacrati ne avevano fatto una specie di uomo-blasone al quale i gentiluomini potevano stringer la mano. Poi fecero portare carta e matita e, mentre egli mangiava, il barone e Giuliano schizzarono i loro scudi inquartati. La baronessa dava il suo parere tutta agitata, trattandosi di cosa di tanta importanza; Giovanna stessa prendeva parte alla discussione come se qualche misterioso interesse si fosse svegliato in lei improvvisamente. Battaglia, sempre mangiando, diceva la sua opinione, magari afferrava la matita, tracciava un disegno, citava esempi, descriveva tutte le vetture signorili della regione; sembrava portare con sp, nel suo spirito, nella sua voce stessa, una specie di atmosfera di nobiltj. Un ometto dai capelli grigi e rasati: mani macchiate di colori e tuttavia profumate. Si diceva che una volta fosse entrato in una brutta faccenda riguardante i buoni costumi: la considerazione unanime di tutte le famiglie titolate aveva cancellato ormai questa macchia. Dopo che ebbe bevuto il suo caffq, lo condussero nella rimessa dove fu tolta subito alla carrozza la copertura di tela cerata. Battaglia la esaminz, espose con gravitjil suo parere sulle dimensioni necessarie al disegno, si mise all'opera dopo un nuovo scambio d'idee. Nonostante il freddo, la baronessa fece portare una sedia per veder lavorare, poi domandzuno scaldino per i piedi che le si gelavano e cosusi mise a chiacchierare col pittore, a interrogarlo sui matrimoni, sui morti, sulle nuove nascite, completando con queste informazioni gli alberi genealogici che portava sempre con sp. Giuliano era rimasto accanto alla suocera, a cavallo di una sedia, e fumava la pipa, sputava per terra, ascoltava, seguiva con l'occhio la traduzione in colori della sua nobiltj. PapjSimone, che se ne andava per l'orto con la vanga sulle spalle, si fermza guardare il lavoro; e poichpla notizia dell'arrivo di Battaglia si era sparsa nelle due fattorie, le due fattoresse non tardarono a farsi vedere, e ora eccole ai lati della baronessa, estasiate. "Ce ne vuol di bravura per far quella roba lu ". Gli stemmi dei due sportelli non poterono essere finiti che il giorno dopo, verso le undici. Accorsero tutti. La carrozza fu tirata fuori perchpsi potesse vedere e giudicar meglio. Stemmi eseguiti in modo perfetto. Battaglia ricevette molti complimenti e ripartucon la sua cassetta sulle spalle. Il barone, la baronessa, Giovanna, Giuliano, tutti furono d'accordo che in tal genere di cose il pittore era un uomo di prim'ordine e che, se le circostanze lo avessero permesso, sarebbe diventato, oh! senza dubbio, un artista. Intanto, per ragioni di economia, Giuliano aveva pensato a riforme che rendevano indispensabili altre modifiche. Il cocchiere passava giardiniere, e il visconte aveva gijvenduto i cavalli per economia e, d'altronde, si incaricava di guidare egli stesso. Poi, siccome era necessario che qualcuno tenesse i cavalli quando i signori scendevano di carrozza, aveva messo l'occhio su un giovane vaccaro, di nome Mario, e ne aveva fatto un piccolo domestico. Quanto ai cavalli, egli aveva introdotto nel contratto dei Couillard e dei Martin una clausola speciale che costringeva i due fittavoli a fornirne uno per ciascuno, una volta al mese, alla data fissata da lui, in compenso di che venivano esonerati dal tributo del pollame. Un giorno i Couillard avevano condotto una gran rozza di pelo giallo e i Martin un piccolo animale bianco di pelo lungo, le due bestie furono attaccate in pariglia e Mario, affogato in una vecchia livrea di papjSimone, condusse l'equipaggio dinanzi allo scalone del castello. Giuliano, tutto ripulito, aveva ritrovato un poco della sua passata eleganza; ma la barba lunga gli dava sempre un aspetto volgare. Considerzla pariglia, la carrozza, il piccolo domestico e si dichiarzsoddisfatto, tanto piche dava molta importanza agli stemmi. La baronessa, scesa dalla sua stanza a braccio del marito, saluin carrozza a fatica e si sedette, col dorso sostenuto dai cuscini. Giovanna comparve a sua volta. E sorrise dapprima di quell'appaiamento di cavalli; trovzche il bianco era il figlio del giallo; poi quando scorse Mario, la testa sepolta nel cappello con la coccarda (di cui solo il naso poteva arrestar la discesa), le mani affondate nella profonditjdelle maniche, le gambe infagottate nelle falde della livrea donde uscivano i piedi perduti in enormi stivali; quando lo vide rovesciare indietro la testa per poter guardare, e alzare un ginocchio per fare il passo, come dovesse scavalcare un fiume, e agitarsi al modo dei ciechi per obbedire a un nuovo ordine, perduto, annegato, scomparso nell'ampiezza della palandrana, ecco, Giovanna fu scossa da un riso invincibile, da un'ilaritjsenza fine. Nello stesso tempo il barone si volse, fissz l'ometto stordito e cedette al contagio, chiamando sua moglie, non potendo quasi parlare: "Gua... guarda... Ma... Ma... Mario! Com'qbuffo, oh Dio, com'qbuffo!" Allora la baronessa si affaccizallo sportello e guardz. La crisi d'ilaritjche la scosse fece traballare sulle molle l'intera carrozza, scombussolata come da trabalzi. "Che c'q?" chiese Giuliano pallido in volto. "Perchpridete cosi? Ma bisogna essere matti!" Giovanna, quasi sofferente, quasi convulsa, impotente a calmarsi, a frenarsi, sedette su un gradino della scalinata. Il barone fece altrettanto, mentre nella carrozza starnuti ripetuti e fitti fitti dicevano che la baronessa scoppiava. Improvvisamente la palandrana di Mario cominciza palpitare; aveva cominciato a capire, e rideva senza ritegno egli stesso dalla profonditjdel copricapo. Allora Giuliano, esasperato, scattz. Con un ceffone ben assestato raggiunse il ragazzo, e il cappello gigantesco volz, ruzzolzsull'erba, mentre il genero girava la sua collera al suocero: "Mi par bene che non abbiate il diritto di ridere! Non saremmo a questo punto se voi non aveste dilapidato il patrimonio! Di chi la colpa, di chi, se vi siete ormai rovinato?" Tutta l'allegria, come gelata, cesso improvvisamente. Nessuno aggiunse parola. Con una gran voglia di piangere, Giovanna salunella carrozza e si sedette accanto a sua madre. Il barone, muto e sorpreso, sedette in faccia alle dame. Giuliano si accomodza cassetta, dopo aver issato accanto a spil ragazzo che piagnucolava, con la guancia gonfia. La gita fu triste e parve lunghissima. Nella vettura, assoluto silenzio. Tutt'e tre cupi e impacciati, non volevano confessare cizche pesava in quel momento sui cuori. Di che cosa avrebbero potuto parlare se erano oppressi da quel pensiero angoscioso? Meglio tacere, restarsene cosuzitti zitti, anzichpridestare quella pena. Al trotto ineguale delle due bestie, la carrozza oltrepassava i cortili delle fattorie, e le galline fuggivano spaurite ficcandosi fra le siepi, scomparendovi, oppure talvolta era un cane lupo che seguiva il cocchio abbaiando e poi riguadagnava la casa col pelo ritto, ma si rivolgeva ancora per abbaiare dietro la carrozza. Un ragazzo con gli zoccoli infangati e le lunghe gambe dinoccolate che se ne andava tenendo le mani sprofondate nelle tasche, vestito di un camiciotto turchino gonfio di vento alla schiena, si mise da un lato della strada per lasciar passar l'equipaggio e, quando si scoprugoffamente, lasciz vedere i suoi poveri capelli incolti, incollati sul cranio. E, fra una fattoria e l'altra, la pianura ricominciava con altre fattorie finchpsi giunse a un gran viale di abeti che metteva capo alla via. Solchi fangosi e profondi facevano pendere la carrozza, lanciare grandi strida a mammina. In fondo al viale, un cancello: Mario corse ad aprirlo e la carrozza girz intorno a un gran prato, percorse un sentiero rotondo si fermzdinanzi a un vasto malinconico fabbricato dalle imposte chiuse. La porta centrale si apru , e un domestico paralitico, con un panciotto scarlatto rigato di nero che copriva in parte il suo grembiule di servizio, scese i gradini della scala, obliquamente a passettini brevi. Fattosi dire il nome dei visitatori, li introdusse nel vasto salone di cui aprua fatica le persiane ancor chiuse. Mobili coperti come da gualdrappe, pendola e candelabri rivestiti di bianco, un'aria che sentiva di muffa, un'aria di sepolcro, ghiacciata e umida, che sembrava impregnare di tristezza i polmoni, il cuore e la pelle. Tutti si sedettero e attesero. Due passi nel corridoio di sopra annunciavano una premura insolita. Sorpresi, i castellani si vestivano in fretta. Fu cosa lunga. Un campanello tintinnzpivolte. Altri passi discesero una scala; poi risalirono. La baronessa, colpita dal freddo, cominciza starnutire; Giuliano andava su e gi; Giovanna, cupa, si era messa accanto alla madre; il barone si appoggiava al marmo del caminetto, con la fronte bassa. Infine una delle porte si aprue il visconte e la viscontessa di Briseville fecero il loro ingresso in salone. Erano entrambi piccini, magrolini, un po' saltellanti, di etj indefinibile, cerimoniosi, impacciati. La dama indossava un abito di seta a fiori, aveva in testa una cuffia di vedova tutta guarnita di nastri, parlava svelta svelta con una voce un po' aspretta. Il marito invece, chiuso in una redingote pomposa, salutzcon una flessione dei ginocchi. Il naso, gli occhi, i denti sporgenti, i capelli che si sarebbero detti spalmati di cera e il suo bell'abito di cerimonia luccicavano come cose di cui si abbia una cura particolare. Dopo i primi complimenti e le cortesie d'obbligo tra vicini, nessuno aveva piniente da dire. Allora, ecco da una parte e dall'altra i complimenti senza ragione. Speravano gli uni e gli altri che si sarebbe continuata quell'eccellente relazione. Era una risorsa farsi visita quando si vive tutto l'anno in campagna. L'atmosfera gelata del salone penetrava nelle ossa, seccava la gola. La baronessa intanto tossiva, senza aver mai cessato di starnutire. Il barone si decise e diede il segnale della partenza; ma i Briseville insistevano: "Ma come? Cosupresto? Restate ancora un momento!" Giovanna si era alzata nonostante i cenni di Giuliano, il quale trovava in veritjla visita troppo breve. Si volle richiamare il servitore per far avvicinare la carrozza; il campanello non funzionava. Il padrone di casa si precipitzfuori, ma tornzcon la notizia che i cavalli erano stati messi in scuderia. Bisognz dunque aspettare. Ognuno cercava nel suo cervello una frase, qualcosa da dire. Ah, ecco: l'inverno piovoso. Con certi involontari brividi d'angoscia, Giovanna chiese che cosa potessero mai fare i loro ospiti, quant'qlungo l'anno, cosusoli soli. Ingenua domanda! I Briseville se ne stupirono, perchpessi erano invece molto occupati, e scrivevano senza tregua alla loro nobile parentela sparsa per tutta la Francia, e attendevano a mille piccole cose, e continuavano a farsi le cerimonie restando l'uno in faccia all'altro come estranei, e potevano sempre trattare con maestjle faccende piinsignificanti. Quell'omino e quella donnina, cosupiccini, cosucorretti, cosuprecisini, e come impacchettati nella biancheria, sembravano a Giovanna, sotto l'alto soffitto annerito del salone disabitato qualcosa come una marmellata di nobiltj. Infine la carrozza passzsotto le finestre guidata dai due ronzini spaiati. Mario, il servitorello, dov'era? Non lo si trovava. Scomparso! In realtj, credendosi libero fino alla sera, egli se n'era andato liberamente fra i campi. Giuliano, furibondo, pregzche glielo rimandassero a piedi e cosu , dopo molti saluti da una parte e dall'altra si riprese la strada dei "Pioppi". Appena in carrozza, Giovanna e suo padre, quasi per combattere la penosa impressione delle brutalitjdi Giuliano, si misero a ridere e a contraffare i gesti e le intonazioni di quegl'impagabili Briseville. Lui imitava il marito, lei la signora; ma la baronessa, un po' ferita nelle sue idee, nel suo concetto di casta, non lascizpassar questi lazzi: "Avete torto di ridere di persone cosu ammodo, che appartengono a famiglie eccellenti." Non si potpcontraddire mammina; ma poi, di tanto in tanto, padre e figliola si guardavano e ricominciavano. "Oh, il vostro castello dei Pioppi" contraffaceva lui dopo un saluto di cerimonia "dev'essere molto freddo... eh su , molto freddo... con quel vento di mare... che gli entrerjdentro da tutte le parti..." Lei assumeva un'aria affettata e faceva la graziosa con un leggero dondolu o della testa simile a quello dell'anatra che si bagna: "Oh, qui, signore, ho tante, tante cose da fare! scrivere a tanti parenti... E il signor de Briseville lascia a me da sbrigare ogni cosa, perchplui si occupa di ricerche scientifiche con l'abate Pelle... Il signor de Briseville e l'abate Pelle fanno insieme la storia religiosa della Normandia...". La baronessa sorrideva a sua volta, tra contrariata e benevola, e scuoteva la testa e ripeteva: "Non qbene, non qbene beffarsi cosudi persone del nostro rango, della nostra classe..." Improvvisamente la carrozza si fermze Giuliano si mise a gridare chiamando qualcuno dietro di sp. Affacciati agli sportelli, Giovanna e il barone si accorsero di un essere singolare che rotolava verso di loro. Era Mario. Con le gambe impacciate nella sottana fluttuante della sua livrea, accecato dal cappello che gli ballava in testa senza posa, agitando le maniche come due ali di mulino, diguazzando nelle larghe pozzanghere che attraversava a rompicollo, inciampando nei sassi, dimenandosi, saltando, schizzando, impillaccherato fino agli occhi, il servitorello seguiva la carrozza con la prodezza dei piedi veloci. Ma appena la raggiunse, ecco il padrone si piega, lo acciuffa pel bavero, lo tira su con sp, lascia le redini, lo tempesta di pugni, gli sprofonda il cappello, gigi, fino alle spalle, facendolo rullare come un tamburo. Il servitorello, entro il suo copricapo, urla e muggisce, e poi tenta la fuga, cerca di saltar sul sedile, ma il padrone l'ha in pugno e la gragnuola continua fitta fitta, inesorabile. Giovanna balbetta smarrita: "Papj... oh, papj!" stringendo il braccio di suo padre al colmo dell'indignazione. "Che fate lu , Giacomo? Ma dite almeno che smetta!" Allora il barone abbasszdi colpo il vetro davanti e, afferrata la manica di suo genero, gli gridzcon voce fremente: " Non la finite ancora di picchiar quel ragazzo?" L'altro si voltzstupefatto. "Non avete visto in qual modo mi ha ridotto la livrea, questo briccone?" "Che m'importa della livrea?" gridava il barone con la testa in fuori, interponendosi fra i due. "Non bisogna essere brutali fino a questo punto!" "Lasciatemi tranquillo, vi prego" disse Giuliano di nuovo stizzito. "Non sono cose che vi riguardino queste." E stava per alzare ancora la mano quando il suocero gliel'afferrzbruscamente, gliel'abbasszcon tal impeto da urtarla contro il legno del sedile: "Se non la smettete scendo e vi faccio smettere io!" cosuche il visconte parve calmato, alzzle spalle senza rispondere e fece partire i cavalli, con una frustata, al gran trotto. Le due donne, livide, non si muovevano, si udivano distintissimi i battiti pesanti del cuore pivecchio. A pranzo, Giuliano fu picortese del solito, come se nulla fosse avvenuto. E gli altri che erano facili all'oblio, per benevolenza e mansuetudine, quasi lusingati di ritrovarlo gentile, si lasciarono portare dall'allegria ancora una volta, con la sensazione benefica dei convalescenti; e siccome Giovanna alluse di nuovo ai Briseville, anche suo marito celizaggiungendo perzche essi erano, in ogni modo, "gente distinta". Non si parlzdi altre visite, perchpciascuno temeva in cuor suo di risuscitare la "questione Mario"; decisero soltanto che avrebbero inviato ai nobili vicini i biglietti da visita per Capodanno e che sarebbero tornati a vederli coi primi tepori. Venne Natale. S'invitza pranzo il curato, il sindaco, la sindachessa; si rinnovzl'invito a Capodanno, e queste furono le sole distrazioni che ruppero la monotona catena dei giorni. Papje mammina dovevano partire il 9 gennaio; Giovanna voleva trattenerli; Giuliano, per la veritj, non sembrava secondarla, cosuche il barone, dinanzi alla freddezza crescente del genero, fece venire da Rouen una carrozza di posta. Alla vigilia della partenza, appena ultimati i bagagli, perchpla giornata era gelida ma bella, Giovanna e suo padre pensarono di scendere a Yport dove non erano pistati dopo il ritorno dalla Corsica. Traversarono il bosco che lei aveva percorso lo stesso giorno del suo matrimonio, stretta a colui che stava per diventare il suo compagno, il caro bosco dove aveva avuto il primo bacio, dove aveva avvertito il primo fremito, presentito la sensualitjconosciuta pitardi nella selvaggia Val d'Ota, presso la sorgente a cui avevano bevuto avidi insieme, mescolando i baci con l'acqua. Non pifoglie, non pi erbe rampicanti, null'altro che lo stormire dei rami spogli, i rumori secchi dei boschi invernali. Nel piccolo villaggio le strade vuote, silenziose, conservavano il loro odore di mare, di alghe, di pesce. Le grandi reti nerastre erano sempre stese ad asciugare sul ghiareto o dinanzi alle porte. Il mare grigio e freddo, con la sua eterna schiuma mugghiante, cominciava a calare scoprendo verso Fpcamp le rocce verdognole ai piedi della scogliera. Lungo la riva, grosse barche coricate su un fianco simili a enormi pesci morti... Cadeva la sera. I pescatori venivano avanti a piccoli gruppi camminando pesantemente coi loro grandi stivaloni da marinaio, il collo avvolto di lana, in una mano il litro di grappa, nell'altra la lanterna della barca. Giravano a lungo intorno alle barche inclinate; poi con lentezza tutta normanna portavano a bordo le reti, i gavitelli, un pezzo di burro, un gran pane, un bicchiere, la bottiglia dell'acquavite; e, raddrizzata la barca, la spingevano verso l'acqua con lo scricchiolio del ghiareto, cosuche essa fendeva la schiuma, saliva sulle onde, si dondolava un poco, apriva le sue grandi ali brune, spariva nella notte col suo lumino acceso in cima all'albero. E le donne dei marinai, con quelle forme rigide, sporgenti di sotto gl'indumenti leggeri restavano lusulla spiaggia fino alla partenza dell'ultimo uomo, e rientravano finalmente nel borgo assopito, frustando con le voci acute il sonno greve dei vicoli oscuri. Anche Giovanna e suo padre aspettavano, immobili, il perdersi lento di quegli uomini che se ne andavano alla ventura ogni notte, rischiando la vita per vivere, e tuttavia cosupoveri da non poter mai cibarsi di carne. Il barone si esaltava davanti all'oceano. "Terribile e bello. Com'qsuperbo questo mare su cui cadono le tenebre! con tante esistenze in pericolo! Non ti pare, Giannetta?" "Tutto ciznon vale il Mediterraneo" rispose lei con un sorriso gelato. "Il Mediterraneo, il Mediterraneo!" si indignava il padre. "Olio, acqua zuccherata, acqua azzurra in una tinozza di lisciva. Guarda questo com'qterribile con le sue creste di spuma! E pensa a tutti quegli uomini partiti ljsopra che ormai non si vedono pi." Ma la parola che le era venuta alle labbra, "Mediterraneo", le aveva dato come una fitta al cuore, e cosuaveva spinto ogni suo pensiero verso lontane contrade, laggi, laggi, dove vagavano tutti i suoi sogni. Invece di tornare per il bosco raggiunsero la strada e risalirono la costa a passi pilenti. Non parlavano. Il pensiero della prossima separazione li faceva tristi. Di quando in quando, costeggiando i fossati delle fattorie, si sentivano come presi in quel sentore di mele schiacciate, in quell'aroma di sidro fresco che sembra fluttuare in quel periodo su tutta la campagna normanna, oppure saliva alle loro narici un lezzo di stalla, quel puzzo buono e caldo che emana dal concime delle mucche. Una finestrina illuminata indicava la casa in fondo al cortile e Giovanna sentiva che la sua anima si apriva, si allargava, capiva le cose invisibili. Quelle piccole luci sparse per i campi le davano improvvisamente la sensazione viva dell'isolamento di tutti gli esseri che tutto disgiunge, tutto separa, tutto trascina lontano da cizche amerebbero. Allora mormorz rassegnata: "Non qsempre allegra, la vita." Il barone emise un sospiro. "E noi non possiamo farci nulla, bambina mia!" Il giorno dopo papje mammina partivano. Giovanna e Giuliano restavano soli. Capitolo 7 Da quel momento qualche altra cosa trovzposto nella vita dei giovani sposi: le carte da giuoco. Ogni giorno dopo colazione, Giuliano, fumando la pipa, sorseggiando il suo cognac (a poco per volta ne beveva ormai da sei a otto bicchierini), faceva parecchie partite a bazzica con sua moglie. Poi lei saliva in camera sua, si sedeva presso la finestra, si ostinava a ricamare la guarnizione di una sottana, mentre la pioggia batteva i vetri o il vento li scuoteva; e cosuqualche volta, un po' affaticata, alzava gli occhi a guardare il mare cupo e agitato laggi, restava assorta un momento in quella vaga contemplazione, riprendeva tranquillamente il lavoro. D'altronde, si sentiva disoccupata. Giuliano aveva preso la direzione della casa intera, e aveva modo di soddisfare il suo spirito autoritario, la sua mania di economia. Egli si mostrava di una parsimonia feroce, non dava mancie, aveva ridotto le spese del vitto, aveva perfino disapprovato Giovanna che si era concesso il lusso della mattiniera focaccia normanna, condannandola al pane comune per eliminare una piccola spesa. Giovanna taceva per evitare spiegazioni, discussioni e litigi, ma ogni manifestazione di spilorceria maritale era un altro colpo di spillo. Com'era odioso e basso tutto ciz! Non poteva dimenticare di essere nata in una famiglia dove non si dava importanza al denaro, e sua madre aveva pur detto in ogni occasione: "Il denaro qfatto per spenderlo". Ora invece il marito diceva: "Non potrai mai abituarti a non buttarlo dalla finestra, il denaro?". E ogni volta che aveva risparmiato qualche soldarello su un conto o su un salario, sorrideva con compiacenza e: "I piccoli ruscelli formano i grandi fiumi" facendo scivolare in tasca quei pochi. Eppure in certi giorni Giovanna ricominciava a sognare. Arrestava il lavoro e ritesseva uno dei suoi romanzi di fanciulla diviso in capitoli di leggiadre avventure. Ma improvvisamente la voce di Giuliano (un ordine dato a papjSimone) la strappava al suo dolce lento fantasticare, e riprendeva il suo lavoro, tutta rassegnata, pensando: "Ma su , tutto cizqfinito... oramai!" e una lacrima cadeva proprio lu , sulle dita che trattenevano l'ago. Cambiata anche Rosalu a, un tempo cosugaia, la Rosalu a canterina. Non pi pienotte e non pirosse le guance, ma quasi incavate e a volte perfino terree. "Ti senti male, Rosalu a?" "No, signora" rispondeva invariabilmente la servetta, mentre un po' di sangue le saliva alle guance, e se ne andava confusa, in gran fretta. Che aveva questa ragazza? Non correva picome un tempo, trascinava i piedi a fatica, non era nemmeno picivettuola: invano, invano i merciaiuoli ambulanti le mostravano busti, profumerie, nastri di seta. E la vecchia casa aveva un'aria cupa, di grande spazio vuoto, con la sua facciata tutta strisce lasciate dalle piogge. Verso la fine di gennaio cominciza nevicare. Si vedevano di lontano le grandi nubi avanzare dal nord al di sopra del mare accigliato; ed ecco il candido sfarfallu o delle falde. La pianura sepolta in una notte; gli alberi riapparsi al mattino tutti ricamati da quella spuma di ghiaccio. Con gli stivaloni, Giuliano aveva l'aspetto di un vero selvaggio quando restava imboscato dietro il fosso che dava sulla landa ad appostare gli uccelli che migravano. Di quando in quando, un colpo di fucile rompeva il silenzio gelido dei campi: stormi di corvi neri spaventati fuggivano via dagli alberi in turbini pesanti. Allora, vinta dalla noia, Giovanna scendeva la scalinata e ascoltava i rumori di vita che venivano di molto lontano, ripercossi nella tranquillitj dormiente di quel lenzuolo livido e triste. Poi non udiva piche una specie di muggito delle onde lontane e lo scivolu o vago e continuo di questo polveru o di acqua gelata che cadeva, cadeva senza tregua. E il letto di neve si alzava sempre pi, sempre pi, sotto questa caduta infinita di spuma lieve lieve, fitta fitta. In una di queste pallide mattinate Giovanna, immobile, scaldava i piedi al fuoco della sua stanza, avendo alle spalle quella Rosalu a sempre picambiata, sempre pistanca, che rifaceva lentamente il letto. Ora ecco la padrona ode dietro di spcome un doloroso sospiro. Chiede, senza girare la testa: "Ma che c'qdunque? Che hai?" Quella, come sempre, risponde: "Nulla, signora" ma quna voce rotta, spirante. Giovanna gijpensava ad altro, quando avvertuche la ragazza non si muoveva pi. "Rosalu a?" La credette uscita e inavvertitamente la chiamzancora piforte: "Rosalu a! Rosalu a!" e stava per suonare il campanello quando un gemito profondo, esalato presso di lei, la fece alzare con un brivido d'angoscia. Rosalu a, livida, con gli occhi sbarrati, era seduta in terra, le gambe lunghe distese, il dorso appoggiato contro uno spigolo del letto. Giovanna si slanciz: "Ma che hai? Che hai?" L'altra non diceva nulla, non faceva un gesto, ma fissava sulla sua padrona gli occhi folli, ansimando, come straziata da un'orrenda doglia. Poi improvvisamente, stirandosi tutta, scivolzsulla schiena soffocando fra i denti chiusi un grido di angoscia. Allora sotto la veste aderente alle cosce aperte qualcosa si mosse, e quasi subito partudi lusotto un rumore strano, un ondeggiamento, un respiro strozzato come di chi sta per soffocare: seguu come un mugolu o, un pianto debole e gijdoloroso, la prima sofferenza della creatura che entra nella vita. Giovanna vide, comprese, corse sulla scala, chiamzquasi fuori di sp: "Giuliano! Giuliano!" Egli rispose dal basso: "Che vuoi?" Giovanna, a stento, rispose: "Rosalu a q... si q..." Egli si slanciz, salugli scalini a due a due, entrznella stanza, sollevzbrutalmente le vesti della ragazza e scopruun piccolo corpicino rannicchiato, rattratto, viscido che si agitava fra due gambe nude. Si raddrizzzcon la faccia cattiva, e caccizfuori la moglie smarrita: "Queste cose non ti riguardano. Vattene. Mandami Liduina; mandami papjSimone." Tutta tremante Giovanna scese in cucina: poi, non osando pirisalire, entrznel salone, gelato, senza pifuoco dopo la partenza dei vecchi, e qui attese ansiosamente notizie. Che avviene? Ecco, il domestico che esce di corsa, passano cinque minuti, ritorna con la vedova Dentu: ah su , la levatrice del paese! Per le scale un gran tramestu o come se si portasse un ferito. Giuliano arriva e dice soltanto che puzritornare in camera sua. Trema, trema come se avesse assistito ad alcunchpdi sinistro. Seduta di nuovo presso il caminetto domanda: "Come sta?". Giuliano qpreoccupato, qnervoso, sembra incollerito, cammina su e gi. Dapprima non risponde: infine si ferma, si volta: "Che pensi di farne, su , dico, di quella ragazza?" Lei non capisce: guarda suo marito senza capire. "Come? Che vuoi dire? Che vuoi che sappia io?" "Non possiamo tenerci in casa un bastardo" gridzlui al colmo dell'irritazione. "Senti, Giuliano, si potrjforse metterlo a balia..." "A balia? E chi pagherj? Tu pagherai?" Giovanna riflettpancora a lungo: cercava una soluzione. "Ecco" riprese "il padre se ne incaricherj, del bambino, se sposerjRosalu a..." "Il padre!" esclamz Giuliano incollerito, all'estremo della pazienza. "Il padre! Lo conosci tu il padre? No, vero? E allora?" Giovanna era commossa e si animava. "No, no, egli non abbandonerjin questo modo quella povera ragazza. Sarebbe un vigliacco. Noi chiederemo il suo nome, andremo a trovarlo, bisognerjben che si spieghi...." Giuliano si era calmato e aveva ripreso ad andare su e gi. "Mia cara, Rosalu a non vuol dire il nome di lui, Rosalu a non te lo confesserjmai, come non lo ha confessato a me... E se egli non volesse saperne? Intanto noi non possiamo tenere in casa una ragazza in quelle condizioni... col suo bastardo, capisci?" "Allora quell'uomo qun miserabile" ripeteva Giovanna ostinata. "Ma bisognerjbene che si spieghi, e allora avrjda fare con noi!" Giuliano, rosso in volto, ricominciava a infuriarsi. "Ma... intanto?" "Che proponi tu?" chiese lei per non sapersi decidere. "Oh, per me quna cosa molto semplice. Le darei un po' di danaro, e che vada al diavolo col suo marmocchio." "Mai, mai" si ribellzGiovanna, indignata. "E' mia sorella di latte, quella ragazza; siamo cresciute insieme. Ha commesso un errore? Male, malissimo; ma non la butterznella strada, e se sarjnecessario avrzcura di lei, del bambino..." Allora Giuliano scattz; "E noi ci faremo una bella riputazione, noi, col nostro nome, con le nostre relazioni! Si dirjdovunque che proteggiamo il vizio, che ricoveriamo sgualdrine, e finirjcosu , che la gente non vorrjmetter pipiede in casa nostra. Ma che idee ti frullano per la testa? Impazzisci?" Giovanna era rimasta calmissima. "Ebbene... no. Io non lascerzmai scacciare Rosalu a. Se non vuoi tenerla qui, ci sarjsempre mia madre che la riprenderj. E finiremo col conoscere il padre di lui, dico del bambino..." Egli rispose andandosene, sbattendo l'uscio, gridando: "Come sono stupide le donne! Le idee delle donne!" Nel pomeriggio Giovanna saludalla puerpera. La piccola serva restava immobile nel suo letto, vegliata dalla vedova Dentu, mentre un'infermiera cullava il neonato sulle braccia. Quando vide la sua padrona, Rosalu a si mise a piangere, e nascondeva la faccia tra le lenzuola nella disperazione dei singhiozzi. La padrona volle abbracciarla, ma lei resisteva, sempre coprendosi il viso; poi lascizfare, piangendo ancora, ma pidebolmente. Una piccola fiammata ardeva nel caminetto: faceva freddo, il piccino fiottava. Giovanna non osava parlare della creatura per non provocare un'altra crisi, ma carezzava una mano alla puerpera e ripeteva macchinalmente: "Non sarjnulla, via, non sarjnulla..." La povera ragazza guardava furtiva verso l'infermiera, trasaliva ai vagiti del marmocchio, soffocava come in un resto di disperazione, scoppiava in singhiozzi convulsi quando le lacrime ringhiottite le facevano una specie di gorgoglio nella gola. "Ne avremo cura noi. Sta' tranquilla, figliola" e se ne andz, poichpsentiva che un nuovo accesso di lacrime era pronto. Cosututti i giorni. Giovanna tornava da Rosalu a e Rosalu a, vedendo la sua padrona, aveva pronte le lacrime e i singhiozzi. Il bambino fu messo a balia luda una vicina. Giuliano, intanto, appena parlava a sua moglie, come se le serbasse rancore di aver impedito l'espulsione di quella ragazza. Un giorno egli ritornzsull'argomento, ma allora Giovanna si levzdi tasca una lettera in cui la baronessa reclamava la Rosalu a se non la si voleva piai "Pioppi". Giuliano, furibondo, gridz: "Tu e tua madre, due pazze compagne!". Ma non insistette pioltre. Quindici giorni dopo la puerpera era in grado di alzarsi, e riprese il servizio. FinchpGiovanna la fece sedere, le prese le mani, la scrutzin volto, le disse: "Ora, figliola mia, mi dirai tutto." Rosalu a si mise a tremare e balbettz: "Che cosa, signora?" "Di chi qquesto bambino?" Allora la povera ragazza, ripresa dalla sua disperazione cerczdi liberare le sue mani per nascondere il volto, ma Giovanna l'abbracciava lo stesso e la voleva consolare: "Vedi, figliola, quna disgrazia. Tu sei stata debole, ma la cosa capita a tante! Se il padre del bambino ti sposa, non ci si pensa pie noi potremo prenderlo al nostro servizio con te..." Rosalu a gemeva come a martirizzarla; e di quando in quando dava un sobbalzo forse per liberarsi e fuggire. "Capisco la tua vergogna" Giovanna riprese. "Ma vedi bene che io non mi ci arrabbio, vedi che ti parlo con tutta dolcezza. Se ti domando il nome di lui, qperchpcapisco dal tuo dolore che ti vorrebbe abbandonare e io non lo permetto, capisci? Stai certa che Giuliano andrjda lui, e l'obbligheremo a sposarti e a farti felice, giacchpvi terremo qui tutt'e due..." Questa volta Rosalu a fece uno sforzo cosu brusco che riuscua liberar le sue mani da quelle della padrona, e cosuscappzvia da forsennata. La sera, a tavola, Giovanna disse a Giuliano: "Ho tentato di persuadere Rosalu a a dirmi il nome del suo seduttore. Non ci sono riuscita. Prova dunque anche tu; cosupotremo decidere quel miserabile a... " Giuliano si adirzsubito: "Basta con questa storia, basta, basta! Hai voluto tener la ragazza? Ebbene, tienitela; ma non farmi andare in bestia per questo. Hai capito? Ora basta!". Dopo di che egli sembrava peggiorato d'umore, tanto che aveva preso l'abitudine di non parlare a sua moglie senza gridare, come se fosse sempre adirato mentre lei, al contrario, raddolciva la voce e si mostrava gentile, conciliante, per evitare le discussioni (la notte poi piangeva nel suo letto). Eppure, nonostante questa irritazione insistente, egli aveva ripreso certe abitudini d'amore trascurate fin dal ritorno e ben raramente lasciava passare tre sere di seguito senza varcar la soglia coniugale. Rosalu a guaruinteramente e divenne un po' meno triste, benchpfosse rimasta come spaventata, come perseguitata da non si sa che paura. Due volte ancora fugguquando Giovanna la interrogzsul piccino. Nello stesso tempo Giuliano riapparve un po' picortese cosuche la giovane sposa si riafferrava a vaghe speranze, ritrovava qualche momento un po' allegro quantunque soffrisse talvolta di strani malesseri di cui non parlava. Non cominciava ancora il disgelo, ma da alcune settimane, un cielo chiaro di giorno come un vetro azzurro, e la notte pieno di stelle che si sarebbero dette di brina tanto lo spazio era rigido, si stendeva sul tappeto duro, unito, lucente delle nevi. Dietro le cortine dei grandi alberi ricamati come di canizie, isolate nelle loro zone quadre, le fattorie parevano addormentate sotto un drappo bianco. Nessuno usciva pi: uomini, bestie. Solo i comignoli delle capanne rivelavano la vita nascosta per quei gracili pennacchi di fumo che salivano diritti nell'aria di gelo. Il piano, le siepi, gli olmi delle cinture, tutto sembrava morto, ucciso dal freddo. Di quando in quando si udivano scricchiolare gli alberi, come se le loro membra di legno si fossero spezzate sotto la corteccia; talvolta anche un gran ramo si strappava e cadeva, vittima del gelo invincibile che indurisce le linfe e rompe le fibre. Giovanna aspettava con ansia i primi tepori attribuendo alla cattiva invernata le vaghe sofferenze che la tormentavano. Che aveva? Che male era questo? Ora non poteva mangiar nulla per quel disgusto del cibo, ora il polso batteva all'impazzata, ora il pasto pileggero le dava una specie di nausea d'indigestione, e i nervi sempre tesi, sempre vibranti, la tenevano in un'agitazione continua, insopportabile. Finchpuna sera il termometro discese ancora e Giuliano, alzandosi da tavola tutto tremante di freddo (la sala non era mai abbastanza tiepida tanto egli faceva economia di riscaldamento), si fregzle mani e avvertu : "Sarjuna bella cosa dormire in due, nevvero, tesoruccio mio?" Egli rideva del suo buon riso d'un tempo, di gran fanciullone, e lei gli saltzal collo felice; ma quella sera appunto era cosusofferente, cosustranamente nervosa, che lo pregzfra i baci, sottovoce, di lasciarla sola quella notte. "Ti prego, caro" gli disse per spiegargli in poche parole il suo male. "Credi che non mi sento bene stasera. Domani starzmeglio, vedrai." Egli non insistette. "Come vuoi. Ma se sei malata, bisogna ben che ti curi." Si coriczpresto, Giuliano volle che le accendessero il fuoco nella stanza: e fu una gran concessione. Quando gli fu detto che c'era una bella fiammata, bacizla moglie in fronte e se ne andz. Tutta quanta la casa sembrava angustiata dal freddo; gli stessi muri ne rabbrividivano con rumori leggeri, Giovanna nel suo letto tremava. Due volte si alzzper aggiungere legna nel caminetto ed anche per cercare una vecchia sottana, qualche corpetto, vecchi abiti da ammucchiare sulle coltri: nulla, nulla la riscaldava. I suoi piedini si intirizzivano, continue vibrazioni le correvano per i polpacci e perfino per le cosce fino a farla girare e rigirare senza mai tregua in un'agitazione che l'aveva ormai completamente prostrata. Poi le batterono i denti, le mani tremarono, il petto si strinse, il cuore indebolito battpgrandi colpi e sembrzspegnersi. L'anima fu come presa da una spaventosa angoscia; nello stesso tempo un freddo invincibile le penetrava fino al midollo. Mai, mai aveva provato niente di simile: la vita stessa l'abbandonava. Non esalava l'ultimo respiro? "Sto per morire... muoio..." pensz. Spaventata, saltzfuori dal letto, cerczil campanello, suonzper chiamar Rosalu a: attese, suonzdi nuovo, attese ancora, intirizzita, fremente. Niente. Nessuno. La ragazza dormiva senza dubbio, e di quel primo sonno che non si scuote, il sonno di piombo. Allora Giovanna perse il controllo e a piedi nudi si precipitzper la scala, salua tentoni senza far rumore, trovzuna porta, l'apru : "Rosalu a!" S'inoltrz, urtzcontro il letto, vi passzsopra le mani, sentuche era vuoto: vuoto e freddo come se non vi fosse entrato nessuno. "Come? Va a farne delle altre con questo tempo!" E in un tumulto repentino del suo povero cuore, oppressa, soffocata, con le gambe che le si piegavano, fece quell'ultimo sforzo: discese per chiedere aiuto a Giuliano. Entrzda lui con violenza, spinta, assillata dalla certezza che stava per morire, dal desiderio di veder lui prima di perdere la conoscenza. E alla luce del fuoco morente, vide, sul guanciale, accanto alla testa di suo marito, la testa di Rosalu a. Lui e lei si rizzarono insieme, come rispondendo a quel grido. Giovanna restzun momento immobile come se la scoperta l'avesse impietrita, poi fuggu , rientrznella sua stanza, e poichplui spaventato chiamava: "Giovanna! Giovanna!" una paura atroce l'assalu : di vederlo, di riudire la sua voce, di ascoltare le sue menzogne, di incontrare il suo sguardo faccia a faccia: e gi, gi, ancora giper la scala. Gi, gidi corsa nel buio a costo di cadere sui gradini, a costo di fracassarsi sulle pietre; sempre avanti, sempre spinta dalla necessitjdi fuggire, di non sapere nulla, di non vedere pinessuno. Eccola dabbasso, siede su un gradino, sempre in camicia, a piedi nudi, e rimane lusbigottita. Ma si raddrizza perchpode la voce di lui, perchpegli gijscende le scale: "Giovanna? Ascolta, Giovanna...". No, no, non vuole ascoltare, nemmeno vuole che le si tocchi la punta di un dito, e si slancia nella sala da pranzo come se sentisse un assassino alle spalle. Cerca un'uscita, un nascondiglio, un angolo oscuro, un mezzo qualunque per evitarlo. Ecco, si raggomitola sotto la tavola, ma egli ha gijaperto la porta, col lume in mano, e ripete: "Giovanna, ascolta... Giovanna...". Balza come una lepre, si slancia in cucina, due volte gira intorno come una bestia inseguita, ma egli qqui ancora, e allora lei apre di colpo l'uscio del giardino e via per la campagna, a precipizio. Le sue gambe entrano nella neve fin quasi ai ginocchi, e quel contatto gelido le djun'energia disperata. E' nuda, e non ha freddo, non vede, non sente pinulla, tanto la convulsione della sua anima intorpidisce il suo corpo. E corre, corre, candida come la terra. Ecco il viale grande, ecco il boschetto, il fosso, la landa... Non c'qluna, ci sono le stelle, un seminu o di fuoco nel cielo nero, ma la pianura qchiara, di un fosco candore, immobilitjcongelata, silenzio infinito. Cammina sempre, senza respirare, senza pensare. Ecco il precipizio: si ferma di colpo, d'istinto, si accascia vuotata di tutto. Nella cupa voragine davanti a lei il mare invisibile e muto esala un odore salmastro di relitti della bassa marea. Quanto tempo resta cosu , le membra inerti, lo spirito inerte? Tutt'a un tratto si mette a tremare, ed qun tremito folle, qualcosa come una vela agitata dal vento. Braccia, mani, piedi scossi da una forza invincibile; tutto palpita in lei, tutto vibra, sussulta, precipita: e la coscienza le torna di colpo, chiara e pungente. Poi sono come antiche visioni che passano davanti ai suoi occhi, la passeggiata con lui nella barca di papj Lastique, i discorsi, l'amore nascente, il battesimo della barca: piin lj, piin lj, ancora piin lj: ecco: la notte popolata di sogni del suo primo arrivo al castello. E ora? Oh, la sua vita ora qspezzata, perduta ogni gioia, ogni speranza impossibile, e l'avvenire qlj, tutto tradimento, disperazione, torture. Meglio morire! Si muore, e tutto qfinito... Una voce lontana? "E' qui... ecco i suoi passi... presto... da questa parte..." Giuliano? E' lui che la cerca? No, non lo vuol rivedere! Dall'abisso che le si scopre dinanzi, ora le giunge un fruscu o: qla leggera risacca del mare. Allora si alza, gijdecisa a slanciarsi, a buttarsi di sotto, e nel dar l'addio alla vita, l'addio disperato, geme l'ultima parola, quella dei moribondi, quella dei soldati feriti in battaglia: " Mamma...". Di colpo le balena il pensiero di lei, di "mammina", la vede singhiozzare, vede il papjin ginocchio accanto al cadavere dell'annegata, raccoglie in un attimo tanta disperazione, tanto spasimo; e ricade ginella neve, e nemmeno fugge quando Giuliano e papjSimone (c'qanche Mario che tiene la lanterna) l'afferrano per le braccia, la tirano indietro, poichpqarrivata sull'orlo... Non puzpimuoversi: facciano di lei quel che vogliono. Sente che la trasportano, la mettono a letto, le fanno delle frizioni con panni bollenti: ogni ricordo si cancella: la conoscenza qperduta. Poi, l'oppressione di un incubo. Ma si tratta proprio di un incubo? Eccola sdraiata nella sua stanza. Si, vede bene che qgiorno, ma lei non puzalzarsi, non puz. Perchp? Non lo sa, non sa niente. E ode come un rumore nel soffitto o una specie di raspamento, e subito un topo, un piccolo topo grigio passa rapidamente sul lenzuolo. Un altro lo segue, un terzo le si avvicina al petto col suo trotterello vivace. Non sa come, ma non ha nessuna paura e vuole afferrar la bestiola e stende la mano... No, niente! Allora altri topi, dieci, venti topi, centinaia, migliaia di topi vengono d'ogni parte, si arrampicano in colonne, scorrono in fila sulle tappezzerie, coprono il letto, entrano, penetrano nel letto: e lei li sente scivolare sulla pelle, ecco che le solleticano le gambe, salgono, scendono per tutto il suo corpo: e le giungono alla gola, e si dibatte stendendo le mani per afferrare un topo, apre e chiude le mani: vuote! Si dispera, grida, urla, vuol fuggire, e le pare che qualcuno la tenga lua forza, immobile: due braccia di ferro la stringono, la paralizzano: guarda e non vede nessuno. Ha perduto il senso del tempo. Tutto cizdura a lungo, a lungo, a lungo... Poi si svegliz. Fu un risveglio stanco, accasciato, eppure dolce. Si sentiva debole debole. Aprugli occhi e non si stupu di vedere sua madre seduta con un omone grosso, mai conosciuto, mai visto. Che etjaveva mai? Non lo sapeva, e si credeva piccina piccina. Non si ricordava proprio di nulla. "Vedete?" disse l'uomo corpulento. "La conoscenza ritorna." Mammina si mise a piangere. Allora l'uomo corpulento riprese: "Calmatevi, signora baronessa. Vi dico che ora ne rispondo io. Perznon bisogna parlarle di nulla, assolutamente di nulla. Lasciate che dorma." Sembrza Giovanna di restare assopita ancora chi sa quanto, righermita forse da un sonno pesante durante il quale provava a pensare, senza perztentare di ricordarsi di nulla e di nessuno, come se avesse un vago timore della realtjche si faceva strada nel cervello. Una volta, svegliandosi, vide Giuliano: era lui solo accanto al letto: e allora tutto fu chiaro, tutto le tornz alla memoria, come se avessero alzato il velo che copriva il suo passato. Ebbe una fitta acutissima al cuore, e volle fuggire. Gettzvia le coperte, saltza terra, le gambe non le reggevano e cadde. Giuliano si slancizsu di lei, si mise a gridare: non la toccasse, non la toccasse! L'uscio si aprue accorse la zia Lisetta con la vedova Dentu, poi il barone, infine la baronessa smarrita, ansimante. Fu cosuche la rimisero a letto, e lei chiuse subito gli occhi, dissimulando per non parlare e per riflettere meglio. Sua madre e sua zia la assistevano tutte premurose, e dicevano: "Giovanna! Ci senti, Giannetta? Ora ci senti, ci senti?" e lei faceva la sorda, non rispondeva: perzsi accorse benissimo che il giorno finiva. Finiva il giorno, venne la notte. L'infermiera prese posto luaccanto, e spesso la faceva bere. Beveva senza dire nulla. Rifletteva con fatica cercando cose che le sfuggivano, come se avesse delle lacune nella memoria, grandi spazi bianchi e deserti dove gli avvenimenti non erano segnati. A poco a poco, dopo lunghi sforzi, riuscua riordinare tutti i fatti e vi riflettpsopra con ferma tenacia. Erano venuti il babbo, mammina, zia Lisetta: dunque, era molto malata. Ma Giuliano? Che aveva detto? I suoi genitori sapevano quel che era successo? E Rosalu a? Dov'era Rosalu a? E poi... che fare, che fare? Un'idea le balenznel cervello: su , su , come prima, a Rouen, col papje con la mamma. Sarebbe stata vedova: ecco tutto. Allora attese, ascoltando tutto quel che si diceva attorno al suo letto, comprendendo ogni cosa, senza far capir che capiva, godendo di questo ritorno alla ragione, scaltra, paziente. Infine, la sera, si trovzsola proprio con mammina e la chiamzsottovoce. La sua voce la stupu ; le parve cambiata. Mammina le prese le mani: "Giannetta, Giannetta cara, bambina mia, di', mi riconosci?" "Si, mammina. Ma non bisogna piangere. Dobbiamo discorrere a lungo. Giuliano ti ha detto perchpsono fuggita fra la neve?" "Si, bambina mia. Tu hai avuto una gran febbre, una febbre pericolosa..." "Non qquesto. No, non qquesto. La febbre l'ho avuta dopo. Giuliano non ti ha detto perchpho avuto la febbre e perchpsono scappata?" "No, cara." "Fu perchpho trovato Rosalu a a letto con lui." La baronessa credette che delirasse ancora e l'accarezzzdolcemente. "Dormi, bambina mia. Calmati. Cerca di dormire." "Mammina" riprese ostinata Giovanna "adesso sono perfettamente cosciente. Non dico pazzie come debbo averne dette i giorni scorsi. Una notte io mi sentii male e allora andai a cercar di Giuliano. Rosalu a era con lui, nel suo letto... Io, per il dolore, ho perduto la testa e sono fuggita fra la neve: volevo buttarmi in mare..." "Su , su , bambina mia" ripeteva sempre la mamma "tu sei molto malata..." "Non qquesto, mamma. Io ho trovato Rosalu a a letto con Giuliano e non voglio pirestare con lui. Tu mi condurrai a Rouen, su , a Rouen, come una volta..." La mamma sapeva bene che il medico aveva raccomandato di non contrariare in nulla la malata, e le dava sempre ragione: su , su . La malata si spazientu . "Vedo bene che non mi credi. Va' a cercare papj. Lui finirjcol capirmi." Mammina si alzza fatica, prese i bastoni, e uscustrascinando i piedi: quando tornz, dopo pochi minuti, era sorretta dal barone. Si sedettero insieme accanto al letto. Giovanna comincizsubito. Disse tutto, lentamente, con voce ancor debole, ma con molta chiarezza: il carattere bizzarro di lui, le sue asprezze, la sua avarizia, la sua infedeltj. Quando ebbe finito, il barone vide bene che non divagava, non fantasticava e non sapeva nemmeno lui che pensare, risolvere, rispondere, e le prese una mano teneramente, come una volta, quando l'addormentava con le sue storielle. "Senti, mia cara, bisogna agire con molta prudenza. Non precipitiamo le cose. Cerca di sopportare tuo marito fino a quando avremo preso una risoluzione. Me lo prometti?" "Si, papj. Ma non rimarrzqui, quando sarz guarita." Poi domandzsottovoce: "Dov'qadesso Rosalu a?" "Non la vedrai mai pi." Ma lei si ostinava: "Voglio sapere dov'q." Il padre dovette confessare che non aveva lasciato la casa. Assicurzche se ne sarebbe andata. Poi egli uscudalla stanza, tutto acceso di collera, ferito nel suo cuore di padre. Cerczdi Giuliano; non fece preamboli: "Signore, io vengo a domandarvi conto della vostra condotta verso mia figlia. Voi l'avete ingannata con la vostra cameriera. Cizqdoppiamente indegno." Ma Giuliano recitzbene la sua parte: negzcon passione, giurz, prese Dio a testimonio. Quali prove? Fuori le prove! Forse che Giovanna non aveva avuto una febbre cerebrale? Non era fuggita fra la neve, di notte, in un accesso di delirio, in principio della sua malattia? Ed era proprio nel colmo di questo accesso, quando era corsa seminuda per la casa, che pretendeva di aver visto Rosalu a nel letto di lui! E si arrabbiz, minaccizun processo, repliczcon veemenza, tanto che il barone, confuso, dovette ricredersi, chiedere scusa, tendere la sua mano leale che l'altro nemmeno volle stringere. Giovanna conobbe la risposta del marito senza irritarsi. Rispose: "Egli mente. Ma noi finiremo con lo smascherarlo, papj." Il terzo giorno volle vedere Rosalu a. Il barone rifiutava di farla salire e la dava gij per partita. "Ebbene, andate a cercarla" ripeteva Giovanna imperterrita . Entrzil medico. Gli si espose subito il caso perchpdesse il suo parere. Ma Giovanna, indebolita all'estremo, piangeva e diceva senza remissione: "Voglio veder Rosalu a... voglio veder Rosalu a..." e il medico le prese la mano e le parlzsottovoce: "Calmatevi, signora. Ogni emozione potrebbe riuscirvi dannosa, perchpsiete incinta." Restzsorpresa, come colpita: le parve subito che qualcosa si agitasse dentro di lei. Si chiuse nel silenzio, senza ascoltare cizche si diceva, tutta raccolta intorno a un pensiero. La notte non potpchiudere occhio, poichpla teneva sveglia questa idea nuova e strana di una creatura che viveva qui, nel suo ventre, e si sentiva triste e angosciata perchpera un figlio di lui, e non poteva frenare l'inquietudine che egli assomigliasse un giorno a suo padre. "Papj" disse subito la mattina dopo "la mia risoluzione qben salda. Io voglio sapere tutto. Tu mi capisci: voglio, e tu sai che non si puzpicontrariarmi, nelle condizioni in cui mi trovo. Ascoltami bene. Va a cercare il signor curato: ho bisogno di lui per impedire a Rosalu a di mentire. Poi lo farai salire subito, e tu e mammina non vi moverete di qui. Attento, soprattutto, attento che Giuliano non sospetti qualcosa!" Un'ora dopo il prete entrava, ancora ingrassato, ansimante non meno di mammina, e si sedeva vicino al letto, in una poltrona, col ventre ammassato fra le gambe aperte incominciando a scherzare, passandosi e ripassandosi sulla fronte, come d'uso, il fazzolettone a quadretti. "Ebbene, signora baronessa, vedo che non si dimagrisce. Mi pare che noi due si faccia il paio." Poi, volgendosi verso la malata: "Eh, eh! che cosa mi hanno detto, signora sposina! Avremo presto un nuovo battesimo? Ah, ah, ah! Questa volta non si tratta gijdi una barca!". E aggiunse in tono grave: "Un difensore della patria". Poi, dopo una breve riflessione: "Purchpnon sia una brava madre di famiglia". E salutando la baronessa: "Come voi, madama". Ma la porta in fondo si apru , e si vide Rosalu a smarrita, lacrimosa, che rifiutava di farsi avanti e si aggrappava allo stipite, finchpil barone che la spingeva per di dietro, perduta la pazienza, la fece entrare con uno strattone. Allora si copruil volto con le mani e restzin piedi lu , singhiozzante. Giovanna, appena la scorse, si drizzzcon impeto e sedette sul letto, bianca pidel lenzuolo. Il suo povero cuore sollevava coi suoi battiti la leggera camicia aderente alla pelle. Non poteva parlare: respirava appena: soffocava. "Io... io... " comincizcon la voce rotta dall'emozione "non avrei... non avrei bisogno... di interrogarti... Mi basta... vederti cosu ... vedere la tua vergogna... la vergogna che provi dinanzi a me..." Il fiato le mancava. Riprese: "Ma io voglio saper tutto... tutto! Ho fatto venire il signor curato perchpsia come una confessione, capisci?" Rosalu a, immobile, si copriva sempre la faccia e mandava come delle grida fra le sue dita contratte. Incollerito, il barone le afferra le braccia, le strappa con forza le mani dal volto e finisce col gettar la donna in ginocchio presso il letto . "Parla dunque. Rispondi!" Rimase a terra, nella posizione in cui si ritraggono le Maddalene, la cuffia a sghimbescio, il grembiule sul pavimento, il viso ancora nascosto nelle mani ridivenute libere. "Suvvia" le disse il curato "ascolta cizche ti si dice e rispondi. Noi non vogliamo farti alcun male, ma vogliamo sapere quel che qsuccesso." "E' vero" gridzGiovanna sporgendosi dalla sponda del letto "qvero che ti trovavi a letto con lui quand'io vi ho sorpresi?" "Su , signora" Rosalu a gemette attraverso le mani. Allora, di colpo, la baronessa si diede a piangere lei pure, angosciata, e i suoi singhiozzi convulsi rispondevano ai singhiozzi di Rosalu a. "Da quanto tempo durava la tresca?" chiese Giovanna con gli occhi sempre fissi sulla disgraziata. "Dacchpqvenuto..." balbettzRosalu a. Giovanna non capiva. "Dacchpqvenuto... Allora... allora... dopo la primavera? ª"Su , signora..." "Dacchpqentrato in questa casa?" "Su , signora..." E Giovanna, come oppressa dalla smania di sapere, interrogava, interrogava in fretta: "Ma come qaccaduto? Come ti ha sedotta? Come ti ha avuta? Che cosa ti ha detto? Quando... come hai ceduto? Come hai potuto darti a lui?" Rosalu a aveva scostato le mani dal volto e parlava ora, come presa da un febbrile bisogno di rispondere, confessare, dire tutto: "Che ne so io? Fu il giorno che pranzzqui la prima volta, che venne la sera a trovarmi in camera mia... S'era nascosto nel granaio... Non osai gridare per evitare uno scandalo... Venne a letto con me, io perdetti la testa in quel momento, e cosuha fatto quel che ha voluto... Stavo zitta perchp... lo trovavo molto carino..." Allora Giovanna lancizun grido. "Ma... il tuo... il tuo bimbo... qsuo?" "Si, signora..." Tacquero entrambe. Non si udivano piche i singhiozzi di Rosalu a, e i singhiozzi della baronessa. Giovanna, accasciata, sentiva a sua volta che le si inumidivano gli occhi: lacrime, lacrime silenziose, cadevano giper le guance. Il figlio della sua cameriera aveva lo stesso padre del suo! La collera era caduta. Ora era tutta presa da una disperazione cupa, lenta, profonda, infinita. Con voce cambiata, intenerita, con la voce di una povera donna che piange, chiese ancora: "Quando siamo tornati di laggi... dal viaggio di nozze... ha ricominciato subito?" "La prima sera..." confesszla ragazza, sempre prostrata sul pavimento. Che strazio! Ogni parola, uno strazio. Cosu , la prima sera la sera del suo ritorno ai "Pioppi", egli l'aveva lasciata per quella ragazza! Ecco perchpvoleva dormire solo. Ormai ne aveva abbastanza: non voleva sapere di pi. "Vattene! Vattene!" Rosalu a non si muoveva, come annichilita, e Giovanna si rivolse allora a suo padre. "Conducila via! Fammi il piacere, conducila via!" Ma il curato, che non aveva ancora aperto bocca, giudiczche era giunto alfine il suo turno. Era il momento del predicozzo. "Figliola mia, quello che hai fatto qgran male, grandissimo male, e il buon Dio non ti perdonerjfacilmente. Pensa all'inferno che t'aspetta... se non serberai d'ora innanzi una buona condotta. Ora che hai un bimbo qnecessario che tu metta giudizio. La signora baronessa farjsenza dubbio qualche cosa per te, e ti troveremo marito." Egli avrebbe avuto qualche altra cosa da dire, ma il barone aveva di nuovo afferrato per le spalle quella disgraziata, la sollevava, la trascinava fino alla porta, la buttava nel corridoio come un fagotto. Quando rientrz, pipallido di sua figlia, il signor curato riprese il discorso: "Che volete? Tutte cosu , nel paese. E' una desolazione. Non ci si puzfar nulla, e dunque bisogna avere un po' di indulgenza per le debolezze della natura. Mai, mai queste ragazze si sposano senza essere incinte: giammai, o signora, giammai." Aggiunse, non senza sorridere: "Si direbbe un costume locale". Poi, indignatissimo: "I ragazzi, perfino i ragazzi! Non ho trovato io stesso l'anno scorso in cimitero due bamberottoli che vengono al catechismo, un maschio e una femmina? Ho avvertito i parenti. Sapete che cosa mi hanno risposto? "Che possiamo farci, signor curato? Non gliele abbiamo mica insegnate noi, quelle porcherie." Ecco, signora: la vostra serva ha fatto come le altre..." "Non m'importa di lei" interruppe il barone che tremava sempre per l'eccitazione dei nervi. "E' Giuliano, qlui che mi sdegna. Ha commesso un'infamia e io porterzvia mia figlia..." E andava su e gi, esasperato, animandosi tutto. "Su , su , qun'infamia, aver tradito cosula mia figliola, un'infamia, un'infamia! Quell'uomo quna canaglia, un miserabile; e glielo dirz, lo prenderza schiaffi, lo finirza bastonate." Ma il prete annusava una presa di tabacco al fianco della baronessa piangente, pensava di compiere il suo ministero di pace e diceva: "Sentite, signor barone, parliamo schietto fra noi: egli ha fatto quel che fan tutti gli uomini. Ne conoscete molti di mariti fedeli?" Aggiunse con bonomia maliziosa: "Scommetto che al vostro tempo voi stesso avrete fatto le vostre. Vediamo, mettete una mano sulla coscienza: ho ragione?". Il barone si era fermato come se queste parole gli facessero molta impressione. "Eh su , voi avrete fatto come gli altri. Chi sa che voi stesso non abbiate messo mano a qualche bella servotta come quella lj. Io vi dico che tutti fanno lo stesso. Vostra moglie non qstata meno amata e meno felice, no?" Il barone, sconvolto, non si agitava pi. Perbacco! Era vero. Egli aveva fatto altrettanto. Spesso... su , spesso... quando aveva potuto... E neppure lui aveva rispettato il letto coniugale. Npaveva esitato davanti alle cameriere di sua moglie... quando erano graziose... Era percizun miserabile? Perchp giudicare severamente la condotta dell'altro, dal momento che non si era mai sentito colpevole lui? La baronessa soffocava dai singhiozzi, ma poi lascizerrar sulle labbra come un'ombra di sorriso al ricordo delle scappatelle di suo marito, essendo di quelle nature sentimentali che presto si inteneriscono e pipresto ancora perdonano: e poi le avventure d'amore non fanno parte dell'esistenza? Giovanna pensava e soffriva, cosuaccasciata, stesa supina, le braccia inerti, gli occhi sbarrati e cizche le faceva pimale era il ricordo di quella parola di Rosalu a, una parola che le feriva l'anima, che le penetrava come un trivello nel cuore: "Non ho detto nulla perchplo trovavo molto... carino!". Anche lei lo aveva trovato carino, ed era per questo - perchplo aveva trovato carino - che si era data a lui per la vita, che aveva rinunciato ad ogni altra speranza, ai progetti appena intravisti, all'ignoto del domani: perchplo aveva trovato carino! Era caduta in quel matrimonio, in quell'abisso senza sponde, per risalire al dolore, alla tristezza alla disperazione, perchp... su , come Rosalu a, come Rosalu a lo aveva trovato "carino"! La porta si aprucon violenza: e apparve lui, col suo viso feroce. Aveva incontrato per la scala Rosalu a che piangeva, e veniva, lui, per sapere, poichpqualcosa si stava tramando, poichpRosalu a aveva certo parlato. La vista del prete lo inchiodzsui due piedi. Chiese con voce tremante e pur tranquilla: "Ebbene, che c'q?" Il barone, gijtanto violento, non osava pidire una parola come se temesse che il genero riprendesse l'argomento del prete sulle sue stesse infedeltjmaritali. Mammina piangeva pi forte; Giovanna, sollevata sulle mani, guardava ansante colui che la faceva cosucrudelmente soffrire. "C'q" balbettz"che noi sappiamo tutto, tutto, tutto. Conosciamo le vostre infamie, dal giorno che siete entrato qui dentro... Sappiamo che il figlio di quella ragazza qvostro, qvostro... su , su , come il mio... come il mio..." e ricadde sfinita sulle coltri in un lungo pianto disperato. Giuliano era rimasto intontito, non sapendo che dire, che fare. "Su, su" intervenne il curato "vediamo un po', non disperiamoci tanto... Vediamo, vediamo, signora, di essere un po' ragionevoli..." S'alzz, si avvicinzal letto, poszla sua mano tiepida sulla fronte della poveretta. Strano! Quel semplice contatto la tranquillizzz. Si sentuillanguidire, come se quella mano forte di un uomo rustico avvezzo al gesto che assolve, alla blandizia che riconforta, le avesse dato una pace misteriosa al semplice tocco. Il buon uomo, rimasto in piedi, riprese: "Signora, bisogna sempre perdonare. Su , su , una gran disgrazia vi ha colpito, ma Dio nella sua immensa misericordia l'ha compensata con una grande gioia: perchpvoi sarete madre. Questo bambino sarjla vostra consolazione, signora. E' in nome suo che v'imploro, vi scongiuro di perdonare l'errore del signor Giuliano. Questo sarjun nuovo legame tra voi, un pegno della sua fedeltjfutura. Come? Potreste restar divisa dal cuore dell'uomo di cui portate il frutto nel seno?" Non rispondeva, abbattuta, spossata, senza piforza, npper il rancore, npper la collera. Le sembrava che i suoi nervi fossero rilassati, tagliuzzati: appena respirava, appena viveva. La baronessa, incapace di serbar rancore, incapace di resistere a uno sforzo un po' prolungato, mormorz: "Suvvia, Giovanna...". In quel momento il prete afferrzla mano del giovane e cosulo attirzverso il letto per posare quella mano sulla manina stessa di lei, e vi battpsopra un colpetto come per congiungere definitivamente i due sposi. "Andiamo" disse poi lasciando il solenne tono professionale. "E' cosa fatta. Credete che qla miglior soluzione." Le due mani, unite per un attimo, si separarono. Giuliano, non osando baciare sua moglie, bacizin fronte la suocera: poi girzsui tacchi e prese a braccio il barone che lascizfare, contento in fondo che la faccenda si fosse cosuaccomodata: e uscirono insieme, a fumare. E la malata, esausta, si assopumentre il prete e mammina chiacchieravano a bassa voce, pacificamente. "Dunque, siamo intesi" egli diceva dopo aver spiegato, sviluppato le sue idee, sempre col consenso della signora baronessa, "Voi darete a quella ragazza la fattoria di Barville e io m'incarico di trovarle un marito: oh, su , un bravo ragazzo, un ragazzo con molto buon senso. Una dote di ventimila franchi ce ne procurerjdi domande! Non avremo che l'imbarazzo della scelta." Ora la baronessa sorrideva tutta felice, con due lacrime a mezza via, sulle guance (ma quelle tracce umide erano gijbell'e asciutte): "Siamo d'accordo. Barville vale ventimila franchi, a dire poco. Ma il capitale verrjintestato al bambino. I genitori non ne godranno che l'usufrutto vita natural durante..." Il curato si alzze strinse la mano alla dama. "Non preoccupatevi, signora baronessa. Lasciate fare a me: ci penso io..." Uscendo, incontrzzia Lisetta che veniva a veder la malata. Non si era accorta di nulla, non le si disse nulla, non seppe, come sempre, nulla. Capitolo 8 Rosalu a aveva lasciato la casa e Giovanna compiva il periodo della gestazione dolorosa. Il pensiero della maternitjla lasciava come indifferente. Troppi dolori l'avevano accasciata: ora attendeva la nascita del suo bambino senza curiositj, tutta presa in un giro come di percezioni di disgrazie non ben definite. La primavera era giunta con lentezza. Gli alberi spogli fremevano sotto la brezza ancora pungente, ma nell'erba umida dei fossati dove imputridivano le foglie autunnali occhieggiavano gijle primule gialle. Da tutta la pianura, dai cortili delle fattorie, dai campi in disgelo, si sollevava un sentore umido, come un sapore di fermentazione. Una quantitjdi puntine verdi uscivano dalla terra bruna e lucente ai raggi del sole. Una donna robusta e ben piantata aveva sostituita Rosalu a e sosteneva la baronessa nelle sue passeggiate monotone lungo il viale su cui rimaneva invariabilmente la traccia umida e fangosa del suo piede ancor pipesante. Il papjdava il braccio a Giovanna ormai appesantita e sempre pi sofferente, e zia Lisetta inquieta, spaventata dal prossimo evento, la teneva per mano dall'altra parte, tutta turbata per quel mistero che non avrebbe mai conosciuto. Camminavano ore e ore cosu , senza parlare, mentre Giuliano percorreva a cavallo i dintorni, poichp improvvisamente lo aveva preso questa nuova mania del cavalcare. Nulla turbava piquesta vita uniforme. Il barone, sua moglie, il visconte fecero visita ai Fourville, che Giuliano sembrava conoscere ormai da gran tempo senza aver mai accennato alle origini di questa amicizia. Fu anche scambiata una visita di etichetta coi Briseville, sempre nascosti nel loro castello addormentato. Un pomeriggio, verso le quattro, due cavalieri, uomo e donna, entrarono al trotto nel cortile davanti al castello. Giuliano li scorse e si precipitzda sua moglie tutto affannato: "Presto, presto, Giovanna; ecco i Fourville. Sono venuti da buoni amici, in confidenza, conoscendo il tuo stato. Di' che sono uscito, che non tarderzmolto a tornare. Intanto, mi faccio un po' bello..." Stupita, scese. C'era giuna giovane signora, pallida, graziosa, espressione dolente, occhi esaltati, capelli di un biondo sbiadito, come se non fossero mai stati accarezzati da raggio di sole; e costei presentzmolto tranquillamente suo marito, una specie di gigante, un orco dai gran baffi rossi, aggiungendo: "Noi abbiamo avuto pivolte l'occasione di incontrar il signor di Lamare. Sappiamo da lui le vostre sofferenze, e non abbiamo voluto rimandare ancora il piacere di venirvi a trovare, da buoni amici, senza cerimonie. Del resto, lo vedete, siamo a cavallo. E poi ho avuto l'onore di ricevere la vostra signora madre e il barone, su , l'altro giorno..." Parlava con molta affabilitje con un tono confidenziale e garbato, cosuche Giovanna ne fu incantata e sentudi volerle subito bene. "Ecco un'amica", pensz. Viceversa, il conte di Fourville sembrava un orso entrato in salotto. Quando si fu seduto, poszil cappello sulla sedia vicina, rimase in forse prima di decidere che cosa dovesse far delle mani, le appoggizsui ginocchi, poi sui braccioli della poltrona, infine le incrocizcome se dovesse pregare. Ecco Giuliano. Giovanna si volse stupita: non lo riconosceva pi. S'era sbarbato, era bello, elegante, seducente, era proprio il Giuliano dei primi giorni del fidanzamento. Strinse la zampa pelosa del conte, svegliatosi a quell'arrivo improvviso; bacizla mano della contessa, e la contessa sorrise mentre le sue guance d'avorio si colorivano leggermente e le palpebre trasalivano un poco. Giuliano parlz. Amabile, su , come un tempo! I suoi larghi occhi, vero specchio d'amore, sapevano ancora carezzare, e quei suoi capelli ispidi e duri avevano riacquistato di colpo, sotto l'olio profumato e la spazzola, ondulazioni lucide e molli. I Fourville stavano per accomiatarsi, e la contessa si voltzverso di lui: "Caro visconte, vi piacerebbe una passeggiata a cavallo, per giovedu ?" "Ma certamente, contessa" rispondeva con un inchino il visconte, e la contessa intanto si rivolgeva a Giovanna e le afferrava una mano. "Oh, quando sarete guarita! Galopperemo tutt'e tre nei dintorni. Sarjbello! Cara, siete contenta?" Con un gesto agile rialzz la coda della sua amazzone, poi balzzin sella con una leggerezza d'uccello mentre suo marito salutava goffamente e poi inforczla sua grossa bestia normanna dando subito l'idea di un centauro. Quando furono scomparsi alla svolta del cancello, Giuliano sembrava incantato e ripeteva: "Che gente simpatica! Ecco una conoscenza che ci sarjutile." Anche Giovanna era contenta, senza quasi rendersene conto. "La piccola contessa rapisce. Su , sento che le vorrzbene; ma il marito ha l'aria di un bruto. Dove li hai conosciuti?" "Per caso, dai Briseville" disse egli fregandosi le mani. "Su , il marito pare un po' rozzo. E' un cacciatore accanito; ma qnobile davvero, quello lu ." Il pranzo fu quasi allegro, come se un benessere fosse penetrato in famiglia. E non avvenne nulla di nuovo fino agli ultimi giorni di luglio. Un martedusera, mentre erano seduti sotto il platano intorno a un tavolino di legno con bicchierini e liquori Giovanna impalliduimprovvisamente, mandzun grido, si copru il ventre con le mani... Un dolore rapido, acuto l'aveva colpita come a tradimento, ma per andarsene subito. Dopo una diecina di minuti, altro spasimo: pilungo, benchpmeno gagliardo. Potpa gran fatica rientrare, portata quasi di peso dal marito e dal padre. Il tragitto dal platano alla sua stanza le parve interminabile; e gemeva quasi senza accorgersene, chiedendo di fermarsi, di sedere, accasciata, spossata da quell'intollerabile sensazione di peso nel ventre. La gravidanza era ancora immatura, tanto qvero che il parto non era previsto che per la fine di settembre; ma temendosi un caso disgraziato, fu attaccata la carrettella e papjSimone partudi galoppo in cerca del medico. Il medico, arrivato verso mezzanotte, riconobbe subito a colpo d'occhio i sintomi del parto prematuro. Nel letto, le sofferenze di Giovanna si erano un po' calmate, ma la poveretta sentiva ora un'angoscia, una debolezza disperata di tutto il suo essere, qualcosa come il presentimento, il tocco misterioso della morte. E' adesso, qadesso che essa ci sfiora cosuda vicino, che col suo soffio ci raggela il cuore. La stanza era piena di gente. Mammina soffocava abbandonata su una poltrona; il barone, con mani tremanti, correva da tutte le parti, portava oggetti, parlava col medico, perdeva la testa; Giuliano camminava in lungo e in largo; preoccupato di fuori, calmissimo dentro; e la vedova Dentu si teneva in piedi vicino al letto, con nel volto un'espressione di circostanza, di donna esperta che non si stupisce proprio di niente. Infermiera, levatrice, vegliatrice di morti, ricevendo quelli che vengono al mondo, raccogliendo il loro primo vagito, lavando con la prima acqua la loro tenera carne, avvolgendola nei primissimi lini, ascoltando poi con la stessa imperturbabilitjl'ultima parola, l'ultimo brivido di quelli che se ne vanno, facendo loro l'ultima toletta, bagnando con l'aceto i loro corpi distrutti, avvolgendoli nell'ultimo drappo, ecco, su , la vedova Dentu si era chiusa in un'indifferenza ben resistente a tutti i casi della nascita e della morte. La cuoca Liduina e zia Lisetta rimanevano nascoste discretamente dietro la porta del vestibolo. Di quando in quando la malata emetteva un lamento debole debole. Per due ore intere si penszche l'avvenimento si sarebbe fatto attendere a lungo, ma verso l'alba i dolori riattaccarono con violenza, e la poveretta lascizsfuggire le prime grida dai denti serrati. E pensava senza tregua a quella Rosalu a che non aveva sofferto, che quasi non aveva pianto, e a quel bambino, il piccolo bastardo, che era venuto alla luce senza spasimo, senza fatica. Nella sua disgraziata anima faceva comparazioni incessanti, malediceva il Signore senza pensare di averlo gijcreduto giustissimo, si indignava di certe colpevoli preferenze del destino, delle menzogne delittuose di tutti coloro che predicano l'onestj, il bene, l'amore. Talvolta la crisi era cosuviolenta che le si spegneva ogni idea. Non aveva piforza, non pivita, non piconoscenza che per soffrire. Sopraggiungeva un momento di calma, e allora non poteva distogliere il suo sguardo da lui, da Giuliano; e un altro dolore, morale questo, l'angosciava ricordando il giorno in cui la sua cameriera era caduta ai piedi dello stesso letto col suo piccino tra le gambe: il fratello dell'esserino che ora le lacerava cosubarbaramente le viscere. Oh, ricordava bene i gesti, gli sguardi, le sue parole, il suo atteggiamento di fronte a quella ragazza distesa per terra, ed ora leggeva in lui come se i suoi pensieri fossero scritti nei suoi movimenti, su , la stessa noia leggera, la stessa indifferenza, per lei come per l'altra, l'incuranza egoistica dell'uomo irritato dalla paternitj. Poi l'assaluuna convulsione spaventosa, uno spasimo cosucrudele che disse: "Muoio... sto per morire...". Allora una rivolta furiosa, un bisogno di maledire le riempututta l'anima, un odio disperato contro quell'uomo che l'aveva perduta, contro la creatura ignota che la uccideva. Armzle membra in uno sforzo supremo per gettare lontano da spquel fardello, le sembrzche il ventre le si vuotasse di colpo, e la sua sofferenza era finita. L'infermiera, il medico, curvi su di lei, la palpavano. Ecco, staccavano qualcosa; e ben presto un rumore soffocato (ricordzdi averlo gijudito) la fece trasalire, e quel piccolo grido doloroso, quel miagolio sottile di neonato le entrznell'anima, nel cuore, in tutto il suo povero corpo esausto: tese le braccia in un gesto incosciente... Ah, che gioia! Che slancio verso una felicitjtutta nuova, allora allora sbocciata! In un attimo si sentulibera, calma, felice: felice come non era mai stata. Rifioriva il suo cuore. L'anima sua rifioriva. Mamma, era mamma! Immediatamente volle vederlo, il bambino. Era nato troppo presto e non aveva capelli npunghie; ma quando vide agitarsi quella larva, quando vide aprirsi quella bocca, quando uduquei vagiti, quando tocczquell'aborto con la pelle sgualcita, tutta crespe, ma viva, allora fu invasa da una gioia irresistibile, comprese di essere salva, garantita contro ogni disperazione, sentuche non si sarebbe mai picurata del mondo perchpera questo il suo amore. Da quel momento ebbe un solo pensiero: il suo piccino. Diventzsubito una mamma fanatica, tanto piesaltata quanto piera stata delusa nel suo amore, ingannata dalle sue speranze. Teneva sempre la culla accanto al letto, passava intere giornate seduta di fronte alla finestra, dondolando la lieve culla. Fu gelosa della nutrice. Quando il piccolo essere assetato tendeva i braccini verso quel grosso seno dalle vene bluastre e coi labbruzzi si impadroniva del capezzolo bruno e grinzoso, lei guardava con tremore, pallida pallida, la calma e forte ragazza, e avrebbe voluto strapparle suo figlio, avrebbe voluto batterla, graffiare con le unghie il seno a cui beveva avidamente suo figlio. Poi volle ricamare da spcerti fini abitini, di una eleganza complicata, ma su , per abbigliarlo. E cosuil piccolino fu avvolto in un nimbo di trine, ebbe cuffie a bizzeffe, tutte belle. Non parlava piche di queste cosine: interrompeva la conversazione perchpsi ammirasse una fascia, un bavaglino, una cuffietta di squisita fattura, non badava a quel che si diceva intorno a lei, ma si estasiava su uno di questi oggetti di biancheria girandolo e rigirandolo nelle mani, per osservarlo meglio, e domandava: "Credete che sarjbello con questo?" Il barone, mammina indulgevano a quella tenerezza frenetica; ma Giuliano la pensava diversamente perchpturbato nelle sue abitudini, diminuito d'importanza dacchpera venuto quel piccolo essere, onnipotente e strillante. "E' insopportabile con quel suo marmocchio" ripeteva egli senza posa smanioso, collerico, geloso in fondo del minuscolo essere che gli rubava il posto nella casa. Era talmente "insopportabile", cioqossessionata dal suo affetto, che passava le notti seduta vicino alla culla per veder dormire il suo bimbo. Finchpil medico si accorse che si esauriva in quella contemplazione appassionata e morbosa, senza mai requie, si indeboliva, dimagriva e tossiva, e ordinznettamente la separazione. Giovanna si irritz, pianse, implorz; ma non si volle cedere. Ogni sera il bambino veniva portato nella stanza della nutrice, e cosula mamma si alzava di notte, a piedi nudi attirata da quella porta, da quella serratura, per sapere se dormiva, se si svegliava, se aveva bisogno di nulla. Una volta fu trovata ljda Giuliano che rientrava tardi (aveva pranzato dai Fourville) e d'allora in poi fu chiusa a chiave nella sua stanza per costringerla a restar nel suo letto. Verso la fine di agosto ebbe luogo il battesimo. Padrino, il barone; la zia Lisetta, madrina. Il rampollo ricevette i nomi di Pietro, Simone, Paolo: Paolo per l'uso corrente. Ai primi di settembre la zia Lisetta ripartusenza scalpore, e non se ne accorse nessuno, tanto la sua presenza e la sua assenza passavano ugualmente inavvertite. Una sera, dopo il pranzo, comparve il curato. Pareva un poco imbarazzato, come se nascondesse qualcosa, e infatti, dopo una quantitjdi discorsi inconcludenti, pregzla baronessa e suo marito di concedergli un breve colloquio. Se ne andarono tutt'e tre lentamente fino in fondo al grande viale, parlando animati fra loro, cosuche Giuliano, rimasto qua con Giovanna, si stupiva e si irritava di questi segreti. Poi volle accompagnare il prete che aveva preso congedo, e uscirono insieme andando incontro alla chiesa da cui veniva il suono dell'Angelus. Faceva fresco, quasi un po' freddo, e si rientrznel salone. Gijtutti sonnecchiavano un poco, quando Giuliano rientrzimprovvisamente, rosso in volto, fremente di sdegno. Sulla porta, senza pensare che Giovanna era lu , gridzverso i suoceri: "Ma vivaddio, siete pazzi a buttar via ventimila franchi per quella ragazza!" Nessuno rispose. Egli ricomincizfuribondo: "Non si dev'essere scemi fino a questo punto. Non volete dunque lasciarci un soldo?" Allora il barone si rimise dallo stupore e tentzdi fermare quell'energumeno: "Tacete. Pensate che c'qvostra moglie." "Me ne infischio" gridzGiuliano esasperato, pestando i piedi. "Lei sa bene di che si tratta: qun furto a suo danno." Giovanna, attonita, guardava senza capire. Domandzche cosa c'era di nuovo. Allora Giuliano si voltzverso di lei, la chiamza testimonio, come parte interessata, come una compagna delusa essa stessa in un beneficio sperato. Denunzizbruscamente il complotto per maritare Rosalu a, il dono della tenuta di Barville, una tenuta che valeva almeno ventimila franchi. E ripeteva: "I tuoi genitori sono pazzi, figliola mia, pazzi da legare. Ventimila franchi! Ventimila franchi! Hanno perduto la testa. Ventimila franchi per un bastardo!" Giovanna ascoltava senza emozione, senza collera, stupita essa stessa della sua tranquillitj, indifferente ormai a tutto quello che non riguardasse il piccino. Il barone soffocava e non sapeva che rispondere: finalmente, battendo i piedi, gridando: "Pensate piuttosto a quel che dite. Oh infine... infine... qrivoltante. Di chi la colpa se bisogna fare la dote a quella ragazza? Di chi qquel bambino? L'avreste voluta abbandonare, ora?" Giuliano, stupito da quella violenza, guardzfissamente il barone. Continuzin tono picalmo: "Millecinquecento franchi bastavano. Ne hanno tutte dei figlioli prima di prendere marito. Che siano dell'uno o dell'altro, che importa! Invece, se date cosuuna vostra tenuta del valore di ventimila franchi, oltre al danno che ci recate, fate conoscere a tutti quel che qsuccesso. Potevate almeno pensare al vostro nome, alla vostra posizione..." Parlava con voce severa, da uomo forte del suo diritto, della logica del suo ragionamento. Il barone, turbato da questo argomento inatteso, gli restava davanti a bocca aperta. Giuliano intuuil proprio vantaggio e concluse: "Fortunatamente, non c'qnulla di fatto. Conosco il giovane che la vorrebbe sposare. E' un brav'uomo, e con lui ci si accomoda. Me ne incarico io." E uscusenza indugio, quasi temesse il seguito della conversazione, soddisfatto del generale silenzio che era un consentimento per lui. Il barone non si poteva dar pace e gridava: "Ah, no, no, questo qtroppo!" ma Giovanna alzzgli occhi sul volto agitato del padre e rise, su , rise di quel suo riso fresco d'una volta, di quando udiva qualche stramberia: "Papj, papj, ti sei accorto? Quante volte ha ripetuto: ventimila franchi, ventimila franchi!" Mammina, pronta all'allegria come alle lacrime, ripenszalle furie del genero, alla sua indignazione, al suo rifiuto violento di indennizzare la ragazza sedotta proprio da lui, sentuche il buon umore di Giovanna le allargava il cuore, e fu squassata dal suo riso convulso che le riempiva gli occhi di lacrime. Non ci volle altro perchpil barone subisse il contagio, e allora tutt'e tre si abbandonarono all'ilaritj serena e concorde del tempo felice. "E' strano" disse Giovanna non senza sorpresa, quando si furono un poco calmati "certe cose non mi fanno pinessunissimo effetto. Lui, ormai, lo considero come un estraneo. Non mi sembra di essere sua moglie. Vedete bene che io mi diverto un mondo alle sue... alle sue... delicatezze..." E cosututt'e tre si abbracciarono, inteneriti, contenti, senza saper neppure il perchp. Ma due giorni dopo, finita la colazione, quando Giuliano era uscito a cavallo, un giovanottone dai ventidue ai venticinque, vestito di una blusa turchina nuovissima, a pieghe, bene stirata, le maniche gonfie, entrz dal cancello con aria sorniona, come se fosse stato nascosto ljdal mattino, rasentzil fossato dei Couillard, girzattorno alla casa e si avvicinzquasi sospettoso al gruppo del platano. Si levzil berretto appena si accorse di essere stato visto, e faceva gli ultimi passi con aria impacciata. Quando fu abbastanza vicino, borbottz: "Servo vostro, signor barone, madama e la compagnia." Nessuno gli parlava, e dovette ben presentarsi: "Sono Desiderato Lecoq." Chiese il barone, giacchpquesto nome non gli diceva niente: "Ebbene? Che volete?" Davanti alla necessitjdi spiegare il suo caso, il giovanotto finucol turbarsi. "Il signor curato..." balbettz, e rialzava e riabbassava gli occhi dal berretto, che teneva in mano, al tetto della casa "Il signor curato... mi ha detto due parole... per quell'affare..." e si tacque temendo di andare troppo oltre e compromettere i suoi interessi. "Quale affare?" chiese il barone senza capire. "Io non ne so nulla." L'altro allora, abbassando la voce, si decise: "L'affare della vostra cameriera... la Rosalu a..." Giovanna comprese, si alzz, si allontanzcol suo bimbo. "Venite avanti" disse il barone indicando al giovanotto la sedia lasciata allora allora da Giovanna. Il contadino sedette borbottando: "Troppo gentile..." e aspettz, come se non avesse piniente da dire. Finalmente, dopo un altro silenzio, si decise e levzgli occhi verso il cielo sereno: "Bel tempo per questa stagione... la terra ne approfitta per quello che ci hanno gijseminato..." e tacque di nuovo. Il barone si spazientue con un tono asciutto riattacczla questione: "Allora siete voi che sposate Rosalu a?" Qui l'uomo apparve alquanto preoccupato, come se lo si obbligasse a uscire dalle sue abitudini di cautela normanna. "Secondo" disse con voce pichiara, ma diffidando sempre. "Puzessere di su ... puzessere di no..." "Perbacco!" gridzil barone irritato da questo tergiversare. "Rispondete francamente. E' per questo che siete venuto, suo no? La prendete, suo no?" L'uomo, perplesso, non guardava piche i suoi piedi. "Se le cose stanno come ha detto il signor curato, la prendo; se le cose stanno come ha detto il signor Giuliano, non la prendo." "E che v'ha detto il signor Giuliano?" "M'ha detto che avrei avuto millecinquecento franchi, e il signor curato che ne avrei avuti ventimila. Sta bene ventimila, non sta bene millecinquecento." Allora la baronessa, sprofondata nella sua poltrona, si mise a ridere a piccoli sussulti davanti all'ansietj di quel tanghero. E il tanghero la guardzdi sbieco, con evidente malumore, chpnon poteva capire l'innocenza di quell'allegria, e aspettava. "Ho detto al signor curato" taglizcorto il barone per il disgusto d'un simile mercanteggiare "ho detto che avrete la fattoria di Barville vita natural durante, e che un giorno rimarrebbe al bambino. La fattoria vale ventimila franchi. Io non ho che una parola. E' fatto, suo no?" Quello sorride con un'aria tutta umile e soddisfatta e diventa perfino loquace: "Oh, allora non dico di no. Non c'era che questo contrasto. Quando il signor curato mi parlz, fui subito contento, perdinci! e poi ero contento di far piacere al signor barone, che poi mi rivedrj, mi dicevo... Non qforse vero che quando ci si obbliga, tra persone, si finisce col ritrovarsi? Ma il signor Giuliano qvenuto da me e mi ha detto che erano millecinquecento, niente di pi... Io mi sono detto: bisogna sapere, ed eccomi qua. Non dico che non avevo fiducia, ma volevo sapere. Patti chiari e amicizia lunga, no, signor barone?" Ora bisognava arrestarlo, e il barone gli chiese quando voleva fare il matrimonio. Allora quello ridiventa di colpo timido, imbarazzato, esitante. Alla fine si arrischia: "Vogliamo intanto scrivere in un pezzetto di carta?" Questa volta il barone si arrabbia davvero: "Ma, corpo d'un cane, non avete il contratto di matrimonio? Non qquello il miglior documento?" "Ma intanto... intanto" si ostinava il contadino "potremmo scrivere due righe... Ciznon nuoce, sapete..." Il barone si alzzper finirla. "Subito. Rispondete suo no. Se non la volete, ditelo. Abbiamo altri pretendenti." Fu la paura che decise l'astuto normanno, il quale tese la mano come dopo l'acquisto di una mucca: "Toccate qui, signor barone, ed q fatto. Guai a chi manca." Il barone tocczla mano, e chiamz: "Liduina" (La cuoca si affacciza una finestra). "Portate una bottiglia di vino." Bevettero per innaffiare l'affare concluso. E il giovanotto se ne andztutto contento. Giuliano ignorzquesta visita, e il contratto fu preparato in segreto. Poi, fatte le pubblicazioni, si celebrarono le nozze. Era la mattina di un lunedu . Una vicina portava il marmocchio subito dietro gli sposi, come promessa di fortuna. E nessuno ci trovzda ridire: ma sembrzpiuttosto degno d'invidia, quel Desiderato Lecoq. Con un sorriso un po' malizioso, dove non c'era neanche un po' di indignazione, la gente diceva che egli era nato con la camicia. Giuliano fece una scenata che abbrevizil soggiorno dei suoceri ai "Pioppi". Giovanna li vide partire senza troppo dolore. Ora aveva il suo Paolo: aveva il suo bambino: era felice. Capitolo 9 Giovanna si era rimessa ormai completamente del puerperio, e si penszdi restituire la visita ai Fourville e presentarsi pure al marchese di Coutelier; tanto piche Giuliano aveva comperato a un'asta pubblica una nuova carrozza, un "phaeton" a un solo cavallo, per uscire almeno due volte il mese. In una bella giornata di dicembre il "phaeton" fu attaccato, e dopo due ore di cammino attraverso la pianura normanna si cominciza discendere in una piccola valle dai fianchi boscosi, ma coltivata giin basso; finchpai campi seguirono le praterie e alle praterie una palude irta di canne: canne secche il cui fogliame dava l'idea di tanti nastri gialli che stridessero al vento. A un'improvvisa svolta della valle il castello della Vrillette si mostrzquasi di colpo, addossato da questa parte a un pendio boscoso, dall'altra immerso con tutte le mura in un grande stagno limitato in faccia da una selva di abeti che digradava per l'altro versante. Bisognzpassare su un ponte levatoio e varcare un gran portone Luigi Tredicesimo per entrare nel cortile d'onore, davanti a un elegante castello della stessa epoca, con torricelle coperte d'ardesia. Giuliano spiegava a Giovanna le varie parti dell'edificio, da esperto conoscitore, faceva insomma gli onori di casa estasiandosi a tanta bellezza. "Guarda, guarda, questo portone! Di', non ti sembra grandiosa un'abitazione come questa? Tutta l'altra facciata djsullo stagno, con un ampio scalone che giunge fino all'acqua: quattro barche aspettano in fondo ai gradini, due per il conte, due per la contessa. Laggi, a destra, dove vedi quella fila di pioppi, lo stagno finisce ed qlu , che comincia la riviera che va sino a Fpcamp. Questa regione qpiena di selvaggina, il conte qun gran cacciatore. Che residenza signorile!" S'era aperta la porta d'entrata ed ecco la contessa venire incontro, pallida, sorridente, in un abito a strascico come una castellana d'altri tempi. Sembrava proprio la "bella signora del lago" nata per quel maniero da fiaba. Quattro delle otto finestre del salone si aprivano sullo stagno e sul cupo bosco di pini che risaliva la costa di fronte. Il verde, a toni densi, rendeva profondo, austero, lugubre lo stagno, e quando il vento soffiava i gemiti degli alberi parevano i lamenti della palude. La contessa afferrzle mani a Giovanna, come a un'amica d'infanzia, e la fece sedere, le si mise vicino su una sedia pi piccola, mentre Giuliano chiacchierava, sorrideva, domestico e amabile, poichpda ben cinque mesi era tornato alle dimenticate eleganze. La contessa parlava con lui delle loro passeggiate a cavallo. Rideva un po' del suo modo di cavalcare chiamandolo: "Cavaliere Incijmpica"; rise con pigusto quando egli, per tutta risposta, la battezzz "Regina delle Amazzoni". Un colpo di fucile sparato sotto le finestre spaventzGiovanna che emise un piccolo grido. Era il conte che aveva ucciso un'alzjvola. Sua moglie lo chiamz. Uno sbattere di remi, l'urto della barca contro la pietra, ed egli comparve, gigantesco, in tenuta da caccia, seguito da due cani tutti bagnati, rossastri come lui (si accovacciarono sul tappeto davanti alla porta). In casa sua egli sembrava pidisinvolto, accoglieva con festa gli amici. Fece rimetter legna sul fuoco, ordinzche si portasse qualcosa: madera, biscotti. "Voi pranzate qui, siamo intesi?" Giovanna che non dimenticava il suo bambino oppose un rifiuto; il conte insisteva, Giovanna pure insisteva: allora Giuliano fece un gesto d'impazienza un po' brusco, cosuche lei ebbe paura di ridestare il cattivo umore, l'umore litigioso di lui, e acconsentu , sebbene torturata dall'idea di non rivedere il suo Paolo fino a domani. Fu un pomeriggio incantevole. Visitarono prima di tutto le sorgenti che scaturivano ai piedi di una roccia vellutata di muschio in un bacino limpido, smosso come da un'acqua bollente; poi la gita in barca attraverso i piccoli sentieri tagliati in una selva di canne, e il conte remava seduto fra i due cani che annusavano il vento e sollevava la gran barca a ogni tuffo di remi spingendola avanti. Di quando in quando Giovanna immergeva la sua manina nell'acqua gelata e godeva di quel senso di freddo che dalla punta delle dita le correva su su fino al cuore. Indietro, all'estremitjdella barca, restarono Giuliano e la contessa (la contessa ravvolta negli scialli) e sorridevano insieme di quel sorriso persistente della gente felice a cui la felicitjnon lascia esprimere pidesideri. La sera scendeva con lunghi brividi gelati; passavano tra i giunchi appassiti i soffi del nord. Il sole era calato dietro gli abeti; restava un cielo rosso, crivellato da piccole nubi scarlatte e bizzarre, che metteva freddo solo a guardarlo. Rientrarono nel vasto salone dove scoppiettava un fuoco gigante. Una sensazione di calore e di benessere rendeva allegri anche prima di varcare quella porta. Tanto q vero che il conte, divenuto gaio, afferrzla moglie fra le sue braccia d'atleta e, sollevandola fino alla sua bocca, come avrebbe fatto d'un bimbo, le scocczsulle guance due bacioni di brav'uomo soddisfatto. Giovanna sorrise e guardzcon simpatia quel buon gigante mascherato da orco, con quei baffi, e pensava: "Come ci si inganna sempre... e su tutti!". Ma quando girzquasi involontariamente lo sguardo, vide Giuliano in piedi nel vano della porta, terribilmente pallido, con gli occhi fissi sul conte. Preoccupata, gli si avvicina, chiede sottovoce: "Ti senti male? Che hai?" "Nulla" egli rispose quasi indispettito. "Lasciami tranquillo. Ho preso freddo." Quando passarono in sala da pranzo, il conte chiese il permesso di lasciare entrare i suoi cani, e i cani balzarono quasi subito e gli sedettero ai lati. Ogni tanto il padrone dava loro qualche boccone, carezzava le lunghe orecchie morbide come la seta, e le due bestie allungavano la testa, dimenavano la coda, fremevano di gioia, di qua e di ljdel padrone. Dopo pranzo, siccome Giovanna e Giuliano si disponevano a partire, il signor di Fourville li arrestz, li trattenne perchpassistessero a una pesca "alla fiaccola". E cosuvolle che gli ospiti e la contessa si collocassero sullo scalone che dava sull'acqua, poi scese in barca con un domestico che aveva in mano una rete e una torcia accesa. La notte era chiara e frizzante sotto un gran cielo seminato d'oro. La torcia rifletteva sull'acqua strisce di fuoco mobili e strane gettando bagliori danzanti sulle canne, illuminando tutta la distesa dei pini. Improvvisamente, avendo la barca virato, un'ombra colossale, fiabesca, un'ombra di uomo si drizzzsu quell'orlo rischiarato del bosco, e la testa sorpassava gli alberi, si perdeva nel cielo, e i piedi sprofondavano ginello stagno. Poi l'essere smisurato solleva le braccia come per prendere le stelle, e queste braccia immani si drizzano bruscamente e ripiombano, e si sente insieme un piccolo sciabordu o di acqua percossa. La barca vira di nuovo debolmente e il prodigioso fantasma sembra correre lungo il bosco, ora penetrato di luce e poi sprofonda nell'orizzonte invisibile, per ricomparire meno grande, ma delineato pinettamente, con tutti i suoi movimenti, sulla facciata del castello. "Gilberta, ne ho otto!" avverte la grossa voce del conte. I remi battono l'onde. Ora la vasta ombra rimane in piedi immobile sul muro, diminuendo a poco a poco di larghezza e d'altezza, la testa sembra discendere, il corpo restringersi, e quando il signor di Fourville risale lo scalone, sempre seguito da quello della torcia, l'ombra qridotta alle proporzioni della sua stessa persona, e ne rifji movimenti. Ecco: egli ha in una rete otto grossi pesci che guizzano... Quando Giovanna e Giuliano si rimisero in cammino bene avvolti nei mantelli e nelle coperte prestate, disse quasi involontariamente Giovanna: "Che brav'uomo quel gigante!" "Su " ammise lui che guidava "ma non sa contenersi davanti alla gente." Otto giorni dopo, visita ai Coutelier, che passavano per la prima famiglia nobile della provincia. Il loro dominio di Reminil confinava col grosso borgo di Cany. Il castello nuovo, fabbricato sotto Luigi Quattordicesimo, era nascosto in un parco magnifico circondato da mura: da un'altura si vedevano i ruderi dell'antico castello. Servi in livrea fecero entrare i visitatori in una sala imponente che aveva nel mezzo una specie di colonna con sopra un'immensa coppa di Sqvres, e nello zoccolo, dietro il suo cristallo, una lettera autografa del sovrano che invitava il marchese Leopoldo Giuseppe de Varneuville de Rollebosc de Coutelier a ricevere il dono regale. Giovanna e Giuliano osservavano questa immensa coppa di Sqvres quando entrarono marchese e marchesa. La dama era incipriata: amabile di proposito e manierosa per il desiderio di sembrare condiscendente: lui, un grosso personaggio dai capelli a spazzola, bianchi, metteva nei gesti, nella voce, in ogni atteggiamento, un'alterigia, un sussiego che diceva come egli fosse contento di sp: insomma gente cerimoniosa il cui spirito, non meno dei sentimenti e delle parole, sembrava sempre sui trampoli. Parlavano sempre loro, senza attendere la risposta, con un'aria d'indifferenza, con sorrisi poco benevoli, come se, ricevendo la piccola nobiltjdei dintorni, compissero una funzione imposta loro dalla nascita. Giovanna e Giuliano, sopraffatti, si sforzavano di piacere, ma non sapevano rimanere e non trovavano il modo di andarsene, finchpla marchesa stessa pose fine alla visita spezzando la conversazione al punto giusto, come una regina che, molto garbatamente, congedi. Nel ritornare a casa, Giuliano disse: "Se credi, limiteremo anche le visite. Per me sono sufficienti i Fourville." E Giovanna fu di questo parere. Passava molto lentamente il dicembre, mese cupo, buco nero in fondo all'anno: ricominciava la solita vita casalinga. E Giovanna non si annoiava, Giovanna era tutta presa da quel piccolo Paolo che Giuliano guardava invece di traverso, con aria inquieta e scontenta. Spesso, la madre quando teneva fra le braccia il suo pargolo e lo vezzeggiava con la frenesia di tenerezze che le donne hanno sempre pei figli, lo presentava al padre e diceva: "Ma bacialo dunque! si direbbe che non gli vuoi bene!" e lui sfiorava appena, con disgusto, la fronte glabra del piccolo, poi descriveva un arco con tutto il suo corpo quasi per evitare il moto incessante di quelle manine grinzose, e se ne andava via subito poichpnon sapeva vincere, forse, una ripugnanza istintiva. Il sindaco, il medico e il curato venivano a pranzo di tanto in tanto, ma era coi Fourville che si stringevano sempre piforti legami, Il conte, poi, sembrava adorare il bambino! Lo teneva sulle ginocchia durante tutta la visita; ed anche per interi pomeriggi; e allora lo maneggiava delicatamente con quelle sue grosse mani di colosso, gli solleticava la punta del naso co' suoi lunghi baffoni o lo abbracciava con un vero slancio di passione, come fanno le mamme. Soffriva della sterilitjdi sua moglie. Marzo fu chiaro, asciutto, quasi dolce. La contessa Gilberta riparlzdi passeggiate a cavallo, di quelle passeggiate che avrebbero fatto tutt'e quattro insieme. Giovanna, un po' stanca delle lunghe serate, delle lunghe notti, dei giorni uguali e monotoni, consentiva lietamente ai progetti, e cosupreparzla sua amazzone, e fu lo svago di una settimana. Poi, le escursioni. Essi andavano sempre a due a due, avanti la contessa e Giuliano, cento passi indietro il conte e Giovanna. Il conte e Giovanna parlavano tranquillamente come due amici, poichp erano diventati amici davvero nel contatto delle loro anime oneste, dei loro semplici cuori; mentre quegli altri due parlavano sottovoce o ridevano con improvvisa violenza o si guardavano come se volessero dirsi con gli occhi cizche non si dicevano con le labbra oppure si slanciavano al galoppo, come sospinti dall'idea di fuggire: su , su , lontano, pilontano ancora... Poi Gilberta parve irritabile; la sua voce stridula, portata dal vento, giungeva talvolta agli orecchi della coppia che seguiva a cavallo, con picalma. "Mia moglie non si alza sempre di buon umore" diceva allora il conte a Giovanna. Una sera, mentre tornavano verso casa, la contessa eccitava la sua cavalla e la speronava e poi la tratteneva con bruschi strattoni, e il suo compagno le ripeteva ogni volta: "Vi prenderjla mano, badate!". La contessa rispose: "Meglio cosu . Non qcosa che vi riguardi" e il tono fu cosunetto, cosuduro che le parole risuonarono intorno come sospese nell'aria. L'animale scalpitava, si impennava, la bava alla bocca. "Sta' in guardia, Gilberta" gridzil conte inquieto con tutta la forza de' suoi polmoni. Allora, come a sfidarlo, in uno di quegl'impeti nervosi di donna che nessuno arresta, la contessa colpula sua bestia, la colpufra le orecchie col frustino, cosuche essa comincizad impennarsi furiosa, battpl'aria con le zampe anteriori, si abbassze si riprese con la potenza di un balzo e fini col lanciarsi nella pianura come a divorarla. Da prima oltrepasszuna prateria, poi si precipitzsul coltivato sollevando nembi di terra umida e grassa, e continuzcosurapida che amazzone e cavallo si distinguevano appena. "Contessa! Contessa!" chiamava disperatamente Giuliano rimasto al suo posto. Ma il conte dietro grugnu ,e curvandosi sulla groppa del suo pesante animale, lo gettzavanti con la spinta di tutto il suo corpo; e lo lancizcon tal impeto, eccitandolo, trascinandolo, spaventandolo con la voce, il gesto, lo sprone, che l'enorme cavaliere parve portare la gran bestia fra le sue cosce e sollevarla a volo. Giovanna vedeva laggiin fondo i due profili, quello della moglie e quello del marito, fuggire, diminuire, impallidire cosu come si vedono due uccelli che si inseguono perdersi all'orizzonte, svanire. Giuliano si avvicinz sempre di passo, mormorando in tono di dispetto a Giovanna: "Credo che quella sia pazza, oggi." E mossero entrambi dietro i loro amici, nascosti in quel momento da un'ondulazione della pianura. Dopo un quarto d'ora, li videro tornare e li raggiunsero. Il conte, rosso in volto, trionfante, sudato, beato, teneva nel suo pugno irresistibile il cavallo fremente di sua moglie che, pallidissima, con un volto tutto dolente e convulso, si appoggiava con una mano alla spalla di lui quasi stesse per svenire. Giovanna comprese quel giorno che il conte amava perdutamente sua moglie. Per tutto il mese seguente la contessa fu allegra come non mai. Veniva ai "Pioppi" anche pispesso, rideva di continuo, abbracciava l'amica con veri slanci di tenerezza; si sarebbe detto che un misterioso fascino fosse disceso sulla sua vita; e il suo gigante, beatissimo anche egli, non cessava mai di guardarla, toccarla, toccarle la mano, il vestito, in un continuo accrescimento d'amore. "In questo momento, siamo felici" diceva una sera a Giovanna. "Mai, mai Gilberta qstata cosugentile con me. Non qpidi cattivo umore, non qmai in collera, mai... Mi ama... mi ama, sento che mi ama. Prima d'ora non ne ero sicuro..." Anche Giuliano sembrava cambiato: piallegro, meno irritabile. Forse che la comune amicizia aveva portato la pace e la gioia in ciascuna delle due famiglie? La primavera fu stranamente calda e precoce. Dall'inizio del dolce mattino fino alla calma e tiepida sera, il sole faceva germogliare la superficie della terra; ed era come un brusco e potente rigoglu o di tutti i giorni e, nello stesso tempo, una di quelle irresistibili ondate di vita, uno di quegli ardori di rinascita che la natura sfoggia talvolta in certe annate privilegiate che farebbero credere al ringiovanire del mondo. Questo fermento di vita turbava vagamente Giovanna che era capace di provare un languore improvviso davanti a un fiorellino nato fra l'erba, o malinconie deliziose, ore di mollezza fantastica. Poi l'assalivano perfino i ricordi teneri teneri dei primi tempi d'amore, benchpsapesse bene che non poteva venir dal suo cuore un nuovo moto d'affetto per lui (oh, tutto cizera finito, finito), ma la sua carne, accarezzata dall'aria, penetrata dai profumi della primavera si turbava come incitata, istigata da una voce invisibile, morbida. Si compiaceva di essere sola, si abbandonava sotto il tepore del sole, si sentiva percorsa da sensazioni vaghe e serene che le lasciavano inerte il cervello. In uno di questi assopimenti, una volta, le tornzfulmineo il ricordo del vano soleggiato, che si apriva nel denso fogliame del boschetto di etretat, ljdove per la prima volta aveva sentito fremere il suo corpo accanto all'uomo che amava (allora lo amava), ljdove aveva balbettato per la prima volta il primo desiderio del cuore, dove aveva creduto di trasformare le speranze in vita vera. Rivedere il piccolo bosco farvi una specie di pellegrinaggio sentimentale e superstizioso come se il ritorno a quel luogo potesse variare il corso dei suo destino! Giuliano non c'era, nplei sapeva dove fosse andato fino dall'alba. Fece dunque sellare il piccolo cavallo bianco dei Martin, di cui si serviva qualche volta, e partu . Era una di quelle giornate tranquille in cui nulla si muove foglia o filo d'erba, e tutto resta immobile per sempre, come se il vento fosse per sempre caduto: sembrava perfino un'immobilitjsenza insetti. Veniva insensibilmente dal sole una calma ardente e suprema e come avvolta in aereo vapore; e lei se ne andava felice, beata, al lento passo del suo ronzino, alzando gli occhi di tanto in tanto verso una nuvoletta bianchissima, non pigrossa di un ciuffo di cotone, fiocco di vapore sospeso, dimenticato lass, rimasto solo in mezzo all'azzurro. Discese nella valle che finiva nel mare, tra quegli archi della scogliera che si chiamavano porte di etretat, e a lenti passi giunse fino al bosco. La luce pioveva tra il verde ancora coperto di brina. Giovanna cercava quel luogo senza trovarlo, errando per quei piccoli sentieri, finchpimprovvisamente, traversando un viale pilungo, vide laggiin fondo due cavalli da sella legati ad un albero. Li riconobbe: Gilberta, Giuliano! La solitudine cominciava a pesarle ed ora si allietzdi quell'incontro insperato mettendo al trotto il suo cavallino. Quando raggiunge le due bestie pazienti e come abituate alle lunghe soste, Giovanna chiama: nessuno risponde. Un guanto di donna, due frustini sull'erba calpestata. Dunque si sono seduti qui! Poi si sono allontanati, lasciando i cavalli... Aspetta un quarto d'ora, venti minuti, mezz'ora, senza capire che cosa mai possano fare quei due. Scesa di sella, si appoggia al tronco di un albero e resta immobile; due uccellini, che non l'hanno vista, si posano sull'erba, vicinissimi a lei: uno si agita e saltella intorno all'altro con le ali sollevate e vibranti, bisbigliando e movendo il capino, ed ecco i due pennuti si accoppiano. Pensa Giovanna, sorpresa, come se non sapesse quella cosa: "E' vero, su , primavera". Ma le balena un pensiero, un sospetto; guarda di nuovo il guanto, i frustini, i due cavalli abbandonati: balza subito in sella con la voluttjdi fuggire. Via, via, di galoppo, verso i "Pioppi"! La mente lavora, ragiona, riunisce i fatti, riavvicina le circostanze... Oh, come non ha capito prima? Come non ha capito mai nulla? Le assenze di Giuliano, il suo ritorno alle passate eleganze, il suo carattere pacificato. E poi, gli scatti nervosi di Gilberta, le sue smorfie esagerate, quella specie di beatitudine in cui la piccola contessa viveva da qualche tempo, quella beatitudine che mandava il marito in solluchero... Giovanna rimise al passo il cavallo, perchple serviva riflettere molto e il passo veloce le disturbava le idee. Ma, passata la prima emozione, ecco, il suo cuore calmo. Senza odio, senza gelosia, ma colmo questo su- di disprezzo. No, non pensava a Giuliano (poteva stupirsi ancora di lui?), ma era il duplice tradimento della contessa, della sua amica, che la nauseava. Tutti erano dunque mentitori, perfidi e falsi? Gli occhi le si riempirono di lacrime. Si piangono pure le illusioni, talvolta, con la tristezza con cui si piangono i morti... Cosudecise di fingere, di non saper nulla, di chiudere il cuore agli affetti correnti, di non amare piche i genitori e il piccino, di sopportare gli altri con calma. Appena rientrata in casa, si gettzsul suo figliolino, lo portznella sua stanza, lo tenne stretto al seno, interminabilmente, senza saziarsene. E quando Giuliano tornzper il pranzo, amabile, sorridente, pieno d'intenzioni cortesi, chiese perfino: "Babbo e mammina non vengono dunque ai Pioppi quest'anno?" lei gli fu cosugrata di questa gentilezza che quasi quasi gli perdonzla recente infedeltje non ebbe piche quel desiderio: rivedere le due persone che nel cuore venivano subito dopo il bambino, e passzla serata a scrivere una lettera in cui chiamava, reclamava i suoi cari. Essi annunziarono il loro arrivo per il 20 maggio. E si era ancora al 7! Giovanna li aspettava con impazienza sempre crescente, come se provasse, oltre all'affetto filiale, un bisogno nuovo di mettere il suo cuore a contatto di cuori virtuosi, parlare a viso aperto con gente proba, libera da ogni infamia, gente scrupolosa e perfetta di cui non si potesse rimproverare un tristo desiderio, un cattivo pensiero. Perchpcizche sentiva adesso pivivamente era l'isolamento della sua coscienza onesta in mezzo a tutte quelle coscienze corrotte; e benchpavesse imparato a dissimulare, benchpcontinuasse a ricevere la contessa con la mano tesa e col sorriso sulle labbra, questa sensazione di vuoto e di disprezzo cresceva a dismisura, fino ad avvolgerla tutta, e ogni giorno si aggiungevano le brutte novitjdel paese ad aumentarle il disgusto che era come una disistima dell'umanitj. Ecco: la figlia dei Couillard aveva avuto un bambino, ma si sarebbe presto sposata. La serva dei Martin, quell'orfanella, era incinta: un'altra vicina che non aveva pidi quindici anni, era incinta: e c'era anche una vedova incinta, quella disgraziata "Pillacchera", cosuchiamata per il suo sudiciume. Ogni tanto si veniva a sapere di una nuova gravidanza, della scappatella di una ragazza, di una contadina maritata e madre di famiglia, di qualche ricco e facoltoso fittavolo. Quell'ardente primavera sembrava avesse sconvolto insieme la linfa degli uomini e quella delle piante. Giovanna restava confusa, sbalordita, piena di ripugnanza e quasi d'odio per questa grande sconcezza della natura, anche perchpi suoi sensi erano spenti e solo il cuore ferito e l'anima intenerita parevano ancora un po' mossi dagli aliti tepidi e fecondatori, tanto che si esaltava senza desideri e si appassionava d'ideale, immunizzata dalle necessitjdella carne. L'accoppiamento degli esseri la indignava ormai come una cosa contro natura, e il suo rancore per Gilberta non era perchple avesse sedotto il marito, ma perchpera caduta nel fango universale, lei, lei, che non era della razza dei contadini dove i bassi istinti predominano. Come dunque aveva potuto darsi alla maniera dei bruti? Il giorno stesso in cui dovevano arrivare i due vecchi Giuliano ravvivzle sue ripugnanze raccontandole allegramente, come cosa naturalissima e divertente, che ieri mattina il fornaio, avendo udito rumore nel forno, e non era giorno di cottura, aveva pensato di sorprendere un topo e aveva trovato invece sua moglie che, naturalmente, "non infornava del pane". "Il fornaio tappzl'apertura, di modo che per poco quei due non sono morti soffocati ljdentro. Ed qstato il figlio minore ad avvertire i vicini, avendo visto sua madre entrare nel forno. Ci fanno mangiare del pane d'amore quei briganti lj" aggiungeva, divertito, Giuliano. Giovanna non osava pitoccare il pane. Quando la carrozza di posta si fermz davanti alla gradinata e si affaccizallo sportello il viso beato di suo padre, Giovanna non potp nascondere una emozione profonda, un impetuoso slancio d'affetto, un'espansione ardente dell'anima. Ma restzcolpita, quasi si sentuvenir meno, allorchpvide mammina. Invecchiata! Invecchiata di dieci anni in sei mesi. Le sue enormi guance ricadevano flosce, imporporate, quasi gonfie di sangue; lo sguardo sembrava ormai spento; la poveretta non poteva muoversi pise non sostenuta sotto le braccia; e la pena, la pena di quella respirazione sempre pidifficile, sempre pifaticosa, che sibilava! Il marito l'aveva sott'occhio ogni giorno e non si era accorto di tanta decadenza, cosuche quando la poveretta si lamentava di quel suo soffocamento continuo, di quella sua crescente pesantezza, egli rispondeva invariabilmente che "l'aveva conosciuta sempre cosu ". Giovanna, dopo averli accompagnati nella loro stanza andza piangere nella sua, smarrita, sconvolta. Poi volle vedere suo padre da solo, e gli si gettzsul petto con gli occhi pieni di lacrime. "La mamma, la mamma! Com'qcambiata! Che ha? Dimmi tu che ha!" Egli era rimasto sorpreso. "Credi?... Che idea? Ma no... Io che non l'ho mai lasciata, ti assicuro che non la trovo male, oh, proprio per niente. Sempre qstata cosu ." La sera Giuliano disse a sua moglie: "Tua madre ha una gran brutta cera. Ho paura che... ". E poichpGiovanna scoppiava in singhiozzi, egli si impazientusubito. "Andiamo, andiamo, non dico mica che sia agli estremi. Tu sei sempre la grande esaltata. Si capisce che tua madre sia cambiata: ql'etj." In capo a otto giorni Giovanna era gijtranquillizzata. Aveva fatto l'abitudine alla fisionomia di sua madre, e cosuforse respingeva i suoi timori come si respingono le paure, le ansietj, le apprensioni, per una specie d'istinto egoista, per un bisogno naturale di serenitjdello spirito. La baronessa, ormai impotente a camminare, usciva tutti i giorni per una mezz'oretta; non pi. Quando aveva percorso una sola volta il "suo viale", rinunziava a muovere un altro passo e voleva sedere sulla "sua" panca; quando poi si sentiva incapace di finire la passeggiata diceva invariabilmente: "Fermiamoci. La mia ipertrofia oggi mi tronca le gambe." Non rideva pi. Le cose che l'anno prima l'avrebbero fatta sussultare, ora non le strappavano che un lieve sorriso. Ma la vista era buona e le permetteva di consumar le giornate a rileggere "Corinne" e le "Meditazioni" di Lamartine: poi voleva che le portassero il cassettino dei "ricordi", e si vuotava in grembo le vecchie lettere care al suo cuore, appoggiando il cassetto sulla sedia vicina, per rimetterle dentro a una a una, le sue dolci "reliquie", dopo averle cosuripassate. Quando era sola, proprio sola, ne baciava qualcuna come si baciano - di nascosto - i capelli dei morti che si sono molto amati. Talvolta Giovanna, entrando improvvisamente, trovava mammina che piangeva. Piangeva le sue tristi, povere lacrime. "Che hai, mammina?" "Sono le mie reliquie che mi fanno piangere" rispondeva mammina con un lungo sospiro. "Si risvegliano delle cose... delle cose che erano tanto belle e che non sono pi. E poi ci sono delle persone a cui non si pensava affatto e che un giorno si ritrovano come se risuscitassero. Si ha l'impressione di vederle, di sentirle parlare... Che effetto! Un effetto spaventevole: lo proverai pitardi, figliola." In quei momenti di malinconia sopraggiungeva qualche volta il barone, e diceva: "Senti, Giovanna. Brucia le tue lettere, quelle di tua madre, le mie, brucia, brucia. Non c'qniente di peggio, quando si q vecchi, che rimettere il naso nella propria giovinezza." Ma Giovanna invece conservava la sua corrispondenza, preparava la scatola delle "reliquie", obbedendo a una specie d'istinto ereditario, di sentimentalismo fantastico, benchp, in veritj, fosse tanto diversa da sua madre. Il barone, dopo qualche giorno, dovette assentarsi per un suo affare, e partu . Stagione incantevole! Le notti dolcissime, formicolanti di stelle, succedevano alle tiepide sere, le sere calme ai giorni luminosi, i giorni luminosi alle aurore che sfolgorano. Mammina si sentiva gijmolto meglio; Giovanna aveva gijdimenticato gli amori di Giuliano e Gilberta ed era poco meno che felice. Tutta la campagna era fiorita e profumata e il gran mare, tranquillo sempre, risplendeva sotto il sole, dall'alba al tramonto. Giovanna, un pomeriggio, prese Paolo fra le braccia e se ne andzper i campi. Guardava ora suo figlio, ora l'erba screziata di fiori lungo la strada, e si lasciava portare da una felicitj senza freno, baciando di continuo il bambino oppure lo stringeva appassionata o anche si sentiva accarezzare da quella brezza profumata della campagna e le sembrava di venir meno, di perdersi come in un infinito benessere. E sognzl'avvenire di lui. Che sarebbe mai diventato il piccino? Ora lo voleva un grand'uomo, un uomo famoso, potente. Ora lo preferiva invece umile umile, che rimanesse presso di lei, devoto, tenero, le braccia sempre aperte a mammina. Quando lo amava col suo egoismo di madre, pretendeva che restasse suo figlio, null'altro che suo figlio: quando lo amava con la sua intelligenza appassionata, aspirava diventasse, nel mondo, qualcuno. Lo guardava, seduto sulla riva di un fosso. Le sembrava di vederlo per la prima volta. E sbigottuimprovvisamente, sbigottual pensiero che quell'esserino sarebbe diventato grande, che avrebbe camminato con un passo fermo, avrebbe avuto la barba, avrebbe avuto un vocione. Da lontano qualcuno chiamava. Sollevzla testa. Oh, era Mario. Penszche egli annunciasse una visita ai "Pioppi" e si alzzcontrariata mentre il ragazzo che giungeva a spron battuto gridava: "Signora, la signora baronessa sta male." Ebbe un'impressione come d'acqua fredda che le scendesse giper la schiena. Sbalordita, quasi correndo, si avviz. Di lontano vide un crocchio di gente sotto il platano, allora si slancize fu quando, apertosi il gruppo, vide sua madre stesa a terra, con due guanciali che le sostenevano il capo. Faccia nera, occhi chiusi; e quel petto che da venti anni ansava non si muoveva pi. La nutrice tolse pronta il piccino alle braccia materne e lo portzvia. Giovanna domandz, quasi violenta: "Che qsuccesso? Com'qcaduta? Subito, a chiamare il medico." Ma, volgendosi, scorse il curato, chiamato da non si sa chi, che offriva i suoi servigi, si preparava rimboccando le maniche della sua tonaca. Ma l'aceto, l'acqua di colonia, le frizioni, niente serviva. "Bisognerebbe spogliarla e metterla a letto" avvertuil prete. Il fattore Giuseppe Couillard era lu , e anche papjSimone e Liduina. Aiutati dall'abate Picot, essi decisero di trasportare il corpo della baronessa; ma non appena l'ebbero sollevato, la testa si rovescizall'indietro e il vestito subuun largo strappo, tanto era pesante e difficile a muovere. Giovanna si mise a gridare inorridita, e il corpo enorme inerte fu riadagiato per terra. Allora si pensza una poltrona del salone: sederla sulla poltrona, sollevarla cosu . Passo a dopo passo salirono la gradinata, poi la scala, ecco la sua stanza, il suo letto, e la depositarono sul letto. Ma qui la cuoca non riusciva a spogliarla da sola, ed ecco farsi avanti al momento giusto, venuta improvvisamente, come il prete, la vedova Dentu: forse che l'uno e l'altra, secondo il pensiero dei domestici, avevano sentito l'"odore della morte"? Giuseppe Couillard partua spron battuto in cerca del medico mentre il prete pensava all'olio santo, ma l'infermiera che la sapeva lunga gli disse una cosina all'orecchio: "Non disturbatevi, signor curato. E' passata." Giovanna, come pazza, implorava, non sapeva che fare, non sapeva che tentare, cercava ancora nella sua povera testa un rimedio. Il curato, a ogni buon conto, brontolzl'assoluzione. E per due ore si aspettzdavanti a quel corpo inanimato, violaceo; e Giovanna aspettzsinghiozzando, in ginocchio, divorata dal dolore e dall'ansia. Finchpla porta si aprue il medico apparve, e le sembrzche portasse la salute, la consolazione, la speranza, e gli si slancizcontro balbettando tutto quel che sapeva. "Passeggiava come tutti gli altri giorni... stava bene... quasi benissimo... aveva preso un brodo e due uova a colazione... qdivenuta nera com'qadesso... e... e non si qpimossa... abbiamo fatto di tutto per rianimarla... di tutto..." Tacque, colpita da quel piccolo cenno che l'infermiera aveva fatto al sopraggiunto: forse... forse per dire che tutto era finito... finito? Rifiutzdi capire, si volse ancora al medico, cocciuta: "E' grave? Credete che sia grave?" Finalmente il medico dice: "Temo purtroppo che... che sia finito... finito... Bisogna farsi coraggio, un gran coraggio..." Giovanna aprule braccia e si gettzsul corpo di sua madre. Intanto Giuliano rientrava. Egli restzcosu , senza un grido di dolore e di sconforto apparente, ma piuttosto stupito, anzi contrariato, e preso troppo alla sprovvista per assumere un contegno di circostanza! Non seppe che dire: "Me l'aspettavo... sentivo che la fine era prossima... e cerczun fazzoletto, si asciugzgli occhi, si inginocchiz si fece il segno della santa croce, borbottzqualche cosa e, rialzandosi, volle pure che si rialzasse sua moglie. Giovanna non dava retta: si stringeva con forza al cadavere e lo baciava, cosututta sottosopra. Bisognz portarla via a viva forza. Sembrava impazzita. Dopo un'ora la si lasciztornare. Non c'era pialcuna speranza. La stanza, trasformata in camera ardente. Il prete e Giuliano parlavano sottovoce presso la finestra. La vedova Dentu si assopiva in una comoda poltrona, da donna abituata alle veglie e che si sente a suo agio ljdove qentrata la morte. Cadeva la sera. Il curato si avvicinza Giovanna, le prese le mani, cerczdi farle animo versando in quel povero cuore l'onda untuosa dei conforti chiesastici, parlzdella morta, la celebrzin termini sacerdotali, mostrandosi triste di quella falsa tristezza dei preti per i quali un cadavere rappresenta pur sempre un beneficio: infine si offrudi passar la notte pregando accanto al cadavere. Giovanna rifiutzfra i singhiozzi. No, no: voleva essere sola, assolutamente sola, in quella notte d'addio "Non qpossibile" dichiarzGiuliano facendosi innanzi "Be', allora resteremo insieme..." No, no, diceva sempre no con la testa, incapace ormai di aprir bocca. "E' mia madre" potpdire finalmente. "Voglio vegliarla da sola." Il medico intervenne. "Lasciatela fare a modo suo. L'infermiera resterjnella camera accanto. Va bene?" Il prete e Giuliano, pensando ai loro letti, acconsentirono. L'abate Picot si inginocchizancora una volta, pregz, si rialzz, uscudicendo: "Era una santa!" con lo stesso accento con cui diceva: "Dominus vobiscum". "Vuoi prendere qualche cosa?" chiese Giuliano a sua moglie con la sua voce di sempre. Giovanna non rispose. Non si era neppure accorta che egli parlasse con lei. "Faresti bene a mangiare qualcosa per sostenerti un pochino..." Ripetpcon aria smarrita: "Manda subito a chiamare papj." Egli uscuper inviare un messo a Rouen. Giovanna restzaccasciata in un dolore immobile, come se per abbandonarsi all'onda di questo disperato rimpianto avesse atteso proprio quest'ora ultima da passare con la mamma. Le ombre avevano invaso la stanza, come coprendo la morta di tenebra. La vedova Dentu girava qua e ljcol suo passo leggero, cercando, mettendo a posto, coi suoi gesti d'ombra, oggetti invisibili. Ecco: accendeva due candele, le posava sul comodino accanto al letto, su quella tovaglietta candida candida. Pareva che l'altra non vedesse, non sentisse, non comprendesse nulla. Aspettava di essere sola. Giuliano rientrz. Aveva pranzato. Di nuovo azzardz: "Proprio? Non vuoi prendere niente?" Giovanna fece segno di no con la testa. Egli si sedette con un'aria pirassegnata che triste, e rimase cosusenza parola. Tutt'e tre, non vicini, immobili sulle loro sedie, in silenzio. Poi l'infermiera cominciza sonnecchiare, russava un po', si svegliava di soprassalto. Infine Giuliano si alzz, si avvicinza sua moglie in punta di piedi. "Vuoi restar sola, ora?" "Oh, su , lasciami!" rispose lei prendendogli la mano in uno slancio involontario. "Tornerza vederti di tanto in tanto" promise Giuliano, e la bacizsulla fronte. Uscucon la vedova Dentu, che spinse la sua poltrona nella stanza vicina. Giovanna chiuse la porta, poi aprule finestre, tutt'e due. Carezza d'una sera di fienagione! Il fieno della prateria, falciato il giorno innanzi, era steso sotto la luna. Ma quella sensazione dolcissima le fece male: non era come un'ironia? Meglio ritornare presso il letto, prendere una di quelle mani fredde e inerti, guardare a lungo, a lungo la mamma... Oh, no, non era pi cosugonfia, e dormiva, dormiva placidamente come non le accadeva pida gran tempo. Le fiamme delle candele, agitate dai soffi d'aria, muovevano, diradavano ombre sul suo viso come se la facessero rivivere: ecco, ecco, si qmossa. Giovanna guardava avidamente, e quale folla di ricordi accorreva dalla fanciullezza lontana! Ecco le visite di mamma al parlatorio del convento, il gesto con cui le porge il cartoccetto dei dolci, quei piccoli particolari, piccoli fatti, piccole tenerezze, i gesti familiari, le pieghe degli occhi di quando ride, il gran sospiro soffocato di quando si mette a sedere. E ora restava lja contemplarla e ripeteva in quella specie d'intontimento: "Morta... morta..." e allora capuche cosa voleva dire questa parola. Quella donna che giaceva immobile, la mamma, mammina, madama Adelaide, era proprio morta? Non si muoverjpi, non parlerjpi, non riderjpi, non pranzerjpiseduta di fronte al papj, non dirj pi: "Buon giorno, Giannetta". Morta, morta. La inchioderanno in una cassa, la seppelliranno, e tutto q finito. Non la si vedrjpi. Ma qpossibile? Come? Lei, lei non avrjpimamma? Quel caro volto cosu familiare, un volto che si qvisto da quando si sono aperti gli occhi, un volto che si qamato da quando si sono aperte le braccia, quell'affetto cosudiverso da ogni altro, quell'essere amico, la madre, la mamma, l'essere superiore, l'essere preferito dall'anima fra tutti gli altri esseri... niente, niente: scomparso. La figliola non ha piche poche ore per contemplare quel volto, un volto immobile e senza pensiero, e poi... niente, niente: un ricordo. S'abbandona sulle ginocchia in una crisi di disperazione, torce il lenzuolo con le mani convulse, preme la bocca sulle coperte, grida: "Mamma, mamma, mia povera mamma". Le sembra di impazzire come quella notte che era fuggita attraverso la neve. Si rialza, corre alla finestra, come per rinfrescarsi, per bere un po' d'aria, aria, aria nuova, che non sia quest'aria di morte. Il mare, la landa, come riposano laggiin una pace silenziosa, e anche gli alberi, anche le erbe tagliate, sotto la soavitjdella luna! Come penetra nel cuore di lei questa dolcezza calmante, e il pianto si fa pidolce anch'esso, pisommesso... Cosusi riavvicina al letto, si siede, riprende la mano di mammina come se la vegliasse, ammalata. E' entrato un grosso insetto nella stanza, forse attirato dal lume, rimbalza contro i muri come una palla, va da una parete all'altra come impazzito. Giovanna luper lusi distrae da quel volo ronzante, alza gli occhi, non vede che un'ombra errante nel chiarore del soffitto. Non lo sente pi. Allora ecco il tictac leggero della pendola, ecco un rumore anche pipiccolo, o piuttosto un ronzu o come di insetto, quasi impercettibile. Ah! l'orologio! l'orologio di lei, di mammina, che continua a camminare nell'abito buttato su una sedia ai piedi del letto. Strana cosa! Il confronto fra la morta e quel piccolo meccanismo che non si qmica arrestato! Guarda l'ora. Le dieci e mezzo, soltanto. E la paura folle, improvvisa di questa notte da passare qui dentro, tutta, tutta! Altri ricordi, altre cose della sua vita: Rosalu a, Gilberta, tante amarezze del cuore... Tutto dunque non qche miseria, dolore, sventura, solitudine, morte. Tutto inganna, tutto mente, tutto fa soffrire e tutto fa piangere. Dove trovare un po' di riposo, un po' di gioia? Su , forse in un'altra esistenza; quando l'anima sarjlibera da questa lunga prova terrena. L'anima! Fantastica su questo mistero impenetrabile; accetta a un tratto ipotesi poetiche, le distrugge con altre ipotesi vaghe. Dov'qora l'anima di sua madre? dov'ql'anima di quel corpo immobile e gelato? Lontano, forse molto lontano. In qualche parte dello spazio? Ma dove? Evanescente come il profumo di un fiore disseccato? Vagante come un uccellino invisibile fuggito dalla sua gabbia? Richiamata a Dio? Dispersa a caso fra nuove creazioni, confusa insieme coi germi prossimi a sbocciare? Vicinissima forse? In questa stessa stanza attorno a questa carne inanimata che pure ha lasciato? Ah che paura! Le sembra a un tratto di sentirsi sfiorata da un soffio come dal contatto di uno spirito. E' una paura atroce e violenta; il cuore qtutto un rombo di battiti; non osa muoversi, respirare, voltarsi... Ah, l'insetto, l'insetto invisibile, che ha ripreso il suo volo, che sbatte sul muro e gira, gira! Rabbrividisce e poi si calma, quasi contenta di aver riconosciuto il ronzio, si alza, si volta e i suoi occhi vedono... Oh, guarda! lo stipetto con le teste di sfinge il mobile delle "reliquie"! Oh Dio, che strana idea! Se in quest'ultima veglia si mettesse a leggere - come si legge un libro di preghiere - le vecchie lettere cosucare a mammina? Non qcome compiere un dovere delicato e sacro, qualcosa di veramente filiale, qualcosa che farjpiacere a mammina, di lj? E' l'antica corrispondenza del nonno e della nonna, che non ha conosciuto. Vuol tender loro le braccia al di sopra del corpo della loro povera figliola, andar incontro a loro in questa notte funerea come se ne soffrissero anch'essi, vuol formare una specie di catena misteriosa di tenerezza tra quei morti di allora e colei che ora ora qscomparsa e lei stessa che rimane ancora di qua. Si alza, apre lo stipetto, afferra nell'ultimo cassetto una decina di quei piccoli pacchetti ingialliti: quei piccoli pacchetti cosuben legati, disposti con tanto ordine. E li depone sul letto, qui, qui, fra le braccia della morta, come per una raffinatezza del suo sentimento, e comincia a sfogliare, e legge: "Mia cara", "mia cara piccina", "cara figlietta", "mia carina", "mia figlia adorata", "mia cara bambina", "mia cara Adelaide", gli inizi delle lettere che variano secondo che erano indirizzate alla bimba, alla fanciulla, alla dama... Tutte cosupiene di tenerezze appassionate e puerili, di mille piccole cose intime, di quei grandi e semplici avvenimenti della famiglia, cosumeschini per gl'indifferenti. "Papjha l'influenza", "Ortensia (la cameriera) si qbruciata un dito", "Mangiatopi (il gatto) qmorto", "il pino a destra del cancello qstato abbattuto", "la mamma ha perduto il suo libro da messa nel ritornare dalla chiesa, ma crede che gliel'abbiano rubato"... Persone sconosciute a Giovanna; ma lei si ricorda un po' vagamente di averle sentite ricordare, una volta, laggi, nell'infanzia... S'intenerisce a tutti questi particolari che le sembrano vere e proprie rivelazioni, come entrasse improvvisamente in tutta una vita, in tutta una vita segreta, nella vita del cuore di mamma. Alza gli occhi sul corpo gelido e poi, quasi di furia, si mette a leggere ad alta voce, e legge, su , per la morta, come per distrarla, come per consolarla. E mammina sembra felice. A una a una getta le lettere ai piedi del letto, e pensa che bisogna deporle nella bara come vi si deporrebbero fiori. Scioglie un altro pacchetto. E' una scrittura nuova, questa volta. Comincia: "Non posso pifare a meno delle tue carezze, ti amo alla follia...". Niente pi; nessun nome. Volta il foglietto, senza comprendere. Pure c'ql'indirizzo: "alla signora baronessa Le Perthuis des Vauds". Apre la seconda lettera: "Vieni questa sera, appena lui sarjuscito. Avremo un'ora per noi. Ti adoro". Apre una terza lettera: "Ho passato una notte di delirio a desiderarti inutilmente. Avevo il tuo corpo fra le braccia, la tua bocca sulle mie labbra, i tuoi occhi sui miei occhi. E poi mi sentivo prendere da un tal furore che mi sarei buttato dalla finestra al pensiero che tu nella stessa ora dormivi, al suo fianco, che egli ti possedeva...". Non capisce. Che qquesto? A chi, per chi, di chi queste parole d'amore? China la testa; continua. Sempre dichiarazioni appassionate, appuntamenti, raccomandazioni di prudenza, e in fondo le parole immancabili: "Ti raccomando sopra tutto di bruciare questa lettera". Apre infine un biglietto banale, la semplice accettazione di un invito a pranzo, ma della stessa scrittura e con la firma "Paolo d'Ennemare": quello che il padre chiama ancora, parlandone, "il mio vecchio Paolo", e sua moglie qstata la piintima amica di mammina. Dubbio... certezza... Su , la mamma ha avuto un amante! Respingere, respingere quelle lettere infami come respingerebbe una bestia velenosa salitale a poco a poco sul corpo. E corre alla finestra, e piange alla finestra con grida disperate, con grida involontarie che quasi le squarciano la gola, e poi si accascia ginascondendo la faccia fra le tende perchpnessuno oda il suo dolore, la sua disperazione infinita. Un rumore di passi nella stanza accanto? Balza in piedi di botto. Forse suo padre? E quelle lettere, quelle lettere sparse sul pavimento, sul letto! Basterebbe che egli ne aprisse una. Saprebbe. Si slancia, afferra a piene mani quelle vecchie carte ingiallite, quelle dei nonni e quelle dell'amante, anche quelle che non aveva aperto, anche quelle che erano ancora nello stipetto, le getta tutte in un fascio nel caminetto, accende il fuoco con una di quelle candele. Divampa la grande fiammata, e rischiara la camera da letto, il cadavere con una luce mobile e viva, disegna in nero sul biancore del cortinaggio in fondo al letto il profilo tremolante della faccia rigida, la linea del corpo enorme sotto il lenzuolo. Quando non c'qpiche un mucchio di cenere, torna a sedersi accanto alla finestra aperta come se non osasse pirimanere vicino alla morta e si rimette a piangere con la faccia tra le mani: "Oh mia povera mamma! Povera, povera mamma!". Poi le viene un pensiero atroce. E se non fosse morta? Se non fosse che addormentata, caduta in un sonno letargico? Se a un tratto si levasse e parlasse? Se non le volesse pibene perchplei ha scoperto il segreto? No, non la bacerebbe con le stesse labbra. Non l'accarezzerebbe con l'affetto di prima. Dice che no, non q possibile, e questo pensiero la strazia. La notte si dirada, le stelle impallidiscono, qla fresca ora che precede il giorno. La luna calante si tuffa nel mare con una lunga scia di madreperla. E allora Giovanna ricorda un'altra notte passata alla finestra, quella del primo arrivo al castello. Com'qlontano! Tutto qcambiato. L'avvenire q"un'altra cosa". Ecco il cielo che si colora di rosa, di un rosa vivace, leggiadro, amoroso. Giovanna guarda, ora, sorpresa come davanti a un fenomeno, guarda quella radiosa nascita del giorno, e si chiede se q possibile che su questa terra dove sorgono simili aurore non ci sia posto npper la gioia npper la felicitj. Trasale: qla porta che si apre. "Ebbene?" chiese Giuliano. "Non sei troppo affaticata?" Negzcol capo. Si sentiva sollevata al pensiero di non essere pisola. "Adesso va a riposarti" le raccomandzsuo marito. Abbraccizdolcemente sua madre; le diede un bacio lungo, doloroso; ritornzin camera sua. La giornata trascorse nelle tristi occupazioni della casa che accoglie una salma. Il barone arrivzverso sera; pianse molto. La baronessa fu sepolta il giorno seguente. Dopo che per l'ultima volta ebbe appoggiato le sue labbra sulla fronte gelida, ed ebbe vestito mammina per l'ultima volta, ed ebbe visto chiudere il povero corpo nella bara, Giovanna si ritirz. Giungevano allora gl'invitati. Gilberta arrivzper prima e si gettzsinghiozzando fra le braccia della sua povera amica. Dalla finestra si vedevano arrivare le carrozze svoltando dal cancello: arrivavano al trotto. Voci risuonavano nel grande vestibolo; signore vestite di nero (Giovanna non le conosceva) entravano in camera. L'abbracciava la contessa di Coutelier. L'abbracciava la viscontessa di Briseville. D'un tratto si accorse che la zia Lisetta strisciava verso di lei. Oh, zia Lisetta! La strinse al petto con tenerezza, e quella quasi quasi sveniva. Giuliano entrz, chiuso in un lutto strettissimo, elegante, affaccendato, soddisfatto di quell'affluenza. Parlzsottovoce a sua moglie per domandarle un consiglio. Aggiunse confidenzialmente: "Tutta la nobiltjqintervenuta. Questa quna cosa che porta i suoi frutti." Se ne andzsalutando, via via, con gravitj, le signore. Zia Lisetta e la contessa Gilberta rimasero sole con Giovanna mentre la cerimonia funebre si svolgeva, e la contessa se l'abbracciava quasi di continuo e diceva: "Mia povera cara, mia povera povera cara!" Quando il conte di Fourville tornzper prendere sua moglie, piangeva anche lui, come se la mamma morta fosse la sua. Capitolo 10 Seguirono giorni tristissimi: i giorni tetri sospesi su una casa vuota per l'assenza di una persona scomparsa per sempre: giorni pieni di sofferenza per il continuo, implacabile incontro con i tanti oggetti che hanno subu to il contatto di lei. Ogni momento, qun ricordo che cade sul cuore e lo strazia. Ecco la sua poltrona, il suo ombrello rimasto nel vestibolo, il suo bicchiere che la cameriera non ha riposto, per dimenticanza. Ovunque si trova qualcosa lasciata luper combinazione: le forbici, un guanto, un volume le cui pagine portano i segni delle dita pesanti, cento cose, cento nonnulla, che ora hanno ben altro aspetto, ben altra espressione, perchpricordano cento piccoli fatti... E la sua voce ci perseguita: si crede di udirla, si vorrebbe fuggire non importa dove, si vorrebbe sottrarsi alla persecuzione di questa casa, e bisogna invece restare perchpaltri rimangono, altri vivono, soffrono, in questa povera casa. Giovanna era poi accasciata dal ricordo di cizche aveva saputo e scoperto nella funesta veglia: un pensiero che pesa, e il cuore infranto ormai non ne guarisce. E questa solitudine che aumenta il gravoso segreto. L'ultima illusione caduta con l'ultima fede. Poi, dopo qualche tempo anche il papjvolle andarsene, perchpaveva bisogno di muoversi, cambiar aria, evadere da questo cupo dolore in cui tutti i giorni un po' si sprofonda. E la grande casa che vedeva cosu , di quando in quando, uno dei suoi padroni, ecco riprendeva il suo ritmo. Quando lo riperdette fu per la malattia del piccino. Giovanna perse la ragione: restzdodici giorni senza dormire, quasi senza mangiare. Paolo guaru ; ma l'idea che egli potesse morire sconvolse la madre. Oh Dio, oh Dio! Che avrebbe fatto senza di lui? Che sarebbe accaduto di lei? E cosu , dolcemente, si abituzal pensiero di un altro bambino. Lo sognz; fu riassalita dal suo antico desiderio di avere intorno due cari piccoli esseri: bambino e bambina. Ma, dopo il fatto di Rosalu a, viveva separata da Giuliano, npsembrava possibile un riavvicinamento, dati i loro rapporti coniugali. Giuliano amava un'altra donna: lei lo sapeva bene, sino a fremere di ripugnanza al pensiero di nuove carezze di lui. Eppure... eppure, a queste carezze si sarebbe rassegnata, tanto la perseguitava la bramosu a di riessere madre; ma poi si chiedeva in qual modo avrebbero potuto ricominciare a dividere il talamo. Giovanna sarebbe morta d'umiliazione anzichplasciar sospettare il suo pensiero, e ormai Giuliano non si curava di lei e non vedeva in lei pila donna. Forse avrebbe rinunziato anche alla seconda maternitj, ma ecco il sogno di ogni notte: una bambina che gioca sotto il platano col piccolo Paolo! Talvolta perfino le prendeva la smania di alzarsi dal letto, di andare nella stanza di lui, cosu , improvvisamente, senza aprir bocca. Due volte arrivzfino all'uscio: tornzindietro tutt'e due le volte, col cuore angosciato, che le batteva come per vergogna. Il papjera partito. Mammina era morta. Giovanna non aveva pinessuno a cui confidarsi, a cui chiedere aiuto e consiglio. Decise allora di andare a vedere l'abate Picot, perchpsentiva che all'abate Picot avrebbe confidato il suo intimo segreto, sotto il suggello della confessione. Lo trovzche leggeva il breviario nel suo piccolo giardino che era piuttosto un frutteto. Cosu , dopo aver parlato per qualche minuto del pie del meno, Giovanna balbettznon senza arrossire: "Signor abate, vorrei... confessarmi..." Il prete si stupufino a togliersi gli occhiali, su , per guardarla meglio, e poi rise. "Oh, non dovete avere grossi peccati sulla coscienza, voi" "No, ma ho un consiglio da chiedervi" riprese lei turbandosi tutta. "Un consiglio cosu ... cosu ... difficile a dirsi che non oso... non oso chiedervelo qui ." Egli si spoglizimmediatamente della sua naturale bonarietje assunse la dignitj del suo grado. "Ebbene, figliola mia, v'ascolterznel confessionale. Venite." No, no! Lo trattenne con un'esitazione angosciosa per quella specie di scrupolo di parlare di certe cose "non belle" nel raccoglimento di una chiesa vuota "Ecco, signor curato, io posso... posso .. se volete... posso dirvi anche qui... Se andassimo a sederci laggi... sotto il chiosco?" Andarono lentamente verso quel piccolo chiosco. Lei cercava intanto le parole, le prime parole, poi, quando si sedette con lui, come se stesse per confessarsi, incominciz: "Padre mio..." esitzancora, ripetp: "Padre mio..." e non osz proseguire, sconcertatissima. "Ebbene, figlia mia" diss'egli infine per incoraggiare quell'imbarazzo "si direbbe che non osiate. Andiamo, su fatevi animo." "Padre mio" si decise Giovanna come un codardo che si slanci verso un pericolo "vorrei avere un altro bambino..." Egli non sapeva proprio che dire: non capiva. Allora Giovanna cerczdi spiegarsi, perdendo le parole, confondendosi: "Io sono sola nella vita... mio padre e mio marito non vanno d'accordo.... mia madre qmorta... e... e..." (qui rabbrividisce e abbassa la voce) "l'altro giorno poco qmancato che perdessi mio figlio... E se moriva? Che sarebbe stato di me?" Tacque. Il prete la guarda senza sapercisi raccapezzare. "Insomma" disse "venite al fatto." Lei ripeteva sempre la stessa cosa "Vorrei un altro bambino... Vorrei avere un altro bambino..." Allora egli sorrise, abituato com'era alle facezie grossolane dei contadini che non avevano riguardi con lui, e rispose crollando il capo da malizioso: "Ebbene, mi sembra che non dipenda che da voi." Giovanna alzzverso di lui i suoi occhi limpidi, onesti, e si confuse. "Ma... ma..." balbettz"voi capite che dopo quel fatto... il fatto a vostra conoscenza... della mia cameriera... capite bene che mio marito ed io viviamo separati... gij... completamente..." L'abate Picot era troppo abituato alle promiscuitje al costume libero della campagna per non stupirsi di una rivelazione come questa; ma tutt'a un tratto credette di aver intuito e guardzdi sbieco la giovane signora, tutto pieno di benevolenza e di simpatia per il suo tenero affanno: "Capisco, capisco perfettamente. La vostra... su , la vostra "vedovanza" vi pesa. Siete giovane, sana. In fin dei conti la cosa qnaturale... naturalissima..." Si rimetteva a sorridere, secondo il suo temperamento di prete di campagna, e dava certi colpettini confidenziali sulla mano a Giovanna: "E' permesso, piche permesso, dai comandamenti. L'opera della carne non sarjfatta che nel matrimonio. Voi siete maritata, no? E non certo per piantar rape." Fino allora non aveva compreso i sottintesi del parroco come il parroco non aveva compreso le esitazioni di lei; ma non appena le parve intuire, diventzrossa, tremz, si agitz, le si empirono gli occhi di lacrime: "Oh, signor curato, che dite mai? che pensate? Vi giuro... vi giuro che..." I singhiozzi la soffocavano. "Ma no, ma no" ribatteva lui, tutto sorpreso, per consolarla "non ho voluto mica addolorarvi. Non vi siete accorta che scherzavo? Non si puzdunque scherzare? Ma contate, contate su me, potete contare su me: vedrzil signor Giuliano..." Giovanna non sapeva ormai piche cosa dire. Forse bisognava anche rifiutare un intervento da riputarsi inabile e pericoloso; ma non osava pineppure questo, e scappzvia ringraziando il signor curato con un balbettu o. E cosupassarono per lei otto giorni, otto lunghi giorni di un'angosciosa inquietudine. Una sera, a pranzo, Giuliano la guardzin un modo stranissimo, con una certa piega del labbro, come una "contusione" nel sorriso, che era quasi il preannunzio del desiderio, e lei lo sapeva. C'era anche nei suoi modi una specie di galanteria lievemente ironica; e un poco pitardi camminandole a fianco lungo il viale di mammina, egli si chinzper dirle sottovoce all'orecchio: "Pare che abbiamo fatto la pace." Lei non rispose. Guardava in terra, quella specie di linea diritta, quasi invisibile, per l'erba ormai rispuntata: era la traccia del piede materno che si cancellava come si cancella un ricordo. E si sentu stringere il cuore, il suo cuore inondato di tristezza. Era cosusperduta nella vita, lontana, divisa da tutti! "Per me, non domando di meglio" riprese Giuliano. "Credevo di spiacerti, Giovanna." Il sole tramontava; l'aria era dolce. Giovanna non sapeva che cosa fosse. La opprimeva come un desiderio di pianto, un bisogno di espansione verso un cuore amico, un bisogno di abbracciare, di stringere e di confidare insieme il suo affanno. Ecco, il singulto che sale alla gola... Aprule braccia e cadde sul petto di lui per quest'altro sfogo di lacrime. Sorpreso, egli le guardava i capelli, non potendo vedere il viso che gli era nascosto sul petto, e penszche sua moglie lo amasse ancora e le depose sui capelli, presso la nuca, il suo bacio condiscendente. Rientrarono senza parlare. Giuliano la seguunella sua stanza e passzla notte con lei. Cosufurono ripresi gli antichi rapporti. Per lui erano semplicemente un dovere, che tuttavia non dispiace, lei li subiva come una necessitjdisgustosa e penosa, decisa a troncarli nettamente appena si accorgesse di essere incinta. Ma si accorse ben presto che gli amplessi di lui erano diversi da quelli d'un tempo: piraffinati, forse, ma incompleti. Oh! La trattava da amante discreto: non pida sposo tranquillo. Allora, una notte, Giovanna gli mormorzsulla bocca: "Perchpnon ti dji a me completamente come una volta?" "Perbacco" il marito ghignz"ma per non ingravidarti, carina." "Perchp?" chiese lei trasalendo. "Non vuoi piaverne, bambini?" Pareva che la sorpresa lo istupidisse: "Che? Sei pazza? Un altro bambino? Ah no davvero! Ce n'qd'avanzo di uno per strillare. E il danaro che costa. E il daffare per tutti. Ah no! Grazie, grazie." Lo prese fra le braccia, lo baciz, lo circuudi carezze, gli parlz sottovoce: "Giuliano, Giuliano, te ne supplico, fammi madre ancora una volta." Egli si irritzcome se lo avessero offeso. "Via, tu perdi la testa. Risparmiami le tue sciocchezze, da brava." Giovanna tacque, ma non si diede per vinta, e sempre piangustiata, sempre pidivorata dal suo desiderio, dalla sua idea fissa, pronta ad affrontare tutto, a osar tutto, ritornzdall'abate Picot. L'abate Picot finiva di far colazione e appariva pirosso del solito per via di quelle palpitazioni che lo tormentavano un po' dopo i pasti. Appena la vide entrare, egli espresse con un rumoroso "ebbene?" tutta la sua curiositjdi sapere che cosa aveva fruttato il suo consiglio. Risoluta, adesso, senza vergogna, senza timidezza, fece di colpo: "Mio marito non vuol pibambini." L'abate Picot si voltzverso di lei, interessato di quei misteri intimi che gli rendevano piacevole il confessionale: "O... come mai?" "Lui... lui..." spiegava Giovanna, gijun po' turbata, non ostante gli arditi propositi "lui rifiuta di rendermi madre..." Il prete capututto. Egli sapeva bene queste cose; e si mise a far domande precise e minute, con una golositjdi uomo costretto al digiuno. Poi ci penszsu brevemente, e con voce tranquilla come se parlasse del raccolto che prometteva bene, le prospettzun piano di condotta abile per mettere a posto ogni cosa: "Non avete che un mezzo, figliola mia, ed q quello di fargli credere che siete gijincinta. Egli non si controllerjpie voi rimarrete incinta davvero." "E... se non mi crede?" oszGiovanna determinata a tutto, arrossendo fino agli occhi. "Annunziate a tutti di essere incinta" insistette il curato che conosceva troppo bene le astuzie che muovono e trattengono gli uomini "ditelo a tutti, ditelo dovunque, e finirjper crederci anche lui." Aggiunse, quasi per assolversi di quello stratagemma: "E' infine il vostro diritto. La Chiesa non tollera i rapporti fra uomo e donna che allo scopo della procreazione." Giovanna seguul'astuto consiglio; e quindici giorni dopo annunziava tranquillamente la cosa al marito. Egli sussultz: "Non qvero! E' impossibile!" Indiczsubito la ragione dei suoi sospetti. "Bah" fece egli rassicurato. "Aspetta un poco. Vedrai." E domandava tutte le mattine: "Ebbene? e cosu ?". E lei rispondeva: "No, non ancora". E aggiungeva: "Sarebbe una bella delusione se non fossi incinta". Ma Giuliano finucon l'arrabbiarsi davvero, e si mostrava irritato e furioso nello stesso tempo che confessava di non raccapezzarcisi pi. "Su , su , non mi ci raccapezzo" diceva. "Se sapessi come questa cosa qaccaduta, to', vorrei m'impiccassero." In capo a un mese diffuse la notizia. Tacque solo con la contessa Gilberta, per una specie di pudore complesso e delicato. Quanto a Giuliano, non avvicinzpi sua moglie dopo la prima sfuriata, poi - benchpa malincuore - si abituza quell'idea, disse: "Eccone uno che non era stato chiesto" e riprese a frequentare la camera di sua moglie. Cosutrionfarono le previsioni dell'astuzia pretesca. Giovanna era incinta. Allora, tutta invasa da una gioia spasmodica, chiuse la sua porta ogni sera e, in uno slancio di riconoscenza verso la vaga divinitj che adorava, si votza perpetua castitj. Era felice. E si stupiva che il dolore per la morte di sua madre si fosse addolcito cosurapidamente. Non si era creduta inconsolabile, fino a ieri? Ecco, in due mesi appena la piaga si rimargina, qchiusa. Resta solo una malinconia leggera, come un tenue velo di dolore gettato sulla sua vita. Nessun altro avvenimento le sembrava possibile pi: i suoi bambini e lei che invecchia tranquilla, contenta, senza pioccuparsi di lui. Verso la fine di settembre l'abate Picot venne in visita di congedo con una tonaca nuova (non aveva ancora otto giorni di macchie) e presentzil suo successore, l'abate Tolbiac: un prete giovanissimo, magro, un po' piccolo, enfatico; ma gli occhi incavati e cerchiati di nero indicavano un temperamento violento. Al sentire che il vecchio curato veniva nominato decano di Goderville, Giovanna era stata presa da grande tristezza. Oh, come la faccia di quel brav'uomo era legata a tutti i suoi ricordi di fanciulla! Egli l'aveva sposata, aveva battezzato Paolo, aveva seppellito la mamma, e ormai non poteva immaginarsi Etouvent senza la grossa pancia dell'abate Picot, che andava qua e ljper i cortili delle fattorie, e poi sentiva di volergli bene perchpera allegro e sincero. Ma, nonostante l'emozione, egli sembrava contento, e diceva: "Mi dispiace, signora contessa; pensate che sono qui da diciotto anni. Oh, il comune rende poco e non vale granchp. Gli uomini non fanno gran calcolo della religione, e le donne... quelle, vedete, non hanno moralitj. Le ragazze non si avvicinano all'altare per maritarsi se prima non hanno fatto un pellegrinaggio a Nostra Signora del Ventre Grosso, e i fiori d'arancio qinutile cercarli da queste parti. Tanto peggio, su , tanto peggio, ma io lo amavo, questo paese, lo amavo." Il nuovo curato faceva segni di impazienza, smaniava, arrossiva, e finucol dire bruscamente: "Con me le cose andranno altrimenti". Aveva l'aria di ragazzo rabbioso, pallido, magro, nella sua sottana un po' consunta, su , ma pulita. L'abate Picot gli diede un'occhiata di sbieco come faceva nei momenti di buon umore. "Vedete, abate mio, per impedire certe cose bisognerebbe che metteste alla catena tutti i vostri parrocchiani, e poi... e poi..." "Lo vedremo" rispose alteramente il pretino "Ecco, l'etj; vi calmerjl'etj" disse il vecchio curato annusando la sua presa di tabacco. "E poi sarjl'esperienza. Perchpaltrimenti, allontanereste dalla chiesa gli ultimi fedeli, e buona notte. In questo paese sono testardi, ma testardi, badate! In fede mia, quando vedo venire alla predica una ragazza che mi pare un po' grossa, dico fra me: "Costei mi conduce un parrocchiano di pi" e procuro di metterla in regola. Credetemi, voi non potete impedir loro di peccare, ma potrete andar a trovare il giovanotto e impedirgli di abbandonare la piccola mamma. Maritateli abate, maritateli, e non occupatevi di altro." Il nuovo curato rispose con durezza: "Noi pensiamo in modo diverso. E' inutile insistere." L'abate Picot si rimise a rimpiangere il suo villaggio, il mare che vedeva dalle finestre del presbiterio, le vallicelle concave dove si recava a leggere il breviario, guardando di lontano passare i battelli. Poi i due preti si congedarono. Il vecchio abbraccizGiovanna che quasi piangeva. Otto giorni dopo, l'abate Tolbiac ritornze si mise subito a parlare delle riforme che stava compiendo come avrebbe potuto fare un principe che prende possesso del suo stato; poi pregzla signora viscontessa di non mancare alla messa domenicale; poi le raccomandzla comunione nelle solennitj. "Voi e io" diceva "siamo a capo del paese, noi dobbiamo governarlo e quindi qnecessario mostrarci sempre come un esempio da seguire. Bisogna essere uniti per essere potenti e rispettati. Se la chiesa e il castello si daranno la mano, la capanna ci temerje ci obbedirj." Ma la religione di Giovanna era fatta di sentimento, e lei aveva quella fede sognante che hanno quasi sempre le donne, suche, se osservava press'a poco i precetti della chiesa, era sopra tutto per un'abitudine conservata fin dal convento, poichp la filosofia del barone aveva scosso da tempo le sue convinzioni. L'abate Picot si era accontentato del poco che lei aveva potuto dargli e non l'aveva mai rimproverata; ma il successore non la pensava mica cosu . Non avendo visto la dama in chiesa la domenica dopo, era ricomparso al castello inquieto e severo. Giovanna non volle mettersi in rotta e promise per compiacenza, sapendo bene quanto la sua assiduitjsarebbe durata: non pidi quelle prime settimane. Ma a poco a poco cedette all'abitudine e finucol subire l'influenza di quel fragile prete autoritario e tutto d'un pezzo. Eppure sentiva, in virtdel suo misticismo, che quell'esaltazione e quegli ardori di prete non le spiacevano e che egli faceva vibrare in lei quella corda della poesia religiosa che risuona in tutte le anime femminili. Un'austeritjrigidissima, un disprezzo del mondo e della sensualitj, un disgusto delle preoccupazioni umane, un timore di Dio senza limiti, la giovanile e selvaggia inesperienza, quella parola rude, quella volontjinflessibile, tutto cizdava a Giovanna un'idea dei martiri e del martirio, e si lasciava sedurre, lei addolorata e delusa, dal fanatismo inflessibile di un ragazzo ministro di Dio. Perchpegli la guidava al Cristo consolatore mostrandole come le mistiche gioie calmano tutte le sofferenze e la poveretta si inginocchiava davanti a questo prete che sembrava avesse, al pi, quindici anni. Ma ben presto la campagna lo odiz. D'una severitjrigidissima verso se stesso, egli si mostrava con gli altri di un'intolleranza implacabile. E cizche lo indignava ed esaltava e lo metteva fuori di spera quella cosa orrenda: l'amore. Nelle sue prediche ne parlava con veemenza, in termini crudi, secondo l'uso ecclesiastico, lanciando su un uditorio di contadini certi periodoni tonanti contro la concupiscenza, e tremava di rabbia, battendo i piedi, esaltato, spaventato dalle immagini evocate nelle sue stesse sfuriate. Allora le ragazze e i giovanotti si scambiavano occhiatine furtive da una parte all'altra della chiesa, e i vecchi contadini che amavano sempre scherzare su queste cose disapprovavano l'intolleranza del piccolo curato ritornando alla fattoria, dopo la messa, accanto al figlio in blusa turchina e alla fattoressa in nera mantiglia. Il paese intero era sconvolto. Si raccontavano a bassa voce le severitjdel nuovo curato al confessionale, si sbigottiva al rigore delle penitenze che egli infliggeva; ma quando egli si ostinza rifiutare l'assoluzione alle ragazze la cui castitjaveva ceduto, allora incominciarono i motteggi. Alle messe solenni, se si notava qualche ragazza rimasta al suo banco invece d'andarsi a comunicare con le altre, erano tutti sogghigni e risatine. Poi, egli si mise a spiare gl'innamorati. Voleva impedire che si incontrassero, voleva fare come fanno le guardie coi bracconieri. Nelle notti di luna dava la caccia agli amanti dietro i granai, fra i boschetti di giunchi, sul versante delle costarelle. Una volta ne scoprudue che, vedendolo, non si staccarono: essi tenevano le braccia allacciate alla vita e andavano cosuallacciati verso un borro colmo di sassi. Il prete gridz: "Volete finirla una buona volta, tangheri che siete?" "Pensate agli affari vostri" gli rispose il giovanotto voltandosi. "Questi, signor curato, non sono affari che riguardino voi." Allora il prete si chinza raccogliere sassi e ne scaglizcontro quei due come si fa con i cani. E quei due se ne fuggirono ridendo, felici, ma egli li denunziz, nomi e cognomi, in piena chiesa. Cosui giovanotti del paese cessarono di andare alle funzioni. Il curato tutti i giovedupranzava al castello, ma si recava spesso durante la settimana a parlare con la sua penitente che si esaltava con lui, discuteva sulle cose materiali, maneggiava tutto il vecchio e complicato arsenale delle controversie religiose. Camminavano insieme in su e in giper il grande viale della baronessa parlando di Cristo e degli Apostoli, della Vergine e dei santi padri come se li avessero conosciuti: di quando in quando si arrestavano proponendosi questioni profonde che erano soltanto mistiche ubbie, lei perdendosi in ragionamenti poetici che salivano al cielo come razzi, lui, pipreciso, argomentando come un avvocato monomane che dimostri matematicamente la quadratura del circolo. Giuliano trattava il nuovo curato con grande rispetto, e ripeteva sempre: "Questo prete mi piace: non transige" e si confessava e comunicava volentieri, per dar l'esempio, con una certa prodigalitj. Ora Giuliano andava quasi ogni giorno dai Fourville, tanto piche il conte amava averlo compagno come cacciatore e non poteva fare a meno di lui, e con la contessa continuava ad andare a cavallo nonostante le piogge e il tempo cattivo. "Sono fanatici con quel loro cavallo" il conte osservava. "Ma il cavalcare fa bene a mia moglie." A metjnovembre tornzfinalmente il barone. Era malato, invecchiato, fiacco, sopraffatto da una tristezza cupa che aveva invaso il suo spirito. Sembrava quasi che l'amore per la sua cara Giovanna fosse accresciuto; come se quei mesi di triste solitudine avessero acuito, esasperato il suo bisogno di tenerezza e di confidenza. E Giovanna non gli confidzle sue nuove idee, npil suo ardore religioso, npla sua intimitjcon l'abate Tolbiac; ma la prima volta che egli vide il pretino provzun'antipatia veemente contro di lui, e quando la figlia gli chiese: "Come lo trovi?" egli rispose francamente che quell'uomo gli sembrava un inquisitore e doveva essere molto pericoloso. Poi seppe dai suoi amici contadini tutte le severitjdel curato e le sue prepotenze e quella specie di persecuzione contro le leggi e gli istinti congeniti e l'odio avvampznel suo cuore. Egli era della razza dei vecchi filosofi adoratori della natura che si inteneriscono se vedono due animali accoppiarsi, restano in ginocchio davanti a una specie di Dio panteista e si ribellano alla concezione cattolica di un Dio con intenzioni borghesi, collere gesuitiche, vendette da tiranno; un Dio che rimpiccioliva la creazione, fatale, senza limiti, onnipotente, mentre la creazione era luce, terra, pensiero, pianto, roccia, uomo, aria, bestia, stella, Dio, insetto; e creava appunto perchpera la creazione, piforte della volontj, pivasta della ragione, produttrice sempre, senza scopo e senza fine in tutti i sensi e in tutte le forme, attraverso l'infinitjdello spazio, seguendo le necessitjdel caso e le vicinanze dei soli che riscaldano il mondo. La creazione conteneva tutti i germi, poichpil pensiero e la vita si sviluppavano in lei come i fiori e i frutti sugli alberi. Per lui dunque la riproduzione era la gran legge generale, alta, sacra rispettabile, divina, che compie l'oscura e costante volontjdell'Essere Universale. E comincizdi fattoria in fattoria una campagna animosa contro il prete intollerante persecutore della vita. Giovanna ne fu desolata. Pregava il Signore, pregava e implorava suo padre, ma egli inesorabile: "Bisogna combattere questi uomini. E' nostro dovere, nostro diritto. Non sono umani." Riprendeva, scuotendo la sua zazzera bianca: "Non sono umani: non capiscono nulla; agiscono in una fatale incoscienza. Sono antifisici" e gridava come per maledire: "antifisici!" Il prete sentiva perfettamente il nemico, ma voleva restar padrone del castello e della giovane signora, e cosutemporeggiava, sicuro, convinto della vittoria finale. E poi c'era l'idea fissa: gli amori di Giuliano e Gilberta che aveva scoperto per caso. Voleva farla finita anche con questi. Un giorno, trovandosi in visita, dopo una conversazione mistica, lunghissima, eterna, egli chiese finalmente a Giovanna di unirsi a lui per combattere, uccidere il male che era sulla sua stessa famiglia, per salvare due anime in pericolo. Lei non comprese. Volle sapere. Il prete rispose che l'ora non era ancora venuta. "Arrivederci presto" e scomparve. L'inverno stava per finire: un inverno marcio, come si dice in campagna, umido, tiepido. L'abate Tolbiac ritornzqualche giorno pitardi e parlz, in termini oscuri, di una di quelle relazioni indegne fra persone che dovrebbero essere irreprensibili; e poi a chi spetta impedire con tutti i mezzi questi orrendi fatti se non a coloro che li sono venuti a conoscere? Passz, a poco a poco, a considerazioni pi elevate, finchpafferrzle mani di lei e la scongiurzdi aprire gli occhi, di comprendere, di aiutarlo, in nome di Dio. Giovanna aveva capito, su , questa volta; aveva capito e taceva, spaventata al pensiero della tempesta che poteva addensarsi sulla sua casa, per il momento tranquilla, e fingeva di cader dalle nuvole: che voleva mai dire l'abate? Allora egli tronczgl'indugi, parlzchiaramente. "E' un dovere spiacevole che sto per compiere, signora contessa, ma non posso fare altrimenti. E' il mio ministero che m'impone di non lasciarvi ignorare un fatto che voi potete impedire. Sappiate dunque che vostro marito mantiene una relazione colpevole con la signora di Fourville." Abbasszla testa, rassegnata, senza piforza. "Ebbene?" riprese il prete. "Che contate di fare?" Allora Giovanna balbettz: "Che cosa volete che faccia?". "Combattere" rispose lui con violenza. "Combattere questa passione colpevole." "Ma se mi ha gijingannata con una cameriera; ma se non mi ascolta; ma se non m'ama pi; se mi maltratta appena esprimo un desiderio che non gli garbi... Che cosa posso fare io? che cosa posso fare io?" "Allora piegate la testa? L'adulterio qsotto il vostro tetto! Voi consentite. Voi tollerate. Il delitto si compie sotto i vostri occhi e voi guardate da un'altra parte. Chi siete voi? Non siete una sposa? una cristiana? una madre?" "Che cosa volete che faccia? che cosa volete che faccia?" singhiozzava la poveretta. "Tutto, piuttosto che permettere questa infamia. Tutto, vi dico, tutto. Abbandonatelo, fuggite da questa casa immonda!" "Ma io non ho denaro, signor abate. E poi sono senza coraggio. Partire cosusenza prove... Mi pare di non averne il diritto..." "E' la viltjche vi consiglia" gridzil prete levandosi fieramente. "Io vi credevo, diversa signora. Voi siete indegna della misericordia di Dio." "Oh, ve ne prego" disse cadendo in ginocchio "consigliatemi, consigliatemi, non abbandonatemi." "Aprire gli occhi al signor di Fourville" consiglizil prete con voce secca, implacabile. "E' il signor di Fourville che romperjquesta relazione. Tocca a lui." "Ma li ucciderebbe" gridzGiovanna impaurita a questo pensiero. "E dovrei essere io a denunciarli? Signor abate, no, questo no." Allora egli alzzla mano come per maledirla, tutto rosso e vibrante di collera: "Restate nella vostra onta e nella vostra colpa, giacchpvoi siete picolpevole di loro. Voi, voi, la sposa compiacente! Qui non mi resta altro da fare" e fece l'atto di andarsene cosufuribondo che tutto il suo corpo tremava. Giovanna lo seguu , smarrita, disposta a cedere, disposta a promettere, ecco, su , prometteva; ma egli era tutto in preda alla sua santa ira e camminava a passi sempre pirapidi, agitando il suo ombrellone azzurro, alto come lui. Vicino al cancello si imbattpproprio in Giuliano che dirigeva i lavori di potatura, e allora svoltza sinistra, per attraversare la fattoria dei Couillard, e ripeteva sempre: "Lasciatemi, signora; non ho pi niente da dirvi". E si diresse verso il cortile, ljdove un crocchio di ragazzi, della casa e del vicinato, tutti aggruppati intorno al casotto della cagna Mirza, osservavano curiosamente qualcosa, attenti, silenziosi, come concentrati in quello spettacolo. In mezzo ad essi il barone (sembrava un maestro di scuola) guardava pure con interesse, le mani dietro la schiena. Ma quando scorse di lontano l'abate, filzdiritto, per evitare di incontrarlo, salutarlo, parlargli. E Giovanna veniva dietro, sempre supplicando: "Lasciatemi qualche giorno, signor abate, poi ritornate al castello... Vi dirzquel che avrzpotuto fare, quel che avrzpreparato... ci regoleremo..." Passarono l'una e l'altro presso il gruppo dei ragazzi in mezzo al cortile, e il curato si avvicinzper vedere. Era la cagna che partoriva. Mentre il prete si curva, la bestiola rattrappita si allunga, si allarga e appare il sesto canino. Tutti i monelli si mettono a gridar dalla gioia. "Eccone un altro! eccone un altro! un altro!" Era un gioco, non piche un gioco: un gioco naturale in cui non v'era niente di impuro, e consideravano quella nascita come avrebbero guardato cader delle mele. L'abate Tolbiac dapprima allibu , poi, preso da furore irresistibile, levzalto il grande ombrellone e con quello, picchiando all'impazzata, sbaraglizla ragazzaglia, finchpsi trovzdavanti soltanto la cagna partoriente che si sforzava di alzarsi essa pure. Ma egli non le lascizil tempo di drizzarsi, chpla copriva gijdella sua rabbia, e la povera bestia, come incatenata, gemeva di strazio dibattendosi sotto la furia dei colpi. In quel momento, si spezzzl'ombrellone. Allora, a mani libere, il prete montzsulla cagna, calpestandola, spiaccicandola, massacrandola, mentre la povera bestia sotto la violenta pressione metteva al mondo un altro piccino; un altro colpo di tallone brutale e il corpo sanguinolento finudi agitarsi in mezzo ai piccoli neonati che pigolavano, ciechi, incapaci di muoversi e pur cercando oscuramente il latte materno. Giovanna era scappata; ma il prete a un tratto si sentupreso per il collo, e uno schiaffo fece volare il tricorno: era il barone che, esasperato, portzil prete di peso fin presso il cancello e lo gettzin mezzo alla strada. Si volse, e vide sua figlia ginocchioni che singhiozzava sui poveri cagnolini e li raccoglieva nella sottana. Egli ritornza gran passi verso di lei, gesticolando, gridando: "Eccolo, eccolo, l'uomo in gonnella! L'hai visto adesso? l'hai visto?" I contadini accorrevano; tutti guardavano la bestia massacrata. "Ma qpossibile" disse Couillard "q possibile essere selvaggi fino a questo punto?" Giovanna aveva raccolto i sette neonati e pretendeva di allevarli. Si tentzdi dare loro del latte; ne morirono tre il giorno dopo. PapjSimone corse per tutto il paese in cerca di una cagna che allevasse i piccini; non trovzche una gatta, e diceva che sarebbe andata bene lo stesso. Bisognzallora uccidere altri tre cuccioli e affidare l'ultimo, come il pifortunato, alla cara nutrice dell'altra razza. La gatta adottzimmediatamente il cagnolino e gli tese la mammella cosucoricata sul fianco. Ma per non esaurire la madre adottiva, il cagnolino fu svezzato in capo a quindici giorni e Giovanna si incariczdi nutrire lei stessa col poppatoio il povero Totz. Lo aveva chiamato Totz; il barone volle ribattezzarlo e lo chiamzMassacro. L'abate Tolbiac, che non si era pifatto vedere, lancizdall'alto al pubblico, la domenica dopo, non si sa quante imprecazioni, maledizioni e minacce contro il castello dicendo che bisognava introdurre il ferro infuocato nelle piaghe, scagliando anatemi contro il barone, che ne rise, accennando con un'allusione velata, ancora timida, ai nuovi amori di Giuliano. Giuliano ne fu esasperato, ma il timore di uno scandalo maggiore fermzluper lula sua collera. Allora, di predica in predica, il prete ripetpgli annunzi delle sue vendette, profetando che si avvicinava l'ora di Dio, che tutti i suoi nemici sarebbero stati colpiti da Dio. L'altro scrisse all'arcivescovo una lettera rispettosa, ma energica. L'abate Tolbiac fu minacciato di sanzioni, e tacque. Adesso lo si incontrava che camminava a grandi passi, esaltato, con la faccia stravolta. Giuliano e Gilberta, nelle loro passeggiate a cavallo, lo incontravano spesso, talvolta lo vedevano spuntare di lontano in fondo alla pianura o sulla spiaggia, come un punto nero, altre volte lo trovavano che stava leggendo il breviario nella stessa valletta dove stavano per scendere, e allora facevano svoltare i cavalli per non passargli vicino. La primavera era venuta a ravvivare l'amore di quei due, gettandoli ogni giorno l'uno nelle braccia dell'altro, ora qui ora lj, sotto un qualsiasi riparo incontrato nelle loro scorribande. Ma il fogliame era rado e l'erba umida e non potevano ancora perdersi fra i cespugli dei boschi come in estate, e cosu finivano col nascondere i loro amori vagabondi nella capanna mobile di un pastore abbandonata fin dall'autunno in cima alla costa di Vaucotte. Era lj, quella capanna, isolata, alta sulle ruote, a cinquecento metri dal declivio, proprio nel punto in cui cominciava il ripido pendio della vallata. Lj erano sicuri, ljnon sarebbero stati colti in flagrante, perchpdominavano la pianura, e i cavalli, cosu legati alle stanghe della capanna, avevano l'abitudine di aspettare pazientemente che i loro padroni fossero sazi di baci. Se non che, un giorno, nel momento che essi lasciavano questo rifugio, scorsero l'abate Tolbiac, seduto, quasi nascosto tra i giunchi della scogliera. Giuliano credette necessario lasciare i cavalli gi nel burrone, perchpaltrimenti li avrebbero potuti denunciare di lontano: avrebbero fatto la spia. E da quel momento presero l'abitudine di legare i cavalli in una sinuositjdella valle tutta aggrovigliata di sterpi. Poi, una sera, mentre ritornavano tutt'e due alla villa, dove dovevano pranzare col conte, incontrarono il curato di etouvent che usciva dal castello e che, facendosi da parte per lasciar passare i colpevoli, salutz, ma senza guardare negli occhi. I due luper lusi sorpresero, ma fu un'inquietudine breve. Ai primi di maggio, in un pomeriggio di gran vento (Giovanna indugiava ancora al caminetto, e leggeva), scorse d'un tratto il conte di Fourville che veniva avanti cosudi furia, cosuscalmanato, che temette una disgrazia. Si alzz, gli andzincontro, lo guardzin viso: era pazzo. Aveva sulla testa un grosso berretto di pelo che portava solo in casa, la solita giacca da caccia lo infagottava dandogli qualcosa di selvaggio, era cosupallido che i suoi baffi rossicci che non spiccavano di solito su una faccia molto colorita, parevano accesi, di fiamma, e gli occhi erravano muti, smarriti, vuoti di pensiero. "E' qui mia moglie?" "Veramente... non l'ho veduta... oggi..." Allora sedette, come se gli si fossero spezzate le gambe. Si tolse il berretto, si asciugzla fronte col fazzoletto pie pivolte. Poi balzzin piedi, si avvicinzalla signora, le mani tese, la bocca spalancata, come se volesse parlare, confidarle il suo strazio, ma si arrestz, la guardzfissamente, delirz: "Ma qvostro marito, qvostro marito... Anche voi..." E fugguverso il mare. Giovanna corse dietro per fermarlo, chiamando, implorando, con la morte nel cuore. Perchp, su , egli sapeva tutto. E ora? e ora? Che avrebbe fatto? Oh Dio, purchpnon li trovasse! Correva, correva senza poterlo raggiungere, e lui non la vedeva, non l'ascoltava, andava sempre avanti, come se avesse una sicurezza, una mqta: valicava il fossato, scavalcava le canne, via via a passi di gigante, fino al declino. Giovanna, dritta sul boscoso pendio, lo seguulungamente con gli occhi, poi lo perse di vista e dovette rientrare tutta divorata dall'ansia. E lui va, svolta a destra, si qrimesso a correre. Il mare romba rotolando i suoi cavalloni, grosse nubi nerastre arrivano folli, veloci, passano, svoltano inseguite da altre compagne pifolli, rovesciando ognuna una marea d'acqua. Il vento fischia, geme, spiana l'erba, curva le messi recenti, trasporta nella sua corsa come dei fiocchi di spuma che sono grandi uccelli marini e li trasporta ljfra le campagne. Via, fra le spighe di grano che gli spazzano il viso, gli bagnano i baffi e le guance, riempiono di strepito le sue orecchie, riempiono di tumulto il suo cuore. Ecco, laggi, davanti a lui, la valle di Vaucotte che apre la sua gola profonda. Null'altro fin ljche una capanna di pastore presso una stalla di montoni vuota. Due cavalli legati alle stanghe della casetta mobile. Essi erano lj. Che mai potevano temere con quella tempesta? Appena li scorge, egli si mette per terra bocconi e si trascina sulle mani e sui ginocchi, come una specie di mostro, cosucoperto di fango e con quel berretto di pelo, e si arrampica, su, fino alla capanna solitaria, e vi si nasconde al di sotto per non essere svelato dalle fessure dell'assito. Ma i cavalli lo vedono e si inquietano. Col coltello che ha in mano egli taglia le briglie, cosuche quelli fuggono via impauriti nella tempesta, impauriti della stessa grandine che flagella il tetto inclinato della casetta di legno facendola tremare sulle ruote. Allora egli si drizza sulle ginocchia, accosta l'occhio alla porta, a uno spiraglio e guarda: guarda dentro. Ora non si muove pi, sembra attendere. Passa un tempo infinito. A un tratto, si alza tutto coperto di fango, pieno di fango dalla testa ai piedi. Con un gesto da forsennato, spinge il catenaccio che chiude la capanna dal di fuori, e poi afferra le stanghe e poi si mette a scuotere quella nicchia come per fracassarla, e poi a quelle stanghe si attacca come una bestia da soma, piegando l'alta figura in uno sforzo disperato, tirando simile a un bue, soffiando, ansimando, e trascina verso il ripido pendio la casetta mobile e quelli che vi sono dentro, quelli che gridano, quelli che battono i pugni nel tavolato senza saper che succede. Ecco il precipizio, ecco l'orlo! Allora egli lascia la casetta leggera che rotola gigiper la costa inclinata, precipita nella sua corsa pazza, gigi, saltando, inciampando, ballonzolando come una bestia, percuotendo la terra con le stanghe. Un vecchio mendicante che sta rannicchiato in un fosso la vede passare d'un balzo quasi sopra la sua testa, sente grida disperate partire da quella cassa di legno, e la cassa di legno perde una ruota in una scossa violenta e si abbatte su un fianco e si mette a rotolare come una palla, come una casa divelta rotolerebbe gida una montagna. Eccola giunta all'orlo dell'ultimo burrone, e sobbalza, descrive una curva, precipita nel fondo, si schiaccia laggicome un uovo. Allora il vecchio mendicante che l'ha vista passare, scende cautamente fra i rovi, finchpla sua prudenza di contadino non lo consiglia di evitare il casotto sventrato, ma di raggiungere piuttosto la vicina fattoria dove racconterjl'accaduto. Accorre gente; cercano tra i frantumi; appaiono due corpi sanguinolenti, pesti, maciullati. Lui ha la fronte spaccata, il volto fracassato; la mascella di lei penzola, forse staccata da un urto; povere membra molli come se non avessero ossa sotto la carne. Furono tuttavia riconosciuti; e quella gente fece lunghe supposizioni sulla causa dell'infortunio. "Che cosa facevano in quel casotto?" chiese una donna. Naturale, secondo il mendicante, che si erano rifugiati ljdentro per ripararsi dalla bufera e il vento impetuoso aveva dovuto svellere e precipitare la casupola: e spiegava che egli stesso stava per nascondercisi quando aveva visto i cavalli legati alle stanghe e aveva capito che il posto era preso. "Senza di questo" aggiunse con una certa soddisfazione "sarebbe capitata a me." "Non sarebbe stato meglio?" disse qualcuno. "Perchp? Perchpsarebbe stato meglio?" repliczil buon uomo quasi infuriandosi. "Perchpio sono povero e loro sono ricchi? Guardateli, guardateli ora." E cosu , tutto tremolante, lacero, sordido, grondante acqua, la barba incolta e i lunghi capelli spioventi dal cappellaccio sformato mostrzi due cadaveri con la punta del suo bastone ricurvo: "Tutti uguali davanti a Quella!". Altri contadini erano giunti e guardavano attorno con occhio inquieto, sornione, spaventato, egoista e vigliacco. Si deliberzsul da farsi. Fu deciso che i corpi sarebbero stati portati al castello, nella speranza di una ricompensa. Si attaccarono due carrettelle; ma qui sorse una nuova difficoltj; alcuni erano del parere di coprire semplicemente di paglia il fondo della carretta, altri avrebbero voluto mettervi dei materassi, per convenienza. "Ma si inzupperanno di sangue" disse la donna che aveva gijparlato "e poi bisognerjlavarli, quei materassi." Intervenne un grosso fattore dal viso gioviale! "Vi pagheranno bene. Picosterj, pisarjcaro." E l'argomento parve decisivo. Le due carrette, alte, sospese alle ruote, senza molle, partirono al trotto, l'una di qua, l'altra di lj, scuotendo, sballonzolando ad ogni urto dei solchi profondi quei rimasugli di esseri umani. Il conte di Fourville, dopo aver visto rotolare la casupola sul ripido pendio, si era dato alla fuga, velocissimo, attraverso la pioggia e la burrasca. Aveva corso cosuparecchie ore, passando le strade, saltando gli argini, devastando le siepi, ed era tornato allo scendere della notte, senza sapere come, al castello. I domestici lo aspettavano, spaventati. Dissero che i due cavalli erano ritornati senza cavalieri. Dissero che il cavallo del signor Giuliano aveva seguito l'altro, della dama. Il signor di Fourville barcollz. "Sarj capitata qualche disgrazia con questo tempo orribile" disse con voce rotta. "Si vada in cerca di loro." Ripartuegli stesso; ma appena lo perdettero di vista, si nascose in un rovo e rimase lua spiare la strada per la quale doveva tornare morta o moribonda, forse storpiata, forse sfigurata per sempre, colei che egli amava ancora selvaggiamente. E la carretta che portava qualcosa di strano passz. Su , egli se la vide passare davanti, nel suo nascondiglio. Dinanzi al castello la carretta sosta un momento. Poi entra. E' lei, su , qlei; ma un'angoscia spaventosa lo inchioda lu , nel suo covo, un'ansia di sapere, uno spavento della veritj, e non si muove pi, si accovaccia, resta lucome una lepre, trasalendo al minimo soffio. Aspetta un'ora, aspetta due ore. La carretta non esce. Pensa che sua moglie sta forse per rendere l'ultimo respiro, e allora il pensiero di vederla, di incontrare il suo sguardo, lo riempie di tale orrore, di tal raccapriccio, che ha perfino paura di essere scoperto nel suo nascondiglio, di essere obbligato a rientrare per assistere a quell'agonia. E fugge ancora; si rintana nel mezzo del bosco. Poi, quasi di colpo, riflette che forse ha bisogno di soccorso e nessuno l'assiste, e torna indietro disperato correndo. Ecco, il giardiniere al cancello. Gli grida: "Ebbene?". Quegli non sa rispondere. "E' morta?" Il servitore balbetta: "Su , signor conte". E allora qcome il sollievo; qla calma che penetra nel sangue, che entra nei muscoli, e cosuegli sale a passo franco i gradini del grande scalone. L'altra carretta era giunta all'altro castello. Giovanna la vide di lontano, si accorse del materasso, indovinzche un corpo v'era steso sopra, e capututto. Allora cadde svenuta. Quando riprese i sensi, suo padre le teneva il capo e le bagnava le tempie d'aceto. Poi le domandzse sapeva. Lei mormorz: "Su , papj". Volle alzarsi. Non potp, non potp, tanto soffriva. La sera stessa partoruuna creatura morta: era una piccina. Non vide nulla del seppellimento di lei, non vide e non seppe pinulla. Si accorse soltanto dopo un giorno o due che era tornata zia Lisetta. Nelle allucinazioni febbrili che l'agitavano cercava di ricordarsi con ostinazione da quanto tempo la vecchia zitella fosse partita dai "Pioppi", in quale epoca, in quali circostanze. Non ci riusciva nemmeno nei momenti di luciditj: era sicura soltanto di averla vista dopo la morte della sua povera mamma. Capitolo 11 Giovanna rimase tre mesi nella sua camera, cosudebole e pallida che la credevano e la dicevano perduta, ma poi a poco a poco si riprese. Il babbo e la zia non l'abbandonavano pi, restavano, si stabilivano ai "Pioppi". Quelle ultime scosse avevano lasciato la poveretta prostrata e con una malattia nervosa: il minimo rumore la faceva quasi svenire: cadeva in lunghe sincopi per nulla. Com'era morto Giuliano? Non aveva mai chiesto. Non chiedeva. Che gliene importava? Non ne sapeva abbastanza? Tutti credevano a una disgrazia, ma lei non si faceva illusioni, lei custodiva nel suo cuore quel suo tormentoso segreto, ed era la sicurezza dell'adulterio, era la visione di quell'improvvisa e terribile visita del conte, il giorno della catastrofe. Ed ecco, ora, la sua anima come penetrata di ricordi teneri, dolci e malinconici delle brevi ore d'amore che le aveva un giorno prodigato il suo sposo. Trasaliva spesso a certi inattesi risvegli, e rivedeva lui da fidanzato, rivedeva il Giuliano che le era stato caro per quella breve passione sbocciata sotto il sole della Corsica. I suoi difetti si erano come affievoliti al ricordo, sparite le durezze, attenuate le infedeltj, via via che i giorni accrescevano la lontananza fra la vita e la tomba. Era come se Giovanna fosse invasa da una specie di gratitudine postuma per quell'uomo che l'aveva tenuta fra le braccia, e scartava le sofferenze passate per non sognare che i giorni felici. Poi, il perpetuo fluire del tempo, i mesi che si susseguivano ai mesi, copersero d'oblio, come di una polvere accumulata, reminiscenze e dolori: Giovanna si era dedicata interamente a suo figlio. Ecco l'idolo, l'unico pensiero dei tre esseri riuniti intorno a lui, ed ecco il regno del despota. Una specie di gelosia nacque in ciascuno dei tre schiavi, a cominciare dalla madre che non guardava di buon occhio il nonnino quando riceveva i baci del piccolo in cambio della galoppata sul ginocchio. E la povera zia, negletta da lui come era stata sempre da tutti, trattata come una serva da questo padrone che non spiccicava ancora le parole, la zia Lisetta si chiudeva a piangere in camera sua paragonando sconsolatamente quelle poche insignificanti carezze che le toccavano, mendicate e appena ottenute, con le grandi espansioni che toccavano di diritto alla mamma e al nonnino. Passarono cosudue anni: due anni tranquilli senza alcun avvenimento; con la preoccupazione incessante del piccolo. Sul principio del terzo inverno si decise di andare a stabilirsi a Rouen, fino alla primavera, e tutta la famiglia partu . Ma, arrivati alla vecchia dimora abbandonata e umida, Paolo cadde malato: e fu una bronchite cosugrave che si temette degenerasse in pleurite, e i tre poveri esseri smarriti si convinsero che non poteva fare a meno dell'aria dei "Pioppi" e ve lo ricondussero appena guarito. Ebbe inizio una serie di anni monotoni e dolci. Sempre insieme, tutt'e tre, intorno al piccolo: ora nella sua stanza, ora nel gran salone, ora in giardino: e si estasiavano ai balbettamenti, alle espressioni strane, alle mossette. La mamma lo chiamava, per vezzo, Paolino; ma era una parola difficile per quel bamberottolo che diceva invece Pollino, e non qda dire quanto facesse ridere una simile inesattezza. Il soprannome restz: egli non era pinpPaolo npPaolino: era Pollino. Poichpcresceva in fretta, una delle preoccupazioni predilette dei suoi tre ammiratori (il barone diceva "le tre madri") era di misurargli la statura, e cosufu che sulla parete di fronte alla porta del salone piccoli segni a matita ne indicarono, di mese in mese, il progresso. Questa scala, battezzata "la scala di Pollino", occupava un posto considerevole nell'esistenza di tutti. Poi un nuovo individuo venne a rappresentare in famiglia una parte importante: il cane "Massacro", che era stato in un primo tempo negletto dalla padrona preoccupata unicamente del figlio. Sicchpil povero Massacro, nutrito da Liduina e messo a dormire in un vecchio barile davanti alla scuderia, era vissuto solitario e sempre alla catena; finchpun giorno il bambino lo notze si mise a gridare per andar incontro al cane e abbracciarlo. E quando con infinite precauzioni lo avvicinarono a Massacro, il cane fece festa al bambino e il bambino pianse perchpnon voleva piessere separato da un simile amico. Da allora Massacro fu liberato e ammesso in famiglia. E divenne l'amico di Paolo: l'amico di tutte le ore. Cane e bimbo si rotolavano insieme, dormivano vicini sul tappeto, anzi Massacro finucol dormire nel letto di Paolino che non voleva pilasciare il suo amico. Giovanna talvolta se ne desolava a causa delle pulci, ma zia Lisetta cominciza nutrire un rancore sordo verso quel cane che prendeva tanta parte delle possibilitjaffettive del piccolo, perchpera tutto amore - cosule sembrava - rubato a lei, conteso al suo desiderio. Rare visite si erano scambiate coi Briseville e coi Coutelier; solo il sindaco e il medico rompevano regolarmente la solitudine del vecchio castello. Giovanna, dopo la strage della cagna e sospettando che il prete avesse una parte di responsabilitjnella morte orribile della contessa e di Giuliano, non entrava piin chiesa, irritata contro un Dio che poteva avere di questi ministri. E l'abate Tolbiac, di quando in quando, lanciava anatemi con allusioni chiare contro il castello: il castello, sicuro, visitato dallo Spirito del Male, dallo Spirito di Eterna Rivolta, dallo Spirito di Menzogna e di Errore, dallo Spirito di Iniquitj, dallo Spirito di Corruzione e d'Impuritj. Cosuegli designava il barone. Quasi tutti, d'altronde, si tenevano lontani dalla sua chiesa, e quando egli andava per i campi dove i lavoratori spingevano l'aratro, i contadini non solo evitavano di fermarlo e parlargli, ma si giravano dall'altra parte per non salutarlo. Si credeva perfino che fosse uno stregone perchpaveva scacciato il demonio da un'ossessa, si diceva che egli conoscesse parole misteriose per scongiurare i malefici: le "diavolerie" o magari anche (era il suo pregio) le "burle di Satana". Stendeva le mani sulle mucche che davano il latte turchino o che avevano la coda attorcigliata, o faceva ritrovare gli oggetti smarriti borbottando una misteriosa parola. Il suo spirito gretto e fanatico si dava con passione allo studio dei libri religiosi che trattano dell'apparizione del Diavolo sulla terra, le diverse manifestazioni della sua potenza, le sue influenze occulte, che sono infinite, tutte le risorse di cui dispone, i soliti raggiri delle sue innumerevoli astuzie. E siccome egli si sentiva particolarmente chiamato a combattere questa potenza tenebrosa e fatale, si era premunito di tutte le formule di esorcismi indicate nei manuali ecclesiastici. Cosuche l'abate Tolbiac credeva sempre di sentir errare nell'ombra il Maligno, ed ecco sulle sue labbra lo scongiuro immancabile: "Sicut leo rugiens circuit quaerens queum devoret". Allora il terrore della sua fama occulta si diffuse. I suoi stessi colleghi, preti ignoranti di campagna, quelli per cui Belzebqun articolo di fede, quelli che si turbano delle prescrizioni minuziose dei riti nel caso che si manifesti quella potenza del male e giungono a confondere la religione con la magu a, quei poveri pretonzoli considerarono l'abate Tolbiac nppinpmeno che uno stregone e lo rispettarono tanto per il potere occulto che gli attribuivano quanto per l'irreprensibile austeritjdella vita. L'abate Tolbiac, incontrando Giovanna, non salutava. E non qa dire come questo stato di cose turbasse la zia Lisetta che nel suo animo timoroso di vecchia zitella non capiva, proprio non capiva come si potesse disertare la chiesa. Perchplei era pia, certamente, si confessava e si comunicava benchpnon si sapesse e non si cercasse di sapere. E allora quando era sola con Paolo - ma sola, veh, proprio sola - gli parlava a bassa voce, misteriosamente, di Dio, ed era "il buon Dio". Egli l'ascoltava quasi con attenzione se gli narrava storie prodigiose, ma se diceva che era necessario amarlo molto, il buon Dio, allora faceva una smorfia e chiedeva: "Ma dov'q, zia, il buon Dio?" Quella indicava il soffitto, con una gran paura del barone: "Lass, lass, ma non bisogna dirlo." Un giorno le disse, Pollino: "Il buon Dio qdappertutto ma non in chiesa". E si capiva che si era confidato col nonno e che il nonno rispondeva cosualle rivelazioni della zia. Ora aveva dieci anni, il ragazzo, e sua madre ne dimostrava almeno quaranta. Era forte, era audace, turbolento: sapeva arrampicarsi sugli alberi: non sapeva fare quasi altro. Tutte le volte che il nonno provava a mettergli un libro davanti, ecco l'immancabile interruzione materna: "Lascialo stare, lascialo giocare. Non bisogna affaticarlo troppo. E' tanto ragazzo!" Per lei, aveva sempre sei mesi o un anno. Appena si rendeva conto che camminava, correva, parlava come un ometto, cosuche lei viveva nel perpetuo timore che cadesse che avesse freddo, che avesse caldo (quando si agitava), che mangiasse troppo per il suo stomaco, troppo poco per il suo sviluppo. Nacque, proprio in quel tempo, una grave questione: quella della prima comunione. Un bel mattino la zia Lisetta si presenta in camera di Giovanna e le fa notare che non si puzlasciare pia lungo quel povero piccolo senza l'adempimento dei primi doveri, e mette in campo mille argomenti, invoca mille ragioni, in primo luogo l'opinione autorevole delle persone di conoscenza. La madre si turba, esita, qindecisa, crede che si possa aspettare ancora un pochino. Ma un mese pitardi era in visita dalla viscontessa di Briseville, che le domandava come a casaccio: "Non qquest'anno che il vostro Paolo deve far la sua prima comunione?" Giovanna, presa alla sprovvista, mormorz: "Sissignora" e fu questa semplice parola che la decise, e senza dire nulla a suo padre incariczzia Lisetta di portare il ragazzo al catechismo. Per un mese, tutto andzbene. Ma Pollino tornzuna volta con la gola roca, e il giorno dopo tossiva. Sua madre lo interrogzspaventata, e seppe cosuche il curato lo aveva mandato ad aspettare la fine della lezione sulla porta della chiesa (con quella corrente d'aria dell'atrio!) perchpaveva fatto il cattivo. Allora non lo mandzpialle lezioni e preferuinsegnargli in casa, alla buona, quella specie di alfabeto della religione; ma l'abate Tolbiac, nonostante le suppliche di Lisetta, rifiutzdi ammettere Paolino fra i comunicandi perchp"non sufficientemente istruito". E cosul'anno dopo: "non sufficientemente istruito"! Il barone giurze spergiurzche il ragazzo non aveva bisogno di credere a quelle sciocchezze, a quel simbolo puerile della transustanziazione, per essere un galantuomo; e fu deciso che sarebbe stato educato da cristiano, ma non da cattolico praticante: libero, liberissimo alla maggiore etjdi fare il piacer suo. Ma Giovanna, che aveva recentemente visitato i Briseville, notzche la visita non veniva restituita, e ne fu un poco stupita conoscendo la gentilezza meticolosa di quella gente. La marchesa di Coutelier, con alterigia, le disse come andavano le cose. Perchpla marchesa di Coutelier, per la posizione di suo marito, il marchese di Coutelier, per il suo titolo autentico, per la sua ricchezza considerevole, si riteneva una specie di regina della nobiltjnormanna, e regnava da vera sovrana mostrandosi, secondo le occasioni, gentile o sgarbata, e ammoniva e redarguiva o dispensava le sue grazie. Questa volta, dopo alcune parole glaciali, sentenzizin tono secco: "La societjsi divide in due classi: quelli che credono in Dio e quelli che non credono in Dio. Gli uni, anche i pisemplici, sono amici nostri: gli altri non possono essere nulla per noi." Giovanna sentul'attacco e si difese: "Non si puzcredere in Dio senza frequentare le chiese?" "No, signora. I fedeli vanno a pregar Dio nella sua chiesa come si va a trovare gli uomini nelle loro case." "Dio qdappertutto" riprese Giovanna, ferita. "Quanto a me, se credo dal fondo del cuore alla sua bontj, non lo sento piquando certi preti si mettono fra lui e me. La marchesa si alzz. "Il sacerdote porta il vessillo della Chiesa. Chiunque non segue il suo vessillo qcontro di lui e contro di noi." Giovanna si era alzata, a sua volta, e fremeva. "Signora, voi credete al Dio di un partito. Io credo al Dio della gente onesta." Salutze uscu . Perz, perz, anche i contadini la biasimavano di non aver fatto fare la comunione a Pollino. Perchpi contadini non andavano alle funzioni, non si accostavano ai sacramenti, o a mala pena si comunicavano a Pasqua, secondo le formali prescrizioni della Chiesa; ma per le creature era un'altra cosa, per i marmocchi l'inimicizia o l'indifferenza cadeva, e quella gente si sarebbe ritratta davanti all'audacia di educare un ragazzo al di fuori della legge comune: insomma... insomma, la religione era la religione. Si accorse subito di essere cosudisapprovata, e si indignznella sua anima di tutti questi patteggiamenti, di queste transazioni con la coscienza e di questo mercanteggiare, di questa gran paura di tutto, della viltjannidata in fondo ai cuori, la bella viltjdissimulata da tanta rispettabilitj quando vorrebbe far capolino. Il nonno assunse la direzione degli studi di Paolo e penszdi iniziarlo al latino. La madre non aveva che una raccomandazione: "Soprattutto non affaticarlo troppo" e restava inquieta dietro la porta della stanza da studio perchpil barone gliene aveva vietato l'ingresso, dato che aveva gijprovato a interrompere le lezioni in ogni momento per chiedere: "Hai freddo ai piedi, Pollino?" o anche: "Pollino, ti fa male la testa?" o magari, interrompendo il maestro: "Non lo far parlar tanto: gli stanchi la gola". Appena veniva rilasciato, il ragazzo scendeva in giardino, con la mamma e la zia, tanto piche aveva cominciato ad appassionarsi alla terra e la coltivava a suo modo, cosuche a primavera anche la mamma e la zia lo aiutavano a piantare giovani alberi o seminavano erbe o si incantavano a vederle spuntare e tagliavano i rami e coglievano fiori per farne grandi mazzi. Il maggior pensiero del giovinetto era forse la coltivazione delle insalate. S'era messo a dirigere quattro grandi quadrati dell'orto dove coltivava con cura infinita lattughe, lattughe romane, cicoria, indivia, radicchi, tutte le specie conosciute di queste piante commestibili, e vangava e annaffiava e sarchiava e trapiantava, e le sue due mamme gli andavano dietro sommessamente, poichple faceva lavorare come due donne a giornata, npera difficile vederle in ginocchio sulla terra grassa (sporche le mani, macchiati i vestiti) mentre introducevano quelle radici di tenere pianticine nei buchi che scavavano con un solo dito ficcato nella terra perpendicolarmente. Ecco Pollino gijgrande, eccolo gija quindici anni: la scala del salone segna esattamente un metro e cinquantotto centimetri. Ma egli qrimasto spiritualmente un bambino, ignorante, un po' sciocco, e come soffocato tra quelle due donnette e quel vecchio, quel caro vecchio amabile, ma che ormai ha fatto il suo tempo. Una sera infine il barone parlzdi collegio, e la madre non trovzdi meglio da fare che mettersi a piangere mentre, sgomenta, zia Lisetta se ne stava rincantucciata in un angolo buio. "Ma che bisogno ha mai di saper tante cose?" azzardzla povera mamma. "Ne faremo un uomo di campagna, un 'gentilhomme campagnard'. Coltiverjle sue terre come fanno tanti nobili, vivrje invecchierjfelice in questa casa dove avremo vissuto prima di lui, dove moriremo... Che gli si puzchiedere di pi?" Ma il barone crollava la testa: "Che cosa gli risponderai se a venticinque anni ti dirj: 'Non so niente, per colpa tua, per colpa del tuo egoismo materno. Ecco, mi sento incapace di lavorare, di diventare qualcuno, eppure non ero fatto per questa vita oscura, per questa vita umile e triste a cui mi ha condannato la tua imprevidente tenerezza...'". Piangeva sempre: implorava sempre che le lasciassero il figlio. "Dimmi, Pollino, dimmi, non mi rimprovererai di averti troppo amato?" "No, mamma" rispondeva quel fanciullone. "Me lo giuri?" "Su , mamma." "Vuoi restar qui, non qvero?" "Su , mamma." Allora il barone parlzcon chiarezza, con fermezza: "Senti, Giovanna. Tu non hai il diritto di disporre cosudi quella vita. Cizche tu fai qvile, qquasi criminoso su , perchpsacrifichi tuo figlio alla tua felicitj individuale." "Sono stata cosudisgraziata" gemette la poveretta singhiozzando, nascondendo la faccia tra le mani. "Oh, cosudisgraziata! Ora che sono tranquilla con lui, ora me lo portano via... Che cosa sarzio mai? Sola, sola, sempre sola..." "E io, Giovanna?" chiese il padre dolcemente, e le sedette vicino, l'attirzal suo petto, stringendola forte. Giovanna gli cinse il collo con furia, lo abbraccizcon violenza, e poi, ansimante, ancora soffocata dai singhiozzi, finucol dargli ragione. "Su , forse qvero, papj... Ero pazza, ma ho tanto sofferto! Su , desidero anch'io che entri in collegio..." Senza capire chiaramente che cosa stavano per fare di lui, il ragazzo si mise a piagnucolare. Allora le sue tre madri lo baciarono, gli fecero coraggio, e quando si rinchiusero nelle proprie stanze, mamma, nonno e zia Lisetta avevano il cuore stretto e finirono col piangere a letto, non escluso il barone che aveva sempre dimostrato di sapersi, almeno lui, contenere. Fu dunque deciso che alla riapertura delle scuole si sarebbe chiuso il figliolo in un collegio dell'Havre, e cosunell'estate Pollino ebbe picarezze che mai. Sua madre, che piangeva spesso al pensiero della separazione, preparzper lui un corredo spettacoloso come se dovesse intraprendere un viaggio di dieci anni; e un mattino d'ottobre, dopo una notte insonne, salirono con lui in una carrozza a due cavalli e partirono al trotto. In un viaggio precedente avevano gijscelto il suo posto: il posto in classe, il posto in dormitorio. Mamma e zia passarono tutto il giorno a disporre gli oggetti nel piccolo comz, ma il mobile non conteneva nemmeno la quarta parte di quello che avevano portato e la madre chiese del provveditore per ottenerne subito un altro. Fu chiamato l'economo, il quale non potpesimersi dal dichiarare che tanti effetti ed oggetti avrebbero soltanto ingombrato senza servire mai veramente; poi rifiutzla concessione col regolamento alla mano. La madre, delusa, penszdi affittare una stanza d'albergo raccomandando all'albergatore di recare egli stesso a Pollino cizche egli avrebbe richiesto. Poi fecero un giro lungo il porto per veder entrare e uscire i piroscafi. La triste sera cadde sulla cittjche si illuminza poco a poco. Pranzarono in una trattoria: nessuno aveva fame: si guardavano l'un l'altro con gli occhi un po' umidi: i piatti passavano davanti ai commensali e tornavano indietro quasi intatti. Poi, lentamente, ripresero la via del collegio. Ragazzi, ragazzi di tutte le stature arrivavano da tutte le parti, in compagnia di qualcuno: mamme, parenti, domestici. Molti piangevano. Si udiva qualche singhiozzo, qualche sommessa voce di pianto nel grande cortile appena rischiarata da un lume. La madre e Pollino si strinsero a lungo. Zia Lisetta restava indietro, gij, dimenticata lei, dimenticata! E nascondeva la faccia nel fazzoletto, povera vecchia zia. Ma il barone che cominciava a intenerirsi anche lui, accorcizautorevolmente gli addii, e trascinz lontano sua figlia. La carrozza li attendeva alla porta: salirono in silenzio tutti e tre: si trottzverso i "Pioppi" che era notte. Di quando in quando un singhiozzo, nell'ombra... Giovanna, il giorno dopo, pianse fino a sera. Quell'altro giorno fece attaccare e partu , naturalmente, per l'Havre. Il ragazzo sembrava si fosse gij rassegnato alla separazione; per la prima volta in vita sua aveva dei compagni e il desiderio di giocare, nello stesso parlatorio, lo faceva saltare sulla sedia. Ritornzcosuogni due giorni; non manczper l'uscita delle domeniche. Non sapendo che fare durante le lezioni fra l'una e l'altra ricreazione, se ne stava seduta in parlatorio, senz'aver npla forza npil coraggio di allontanarsi di lu , finchpil provveditore la esortza venire meno spesso. Naturalmente, non tenne conto di una raccomandazione come questa. Allora il superiore avvertuche se continuava cosu , cioqse distoglieva il figliolo dallo studio, se gli impediva di unirsi ai compagni nelle ore di riposo, egli avrebbe dovuto ridarglielo, e di cizfu avvertito con un biglietto il barone. Rimase dunque ai suoi "Pioppi" guardata a vista come una prigioniera, aspettando le vacanze con maggiore ansietjdi quanto non le aspettasse suo figlio. Allora l'assaluuna strana inquietudine: girava sola qua e ljper il paese, passava intere giornate fantasticando a vuoto, in compagnia di Massacro, passava ore e ore a guardare il mare seduta sulla scogliera, scendeva fino a Yport attraverso il bosco, rifacendo le antiche passeggiate, coi ricordi che la perseguitavano. Com'era lontano il tempo in cui aveva percorso quelle stesse strade fanciulla, fanciulla inebriata di sogni! Ogni volta che rivedeva suo figlio le sembrava come se fossero stati separati per tanto tempo: dieci anni! Egli diventava uomo di mese in mese: di mese in mese diventava sempre pivecchia. Il barone sembrava suo fratello. Zia Lisetta aveva l'aria di una sorella maggiore; perchpquella non invecchiava e restava com'era a venticinque anni: appassita. E Pollino, lui, non studiava: ripetpla quarta, la terza non andznpbene npmale, ma ripetpla seconda, e quando si trovzin liceo aveva esattamente vent'anni. Era diventato un giovanottone biondo, con favoriti gijfolti, e c'era anche l'ombra dei baffi. Ormai era lui che veniva, ogni domenica, ai "Pioppi", tanto piche da qualche tempo frequentava una scuola di equitazione e con un cavallo preso a nolo faceva la strada in due ore. La mattina presto la madre gli andava incontro con la zia Lisetta e col nonno (il barone si curvava sempre pi, camminava come un vecchietto, le mani dietro la schiena, quasi volesse sostenersi a quel modo) e andavano lentamente lungo la strada sedendosi a volte sul margine di un fossato o guardando da lontano se non si vedesse ancora il bel cavaliere. Appena il giovanotto appariva, come un punto nero sulla linea bianca, i tre agitavano i loro fazzoletti e lui metteva il suo cavallo al galoppo per piombare come l'uragano, cosuche i teneri cuori femminili si impaurivano e il nonno si esaltava e gridava: "Bravo, bravissimo!" con l'entusiasmo di chi non qpida tanto. Sebbene Pollino avesse sopravanzato sua madre di tutta la testa, Giovanna lo trattava sempre come un bambino, gli chiedeva ancora: "Non hai freddo ai piedi, Pollino?" e quando egli passeggiava davanti alla gradinata fumando una sigaretta, apriva una finestra per gridargli: "Ti prego, Pollino, non uscire a capo scoperto: ti prenderai un raffreddore di testa". Ma soprattutto tremava di inquietudine quando il figliolo partiva a cavallo, di notte: "Oh Dio, mio piccolo Pollino, non andrai troppo in fretta! Per caritj, sii prudente: pensa alla tua povera mamma che morirebbe se ti capitasse qualcosa...". Ma ecco che, un sabato mattina, riceve una lettera di Paolo con l'annuncio che domani non verrjper via di una gita di piacere che gli hanno organizzato gli amici. E cosuper tutta la domenica fu torturata dall'angoscia, per non sapeva quale presentimento, e il giovedusuccessivo non potppiresistere: partu . Le sembrzcambiato senza che se ne spiegasse il motivo. Era pianimato, parlava con disinvoltura, aveva una voce maschia. Disse subito, come una cosa tutta naturale: "Sai, mamma, giacchpsei venuta oggi, non verrzdomenica ai "Pioppi". Rifaremo ancora una gita." L'altra restz colpita, soffocata, come se egli le avesse annunziato che partiva per il nuovo mondo. "Oh Pollino!" esclamzquando potpparlare. "Che hai, Pollino? Dimmi che succede." "Nulla" rispose egli ridendo e abbracciandola. "Vado a divertirmi coi miei amici, mamma: ql'etj." E lei non seppe che dire. Era l'etj! Ma, ritornando al castello, sola, rannicchiata nella carrozza, le venne uno strano pensiero: non aveva riconosciuto il suo Pollino, il suo piccolo Pollino, il suo ragazzo d'un tempo. Si accorse per la prima volta, si accorse che era grande, che era cresciuto, che non era pisuo, che voleva vivere a modo proprio, senza occuparsi dei vecchi. Le sembrava che egli si fosse trasformato, in un giorno. Come? Era suo figlio, il suo piccolo povero ragazzo che una volta le faceva piantar l'insalata (lattuga e radicchio, indivia e cicoria) quel giovanotto robusto la cui volontjsi affermava? Per due mesi Paolo non tornza rivedere i suoi cari che a lunghi intervalli, e sempre col desiderio (oh, glielo leggevano in viso) di andarsene presto, cercando di guadagnare un'ora ogni volta. Giovanna si spaventava, e il padre le ripeteva sempre per consolarla: "Lascialo fare, quel ragazzo. Ha vent'anni!" Ma un giorno si presenta un signore d'etj, assai mal vestito, che chiede con un forte accento teutonico: "La signora contessa?" e, dopo molti saluti e complimenti, tira fuori di tasca un portafogli sordido e dichiara: "Io afere... piccola carta per foi..." e tende, spiegandolo, un foglio di carta unta. Giovanna lesse, rilesse, guardzl'ebreo, rilesse ancora, infine domandz: "Ebbene? Che cosa vuol dire?" Il vecchio spiegztutto ossequioso: "Fi dirz. Fostro figlio afefa bisogno di danaro et io, sapendo foi essere buona matre, gli ho dato piccola somma per suo pisogno..." Tremava. "Ma perchpnon chiederla a me?" L'ebreo spiegzche si trattava di un debito di gioco da pagare il giorno dopo, prima di mezzogiorno: che Paolo non era ancora maggiorenne e perciznessuno gli avrebbe prestato un centesimo: che il suo onore sarebbe stato "compromesso" senza il "piccolo servizio di favore" che lui l'ebreo, aveva reso a quel giovanotto. Giovanna avrebbe voluto alzarsi, chiamare suo padre, ma era come se non ne avesse la forza: l'emozione la paralizzava. Disse infine a quello strozzino: "Volete avere la compiacenza di suonare il campanello?" Egli esitz, come temendo un inganno. "Se fi disturba, tornerz..." No, no: lei fece segno di no con la testa. Il vecchio suonz: e aspettarono, l'uno di fronte all'altro, in silenzio. Comparve il barone. Capusubito di che si trattava. L'obbligazione era per millecinquecento franchi. Ne pagzmille, dicendo all'uomo, gli occhi negli occhi: "Soprattutto: non tornate mai pi." L'altro saluta, si inchina, scompare. La madre e il nonno partirono immediatamente per l'Havre; ma in collegio si sentirono dire che Paolo non si era pifatto vivo da un mese. Il rettore, anzi, aveva ricevuto quattro lettere firmate da Giovanna: la prima annunziava una malattia dell'allievo, le altre davano ampie e dettagliate notizie con l'ausilio dei certificati medici: tutto falso, naturalmente. Quei poveretti restavano lua guardarsi, muti, atterriti. Il rettore, desolato, li condusse dal commissario di polizia. Giovanna e suo padre alloggiarono, per quella notte, all'albergo. E il giorno dopo il giovanotto fu trovato all'Havre in casa di una poco di buono. E lo condussero via, lo portarono ai "Pioppi" senza che una sola parola fosse scambiata fra loro durante il tragitto. Giovanna piangeva sommessamente con la faccia nascosta nel fazzoletto; Paolo, indifferente, alzava gli occhi a guardar la campagna. In otto giorni si scopruche negli ultimi tre mesi aveva fatto debiti per una somma discreta: quindicimila franchi. I creditori non si erano fatti subito avanti perchpsapevano che ben presto egli sarebbe stato maggiorenne. Niente, niente, nessuna "spiegazione". Si voleva riconquistarlo con la dolcezza. Gli offrivano pietanzine delicate, gli sorridevano, lo blandivano, quasi a finirlo di guastare. Era di primavera. E gli si noleggiza Yport un battellino perchppotesse fare (oh, i nuovi timori di Giovanna!) tutte le gite in mare che voleva. Solo, non gli si lasciava il cavallo per paura che ritornasse ancora laggi. Disoccupato, egli divenne irritabile, talvolta perfino brutale. Invece il barone si inquietava per via degli studi incompleti, mentre Giovanna si spaventava all'idea di una separazione e nello stesso tempo si chiedeva che cosa avrebbero fatto di lui. Una sera, Paolo non tornz. Si seppe che era andato in barca con due marinai. Sua madre ansiosa scese a Yport, senza niente in testa, di notte. C'erano alcuni uomini che attendevano sulla spiaggia il ritorno dell'imbarcazione. Appare al largo un piccolo lume: viene, si approssima, dondola. Ma Paolo non c'q, non qa bordo. Non qa bordo perchpsi qfatto condurre all'Havre, all'Havre! La polizia ebbe un bel cercarlo: questa volta non lo trovz. La ragazza che lo aveva gijnascosto una prima volta era anche lei scomparsa senza lasciar traccia: venduto il mobilio, pagato l'affitto. Nella stanza di Paolo, ai "Pioppi", si scoprirono due lettere di questa ragazza che sembrava pazza d'amore per lui, e poi questa ragazza parlava di un certo viaggio in Inghilterra, avendo trovato finalmente (questo affermava) i denari. Quei tre poveretti vissero silenziosi e tristi al castello nel cupo inferno delle torture morali. I capelli della madre, gijgrigi, erano ormai tutti bianchi. Si chiedeva ingenuamente perchpil destino la colpisse cosu . E fu il giorno che ricevette una lettera dell'abate Tolbiac: "Signora, la mano di Dio pesa su voi. Voi gli avete rifiutato il vostro bambino. Egli ve l'ha preso per gettarlo nelle braccia di una sgualdrina. Non aprite gli occhi nemmeno a questo avvertimento del Cielo? La misericordia del Signore qinfinita. Forse vi perdonerjse voi verrete a inginocchiarvi davanti a Lui. Io sono il suo servitore ed io vi aprirzla porta della sua Casa quando verrete a bussarvi". Rimase a lungo cosu , con questa lettera in grembo. Forse era vero. Su , forse quel che diceva il prete era vero. E tutte le incertezze religiose, ecco, venivano a straziare, a lacerare la sua coscienza. Dio poteva essere vendicativo e geloso come gli uomini? Ma se Egli non si fosse mostrato geloso, chi lo avrebbe temuto? Nessuno. Chi lo avrebbe adorato? Nessuno. Per farsi meglio conoscere a noi, senza dubbio, Egli si mostrava agli uomini coi loro stessi sentimenti. E allora il dubbio vile che spinge nelle chiese coloro che esitano, coloro che dubitano, penetrzdentro di lei, al punto da spingerla una sera, al calar della notte, verso il presbiterio, e cosu , di nascosto, si inginocchizai piedi dello smunto abate implorando l'assoluzione. Egli le promise un mezzo perdono, non potendo Iddio riversare tutte le sue grazie sopra un tetto che proteggeva un uomo come il barone Le Perthuis des Vauds. "Voi" affermz"sentirete presto gli effetti della Divina Provvidenza." Infatti, due giorni dopo, ricevette una lettera del suo figliolo; e nell'esaltazione del suo affanno considerz questa lettera come il principio del sollievo promesso dal sacerdote: "Mia cara mamma, non essere inquieta. Sono a Londra in buona salute, ma ho gran bisogno di denaro. Non abbiamo piun soldo e non mangiamo tutti i giorni. Colei che mi segue e che amo con tutta l'anima mia ha speso tutto cizche possedeva per non lasciarmi, cioqcinquemila franchi, e tu capisci che rendere questa somma qper me obbligo d'onore. Tu sarai cosubuona da anticiparmi una quindicina di migliaia di franchi sull'ereditj del papj, perchpio sarzpresto maggiorenne. Mi trarrai cosuda un grande imbarazzo. "Addio, cara mamma. T'abbraccio con tutto il cuore e cosuabbraccio il nonno e zia Lisetta. Spero di rivederti presto. Tuo figlio, Visconte Paolo di Lamare." Le aveva scritto! Dunque... non la dimenticava. Non pensznemmeno che egli bussava a quattrini. Ma su , gliene avrebbe mandato del denaro, poichpegli non ne aveva pi. Che importava il denaro? Le aveva scritto! E corse, piangendo, a mostrare questa lettera al padre. Zia Lisetta fu chiamata e si rilesse parola per parola questa cara carta di lui. Ogni frase fu ripetuta. Ogni frase fu discussa. E Giovanna passava dalla disperazione completa a una specie di ebbrezza, e lo scusava, Paolo, il suo Paolo: "Ritornerj, ritornerjpresto. L'ha scritto!" "E' lo stesso" disse, picalmo, il barone. "Egli ci ha lasciati per quella femmina. Dunque l'ama pidi noi perchpnon ha esitato tra lei e noi." Era un ragionamento cosuchiaro che si ripercosse nel cuore di Giovanna con una fitta acutissima, e da quel momento la poveretta si sentunascere l'odio, un odio invincibile, selvaggio, un odio di mamma gelosa, per quell'amante che le rubava il figliolo. Fino a quel momento tutti i suoi pensieri erano stati per Paolo. Appena ricordava che una sgualdrina fosse stata la causa dei suoi errori; ma ora, d'un tratto, da quando le avevano evocato la rivale, da quando le avevano rivelato il suo funesto potere, ecco, sentiva che fra lei e quella donna cominciava una lotta accanita e pensava perfino che avrebbe preferito perdere suo figlio piuttosto che dividerlo con quella. Tutta la sua gioia crollz. D'accordo col padre mandzi quindicimila franchi al figliolo, e non se ne seppe nulla per ben cinque mesi. Dopo cinque mesi si presenta un uomo d'affari per regolare la successione di Giuliano. Giovanna e il barone rendono i conti senza discutere: concedono anzi la parte di usufrutto che toccherebbe alla madre. Paolo intasca centoventimila franchi e ritorna a Parigi. E scrive quattro lettere in sei mesi: lo stile qconciso: un po' freddine le proteste d'affetto in ogni chiusa. "Lavoro: trovato un posto alla Borsa. Spero di abbracciarvi tutti ai 'Pioppi', miei cari." Non una parola della donna e quel silenzio diceva pi che se avesse parlato di lei per quattro pagine. Giovanna sentiva quella donna nascosta dietro le lettere gelide, era lu , era lu , l'implacabile, l'eterna nemica delle madri, la prostituta. I tre solitari discutevano sempre sul modo di salvare quel poveretto, e non trovavano nulla. Un viaggio a Parigi? A che scopo? Il barone era del parere di lasciar esaurire quella passione: poi il ragazzo sarebbe tornato da sp. Ma intanto, che vita penosa! Giovanna e la zia continuano ad andare in chiesa di nascosto del vecchio... E passa il tempo, e le notizie non giungono: finchpun brutto giorno arriva una lettera, una lettera disperata, che mozza il respiro:. "Mia povera mamma, io sono perduto, non mi resta piche bruciarmi le cervella: se tu non vieni in mio aiuto. Una speculazione che presentava tutte le probabilitjdel buon successo, qandata a rotoli e io sono debitore di ottantacinquemila franchi. Se non pago, qla rovina, q il disonore, ql'impossibilitjdi poter fare qualcosa in avvenire. Sono perduto, ti ripeto, e mi ucciderz anzichpsopravvivere alla vergogna. Forse lo avrei gijfatto, senza l'incoraggiamento di una donna di cui non ti parlo, ma che qla mia provvidenza. Ti bacio dal fondo del cuore, mia cara mamma, e forse per sempre. Addio. Paolo." Alcuni fogli di carta bollata aggiunti alla lettera davano i chiarimenti particolareggiati del disastro. Il barone rispose immediatamente che avrebbe provveduto. Partuper l'Havre per consultarsi e trattare; poi ipoteczalcune terre ed ebbe il denaro per Paolo. Paolo rispose con tre lettere piene di tenerezza e di entusiasmo, annunciando sempre il suo prossimo arrivo, per abbracciare i cari parenti; ma non si fece mai vivo. Un anno intero passz. Giovanna e il barone stavano per andare in cerca di lui e tentare un ultimo sforzo, quando seppero da un suo biglietto che era di nuovo a Londra a costituire un'impresa di battelli a vapore: PAOLO DELAMARE E COMPANY. Egli scriveva: "E' la fortuna assicurata per me, forse la ricchezza. E non rischio nulla. Voi vedete gijtutti i vantaggi. Quando ritornerz, avrzuna bella posizione sociale. Oggi, non vi sono che gli affari per trarsi d'impaccio". Tre mesi pitardi la compagnia dei piroscafi era in stato di fallimento, e il direttore ricercato per irregolaritjnei libri commerciali. Giovanna ebbe una crisi di nervi che durzparecchie ore: poi si allentz. Il barone riparte per l'Havre, vede, si informa, parla con avvocati, parla con uomini d'affari e con uscieri, constata che il deficit della societjDELAMARE qdi duecentotrentacinquemila franchi, ipoteca di nuovo i suoi beni. Gravato per una forte somma il castello dei "Pioppi" con le sue due fattorie... Una sera, mentr'egli regolava le ultime formalitjin un gabinetto di procuratore, rotolzsul pavimento, per un colpo apoplettico. Giovanna fu avvertita da un messo ma quando arrivzsul luogo, il suo povero papjera spirato. Ritornzai "Pioppi" cosuannientata che il suo dolore era piche disperazione, stordimento. L'abate Tolbiac nonostante le suppliche delle due donne, non volle il cadavere in chiesa, e il barone fu seppellito senza cerimonia, sul far della notte. Paolo (sempre nascosto in Inghilterra) seppe della disgrazia da uno dei liquidatori del suo fallimento, e scrisse per scusarsi di non essere venuto, avendo appreso la disgrazia con troppo ritardo. "D'altronde" diceva "ora che mi hai tolto da ogni impiccio, rientrerzin Francia e cosupotrzriabbracciarti." Ma Giovanna viveva in un tale abbattimento di spirito che sembrava non capire pinulla. Verso la fine dell'inverno, zia Lisetta, in etjdi sessantotto anni, ebbe una bronchite che degenerzin polmonite. Disse: "Mia povera Giannetta, io vado a chiedere al buon Dio che abbia pietjdi te", e spirz dolcemente. Giovanna la seguual cimitero, vide cadere la terra sulla cassa e quasi svenne, come prostrata dal desiderio di finire, di morire anche lei, di non soffrir pi, di non pensare pi, e allora si fece avanti una robusta contadina che afferrzquella poveretta fra le sue solide braccia e se la portzvia con sp, in braccio, proprio come una bambina. Al castello, Giovanna, che aveva passato cinque notti al capezzale della vecchia zia, si lascizspogliare e mettere a letto da quella sconosciuta che la maneggiava con dolcezza e con autoritj, e cadde in un sonno profondo, un sonno d'esaurimento, dopo tanta fatica e tanto dolore. E si svegliza mezzanotte. Ardeva una lampada sul caminetto. Una donna dormiva su una poltrona, luvicino. Chi era? Non la riconosceva. E si sporgeva sulla sponda del letto, per sapere. Difficile distinguere i lineamenti in quella luce tremolante dello stoppino che fluttuava nell'olio di un bicchiere di cucina. Eppure... eppure le sembrava di aver visto quel viso. Su , qualche volta. Ma quando? Dove? La donna dormiva tranquilla col capo inclinato sulla spalla, e la cuffia era caduta per terra. Poteva avere quaranta, quarantacinque anni: forte, colorita, quadrata, possente... Le mani pendevano abbandonate ai lati della poltrona. E i capelli alle tempie erano grigi... Giovanna guardava ostinata, con quel turbamento dello spirito che q proprio del risvegliarsi da un sonno febbricitante che segue a una grande sventura. Oh su , aveva gij visto quel viso! Da molto tempo? Da poco? Non sapeva. Nulla sapeva. E si alzzpiano piano per guardar la dormiente pida vicino, le si accostzin punta di piedi. Su , era lei, era la donna che l'aveva presa in braccio al cimitero, e poi coricata. Ricordava confusamente, su , ma ricordava. Non l'aveva incontrata altrove, in un'altra epoca della sua vita? Oppure credeva di riconoscerla soltanto per il ricordo oscuro di quell'ultimo giorno? E come mai la sconosciuta era in questa stanza, e perchp? La donna solleva le palpebre, vede la signora, si drizza di colpo. Sono cosuvicine, faccia a faccia, che i loro petti quasi si toccano. "Come? In piedi? Prenderete un malanno, a quest'ora. Tornate a letto, che sarjmeglio." "Chi siete?" domanda Giovanna. Ma la donna apre le braccia, afferra quel povero corpo, lo solleva, lo riporta a letto, con la sua forza virile. E mentre lo adagia delicatamente sulle coltri, piegata, quasi coricata su quel povero corpo, si mette a piangere e a baciare: bacia con passione quel viso, bacia quei capelli, bacia quegli occhi, bacia e bagna di lacrime, e dice: "Mia povera padrona, signorina Giovanna, signorina Giovanna, non mi riconoscete dunque pi?" "Rosalu a?" Si buttano le braccia al collo, si stringono e si baciano e singhiozzano tutt'e due e, cosu strette, mescolano le loro lacrime: non si sciolgono pi. Rosalu a fu la prima a calmarsi. "Adesso basta. Bisogna che facciate giudizio. Non dovete prendere freddo." Raccolse le coperte, rincalzzil letto, riaccomodzil guanciale sotto il capo della sua antica padrona che soffocava ancora nel pianto, tutta agitata dai ricordi che nascevano via via nel suo cuore. "Come mai sei tornata, Rosalu a, povera figliola mia?" "Potevo lasciarvi sola in questo momento?" "Accendi una candela, accendi, accendi, perchp possa vederti." Il lumino a olio passzsul comodino, e allora si guardarono, si considerarono a lungo, senza sapersi dire una parola. Poi Giovanna stese alla sua vecchia serva le braccia. "Non ti avrei riconosciuta. Sei molto cambiata. Non perzcome me, non come me..." Rosalu a non si saziava di guardare quella signora dai capelli bianchi, magra, avvizzita, che aveva lasciata giovane e bella. "E' vero. Voi siete cambiata pidi quel che dovrebbe essere. Ma pensate che sono ventiquattr'anni. Sono ventiquattro anni che non ci siamo viste." "Sei stata almeno felice?" chiese Giovanna dopo una pausa, dopo aver riflettuto. Rosalu a esitz, come temendo di ridestare in lei qualche ricordo penoso. "Peuh... Non ho da lagnarmi. Sono stata pifelice di voi... su ... certamente... Una cosa sola mi ha sempre addolorata, ed qdi non essere rimasta qui..." Tacque improvvisamente, spiacente di aver detto questo, senza pensarci su. "Ma sai, figliola mia", riprese con dolcezza Giovanna "non si fa sempre cizche si vuole. Anche tu sei vedova no?" Poi, con una voce che trema d'angoscia: "Altri figlioli... hai altri figlioli?" "Nossignora." "E lui, tuo... tuo figlio, che cosa fa? Com'q? sei contenta?" "Sissignora. E' un buon ragazzo, lavora volentieri. E' ammogliato da sei mesi, si prenderjla mia fattoria. Perchpio... sono ritornata con voi..." "Allora.. tu non mi lascerai pi, figlia mia?" "Certamente" affermzcon un tono brusco la serva. "Ho dato tutte le mie disposizioni per questo." E, per un lungo tempo, non si dissero altro. Giovanna si rimetteva, suo malgrado, a confrontare la sua vita e quella di Rosalu a, ma senza amarezza, rassegnata ora alla crudeltjdella sorte. "Tuo marito... com'qstato con te?" "Oh, era un brav'uomo, signora, mica un fannullone, e il denaro l'ha messo da parte. E' morto tisico..." In questo momento Giovanna si sedette addirittura sul letto, con una gran voglia di sapere. "Vediamo, dimmi tutto, figliola. Raccontami la tua vita. Sento che mi farjbene." Rosalu a avvicina una sedia, si siede, si accomoda e si mette a raccontar la sua vita. Parla di sp, della sua casa, della sua famiglia: entra in tutti quei piccoli particolari che sono cosucari alla gente di campagna: descrive il suo cortile e ride, ride delle cose antiche che le richiamano le ore buone della vita: e a poco a poco alza anche la voce, da fattoressa avvezza al comando. Finisce per dichiarare: "Oh su , ormai ho della terra al sole e non ho paura di nulla." Riprese a voce pi bassa, un po' turbata: "E' a voi che debbo tutto, signora. E mettetevi bene in mente che non voglio salario. Ah, no! Mai! E poi se vorreste darmene, me ne andrei subito via." "Non pretenderai mica di servirmi per nulla?" "Sissignora, sissignora. La paga! Voi mi dareste la paga! Ma se ne ho ormai come voi! Sapete quel che vi resta con tutto quel garbuglio di ipoteche, di prestiti e di interessi non pagati che aumentano a ogni scadenza? Lo sapete? No, vero? Ebbene, io scommetto che non avete pidi diecimila franchi di rendita. Nemmeno diecimila, capite? Ma io metterzin ordine tutto, su , e anche presto." S'era messa a parlare a voce alta, eccitata, indignata per quegli interessi trascurati, per la rovina che incombeva. E siccome passava sul volto della sua padrona un vago sorriso di tenerezza, esclamz, ribellandosi: "Non bisogna ridere, signora, perchpsenza soldi ci sono solo i tangheri e i villanacci." Giovanna le prese le mani e le tenne un po' fra le sue. Disse poi lentamente, sempre perseguitata dal pensiero che la opprimeva: "Oh, io non sono stata fortunata. Tutto qandato male per me. La fatalitjsi qaccanita contro di me." Ma Rosalu a scoteva la testa. "Non bisogna dire queste cose. Non bisogna dire queste cose. Voi siete stata maritata male, ecco tutto. Non ci si marita a quel modo, senza conoscere bene chi si prende." Cosu , continuarono a parlar di se stesse come avrebbero fatto due vecchie povere amiche. Il sole spunta, e parlano ancora. Capitolo 12 In otto giorni Rosalu a assunse il governo della casa e della gente del castello (ed era governo assoluto) mentre Giovanna, rassegnata, passivamente sorrideva e obbediva. Giovanna era debole debole; trascinava le gambe come gijla sua mamma, sempre appoggiata al braccio della cameriera, che la faceva camminare a lenti passi e non le risparmiava le parole brusche o la riconfortava con paroline tenere trattandola come una bambina malata. E parlavano sempre del passato! La padrona con le lacrime che le facevano nodo alla gola, l'altra col tono calmo e tranquillo dell'apatia contadina. Rosalu a ritornava spesso su quell'argomento scottante degl'interessi non pagati, e pretendeva le si dessero tutte le carte, quelle tristi carte che la padrona ignara di affari, avrebbe voluto nascondere per materna pietjverso il suo Paolo. Allora, per una settimana, Rosalu a andztutti i giorni a Fpcamp dal notaio, perchpil notaio le spiegasse tutto ben bene. Una sera, dopo aver messo a letto la sua padrona, si sedette accanto al letto e cominciz: "Ora che vi ho messo a nanna, signora mia, discorriamo un poco fra noi." Ed espose la situazione. Quando tutto fosse stato regolato, sarebbero rimasti sette o otto mila franchi di rendita: non di pi. "Che vuoi, vecchia mia? So bene che non invecchierze ne avrzsempre abbastanza." Rosalu a ci si arrabbiz. "Per voi, certamente, signora; ma il signor Paolo volete lasciarlo senza il becco d'un quattrino?" "Te ne prego" disse lei con un brivido "non parlarmi di lui, non parlarmene mai. Soffro troppo quando ci penso..." "E io voglio parlarvene! E io voglio parlarvene, perchpvoi non siete capace di far niente! Ora fa delle sciocchezze, ma non ne farjsempre, si ammoglierj, avrji suoi figlioli e ci vorrjil denaro per allevarli... Ecco, va bene: voi vendete i "Pioppi"." Giovanna sobbalzz, e restzseduta sul letto. "Dici sul serio? Vendere i "Pioppi"? Ah no! questo no!" Rosalu a non si scompose. "Io vi dico che venderete il castello dei "Pioppi". Perchp, signora, bisogna." E sfoderzla sua scienza: ragionamenti, calcoli, progetti. Venduto il castello con le sue due fattorie a un compratore che aveva sottomano, sarebbero rimaste le quattro fattorie di San Leonardo, le quali fattorie, liberate da ogni ipoteca, avrebbero dato una rendita di ottomilatrecento franchi. Occorrevano milletrecento franchi l'anno per la manutenzione dei beni, e restavano esattamente settemila franchi, cinquemila per il bilancio annuale, duemila per il fondo di riserva. E aggiungeva: "Tutto il resto qstato mangiato ed qfinito. E poi io terrzle chiavi, capite? e quanto al signor Paolo, non avrjpiun soldo che qun soldo, capite? Egli vi porterebbe via anche l'ultimo spicciolo." Giovanna piangeva in silenzio. "E... se non avrjda mangiare?" "Se avrjfame, verrja mangiare da noi. Ci sarjsempre un posto a tavola e un letto per lui. Credete voi che egli avrebbe fatto tante sciocchezze se aveste resistito fin dal principio?" "Ma egli, vedi, aveva dei debiti... sarebbe stato disonorato se..." "Quando voi non aveste pinulla, cizgl'impedirebbe di farne? Voi avete pagato e sta bene, ma adesso non pagherete pi: sono io che ve lo dico. E ora, signora buona notte." Giovanna non potpchiudere occhio, agitata dal pensiero di vendere i "Pioppi", di andarsene, di lasciar la sua bella casa a cui era legata tutta la sua vita. E la mattina dopo, quando vide entrare Rosalu a, ammise che non si sarebbe mai decisa ad allontanarsi di lu . La cameriera ci si arrabbizper davvero. "L'ho gijdetto, signora: qindispensabile. Il notaio sta per venire con quello che vuol comperare il castello. Altrimenti, fra quattro anni voi non avrete piun cavolo." "Mai, mai, non potrz, non potrz" andava ripetendo Giovanna che sembrava svanita, annichilita. Un'ora dopo il fattore le rimetteva una lettera di Paolo: Paolo le chiedeva altri diecimila franchi. Che fare? Sbigottita, consultzRosalu a. "Eh? Che vi dicevo?" rispose Rosalu a levando al cielo le braccia. "Se non fossi tornata io, sareste proprio restati senza un soldo, senza un soldo, tutt'e due." Giovanna piegzil capo, e rispose: "Figlio mio caro, io non posso fare pinulla per te. Mi hai rovinata. Sono perfino obbligata a vendere i 'Pioppi'. Non dimenticare perzche avrzsempre un tetto da offrirti quando vorrai rifugiarti presso la tua vecchia mamma che hai fatto tanto soffrire. Giovanna." Quando poi arrivzil notaio col signor Jeoffrin, un vecchio raffinatore di zucchero, ricevette questi signori lei stessa e li invitza visitare tutto minutamente. Un mese dopo firmava il contratto di vendita e comprava nello stesso tempo una casina borghese presso Goderville, sulla strada maestra di Montivilliers, frazione di Batterville. Poi passeggizsola nel viale di mammina, fino a sera. Che affanno! Che strazio! Camminava e mandava singhiozzi e addii disperati a tutte quelle cose note e care che sembravano entrate nei suoi occhi e nella sua anima: al sedile tarlato sotto il platano, al giardino, al boschetto, a un vecchio tronco contro cui si appoggiava, all'argine davanti alla landa dove si era tante volte seduta, da cui aveva visto correre il conte di Fourville il giorno della morte di Giuliano, un terribile giorno! Rosalu a venne a chiamarla, la prese per un braccio, la obbligza rientrare. Un robusto contadino di venticinque anni attendeva davanti alla porta. Salutzamichevolmente come se questa signora la conoscesse, lui, da gran tempo. "Buon giorno, signora Giovanna. Come state? La mamma mi ha detto di venire, per via dello sgombero. Vorrei saper subito quel che c'qda trasportare, perchpporterzvia la roba un poco alla volta. Per non sospendere i lavori in campagna." Era il figlio della sua domestica, era il figlio di Giuliano, il fratello di Paolo. Le parve improvvisamente che il cuore le si fermasse: e nello stesso tempo avrebbe voluto abbracciarlo, ma su , quel ragazzo! Lo guardava, lo guardava, e tentava di scorgere su quel viso una rassomiglianza: su , col marito! col figliolo! Egli era tutto rubicondo, vigoroso, capelli biondi, occhi azzurri (gli occhi di Rosalu a), eppure... eppure rassomigliava a Giuliano! Dove? Perchp? Non sapeva, precisamente, proprio, non sapeva, ma egli aveva certo qualche cosa di lui, di Giuliano... "Mi fareste un favore" continuava il ragazzo "se mi mostraste subito quello che c'qda portare." Ma lei non sapeva ancora, non sapeva come si sarebbe decisa a scegliere, essendo la sua nuova casa piccola assai, e lo pregzdi tornare, ecco, verso la fine della settimana. Allora il suo trasloco la preoccupz, la distrasse nella sua vita triste, senza scopo. Passava da una stanza all'altra cercando con gli occhi i mobili che le ricordavano qualche avvenimento, i mobili amici che fanno parte della nostra esistenza, quasi del nostro essere, conosciuti e amati fin dall'infanzia e a cui sono legati ricordi di gioia e di tristezza e tante date della nostra esistenza, che sono stati i compagni mesti delle ore liete e delle ore nere e hanno vegliato, si sono logorati vicino a noi, stoffe in parte stracciate, fodere consunte, intelaiature sconnesse, colori sbiaditi. E lei li sceglieva a uno a uno, spesso esitando, affannata, turbata, come se prendesse una decisione importante, e ritornava di continuo sulle sue decisioni o pesava i meriti di due poltrone o di qualche vecchio stipetto in confronto a un tavolino da lavoro o apriva cassetti cercando di ricordarsi dei fatti, e finalmente, quando si era ben detto: "Be', prenderz questo", si portava l'oggetto prescelto in sala da pranzo. Naturalmente non rinunciava al mobilio della sua camera da letto e salvava le sue tappezzerie, salvava la pendola, tutto; sceglieva qualche sedia del salone, quelle stesse di cui nella sua infanzia aveva adorato i disegni, la volpe e la cicogna, la volpe e il corvo, la cicala e la formica e il malinconico airone. Poi, frugando in tutti gli angoli di quella cara dimora, che doveva abbandonare per sempre sali, un giorno, su nel solaio. E qui restzsbigottita. Un ammasso di oggetti d'ogni genere, alcuni spezzati, alcuni coperti di polvere, altri confinati lasssenza ragione, perchpnon piacevano pi, perchp rimpiazzati alla svelta; rivedeva certi oggettini, certe cianfrusaglie gijconosciute e simpatiche un tempo e poi tutt'a un tratto scomparse, scomparse cosu , senza che ci avesse mai fatto caso; certi nonnulla che aveva avuto fra le mani, vecchi piccoli oggetti insignificanti che aveva trascinato per quindici anni presso di sp, che si era abituata a rivedere ogni giorno senza curarsene troppo e adesso, qui, ritrovati di colpo, in solaio, vicino ad altri piantichi di cui ricordava benissimo il posto al momento del suo arrivo al castello, ecco, assumevano improvvisamente una grande importanza, di testimoni dimenticati, di amici finalmente ritrovati. Ma su , le facevano l'effetto di quelle persone che si sono frequentate a lungo senza che si siano mai rivelate e tutt'a un tratto, una sera, a proposito di non si sa che, si espandono, si espandono, fino a svelare un'anima che non sembrava proprio ci fosse. "Guarda guarda, sono io che ho incrinato questa tazza cinese" si diceva Giovanna con piccoli sussulti al cuore passando dall'uno all'altro pezzo. "Ricordo ancora quando fu: pochi giorni prima del mio matrimonio. Ah, ecco la lucernina della mamma. Ecco il bastone che papjruppe quando voleva aprire il cancello: il legno si era gonfiato, gij, per la pioggia..." E c'erano pure, ljin mezzo cose che lei non conosceva, che non le ricordavano nulla, quelle che provengono dai nonni e dai bisnonni, che sembrano pipovere delle altre con quell'aria di esilio in questo tempo che non qpiil loro, e sono tanto tristi per l'abbandono in cui vengono lasciate; cose di cui nessuno sa pila storia perchpnessuno ha mai visto coloro che le hanno scelte, acquistate, possedute, amate, perchpnessuno ha conosciuto le mani che le toccavano ogni giorno, gli occhi che le guardavano con gioia. E Giovanna sfiorava questi oggetti con le sue mani, li girava e li rigirava, lasciava la traccia delle sue dita su quegli strati di polvere, restava luin mezzo ai vecchiumi nella luce scialba che pioveva da qualche finestrino a vetri aperto nel tetto, osservava attenta certe sedie a tre gambe chiedendosi se non le ricordassero nulla o una bacinella di rame o uno scaldapiedi sfondato (questo le sembrava di riconoscerlo) o un mucchio di utensili fuori uso. Poi riunututti gli oggetti da portar via e Rosalu a fu incaricata di ritirarli. Ma Rosalu a si indignava. Non voleva, no, non voleva caricarsi di tutte quelle "sudicerie". Giovanna non aveva ormai piuna volontj sua, ma quella volta tenne duro e bisognzproprio obbedirla. Finalmente un mattino, il giovane contadino figlio di Giuliano, Dionigi Lecoq, se ne venne con la sua carretta per fare un primo viaggio. Rosalu a lo accompagnzper sorvegliare lo scarico e mettere a posto la roba. Giovanna, cosurimase sola. E' sola, e vaga per le stanze del suo castello con la morte nell'anima, e bacia con improvvisi slanci d'amore tutto cizche non puzportare con spnell'altra casa: e sono gli uccelli della tappezzeria del salone sono i vecchi candelabri, tutto cizche incontra, tutto cizsu cui posa gli occhi, i suoi poveri occhi gonfi di lacrime... E il mare? Bisognerjbene dire addio anche al mare! Era verso la fine di settembre: un cielo basso e grigio sembrava pesare sulla terra: onde tristi e giallastre si stendevano a perdita d'occhio. E lei restzlj, non si sa quanto, in piedi sull'alta scogliera, in quei tormentosi pensieri, aspettando l'arrivo della notte. Fece notte, e lei tornzindietro sapendo bene di aver sofferto in quel giorno nppinpmeno che per le sue maggiori sventure. Rosalu a l'aspettava. Era entusiasta della casa nuova, Rosalu a. Diceva che era molto piallegra di questa gran carcassa di bastimento, che non dava nemmeno su una strada. Ma Giovanna pianse tutta la sera... Da quando il castello era stato venduto, i fittavoli non avevano piper lei i dovuti riguardi e la chiamavano "la pazza", senza saperne bene il motivo, ma intuendo col loro istinto brutale quella sensibilitjmorbosa e crescente, quelle fantasticherie da esaltata, il disordine di quella povera anima sconvolta dalle sventure. La vigilia della partenza entrzin scuderia quasi per caso, e un brontolu o la fece trasalire. Massacro! Erano mesi e mesi che non aveva pensato a Massacro. Eccolo qua il poveretto, cieco e paralitico, giunto all'etjvenerabile ancora vivo sul suo letto di paglia, per le cure di Liduina che non lo aveva mai dimenticato. Giovanna lo prese fra le sue braccia, lo baciz, lo portzdentro casa. Grosso come un barile, Massacro si trascinava a stento sulle sue gambe rigide e storte e abbaiava come quei cani di legno che si portano in dono ai ragazzi. Ed ecco l'ultimo giorno. Giovanna aveva dormito nella vecchia stanza di Giuliano (la sua era rimasta senza mobili), e scese dal letto estenuata, ansimante, come se avesse fatto una gran corsa. La carretta era gijnel cortile, con le valigie e il resto della roba: dietro le avevano attaccato un carrettino a due ruote dove dovevano prender posto la padrona e la serva. PapjSimone e Liduina sarebbero rimasti soli al castello fino all'arrivo del nuovo proprietario, poi si sarebbero ritirati presso i loro parenti con una piccola rendita che la padrona aveva assegnato a entrambi i fedeli. E avevano anche le loro economie questi poveri vecchi servitori diventati brontoloni ed inutili. Quanto a Mario, si era voluto ammogliare e cosuaveva gijda qualche tempo lasciato la casa. Verso le otto cominciza cadere la pioggia. Era una pioggia fine e gelata, spinta da una leggera brezza marina. Allora bisognzcoprire la carretta. Le foglie cominciavano gija distaccarsi dai rami. Sulla tavola, in cucina, tazze di caffqe latte fumavano. Giovanna si sedette davanti alla sua e bevette a piccoli sorsi. S'alzze disse: "Andiamo." Poi si mise il cappello e lo scialle, e Rosalu a le calzava intanto le soprascarpe di gomma. "Ti ricordi, figliola, come pioveva quando siamo partiti da Rouen per venire qui?" Ebbe come una specie di spasimo, portzle mani al petto, cadde supina: svenuta. Restzcosu , come morta, un'ora intera, finchpaprugli occhi e furono convulsioni e ancora lacrime. Ritornata la calma, si sentucosudebole che non poteva pialzarsi, e allora l'energica Rosalu a, temendo che un nuovo ritardo potesse cagionare altre crisi, chiamzil suo figliolo, e la padrona la sollevarono insieme, la deposero nel carrettino su quella specie di panchina di legno coperto di tela cerata. Rosalu a le sedette vicino, le raccolse le gambe, le coprule spalle con un gran mantellone, apruun ombrello, lo tenne alto come riparo, e gridz: "Presto, Dionigi, fila!" Quello balza sul carrettino, vicino a sua madre e, poggiando su una sola coscia per mancanza di posto, lancia il cavallo a gran trotto, cosuda far sobbalzare le donne. Quando svoltarono l'angolo del villaggio, ecco uno che cammina in lungo e in largo (la strada qsua) e sembra spiare quella partenza: il prete, l'abate Tolbiac! Ora si ferma per lasciar passare la vettura. Con una mano tiene rialzata la sua sottana perchpnon si bagni e le sue gambette magre nelle calze nere finiscono in due enormi scarpe fangose. Giovanna abbassa lo sguardo per non incontrare gli occhi di lui, ma Rosalu a - che sa tutto - diventa furibonda: "Mascalzone!" e tira per la manica il figliolo: Dagli una frustata, Dionigi!" E Dionigi, passando vicino all'abate, fece entrare in un solco la ruota del suo carrettino lanciato a tutta velocitjcosuche si alzzun fiotto di fango che coprudalla testa ai piedi l'abate Tolbiac. Rosalu a, raggiante, si voltza mostrargli i pugni mentre quel coso nero si asciugava col suo fazzolettone. Dopo cinque minuti, tutt'a un tratto Giovanna alzzla testa e gridz: "Abbiamo dimenticato Massacro!" Bisognz fermarsi. Dionigi scese giprontamente, corse a prendere il cane, e Rosalu a teneva intanto le briglie. E lui ricomparve portando in braccio la grossa bestia informe e spelata: e fra le sottane delle due donne si fece posto anche a Massacro. Capitolo 13 Due ore dopo il veicolo si fermzdavanti a una piccola casetta di mattoni che sorgeva in mezzo a un bell'orto piantato a peri in forma di conocchia, sul margine della strada maestra. Quattro chioschi a pergolato tutti coperti di caprifogli e clemjtidi formavano i quattro angoli del giardino diviso in piccoli quadrati coltivati a legumi e separati da stretti sentieri tra file di alberi da frutto. Una siepe viva, molto alta, cingeva questa proprietjche un campo separava dalla fattoria vicina. Una fornace, sulla strada, cento passi piin lj; le altre abitazioni pivicine distavano almeno un chilometro. La vista in giro si stendeva sulla pianura di Caux, una pianura tutta disseminata di fattorie, circondate ciascuna dalle solite quattro doppie file di grandi alberi che racchiudevano il frutteto di meli. Giovanna, appena arrivata, voleva riposare. Rosalu a non fu di questo parere: forse temeva che si rimettesse a fantasticare. Ecco il falegname di Goderville venuto per la sistemazione dei mobili, e si comincizsubito a mettere a posto quelli che c'erano gij, in attesa della vettura che faceva l'ultimo viaggio. Fu un lavoro considerevole che esigeva lunghe riflessioni, ragionamenti infiniti. Poi, di lua un'ora, la carretta apparve al cancello e bisognzscaricarla sotto la pioggia. Scese la sera. La casa era ancora in disordine, piena di oggetti ammucchiati alla rinfusa, e Giovanna si addormentzappena a letto, stanca morta. Nei giorni seguenti non ebbe tempo di intenerirsi tanto fu sopraffatta dal lavoro, e non si puzdire le dispiacesse fare qualche cosa, rendere un po' pibellina la sua nuova casa, tanto piche si cullava sempre nell'illusione che suo figlio l'avrebbe un giorno abitata. Le antiche tappezzerie della sua stanza da letto furono tese nella nuova stanza da pranzo che era anche salotto, e Giovanna arredzcon una cura tutta particolare uno dei locali del primo piano che chiamzpomposamente fra sp: "l'appartamento di Pollino". Riservzl'altra, del primo piano, a se stessa: Rosalu a doveva abitare di sopra vicino al solaio. Ora la casetta poteva dirsi graziosa, accomodata cosucon quel garbo, e Giovanna se ne compiacque, dapprima, benchple mancasse qualcosa, una cosa di cui non sapeva rendersi conto. Poi lo scrivano del notaio di Fpcamp le portzben tremilaseicento franchi come prezzo dei mobili lasciati ai "Pioppi"; e ricevette questo denaro con un sottile brivido di piacere e in fretta in fretta si mise il suo cappellino per correre a Goderville e mandare quella somma insperata al suo figliolo. Ma ecco, sulla via maestra, Rosalu a che torna dal mercato! Rosalu a non intuisce subito la veritj: perzha un vago sospetto: quando poi ha scoperto tutto, poichpGiovanna non sa pinasconderle nulla, allora Rosalu a posa il paniere per terra per arrabbiarsi comodo. E grida coi pugni sui fianchi, poi prende la sua padrona per il braccio destro, infila nel sinistro il paniere, e sempre furiosa e tempestando sempre, si rimette in cammino verso casa. Quando furono a casa, la serva volle che le fosse consegnato il denaro. Giovanna annuu , ma tenendosi seicento franchi per sp, piccola astuzia che fu ben presto scoperta dalla serva che era anche piastuta, e bisognzversare anche quelli. Tuttavia Rosalu a, magnanima, acconsentuche questo residuo fosse inviato al figliolo. aolo ringrazizquasi subito: "Tu mi hai reso un gran servizio, cara mamma, perchpla nostra qmiseria, quella nera". Ma Giovanna non riusciva ad abituarsi a Batterville, le sembrava sempre di non respirare picome prima, di essere ancora pisola, abbandonata, perduta. Usciva per far quattro passi, arrivava fino al borgo di Verneuil, ritornava dalle Tre Paludi, e, appena rientrata, si rialzava con la smania di uscire di nuovo come se avesse dimenticato di andare dove voleva. E cizricominciava tutti i giorni, senza che potesse farsi una ragione di questo strano bisogno, finchpimprovvisamente le salualle labbra una parola, una frase che le svelzil segreto di tanta inquietudine. Aveva detto, sedendosi a tavola: "Che voglia di vedere il mare!" Il mare le mancava. Le mancava il suo grande vicino (vicino da venticinque anni), il mare con l'aria salata, la collera, la voce brontolante, il mare che vedeva ogni mattino dalla sua finestra (la finestra dei "Pioppi"), che respirava giorno e notte, che sentiva presso di sp, che si era messa ad amare, senza saperlo, come una persona. Massacro stesso viveva in una strana agitazione. S'era installato fin dalla sera del suo arrivo sotto l'armadio della cucina senza che fosse possibile farlo sloggiare. Restava lututto il giorno quasi immobile, rivoltandosi ogni tanto con un brontolu o sordo; ma appena cadeva la notte si rialzava e si trascinava verso la porta del giardino, urtando qua e ljcontro i muri. Usciva un momento e rientrava e rimaneva vicino al fornello ancora caldo, seduto sulle zampe di dietro, e sembrava quasi aspettasse che le sue padrone fossero andate a letto per mettersi a urlare. Urlava cosututta notte in un tono sempre pilamentoso e pilungo, e talvolta smetteva e riprendeva con note ancora pistrazianti. Lo si legzdavanti alla casa, dentro un barile. E allora urlava sotto le finestre. Poi, dato che era infermo e ormai vicino a morire, fu riportato in cucina. Giovanna aveva perduto il sonno per via di questa disgraziata bestia che piangeva e raspava senza requie, cercando di orientarsi nella nuova dimora, comprendendo che quella non era casa sua. Come calmarlo? Si assopiva durante il giorno, quasi che i suoi occhi spenti e la coscienza della sua infermitjgli avessero impedito di muoversi con tutti gli altri esseri viventi, e si metteva invece a girare senza riposo proprio al cader del giorno, quasi non osasse vivere e muoversi che fra le tenebre che rendono tutti gli esseri ciechi. Finalmente una mattina fu trovato morto. E questo fu un grande sollievo. L'inverno si avvicinava e l'anima di Giovanna era come stretta nella morsa di un'invincibile disperazione. Non era uno di quei dolori acuti che paiono torcerla, l'anima, ma una cupa, una lugubre tristezza. Niente la distraeva; nessuno si occupava di lei. D avanti alla sua porta, a destra e a sinistra, la via maestra: sempre cosu , sempre vuota! Solo di tanto in tanto passava un "tilbury" al trotto, guidato sempre da un tale dalla faccia rossa, con una blusa gonfia di vento, come una specie di pallone azzurro; a volte era una carretta che andava lenta lenta, a passi di lumaca; oppure si vedevano spuntar da lontano due contadini, un uomo e una donna, piccoli piccoli in fondo all'orizzonte: poi ingrandivano smisuratamente e, passata la casa, rimpicciolivano da quest'altra parte, fino a parere due insetti all'estremitjdella linea bianca allungata a perdita d'occhio, salendo e scendendo a seconda delle tenui ondulazioni del terreno. Quando ricominciza spuntare l'erba una ragazzetta con la sottanella corta passava tutte le mattine davanti al cancello, conducendo due mucche magre che pascolavano lungo i fossati. E tornava sul far della sera, con la stessa andatura sonnolenta, facendo un passo ogni dieci minuti, dietro le bestie. Ogni notte Giovanna sognava di abitare ai suoi "Pioppi"; vi si trovava, come un tempo, col papje con la mamma, talvolta anche con zia Lisetta, e rifaceva cose dimenticate e finite, si immaginava di sostenere la signora Adelaide che camminava su e ginel suo viale: e ad ogni risveglio erano lacrime. Pensava sempre a Paolo e chiedeva a se stessa: "Che farj? Come sarjadesso? Si ricorderjdi me qualche volta?". Passeggiava lentamente nei sentieri che dividevano le due fattorie e cosupoteva fantasticare su mille idee che la torturavano, ma soprattutto soffriva di una gelosia invincibile contro quell'ignota che le aveva rubato il figliolo. Solo quell'odio le impediva di agire, di far qualche cosa, di andare in cerca di lui, di penetrare in casa di lui. Le sembrava perfino di vedere l'amante in piedi sulla porta di casa: "Che volete qui, signora?". La sua fierezza di madre si ribellava alla possibilitjdi un simile incontro e un orgoglio quasi arrogante di dama rimasta sempre pura, senza debolezze, senza macchie, la esasperava sempre picontro le turpitudini dell'uomo fatto schiavo dalle basse pratiche della sensualitjche rende vili gli stessi poveri cuori. L'umanitjle sembrava immonda se pensava a tutti i segreti impuri dei servi, alle carezze che avviliscono, ai misteri appena intuiti di certi accoppiamenti indissolubili. Passzla primavera, passzanche l'estate. Ma quando tornzl'autunno con le sue lunghe piogge, col suo cielo grigiastro e le nuvole cupe, allora fu presa da una tale stanchezza di vivere che decise di fare un ultimo sforzo per riprendere il suo povero Pollino. Penszche la passione per quella donna doveva essere sazia. E gli scrisse una lettera commovente: "Figlio mio caro, ti scongiuro, ti supplico di venire da me. Ricordati che sono vecchia, malata, sola sola, tutto l'anno, con una serva! Abito attualmente in una casina che djsulla strada. Oh, com'qtriste! Ma se tu ci fossi, tutto cambierebbe per me. Io non ho che te al mondo e non ti vedo da sette anni. Figliolo, tu non puoi nemmeno immaginare come io sia stata disgraziata, io che avrei voluto riposare il mio cuore sul tuo. Tu eri la mia vita, il mio sogno, la mia sola speranza, il mio solo amore, e tu mi manchi, m'hai abbandonata! Oh ritorna, Pollino, ritorna ad abbracciarmi, Pollino mio, vieni dalla tua vecchia mamma che ti tende disperata le braccia. Giovanna." Rispose dopo qualche giorno il figliolo: "Mia cara mamma, non chiederei di meglio che di venirti a vedere, ma ora non ho un soldo. Mandami un po' di denaro e verrz. Del resto, pensavo gijdi venire per parlarti di un progetto che mi permetterjdi appagare il tuo desiderio. Il disinteresse, l'affetto di colei che m'qstata compagna nei giorni tristi sono, a mio avviso, senza limiti. Non qpossibile che io resti pi a lungo senza riconoscere pubblicamente il suo amore e la sua devozione a tutta prova. Lei ha, d'altronde, qualitjmagnifiche che tu potrai un giorno apprezzare: qistruita, legge molto, insomma non puoi farti un'idea di quel che sia sempre stata questa donna per me. Sarei un mostro se non le testimoniassi la mia riconoscenza. Ti domando dunque il permesso di sposarla. Mi perdonerai le mie scappate e si abiterjtutti insieme nella nuova dimora. Oh, se la conoscessi mi daresti senz'altro il tuo assenso. T'assicuro che qperfetta, distintissima. L'amerai, ne sono certo. Quanto a me, senza di lei non potrei vivere. Attendo la tua risposta con impazienza, cara mamma ti abbracciamo con tutto il cuore. Tuo figlio. Visconte Paolo di Lamare." Giovanna rimase annientata. Eccola immobile, con la lettera sulle ginocchia, col pensiero rivolto a quell'astuzia di femmina, di quella che aveva saputo avvincere suo figlio, che non lo aveva lasciato venire una sola volta da lei, attendendo l'ora propizia, l'ora in cui la madre che non puzpiresistere al desiderio di riabbracciare il suo figliolo, china il capo e concede ogni cosa. Il dolore della preferenza di Paolo per quell'altra straziava il suo povero cuore. Egli non le voleva pibene! non le voleva pibene! EntrzRosalu a. "Adesso la vuole sposare" disse semplicemente Giovanna. "Oh, signora, non lo permetterete! Il signor Paolo non deve raccattare quella robaccia!" "Mai, mai, figliola" ripetpla madre accasciata, ma pronta a reagire. "E siccome egli vuol venire qui, sarzio che andrzda lui, e la vedremo. Vedremo quale delle due vincerj." Scrisse subito a Paolo per annunciargli il suo arrivo, chiedendo di vederlo in un altro luogo che non fosse la casa abitata da quella sgualdrina. Intanto, nell'attesa della risposta, fece i suoi preparativi, e Rosalu a cominciza pigiare in una vecchia valigia la biancheria e gli abiti della sua padrona, ma nell'atto di piegare una veste, una antica veste di campagna, esclamz: "Vi manca soltanto qualcosa da mettere sulle spalle. Io non vi permetterzdi andar via in questo modo. Sono sicura che tutti se ne meraviglierebbero e le signore di Parigi vi riterrebbero una serva." Giovanna si lascizconvincere, e le due donne andarono insieme a Goderville a scegliere una stoffina a quadretti verdi che fu data alla sarta del borgo. Poi passarono dal notaio, il signor Roussel, che faceva ogni anno un viaggio di una quindicina di giorni nella capitale, con l'intenzione di chiedere certi chiarimenti, perchpGiovanna da venti anni non aveva rivisto Parigi. E il signor Roussel diede numerose istruzioni sul modo di evitare le carrozze, sul modo di stare in guardia per non essere derubati, consigliando di cucire il denaro nelle fodere dei vestiti e di non tenere in tasca che l'indispensabile; si dilungza parlare delle trattorie a prezzi modici, ne indiczdue o tre frequentate specialmente da donne e indiczanche l'"Albergo di Normandia", dove scendeva egli stesso, un ottimo albergo vicino alla stazione della ferrovia. Giovanna si presentasse pure a suo nome. Da sei anni queste ferrovie (questa gran cosa di cui si parlava dappertutto) funzionavano tra Parigi e l'Havre, ma Giovanna era stata oppressa da troppe dolorose vicende per sapere come erano fatti gli strani carrozzoni a vapore che mettevano in subbuglio la Francia. E Pollino non rispondeva! Giovanna attese otto giorni, attese quindici giorni, e ogni mattina andava sulla strada incontro al postino: "Nulla per me, Malaudain?" "Nulla nemmeno stamattina" rispondeva quello, invariabilmente, con la sua voce rauca per la cattiva stagione. Era lei, quella donna, che impediva a Pollino di rispondere. Allora Giovanna non potppiresistere e volle partire. Se prendesse con spRosalu a? No, no: Rosalu a rifiutava. Non voleva aumentare le spese del viaggio. E non permetteva nemmeno che la sua padrona avesse in tasca pidi trecento franchi. "Se ve ne occorreranno degli altri, scriverete, e io andrzdal notaio perchpve li faccia avere. Se ve ne dessi di pi, se li intascherebbe il signor Paolo." E quel mattino di dicembre serva e padrona risalirono sul carrettino di Dionigi Lecoq venuto a prenderle per condurle alla stazione: fin lj, cioqfino al treno, Rosalu a avrebbe accompagnato Giovanna. Cosupoterono informarsi prima del prezzo del biglietto, poi, quando tutto fu regolato e la valigia registrata, si misero ad aspettare insieme davanti a quelle linee di ferro, cercando di spiegarsi come funzionasse una simile cosa, ed erano cosupreoccupate da questo mistero che non pensavano gijpial triste perchpdel viaggio. Poi girarono la testa a un fischio lontano e scorsero una macchina nera che diventava sempre pigrande; e finalmente, con un fragore spaventoso, passa davanti ai loro occhi trascinando una lunga catena di piccole casine rotolanti, finchpun impiegato apre una di quelle porticine e Giovanna si gira tutta piangente ad abbracciare la sua serva e cosusale in una di quelle casine. "Arrivederci, signora" gridzRosalu a emozionata. "Buon viaggio, a presto, signora." "Arrivederci, arrivederci, figliola mia." Un fischio ancora, e quella lunga fila di carrozze si mise a rotolare pian pianino, poi un po' piin fretta, infine con una velocitjspaventosa. Nello scompartimento di Giovanna, due signori, tutti addossati agli angoli, dormivano. Giovanna guardava passare le campagne, gli alberi, le fattorie, i villaggi, sbigottita da quella velocitj, sentendosi come trasportata in una vita nuova che non era pila sua, della sua giovinezza tranquilla, della sua dolce monotonia quotidiana. Calava la sera: il treno giungeva a Parigi. Ed ecco che un facchino si impadronisce della valigia e lei lo segue stupita, sballottata, incapace di farsi largo tra la folla che si intreccia e si mescola, correndo quasi dietro quell'uomo per timore di perderlo di vista. E quando qnello scrittoio dell'albergo, si presenta cosu : "Sono raccomandata dal signor Roussel." La padrona, un'enorme donna arcigna, seduta al suo posto, si strinse nelle spalle perchpnon sapeva nulla del signor Roussel. "Ma qil notaio di Goderville" riprese, interdetta, Giovanna "il notaio di Goderville che viene qui tutti gli anni..." "E' possibile. Io non lo conosco. Volete una camera?" "Su , signora." Un cameriere si impadronudel bagaglio e salulo scalone davanti a lei. Lei si sentiva il cuore stretto, e poi si sedette a quel tavolino e pregzche le si portasse un brodo con un'ala di pollo, perchpnon aveva mangiato nulla dall'alba. E in quella stanza d'albergo, alla luce di una candela, mangizcon tanta tristezza, pensando a mille cose, ricordando il suo passaggio in quella stessa cittjal ritorno dal viaggio di nozze, le prime manifestazioni del carattere di lui, dello sposo, lo sposo che si rivelava fin da quel primo soggiorno a Parigi. Ma lei a quel tempo era giovane, era fiduciosa, era forte. Ora eccola qui, una povera vecchia impacciata, debole, timida, che sbigottisce e trema per nulla. Quando ebbe finito, si mise alla finestra a guardare la strada piena di gente. Le sarebbe piaciuto uscire e non osava. Era certa che si sarebbe smarrita. Meglio, meglio dormire; e si coriczsoffiando sul lume. Ma tutto quel brusu o, la sensazione della cittjsconosciuta, l'agitazione del viaggio, i pensieri, Pollino, Rosalu a, le impedivano il sonno. Le ore passavano, i rumori della strada si attenuavano gradatamente senza che potesse dormire, e quella specie di dormiveglia della grande cittjla snervava, perchplei era abituata al profondo sonno dei campi che addormenta tutto, gli uomini, le bestie, le piante, e sentiva invece intorno a spuna misteriosa inquietudine. Voci strane, inafferrabili le giungevano come se si fossero insinuate fra i muri, un pavimento scricchiolava, un campanello suonava, una porta si chiudeva: poi, tutt'a un tratto, verso le due del mattino, quando incominciava ad assopirsi, ecco una donna che lancia un grido nella stanza vicina. Giovanna si sedette spaventata sul letto, ma le parve di sentire invece ridere un uomo. Allora, man mano che l'alba si approssimava, la riassaluil pensiero di Paolo, e non le restava piche aspettare quel primo po' di luce per vestirsi. Paolo abitava in via del Selvaggio, nella "Citp", e lei si decise a raggiungerla a piedi per obbedire alla sua serva che aveva raccomandato l'economia. Il tempo era buono, l'aria tiepida pungeva un poco la pelle, la gente si ammassava sui marciapiedi camminando rapidamente, e come spronata dall'esempio, affrettava il passo anche lei, seguendo la strada che le avevano appunto indicata e sapendo bene che in fondo a questa via doveva voltare a destra, poi a sinistra, finchp, giunta in una piazza, avrebbe dovuto informarsi di nuovo. Ma, che q, che non q, questa piazza non si vede; e si informzda un fornaio che le diede tutt'altre indicazioni. Si rimise in cammino, si sviz, sbagliz, girovagzancora a casaccio, seguualtri consigli, e si smarrusenza scampo. Era sul punto di far cenno a un vetturino quando scorse - e le si allargzil cuore - la Senna. E allora camminzsulla riva. Un'ora dopo, conquistava la via del Selvaggio, una specie di vicolo, un chiasso. E questa era la casa, e la porta. L'emozione fu tanta che non poteva pifare un sol passo. Pollino, il suo Pollino, era qui! Entrz, seguuun corridoio (le tremavano le ginocchia e le mani), scorse lo sgabuzzino del portinaio, offru una moneta d'argento. "Potreste... potreste salire dal signor Paolo di Lamare? Dirgli che una vecchia signora, ecco, un'amica di sua madre, lo attende qui dabbasso?" "Il signor Paolo di Lamare? Ha cambiato casa." Che brivido! Chiese: "Dove... dove abita adesso?" "Questo poi non lo so." Le parve di svenire. Non aveva piparole. Poi, con uno sforzo violento, si raccapezzze mormorz: "Da quando... q partito?" "Saranno quindici giorni" rispose il portinaio decidendosi a fornire abbondanti ragguagli. "Sono partiti una sera come se nulla fosse, e non sono piritornati. Avevano debiti in tutto il quartiere, e cosu non hanno lasciato il loro indirizzo." Ora Giovanna vedeva come dei bagliori, grandi guizzi di fiamme, quasi le avessero sparato un colpo di fucile davanti agli occhi; ma c'era un'idea che la sosteneva, e la faceva rimanere in piedi, in quel luogo, calma in apparenza, lucida di mente. Su , ecco. Voleva sapere. Voleva ritrovare Pollino. "Cosuegli non ha lasciato detto nulla prima di andarsene?" "Nulla. Se ne sono andati per non pagare. Ecco tutto." "Ma dovrjpur mandare a prendere la sua corrispondenza." "Oh su , una bella corrispondenza! Quella gente non riceveva pidi dieci lettere l'anno. Gliene ho portata una quindici giorni prima che se ne andassero..." La sua lettera, su , la sua lettera! Disse precipitosamente: "Ascoltate. Io sono sua madre. Sono venuta a cercarlo. Ecco dieci franchi per voi. Se avete qualche notizia, qualche chiarimento, io abito all'"Albergo di Normandia", Via dell'Havre. Sarete ricompensato, brav'uomo." "Signora" egli rispose "potete contare su me." E lei si rimette in cammino senza pensare a una meta, si affretta come sospinta da qualcosa di urgente, sfiora i muri, urta la gente, attraversa la strada, non si cura delle carrozze (e i vetturini la ingiuriano), inciampa sui marciapiedi (non fa attenzione ai marciapiedi), corre qua e ljperdutamente. Tutt'a un tratto si trovzin un giardino. Era ormai cosustanca che penszdi sedersi, e restzsu quella panchina a lungo, piangendo senza accorgersene, e non si accorgeva neppure che qualcuno si fermava a guardarla. Poi sentuun gran freddo e si alzzper rimettersi in marcia. Com'era debole! Com'era accasciata! Le gambe la sostenevano appena. Dov'era una trattoria? Sarebbe entrata a chiedere un brodo. Ma come osare passare la soglia di uno di questi locali? Aveva insieme paura e vergogna, come una specie di pudore del suo affanno, che si vedeva, che doveva pure vedersi sul viso. E si fermava a una porta a vetri, guardava dentro, vedeva tutta quella gente seduta a tavola, tutta quella gente che mangiava e beveva, e fuggiva via intimidita dicendosi: "Entrerzin quest'altra trattoria". E finucol comperare dal fornaio un piccolo pane in forma di luna e lo sbocconcellzcamminando. Le venne sete, ma non sapeva dove andare a bere, e non bevve. Girzun angolo ed eccola in un altro giardino con tanti bei portici intorno. Lo riconobbe: il Palazzo Reale! Allora sedette ancora, nel giardino del Palazzo Reale, perchpil sole e il movimento l'avevano un poco accaldata. Ma qua entrava la folla, una folla elegante che chiacchiera, ride e saluta, una folla felice in cui le donne sono tutte belle e gli uomini sono tutti ricchi, la folla che vive solo per l'eleganza e per la gioia. La poveretta fu come impressionata di trovarsi in mezzo a quella gente chiassosa e gaudente e si alzzper fuggire, ma poi sentuimprovvisamente che proprio qui avrebbe potuto incontrare il suo Paolo, e si mise a girare per quel giardino cittadino, da un capo all'altro, su e gi, su e gi, col suo passo umile e rapido, spiando i volti, le fisionomie, per ritrovare il suo Paolo. Ma c'era gijchi si girava a guardarla, altri se la indicavano quella donnina buffa, e ridevano, cosuche Giovanna fuggupiena di vergogna pensando che, senza dubbio, quelli si prendevano gioco del suo mantello a scacchi verdi scelto da Rosalu a, fatto dalla sarta di Goderville, sempre sulle indicazioni di Rosalu a. Ora non osava pichiedere la strada ai passanti; ma poi si decise e finucol trovare il suo albergo. E passzil resto della giornata seduta su una sedia ai piedi del letto, senza mai muoversi. Pranzzcome il giorno prima: una zuppa, un piatto di carne. Si coriczcome la sera prima: ogni gesto compiuto automaticamente, come dalla macchina dell'abitudine. Il giorno dopo si reczalla prefettura di polizia perchple ritrovassero suo figlio, e qui se ne sarebbero occupati ma nessuno potpprometterle nulla. E ancora girovagzper le strade, sempre con la speranza di incontrare Pollino, e in quel mare umano si sentiva pisola, pisperduta, pimiserabile che nella deserta campagna. Ma quando tornzin albergo, la sera, le fu detto che un uomo aveva chiesto di lei da parte del signor Paolo e che egli sarebbe ripassato domani. Un fiotto di sangue le salual cuore, non chiuse occhio per tutta la notte. Era lui? Era proprio lui? Su , era lui, benchpi connotati che le avevano dati non fossero quelli. Verso le nove del mattino, fu bussato alla porta, gridz: "Entrate!" pronta a slanciarsi con le braccia aperte, e si presentzinvece un ignoto, il quale si scusava di dover disturbare la signora ma il portinaio di via del Selvaggio gli aveva indicato l'albergo, e giacchpnon poteva rintracciare il suo debitore, si rivolgeva giustamente alla madre. La madre sentiva che le venivano le lacrime, ma non voleva che si vedesse e afferrzla carta che colui le porgeva, vi lesse una cifra (novanta franchi) trasse di tasca il danaro, pagz. E non uscu , per quel giorno. E il giorno dopo se ne presentano altri, tutti creditori di Paolo, al punto che lei djtutto quel che le resta, e non tiene che venti franchi per sp. Poi scrive a Rosalu a per informarla della sua situazione. Cosupasszi suoi giorni, attendendo la risposta, senza sapere che fare, come ammazzare le ore, le ore lugubri, le ore interminabili, non avendo nessuno a cui dire una parola amica, nessuno che sapesse della sua disgrazia, e camminava a caso, stimolata ora dall'ansia di partire, di ritornare lagginella piccola casa, sul margine della strada solitaria. Oh, la sua piccola casa! Pochi giorni prima le sembrava di non poterci vivere tanto si sentiva povera e triste mentre ora sapeva, ora sapeva che la vera vita era ljdove si sono radicate le povere tristi abitudini. Finalmente, una sera, trovzuna lettera di Rosalu a con dentro un po' di denaro: "Signora Giovanna, ritornate subito, perchpio non vi manderzpineppure un centesimo. Quanto al signor Paolo, verrzio a stanarlo quando avremo sue notizie. "Vi saluto. Vostra serva Rosalu a." Giovanna ripartuper Batterville un mattino in cui faceva molto freddo. Nevicava. Capitolo 14 Non usci pi, non si mosse pi. Si alzava tutte le mattine alla stessa ora, guardava dalla finestra che tempo facesse, scendeva e si metteva a sedere vicino al fuoco in saletta. Restava accanto al fuoco intere giornate, immobile, gli occhi fissi sulla fiamma, lasciando vagare i suoi tristi pensieri, seguendo la triste sfilata delle memorie. L'ombra invadeva a poco a poco la piccola stanza senza che si muovesse, fuorchpper aggiungere, a intervalli, legna nel caminetto. Rosalu a allora portava la lanterna e gridava: "Andiamo, su, signora Giovanna. Scuotersi, scuotersi! Altrimenti non avremo appetito nemmeno stasera." Spesso la perseguitavano certe idee fisse, tenaci, o la torturavano preoccupazioni quasi insignificanti, come se le pipiccole cose prendessero chi sa quanto spazio nel suo cervello malato. Le accadeva soprattutto di rivivere nel passato, nel vecchio passato, nei ricordi dei primi tempi della sua giovinezza e del suo viaggio di nozze, laggi, in Corsica. Nascevano improvvisamente davanti a lei, come dai tizzoni del focolare, i paesaggi dell'isola dimenticati ormai da gran tempo, e allora si ricordava tutti i particolari, le figure incontrate laggi. Tanto la perseguitava la bella testa della guida Giovanni Ravoli che credeva di udire a volte la sua voce. Poi sognava i dolci anni dell'infanzia di Paolo, quando egli le faceva trapiantare le insalatine e lei si inginocchiava sulla terra grassa, a fianco di zia Lisetta, che rivaleggiava con lei per compiacere il bambino e la lotta era a chi avrebbe fatto germogliare meglio le pianticine, e a chi ne avrebbe ottenute di pi. E con appena il soffio del respiro, le sue labbra mormoravano: "Pollino, mio piccolo piccolo Pollino" come se parlasse proprio a Pollino, e fermando le sue fantasticherie su questa parola si sforzava a volte di disegnare col dito nell'aria le lettere che componevano il nome, e le tracciava davanti al fuoco, pian piano, e le sembrava proprio di vederle, finchp, credendo di essersi sbagliata, ricominciava la "P" col braccio tutto indolenzito, ridisegnava il nome sino in fondo per ricominciare da capo. Alla fine, quando non ne poteva pi, cancellava ogni cosa, tracciava altre parole snervandosi fin quasi a impazzirne. Aveva tutte le manie dei solitari. La minima cosa fuori posto, un po' piin qua o un po' piin lj, la irritava. Spesso Rosalu a la obbligava a camminare e la portava ljsulla strada, ma non erano passati venti minuti che Giovanna dichiarava di non poterne pie si sedeva sull'orlo di un fosso. Impigriva, non avrebbe voluto pimuoversi, non le piaceva che il letto. Una sola abitudine le era rimasta fin dall'infanzia, ed era di alzarsi di colpo dopo aver bevuto il suo caro caffellatte. Come allora, teneva esageratamente al suo caffellatte, e ne avrebbe sentito la mancanza pidi non si sa che. Attendeva ogni mattina Rosalu a con un'impazienza quasi un po' sensuale, attendeva che Rosalu a posasse la tazza sul comodino, per mettersi a sedere sul letto e la vuotava immediatamente, con una golositjdi bambina. Poi buttava indietro le coperte e cominciava a vestirsi. Ma a poco a poco si abituz a fantasticare qualche altro minuto e, dopo aver posato la tazza sul piatto, si stendeva di nuovo prolungando di giorno in giorno quella pigrizia fino al momento che Rosalu a tornava furiosa e la vestiva quasi per forza. D'altronde, non aveva piun'ombra di volontj, cosuche se talvolta la sua serva le chiedeva un consiglio o le poneva una questione o voleva informarsi del suo parere, rispondeva invariabilmente: "Fa' come vuoi, figlia mia". Aveva finito col credersi presa di mira dalla cattiva sorte e l'abitudine di veder svanire i suoi sogni e crollare le sue speranze faceva suche non osasse tentare la pipiccola impresa o che esitasse a lungo, intere giornate, prima di fare la cosa pisemplice, convinta ormai che si sarebbe messa nella strada peggiore, sempre a suo scorno e a suo danno. E ripeteva: "Non ho avuto fortuna nella vita." "Ah, non avete avuto fortuna!" gridava allora Rosalu a. "Che direste dunque se vi toccasse lavorare per avere un pezzo di pane? Se foste obbligata ad alzarvi tutti i giorni alle sei del mattino per andare a giornata? Ci sono pure tante povere donne costrette al lavoro e quando diventano vecchie, crepano di miseria, sapete." "Pensa che sono sola" rispondeva lei dolcemente "pensa che il mio figliolo mi ha abbandonata..." "Questo non vuol dire niente. E i ragazzi che vanno soldati? E quelli che vanno in America?" (L'America era per lei un paese vago dove si andava a far fortuna e da cui non si tornava mai.) "C'qsempre un momento in cui bisogna separarsi perchp, sapete, i vecchi e i giovani non sono fatti per restare insieme." E concludeva quasi con ferocia: "Ebbene, che direste se fosse morto?". Giovanna non aveva allora piniente da aggiungere. Riacquistzun po' di forza quando l'aria si addolcusul principio della primavera, ma metteva anche questo ritorno di energia al servizio dei suoi pifoschi pensieri. Ma quel giorno che era salita in solaio a cercare qualche cosa ebbe anche la sua gioia aprendo una cassa piena di quei vecchi calendari che la gente di campagna ama conservare di anno in anno: le parve cosudi ritrovare gli anni stessi del suo passato e fu colpita da una strana e confusa emozione davanti a quel mucchio di cartoni quadrati che rivolle nel suo salottino. Ce n'erano di tutte le dimensioni, piccoli e grandi, e lu , sulla tavola, si mise a ordinarli per anni. Ecco il primo. Ecco quello che aveva portato ai "Pioppi" lei stessa. Eccolo qui, coi giorni cancellati da lei (ricordava, su , ricordava) il mattino della sua partenza da Rouen, dopo essere uscita dal convento. E pianse, pianse lacrime tristi e lente, lacrime di vecchia, di donna finita, sulla sua povera vita distesa davanti a lei, tutta qui, tutta qui, sulla tavola. E le venne un'idea, e si accanuin questa idea. Voleva ritrovare, giorno per giorno, quel che aveva fatto: giorno per giorno, ricostruire tutta la vita. E li appese al muro, sulla tappezzeria, l'uno dopo l'altro, quei cartoni ingialliti, e passzore e ore di fronte a questo o a quello chiedendosi: "Che mi qsuccesso dunque in quel mese?". Perchpaveva segnato le date memorabili della sua povera storia e riusciva talvolta a ritrovare un mese intero, ricostruendo a uno a uno, raggruppando, riattaccando l'uno all'altro i piccoli fatti che avevano preceduto o seguito un avvenimento importante. Riusciva cosu , a forza di ostinata attenzione, di volontjconcentrata, di testardaggine, perseveranza, sforzi della memoria, riusciva a ristabilire quasi interamente i suoi due primi anni al castello, poichpi ricordi lontani della sua vita le si riaffacciavano con una facilitj, un rilievo! Ma gli anni seguenti era come se si perdessero nella nebbia, si mischiassero, si accavallassero l'uno sull'altro, cosuche restava talvolta ore e ore con la testa piegata verso il calendario, con lo spirito teso verso il passato, senza riuscire a mettere in chiaro se quel tale ricordo potesse essere trovato in quel certo cartone. Girava intorno alla stanza, dall'uno all'altro di questi quadri dei giorni tramontati, fermandosi qua e lj come alle stazioni della sua stessa via crucis. Poi, tutt'a un tratto, metteva la sedia davanti a un cartone e rimaneva lufino a notte, immobile, seduta, sprofondata nelle sue assurde ricerche. In seguito, quando i semi si risvegliarono sotto il tepore e le messi spuntarono per i campi, gli alberi rinverdirono, i meli aprirono i loro bottoni rosei nei cortili, profumando tutte le strade, allora la poveretta fu tutta in subbuglio. Non poteva pistar ferma, andava e veniva, usciva e rientrava, girovagava per la campagna, visitava le fattorie, esaltandosi in una specie di febbrile rimpianto. La vista di una margheritina nascosta in un ciuffo d'erba, di un raggio di sole che scivolava tra le foglie, di una pozza d'acqua in un solco (vi si rispecchiava il cielo turchino), queste e altre cose la commuovevano, la intenerivano, la sconvolgevano, le risvegliavano sensazioni lontane, come un'eco delle sue emozioni di fanciulla quando andava sognando per i campi. Oh, su , erano gli stessi fremiti, era la stessa dolcezza, la stessa ebbrezza perturbatrice degli altri giorni primaverili, quando attendeva l'avvenire, e ora che l'avvenire era chiuso riaveva tutto, tutto! Ne gioiva e ne soffriva allo stesso tempo, come se la gioia eterna del mondo risvegliato, penetrando nella sua pelle avvizzita, nel suo sangue gelato, nella sua anima vinta, non vi potesse piinfondere che un incanto debole e dolente. Le sembrava, anche, che qualcosa fosse cambiata intorno a lei, dappertutto. Il sole doveva essere un po' meno caldo che nei giorni della sua giovinezza, il cielo un po' meno azzurro, l'erba un po' meno verde, e quanto ai fiori, erano sicuramente pipallidi, meno odorosi e non inebriavano picome allora. E tuttavia, qualche volta, la prendeva un tale benessere di vita, che ricominciava a fantasticare, a sperare, ad attendere, perchp... perchpqmai possibile che, non ostante la crudeltjdella sorte, non si possa sognare ancora quando fa bello? E andava, andava per ore e ore come sferzata dall'eccitazione della sua anima, e si fermava di colpo sedendosi sull'orlo della strada a ripensare sempre le stesse cose: perchpnon era stata come le altre? perchpnon aveva avuto anche le semplici gioie di un'esistenza tranquilla? E per un momento dimenticava di essere vecchia, di non aver pinulla davanti, fuorchpqualche anno lugubre e solitario; dimenticava che la sua strada era gijstata percorsa e faceva come un tempo, come a sedici anni, tanti progetti dolci al suo cuore, vagheggiando cosu l'avvenire. Poi era come se le piombasse sopra, crudelmente, la sensazione della realtj, si rialzava esaurita come se un peso le avesse spezzato le vene e diceva a se stessa: "Oh vecchia pazza! vecchia pazza!" riprendendo, pilentamente, la via della casa. Adesso Rosalu a non si stancava di ripetere: "Ma mettetevi un po' tranquilla! Che cos'avete che non state mai ferma?" "Che vuoi?" rispondeva lei tristemente. "Sono come Massacro nei suoi ultimi giorni." Quella mattina Rosalu a entrzin camera prima del solito e depose sul comodino la gran tazza del caffellatte: "Andiamo, bevete in fretta. Dionigi qgiche ci aspetta. Si va ai "Pioppi" perchpho qualcosa da fare laggi." Giovanna credette di svenire per la commozione, e si vestudebole, ansimante, smarrita al pensiero di rivedere la sua cara casa, i suoi "Pioppi". Era una bella giornata, c'era un cielo radioso, e anche il ronzino, come contagiato dall'allegria di stagione, se ne andava quasi al galoppo. Quando si accorse di essere entrata nel comune di etouvent, Giovanna credette di respirare a fatica tanto era il sussulto del cuore; e quando vide le colonnine del cancello disse due o tre volte, senza volerlo, fra sp: "Oh! oh! oh!" come davanti alle cose che scompigliano o esaltano il cuore. Si stacczil cavallo dai Couillard e Rosalu a e il figliolo andarono per i fatti loro mentre i fattori proponevano a Giovanna di approfittare dell'assenza dei padroni per rivedere il castello: ed ecco il mazzo di chiavi. Giovanna andzsola, e quando fu dinanzi all'antica dimora, verso la parte del mare, si fermzstupita a guardarla, benchpnulla fosse cambiato al di fuori. Il vasto fabbricato grigio aveva quel giorno come dei sorrisi di sole su per i vecchi muri dove tutte le imposte erano chiuse. Un ramoscello secco cadde sulla sua veste; Giovanna alzzgli occhi: era caduto dal platano! S'avvicinzal grande platano dalla scorza pallida e liscia: l'accarezzzcome se fosse un animale. Il piede urtz, nell'erba, un pezzetto di legno marcito: era l'ultimo avanzo della panchina dove si era seduta cosuspesso coi suoi: ricordzche la panchina era stata messa qui, sotto il platano, lo stesso giorno della prima visita di Giuliano. Raggiunse cosula doppia porta del vestibolo, ma non riusciva ad aprire questa porta (la chiave arrugginita non girava nella serratura, che finuper cedere con un acuto stridore di molle) e servuanche una spinta per il battente rimasto. Immediatamente Giovanna salucorrendo alla sua antica stanza da letto. Ma... era questa, questa? Non la riconobbe. Era tutta un'altra stanza, tappezzata con una carta chiara... Eppure le bastzaprire una finestra per sentirsi commossa fin nel profondo dell'anima davanti al suo amato orizzonte, e poi il boschetto e gli olmi e la landa e il mare tutto disseminato di vele brune che sembravano immobili laggi. Allora si mise a girare da padrona nella grande casa vuota. S'incantava a guardare sui muri certe macchie familiari ai suoi occhi, e si arrestzdavanti a un piccolo buco fatto dal papjin una parete, su , dal papjche si divertiva spesso, in ricordo della sua giovinezza, a tirar di scherma col suo bastone, colpendo appunto questa parete quando passava di qui. Ma che cosa trova mai nella stanza di mamma! Una spilla sottile dalla capocchia d'oro appuntata dietro una porta, in un angolo oscuro presso il letto, ed qproprio la spilla (ora se ne ricorda) che mammina vi ha infisso una volta e poi ha cercato invano per anni. Nessuno l'ha scoperta, dei nuovi! E se la prende come una reliquia, e come una reliquia la bacia. Metteva il naso dovunque, braccava e cercava segni quasi invisibili nelle tappezzerie delle camere che erano rimaste intatte, rivedeva quelle figure bizzarre che la fantasia vede spesso nei disegni delle stoffe e dei marmi o nelle ombre dei soffitti macchiati dal tempo. Camminava a passi silenziosi, sola nel grande e muto castello, come attraverso un cimitero. La sua vita era qui, tutta qui! Ma il salone era cupo nell'ombra delle imposte chiuse, e Giovanna guardava e si girava intorno senza distinguere nulla, finchpa poco a poco il suo sguardo si abitua all'oscuritje riconosce le tappezzerie, quelle su cui sono disegnati gli uccelli che svolazzano. Due poltrone restavano davanti al camino come se le avessero lasciate allora allora; e poi c'era l'odore della stanza, un odore che il salone aveva sempre avuto come ogni essere ha il suo, un odore vago e tuttavia percettibile, quel sentore impreciso dei vecchi appartamenti; qualcosa che penetrava adesso Giovanna e l'avviluppava di ricordi e la inebriava. E cosuera tutta ansimante a respirare quell'alito di passato, cogli occhi fissi su quelle due poltrone: finchpimprovvisamente, in un'allucinazione precipitosa nata dalla sua idea fissa, credette di vedere, vide, come li aveva sempre veduti, suo padre e sua madre che si scaldavano i piedi accanto al fuoco. Indietreggizspaventata, urtzcol dorso nello stipite della porta, si appoggizper non cadere: ma non poteva distogliere gli occhi! La visione era scomparsa. Dopo quello smarrimento, riprese il dominio di se stessa e penszdi fuggire per paura della follia. Ma il suo sguardo cadde per caso sullo zoccolo a cui si appoggiava e vide... la "scala di Pollino"! Ecco i piccoli segni che salivano su per la pittura a regolari intervalli, ecco le cifre segnate a matita che indicavano l'etj, i mesi, la statura crescente del figlio. Talvolta era la scrittura del nonno, pigrossa, talvolta la sua, un po' pipiccola, talvolta quella della zia Lisetta, un po' tremolante, e le parve che il ragazzo di allora fosse qui davanti a lei, coi suoi capelli biondi, con la piccola fronte contro il muro, cosu , certo, perchplo misurassero. Il nonno gridava: "Giovanna, qcresciuto di un centimetro in sei settimane!". E allora, con una frenesia amorosa, la poveretta si mise a baciare lo zoccolo mentre di fuori Rosalu a chiamava: "Signora Giovanna, signora Giovanna! Venite dunque! V'aspettano per far colazione!" Uscucon la mente sconvolta e da quel momento nulla capue nulla seppe: non capunulla di quel che le dicessero, mangizquello che le servirono, ascoltzparlare senza sapere di che si parlasse, parlzsenza dubbio coi fattori che si informarono della sua salute, si lascizbaciare, bacizlei stessa delle guance che le si offrirono, risalufinalmente in carrozza. E quando perdette di vista, attraverso gli alberi, l'alto tetto del castello, sentunel cuore uno schianto. Ecco, su , aveva dato alla sua casa l'ultimo addio. Mentre stava per rientrare in quest'altra casa di Batterville, scorse qualcosa di bianco, sotto la porta: era una lettera che, durante la sua assenza, il postino aveva cercato di infilare in quella fessura. Paolo, Paolo! Aveva scritto Paolo. Era una lettera di Paolo. L'apru , tremando d'angoscia. Diceva Paolo: "Mia cara mamma, non t'ho piscritto perchpnon volevo farti fare un viaggio inutile a Parigi, dovendo io stesso venire da te da un momento all'altro. In questo momento una grande disgrazia mi colpisce, e mi trovo pure in seri imbarazzi. Quella poveretta q moribonda dopo aver dato alla luce una bambina, tre giorni fa, in una casa dove non c'qil becco d'un quattrino. Io non so che fare della neonata che, per ora, la portinaia alleva come puz(col poppatoio), ma ho una gran paura di perderla. Non potresti incaricartene tu? Io non so assolutamente dove sbattere la testa per metterla a balia. Rispondi per mezzo del corriere. Tuo affezionatissimo figlio. Paolo." Giovanna, accasciata su una sedia, aveva appena la forza di chiamare Rosalu a. Poi rilessero insieme la lettera e non si dissero nulla per lungo tempo, sempre restando l'una di fronte all'altra. "Vado io a cercare la bambina" disse infine Rosalu a. "Non si puzlasciarla cosu ." "Va', va', figlia mia." "Mettete il vostro cappello" riprese Rosalu a. dopo una pausa. "Bisogna andare a Goderville dal notaio. Se l'altra muore, bisogna pure che il signor Paolo la sposi. Per la piccina, per dopo, che diamine!" Giovanna, senza dire nulla, si mise il suo cappellino. Era felice. Che q, che qquesta gioia profonda e quasi inconfessabile che inonda il suo cuore? E' una gioia perfida, una gioia da nascondersi ad ogni costo, una di quelle felicitjabominevoli di cui si arrossisce, ma delle quali si gode ardentissimamente in segreto, gi, ginel segreto misterioso dell'anima: quella donna, l'amante di suo figlio, che sta per morire! Il notaio diede a Rosalu a molte indicazioni particolareggiate che lei si fece ripetere pivolte. E la bravissima serva, dopo aver dichiarato (sicura di non commettere spropositi): "Non temete di nulla, mo' me ne incarico io" partula notte stessa per Parigi. Giovanna passzdue giorni in un tumulto dell'anima che la rendeva incapace di qualsiasi riflessione o pensiero. Il terzo giorno ricevette due sole righe di Rosalu a che le annunciava il suo ritorno col treno della sera, e niente altro. Verso le tre, con la carrozzella di un vicino, si fece condurre alla stazione di Beuzeville, e luaspettzla sua serva, ritta sul marciapiedi, lo sguardo fisso sulla linea diritta delle rotaie che fuggivano e si avvicinavano in fondo all'orizzonte, laggi. Di quando in quando guardava l'orologio. Che ora q? Oh, ancora dieci minuti. Cinque minuti. Due minuti. E' l'ora. Ma su , non ql'ora? Non si scorgeva nulla sulla via lontana. M a tutt'a un tratto ecco una macchia biancastra, ecco il fumo e sotto il fumo un punto nero che ingrandisce ingrandisce, corre corre. Ora la grossa macchina rallenta, passa davanti a Giovanna, come ansando e russando, e Giovanna tiene d'occhio gli sportelli che si aprono qua e ljlasciando gi borghesi in cappello floscio, contadini in blusa, fattori, panieri. Oh Rosalu a! Rosalu a con quella specie di fagottino candido in braccio... Giovanna corse incontro alla serva, ma quasi cadeva, tanto le sue gambe erano diventate deboli, molli. Rosalu a aveva visto benissimo e raggiunse con la sua bella calma la signora. "Buon giorno, buon giorno. Eccomi di ritorno. Che fatica!" "Ebbene?" "Ebbene... la madre q morta stanotte. Si sono sposati. Ecco qua la piccina." E porse il marmocchio invisibile, quella specie di piccolo involto. Giovanna lo prese macchinalmente e le due donne uscirono dalla stazione per salire insieme in carrozza. "Il signor Paolo" riprese Rosalu a "verrjdopo i funerali, forse domani a quest'ora." Giovanna mormorz: " Paolo..." e non seppe dire altro. Il sole calava verso l'orizzonte, inondava di luce i piani verdeggianti, macchiati qua e ljdall'oro dei navoni fioriti, dal sangue dei fiori di papavero. Una quiete infinita si stendeva sulla terra pacificata in cui germogliavano le sementi. Il contadino schioccava la frusta per eccitare il suo cavallino e la carrozza andava di gran trotto. Giovanna guardava davanti a spnell'aria e nel cielo tagliato come da frecciate di rondini e le sembrava tutt'a un tratto che un dolce calore, un calore di vita, le attraversasse le vesti, raggiungesse le gambe, penetrasse nella carne: oh, era il calore del piccolo essere che le dormiva in grembo, qui, qui! E fu un'emozione infinita. Con un moto istintivo, scoprula faccina che non aveva ancor vista: ecco, ecco, la figlia del figlio. E come la fragile creatura, colpita dalla luce viva, apriva i suoi occhi turchini con una piccola smorfia, Giovanna se la strinse al petto, appassionata, furiosa, l'alzzsulle braccia e si diede a baciarla senza remissione, anzi a mangiarla di baci. Rosalu a la fermz. "Andiamo, signora" fece Rosalu a brusca brusca, ma in fondo contenta. "Finirete col farla strillare." Poi aggiunse, rispondendo senza dubbio ai suoi propri pensieri: "La vita, vedete, non qnpcosubella npcosubrutta come si crede."