348_04 082 I.Pecoraro
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348_04 082 I.Pecoraro
Actas del Cuarto Congreso Nacional de Historia de la Construcción, Cádiz, 27-29 enero 2005, ed. S. Huerta, Madrid: I. Juan de Herrera, SEdHC, Arquitectos de Cádiz, COAAT Cádiz, 2005. I primi trattati di stereotomia e la loro influenza sull’architettura salentina di Età Moderna Ilaria Pecoraro Il trattato di stereotomia nasce in Francia e in Spagna nella seconda metà del Cinquecento; esso traduce l’esperienza costruttiva dell’epoca medioevale, formulando un nuovo codice comunicativo per la progettazione delle architetture basato sul disegno della pietra.1 I primi importanti studi di stereotomia risalgono alle opere scritte da Philibert de L’Orme2 e da Alonso de Vandelvira,3 studiosi e architetti che affrontano i problemi legati allo sviluppo delle superfici curve spaziali, offrendo un notevole contributo alla nascita della moderna Scienza della rappresentazione e fornendo, al contempo, l’illustrazione grafica di progetti architettonici realizzati nel XVI secolo dai loro padri.4 I contenuti di questi trattati sono innovativi, perché introducono un diverso metodo descrittivo della geometria degli elementi che compongono le architetture, pur non conoscendo gli autori e, quindi, non potendo applicare il metodo grafico di Monge. Contrariamente alla prassi diffusa in epoca medievale, la nuova scienza è applicata alla materia di tutti gli elementi costruttivi (vale a dire ai conci dei cantonali, della muratura, delle nervature, delle vele e dei fusi). L’elaborazione dei trattati, che circolavano già fra il 1545 e il 1570 sotto forma di manoscritti, non è avulsa dal contesto culturale nel quale essi stessi maturano.5 Nel 1567 è pubblicato in Francia il trattato di Philibert de L’Orme.6 La copia pervenuta risale al 1648 ed è stata pubblicata da Pierre Margada. Essa si divide in undici libri, dei quali il terzo e il quarto trattano di stereotomia concernente gli archi, le scale, i peducci reggimensola, le aperture delle finestre e dei balconi, les trompes. L’opera francese, a stampa, é corredata da alcuni elaborati grafici, sviluppati in pianta, sezione, prospetto e «vista» tridimensionale. Il lavoro illustra alcuni progetti esecutivi di taglio della pietra e del legno, realizzati dall’autore stesso e dal padre, architetto della corte di Francia all’inizio del XVI secolo. Si tratta di un compendio grafico d’elementi costruttivi di un organismo architettonico. Il testo è di difficile consultazione e si rivolge ad un pubblico colto, né può essere considerato una guida per i lavori di cantiere. De L’Orme è uno studioso, che si forma nell’Italia e nella Francia del primo Cinquecento. Non è uno scalpellino; è essenzialmente un uomo di pensiero. Lo si evince dalla maniera altamente accademica con cui tratta il tema della stereotomia applicata al taglio dei conci lapidei. Nei libri terzo e quarto la sua maggiore preoccupazione è quella d’illustrare un’idea d’architettura non sempre attinente alla realtà, soprattutto quando si tratta di descrivere i dettagli costruttivi. Le centine, ad esempio, rappresentano un tema caro all’autore. De L’Orme le disegna molto più di quanto non facciano altri trattatisti; ma le centine sono raffigurate in modo troppo dettagliato e poco reale, rispetto a quelle vere che erano inchiodate, approssimative e antiestetiche, ma sicuramente più solide delle esili strutture disegnate. Anche gli intagli, gli elementi d’irrigidimento, il doppio arco inchiodato ai puntoni, gli incastri e gli ancoraggi mediante tasselli lignei risultano poco verosimili. Similmente, gli elementi più semplici, quali il tracciamento del sesto di un arco, lungo l’asse dia- 842 I. Pecoraro gonale di una volta a crociera, sono disegnati in maniera astratta e descrivono un’architettura fantastica. Raramente nel testo si rende nota la dimensione dei conci; il disegno appare fine a se stesso, privo di una funzione pratico-illustrativa e di difficile interpretazione (figs. 1 e 2). Anche nei disegni apparentemente più limpidi e sprovvisto di linee di proiezione, non si comprende il senso del grafico, come accade, a titolo d’esempio, nel disegno della volta a padiglione su impianto triangolare, poggiata su tre piedritti. È probabile che il disegno illustri l’ipografia dei filari di concio della superficie d’intradosso della struttura voltata, ma questa resta semplicemente un’ipotesi interpretativa. Infatti, pur descrivendola come la rappresentazione di una struttura realmente esistente nel castello di Fontainebleau, non è chiara la sequenza delle fasi di montaggio dei conci, il loro taglio, la dimensione del particolare sistema costruttivo. L’autore vuole affermare che nel caso dell’apertura di tre porte, su uno stesso livello o su livelli sfalsati, in un ambiente di forma triangolare, potrebbe risultare conveniente adottare questo tipo di volta.7 Figura 1 Grafico m iij; il concio di una volta a botte sghemba; grafico privo di scala metrica, con indicazione della quantità di pietra da sottrarre (De L’Orme 1557, 69) Figura 2 Disegno P ij; rappresentazione in pianta della proiezione di due archi fra loro perpendicoli (De L’Orme 1557, 84) I primi trattati di stereotomia e la loro influenza Il disegno diviene ancora più astratto e incomprensibile quando si rappresentano les trompes, vale a dire le superfici concavo-convesse che sorreggono i balconi o che completano le soluzioni d’angolo degli edifici.8 Spesso il testo scritto è lungo ma, al tempo stesso, limitato, perché non descrive le fasi di lavorazione del concio, bensì la sequenza del tracciamento delle linee astratte nel disegno, elaborato a tavolino (fig. 3). Interessante anche la descrizione della «voûte moderne pour une église».9 Si tratta di una volta stellare assai apprezzata dai circoli culturali francesi e soprattutto spagnoli di fine XV secolo, in particolar modo da quello promosso da Pere Compte.10 Questo tipo di volta è solitamente composto da una parte nervata portante in pietra e da una portata in ladrillos. La volta rappresentata è realizzata in pietra, con l’ipografia di una stella a quattro punte, simmetrica rispetto alle diagonali dell’impianto quadrato regolare (fig. 4). Il disegno della volta «moderna» per una chiesa è più chiaro di quelli sopra descritti, ma appare sempre incompleto. De L’Orme è attento ad evidenziare il diverso sesto che caratterizza le su- 843 perfici, ma non è comprensibile in che modo queste ultime, con sesto e altezze variabili, possano confluire e raccordarsi nello stesso punto di sommità. I conci che costituiscono il piano d’appoggio della struttura voltata e i rispettivi costoloni non sono numerati, né viene specificata la monoliticità delle nervature lapidee. Le tavole successive descrivono la volta a vela su impianto quadrato e rettangolare, infine la volta a padiglione su pianta triangolare, con un disegno progressivamente più limpido, liberato dalle linee di riferimento e di proiezione e, quindi, complessivamente più pulito. È molto interessante notare che l’apparecchiatura dei conci delle volte si struttura come un’addizione di archi, realizzati con l’impiego di poche centine. Il disegno dei piedritti è spesso un «esploso», che illustra la sequenza delle fasi di messa in opera dei conci, lungo l’asse diagonale. Nel complesso, però, tutti i grafici non descrivono l’organizzazione cantieristica. L’autore stesso, infatti, sottolinea che «il ferait beaucoup plus espedient de monstres à l’oeil la pratique de telles voutes pour les contrefaire manuellement, Figura 3 Tavola F iij; le plan et le trait de la trompe d’Anet (De L’Orme 1557, 93–94) 844 I. Pecoraro Figura 4 Il sesto delle sezioni lungo gli assi bisettori degli angoli; l’apparecchiatura dei conci visti dall’intradosso; il prospetto di uno spicchio di stella, con la numerazione dei conci riferiti al plan; la sezione, sagomata, dei costoloni della stella, lungo gli assi di riferimento (De L’Orme 1557, 109) que vouloir entreprendre d’escrire tout ce qui seroit necessaire pour saire entendre la dicte pratique». Infatti solo la pratica del cantiere, il «veder fare», possono insegnare l’arte del taglio della pietra. De L’Orme descrive le volte sferiche e le definisce le migliori e le più economiche; al contrario, nella coeva pratica di cantiere, si affermava sempre più la moda delle «volte alla moderna», vale a dire delle strutture stellari nervate.11 Pur essendo il suo un lavoro essenzialmente di metodo, è doveroso osservare che l’autore pone una certa attenzione al fattore economico, il quale condiziona sempre, necessariamente, la produzione edilizia; egli evidenzia, inoltre, quelli che sono, a suo av- viso, i sistemi voltati più convenienti anche sotto il profilo di una efficace risposta statica. De L’Orme è un uomo del suo tempo, che assiste ai mutamenti della realtà culturale europea all’inizio del XVI secolo. Pertanto, la scissione netta e irreversibile fra il sapere teorico e quello pratico, la nascita della moderna scienza della stereotomia e della rappresentazione, la definizione dei diversi ambiti d’azione delle figure professionali nel campo dell’architettura, influenzano gli esiti del suo trattato. Lo spagnolo Alonso de Vandelvira12 elabora fra il 1575 e il 1591 un interessante trattato di stereotomia dal titolo Libro de Traças de Cortes de Piedras.13 Nel testo sono illustrate molte opere architettoniche d’inizio secolo realizzate da Andreas de Vandelvira, padre dell’autore. Si tratta di una delle prime esperienze letterarie in cui siano affrontate con precisione, semplicità e volontà di chiarezza le problematiche relative a questioni puramente pratiche. Infatti, in questo manoscritto l’architettura è intesa come tecnica più che come scienza. Il testo originale, oggi perduto, circolava probabilmente in cantiere già prima che negli ambienti culturali spagnoli della seconda metà del XVI secolo, sotto forma di manoscritto.14 I motivi che inducono l’autore a porre per iscritto l’opera del padre scaturiscono, probabilmente, sia dalla devozione del figlio nei confronti del sapere pratico del genitore, sia dall’esplicita richiesta avanzata dai circoli culturali castigliani e andalusi, in particolar modo da quello che ruotava intorno alla figura di Gaspar de Vega, colto e stimato architetto sivigliano. Il testo riscuote nel tempo un immenso successo e diviene un saldo punto di riferimento per le generazioni d’architetti spagnoli attive nei secoli XVI e XVII. Non è un caso, quindi, che nei documenti dell’epoca il libro sia spesso citato, in particolar modo per descrivere i progetti di ardite strutture voltate.15 Il manoscritto s’articola in «Títulos», nominati in funzione dei tipi d’elementi analizzati. Ogni pagina è strutturata con una parte manoscritta, che commenta il grafico relativo alla pianta del vano da voltare; le ipografie sono arricchite da sezioni significative degli elementi lapidei da tagliare. Nei grafici è spesso possibile osservare il concio di partenza e la lavorazione che esso subisce prima di essere posto in opera. Vi è il continuo tentativo di dominare la dimensione della materia nello spazio, mediante illustrazioni del concio sezionato o proiettato su piani diversi. I primi trattati di stereotomia e la loro influenza L’esigenza si rafforza là dove l’elemento di concio è trattato a bassorilievo ed occupa una posizione in vista nell’organismo architettonico (ad esempio lungo il piano d’imposta, come concio di chiave, come costolone lungo le diagonali principali e secondarie). Il manoscritto tratta diversi tipi di volte, di cui non sempre è possibile offrire la traduzione in lingua italiana. La lingua spagnola, infatti, adotta termini molto specialistici per denominare i diversi sistemi voltati; si tratta spesso di sfumature linguistiche di estrema ricercatezza. Gli assi bisettori dell’impianto planimetrico da voltare sono messi in evidenza, qualunque sia il tipo di volta. Anche i conci del piano d’imposta sono disegnati secondo piani di sezione diversi, pur quando si descrivono strutture semplici; i conci sono numerati in ordine crescente, dal basso verso l’alto, secondo la sequenza delle fasi operative di montaggio. L’autore tende sempre, in ogni tavola, ad indicare la forma dell’impianto (quadrato, rettangolare, circolare); la capilla cuadrada por arista indica, ad esempio, la volta a crociera su pianta quadrata. Nel suo testo la descrizione è organizzata partendo dai tipi di volta più semplici, per procedere verso i più complessi.16 Per esempio, scrivendo della volta a crociera, l’autore illustra le fasi della costruzione, equiparandola all’edificazione di quattro archi che si congiungono al centro. Spesso, per ciascun concio di pietra, è individuata la parte di materiale da eliminare mediante il taglio. La descrizione è effettuata in pianta e in sezione, trasversale e diagonale. In tal modo si possono controllare le dimensioni nello spazio d’ogni punto che compone il concio. Lo spessore dei conci della volta a crociera è notevole ed è pari a circa 1/6 dell’ampiezza dell’arco; la quantità di pietra sottratta per dare forma al pezzo è variabile da concio a concio; l’arco ottenuto è composto da elementi disposti simmetricamente rispetto all’asse centrale; il concio di chiave ha una forma quadrata. È anche interessante costatare che nella descrizione non è citata la centina e che anche Vandelvira, come de L’Orme, illustra una sequenza di fasi costruttive per archi convergenti verso il centro piuttosto che per porzioni di superficie. Il metodo di rappresentazione è facilmente interpretabile; infatti, le lettere individuano i piani di taglio del concio. Il testo sembra rivolto a due diversi tipi d’utenza, la prima, dotta e colta, dei circoli culturali spagnoli del XVI secolo, la seconda, quella dei 845 capomastri, dei muratori e degli scalpellini, il più delle volte analfabeta, ma dotata di grande cultura tecnico-pratica. Pertanto, il testo si connota contemporaneamente per una sua intrinseca ricercatezza linguistica, per un’efficace, sintetica e pratica struttura grafico-narrativa. D’altro canto, l’autore del manoscritto è un architetto colto dell’ambiente culturale rinascimentale sivigliano, ma è anche un figlio d’arte, uno scalpellino che aveva appreso direttamente dal padre il mestiere del taglio della pietra, frequentando per molti anni il cantiere. Nei confronti di situazioni costruttive formali analoghe, il costruttore sceglie la strada della reiterazione della tecnica costruttiva, come accade, ad esempio, nel Titulo 95, Capilla por arista perlongada, foglio n. 81r (figs. 5 e 6).17 L’impiego del filo a piombo in cantiere (el plomos, spesso citato nel trattato, più della sega e dello squadro) è tradotto graficamente come linea verticale di proiezione di ogni vertice di concio sull’ipo- Figura 5 Un vano rettangolare coperto da una volta dotata di doppia curvatura a tutto sesto e a sesto ribassato. (Vandelvira 1595, foglio n. 81r) 846 I. Pecoraro Figura 6 La forma e le dimensioni dei conci in una volta a vela. Le linee di traccia sono disegnate partendo dalla proiezione dell’ipografia della volta e individuandone il sesto (Vandelvira 1595, tít. 4c) grafia. Infatti, il filo a piombo definisce la quota parte di concio da tagliare, per creare i piani d’allettamento fra elementi contigui. Le operazioni di dimensionamento e di taglio sono agevolate dalla scelta di forme geometriche principali elementari in pianta (il quadrato e l’arco a tutto sesto), che consentono la reiterazione di molte operazioni costruttive e di dimensionamento. Se, ad esempio, la pianta è rettangolare, la regola dei filari in un ambiente quadrato decade e risulta necessario dover tagliare i conci secondo una direttrice diversa. In questo caso la descrizione diviene più complessa e meno chiara (foglio n. 90). L’importanza del trattato di Vandelvira deriva dall’impostazione stessa del testo, nel quale sono illustrate e descritte le dimensioni e le operazioni di taglio dei conci di opere architettoniche significative, realizzate nel XV secolo in territorio spagnolo. I contemporanei usufruiscono quindi della possibilità di confrontare lo scritto con gli esempi visibili nelle città andaluse e catalane. I disegni sono elementari ma completi e leggibili. La loro interpretazione è im- mediata, anche nel caso di costoloni e modanature elaborate. Il numero di grafici riportati è maggiore di quello presente nei testi di Ruiz (1545), D’Hantarón e de L’Orme. De L’Orme è uomo di pensiero, Vandelvira è uomo d’azione. Il primo è alle dirette dipendenze del sovrano francese, mentre il secondo lavora per una committenza ricca ma non necessariamente regale. Il primo studia in Italia, venendo a contatto con i cenacoli filosofici del Rinascimento fiorentino e romano d’inizio XVI secolo, viaggia molto e studia. Il secondo è un uomo di cantiere, uno scalpellino che trascorre tutta la sua vita in Spagna. De L’Orme non ha frequentato assiduamente il cantiere paterno, mentre Vandelvira si appresta a scrivere il trattato solo dopo la morte di Andreas, nel 1575, vale a dire solo dopo aver assimilato la ventennale esperienza pratica. L’esperienza tecnico-costruttiva dell’architettura in pietra dei secoli XIII-XV è ben accolta dalle generazioni dei nuovi intellettuali del XVI secolo, che la reinterpretano anche sulla base delle conoscenze trascritte nei taccuini degli scalpellini della Languedoc. Les épures si tramutano in traits, le strutture a volta nervate gotiche si trasformano in volte stellari, realizzate in pietra (esempi centroeuropei e catalani del XV secolo) oppure in pietra e mattone (esempi andalusi e portoghesi). Non è un puro caso che si parli di volte «a la antigua» per le volte di Francesco Baldomàr e di «volte moderne» per le strutture stellari con costoloni della Francia e della Spagna del XVI secolo.18 Nel trattato del de L’Orme la stereotomia assurge a regola fondamentale per la costruzione dei sistemi voltati; l’esempio eclatante, il più articolato dal punto di vista strutturale e il più elegante sotto il profilo estetico, è fornito dalla cupola della Cappella del Castello d’Anet (fig. 3) nella quale l’alternanza di due soli tipi di concio, nervati a bassorilievo, giustapposti, crea il gioco decorativo della finta nervatura, distribuita su tutta quanta la superficie d’intradosso. Il tema dei panneaux primeggia. Esso è il principio ordinatore di tutta la superficie ma, nel contempo, è anche pretesto per l’invenzione decorativa. La stereotomia non è quindi solo lo strumento tecnico e tecnologico per dimensionare il concio e posizionarlo nella sua giusta collocazione spaziale; essa è anche l’elemento ordinatore e ispiratore dell’atto creativo di un architetto, una specie di raccolta progettuale «d’istruzione per l’uso»19 riferita alla pietra. L’analisi dei principi metodologici della stereoto- I primi trattati di stereotomia e la loro influenza mia attraverso la lettura dei primi trattati storici ha permesso d’usufruire di un utile strumento di lettura per approfondire la conoscenza del cantiere di Terra d’Otranto a cavallo fra Medioevo ed Età Moderna, contraddistinto da architetture a conci ben squadrati. Si è indagato sulle possibili relazioni che l’esperienza costruttiva spagnola, divulgata anche attraverso la pubblicazione di quei testi, ha potuto tessere in Europa e nella settima provincia del Viceregno Spagnolo. Infatti, nel Salento di fine Quattrocento fiorisce il fenomeno costruttivo delle murature isometriche a filari regolari, già presente in tutta la regione pugliese ma scarsamente documentato dalle poche opere superstiti. Anche se non sono state dimostrate la circolazione e la diffusione dei primi trattati di stereotomia nella Puglia del Cinquecento e neppure nell’ambiente colto settecentesco frequentato dal Milizia, è stata riscontrata una stretta corrispondenza tecnico-formale fra i piani d’imposta delle volte a vela chiamate vuelta redonda y vuelta hiladas redondas e la ’mpise leccese, vale a dire l’elemento di appoggio su cui s’imposta la struttura voltata. Gli altri fattori che accomunano i due fenomeni costruttivi sono la costanza del rapporto dimensionale fra l’ampiezza del diametro di base di una struttura voltata e lo spessore dei conci, e lo scarso impiego di centine. Quest’ultimo elemento specializza un processo costruttivo fondato esclusivamente sulla corretta distribuzione delle forze scaricate su elementi provvisori di pietra o su sistemi alternativi di contrappeso delle spinte. Il principale obiettivo raggiunto nel corso di quest’indagine è consistito nel registrare un’aderente analogia formale fra l’ipografia della volta stellare della Capilla Reale di Valencia dell’architetto Francesco Baldomàr e quella della chiesa del monastero dei Domenicani in Muro Leccese (Lecce) attribuita all’architetto neretino Giovanni Maria Tarantino (figs. 7 e 8).20 Ciò che differenzia la struttura catalana da quella salentina è il materiale da costruzione (vulcanico nel primo caso e calcarenitico nel secondo) oltre che il notevole scarto temporale di circa cento anni che intercorre fra l’esempio spagnolo e quello pugliese. L’analogia formale fra le ipografie della volta «a la moderna» valenziana e di quella leccese ha incoraggiato la ricerca d’ulteriori aspetti finora trascurati, quali lo spostamento di maestranze e di progettisti o le influenze dirette o indirette della committenza nei 847 confronti dell’opera da finanziare. A tale proposito, però, lo studio dei due specifici esempi, fondato sull’osservazione diretta delle architetture e sull’analisi dei documenti di archivio riferiti alla storia dei cantieri, non attesta contatti culturali fra le maestranze delle due regioni. Per tutto il XVI secolo nella provincia di Lecce operano maestranze quasi esclusivamente locali, mentre nella città di Valencia non si segnala l’attività di scalpellini salentini. Ponendo a confrotno i due casi di studio si è osservato che mentre l’esperienza valenziana della struttura stellare resta un caso singolo, singolare ed isolato nel contesto culturale della Spagna di fine Quattrocento, il fenomeno costruttivo delle «volte leccesi» ha modo di manifestarsi, diffondersi ed affermarsi in modo capillare e specialistico per tutta la Terra d’Otranto, dal XVI secolo in poi.21 Concludendo, alla luce di quanto analizzato emerge che in Terra d’Otranto non è possibile parlare di Figura 7 La Cappella Reale; Valencia, Spagna. Foto in (Zaragozà Catalan 2000, 149) 848 I. Pecoraro Figura 8 La volta stellare della chiesa dei Domenicani a Muro Leccese, Italia (foto di T. Costantini, 1996) applicazione consapevole e colta delle regole della stereotomia nella lavorazione delle bozze calcaree, né di un’univoca stretta influenza o dipendenza culturale dalla Spagna. Appare lecito invece sostenere l’ipotesi della fioritura e dell’affermazione di una tecnica costruttiva locale originale, caratterizzata dalla lavorazione delle bozze in pietra in corso d’opera, per la realizzazione di sistemi murari composti da filari isometrici lungo superfici complesse. NOTE 1. Come scrive Laura De Carlo de L’Orme «articola per la prima volta l’uso di un codice grafico basato sull’elaborazione del portrait e del trait, sancendo in tal modo la capacità prescrittiva del disegno». Il portrait è il disegno di progetto dell’architetto che idea l’opera, mentre il trait è parte del patrimonio linguistico proprio delle corporazioni di maestri muratori. «L’arte del trait» regola la misura lineare e angolare delle bozze lapidee, il taglio della pietra e l’apparecchiatura dei con- ci; De Carlo L. 2000. La pietra disegnata. Riflessioni intorno a un saggio di Robin Evans. In Migliari R. a cura di. Il disegno e la pietra, 57. Roma: Gangemi. 2. De L’Orme P. [1567] 1988. Traités d’architectures: nouvelles inventions pour bien bastir et à petits traits (1561). Premier tome de l’Architecture. Paris. (Ristampa anastatica. Paris: Léonce Loret). 3. Vandelvira, A. de. 1575–1591. Libro de Tracas de Cortes de Piedras. Sevilla. In Barbe-Coquelin de l’Isle, G. 1977. El tratado de arquitectura de Alonso de Vandelvira. Edición con introducción, notas, variantes y glosario hispano-francés de arquitectura, I. Valencia: Albacete. 4. I padri di Alonso de Vandelvira e di Philibert de L’Orme erano scalpellini e architetti molto abili nella Spagna e nella Francia d’inizio XVI secolo. 5. Ruiz el Joven, H. 1569. Libro de arquitectura. Sevilla; e de Hontañón R. 1560–1570. Compendio de arquitectura y Simmetria. Valencia, manoscritti conservati presso la Biblioteca Universitaria Politecnica di Valencia; VVAA. 1997. La capella Reial d’Alfons el Magnanim de l’antic monestir de predicadors d valencia. Estudios (1396–1996), 14–62. Valencia: Conseil General del Consorci de museus de la Comunitat Valenciana; Fray Lorenzo de San Nicolás. s.d. Trazado de la boveda esquifada. Valencia; e Ginés Martînez de Aranda. s.d. Cerramientos y trazas de montea. s.l. In Zaragoza Catalán A. 2000. Arquitectura gótica valenciana, 143. Valencia. 6. Sulla vita di de L’Orme si legga Milizia F. 1785. Memorie degli architetti antichi e moderni, tomo primo, 262–263. Bassano: Remondini di Venezia; sulla leggibilità del testo francese si veda Carlevaris L. Le volte di De L’Orme. Problemi di ricostruzione di alcuni traits. In Migliari 2000, 81–92. 7. Nel corso di questa ricerca è stata verificata una stretta analogia formale e tecnologica fra l’impianto triangolare della stanza del castello di Fontainebleau e quello della sala del Castello d’Otranto (1490 circa) (De L’Orme 1567, cap. 18). 8. (De L’Orme 1567, 3: 93–94). 9. (De L’Orme 1567, 3: 109). 10. Pere Compte promuove uno dei circoli culturali più famosi ed influenti nella Spagna di fine XV secolo; allievo di Francesc Baldomàr, visse e lavorò nella città di Valencia, prima alle dipendenze del suo maestro, poi come direttore e responsabile della sua bottega. A lui si deve la traslazione delle forme compatte e prive di nervature delle strutture voltate «baldomariane» in architetture dai sistemi d’orizzontamento nervati, che, su modello delle volte gotiche, alla maniera «antigua», introducono nel cantiere una nuova tecnica costruttiva, quella delle volte stellari, las bóvedas aristadas; (Zaragozá Catalán 2000, 162–166); v. anche Breymann G. I primi trattati di stereotomia e la loro influenza 11. 12. 13. 14. A. 1905–1910. Trattato generale di costruzioni civili con cenni speciali alle costruzioni grandiose. 2 a trad. Italiana. Milano: Vallardi (1a ed. tedesca Stuttgart 1849–1854; 1a trad. italiana, Vallardi, Milano 1885). (De L’Orme 1567, 111). Si conosce molto poco della vita di Alonso de Vandelvira. Il trattato fu redatto dopo la morte del padre (1575) e Alonso fu progettista di alcune opere in Granada, Siviglia, Sabiote, ove risiedeva la moglie. Sulla sua vita si legga Milizia (1785, 241); Barbé-Coquelin de Lisle (1977, 125); v. Gila Medina L. 1992. Itinerarios vandelvirianos. Madrid; v. Gila Medina L., V. M. Ruiz Fuentes. 1992. Andrés de Vandelvira: aproximación a su vida y obra. In Exposición Arquitectura del Rinacimiento en Andalucía. Andrés de Vandelvira y su epoca, Catedral de Jaén, 2 oct-30 nov. 1992, 81–117. Jaén: Junta de Andalucía, Consejería de Cultura y Medio Ambiente, Ayuntamiento de Jaén; v. Galera, A. P. A. 1994. El contrato de Andrés de Vandelvira con la Catedral de Jaén, 402–413. Madrid.. (Barbé-Coquelin de Lisle 1977, 124) e Gila Medina e Ruiz Fuentes 1992, 81–117). Il testo era noto agli architetti e agli artigiani che lavorarono nell’Escorial di Madrid prima del 1591. Lo prova una lettera nella quale Alonso invia due uomini affinché recuperino il suo manoscritto prestato a Juan de Valencia nel 1591 durante le fasi di lavorazione in cantiere; (Barbé-Coquelin de Lisle 1977, 20). 849 15. A proposito dello stretto legame fra gli ambiti culturali spagnolo e italiano d’inizio XVI secolo, in un «momento storico che vede la diffusione della maniera a la antigua» si legga Villela, M. 1998–1999. Jacopo Torni detto l’Indaco (1476–1526) e la cappella «a la antigua» di Don Gil Rodríguez de Junterón nella cattedrale di Murcia. In Annali di Architettura, Rivista del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio 10–11: 82–103. Il tipo di volta della cappella di Junterón, ammirevole per la stereotomia dei conci, è descritta nel trattato di Vandelvira, nel paragrafo dedicato alla capilla cuadrada en vuelta redonda. Alonso riconosce la particolarità formale e l’arditezza strutturale di questa volta definendola, per l’appunto, boveda de Murcia. 16. (Vandelvira 1575–1591, tít. 94, foglio 80 r). 17. (Barbé-Coquelin de Lisle 1977, 128, tít. 95: capilla por arista perlongada). 18. (Zaragozá Catalán 2000, 150). 19. (De Carlo 2000, 78). 20. Floro, L. 2001. L’architetto Giovanni Maria Tarantino e le sue opere, dattiloscritto, 1–24. Lecce. 21. V. per una maggiore panoramica sulla vicenda costruttiva si rimanda a Pecoraro, I. Las bovedas a estrella del Salento. Una arquitectura a caballo entre la Edad Media y la Edad Moderna. In Zaragozà Catalán, Arturo; Eduardo Mira. a cura di. Una arquitectura del gotico mediterraneo, 51–61. Valencia: Fundacion Bienal de Valencia.