Qui - Carlo Molinaro

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Carlo Molinaro
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Carlo Molinaro
lunedì 26 maggio 2008, 12.40.33
Ti leggevo poesie nudi nel letto dopo l'amore
lunedì 4 giugno 2007, 18.10.32 | molinaro
Non so perché oggi pomeriggio mi è venuto in mente di creare anche un blog. È vero che lo fanno un po'
tutti. Quindi perché no. Ovviamente non so se e quanto ci scriverò. Non so neanche bene come funziona.
Ci provo. Vediamo. Oggi stavo pensando al "quasi". Se giochi al lotto sei quasi sicuro di non vincere, ma è
il quasi che fa sì che il gioco esista (e lo Stato ci guadagni un sacco). Non succede quasi mai che una
ragazza prima non ci stia e poi dopo un mese o un anno ci stia, ma è al quasi che si appigliano i lunghi
corteggiamenti. Io le cose le faccio sempre collegate a persone, non sono autonomo dalle persone.
Creando questo blog penso a Petarda, che è la mia bloggatrice preferita http://www.petarda.splinder.com
e spero mi insegnerà delle blogherie, oltre che della blagherie, e a Sel, che adesso sto lungamente
corteggiando e mi ha fatto venire in mente il secondo quasi. Non significa che queste due siano al centro
della mia esistenza, sono però quelle a cui ho pensato creando il blog. Ovviamente senza nessun motivo,
non c'è mai nessun motivo. Ma dato che sono fondamentalmente un poeta (ormai ho smesso di
vergognarmene e di fare smancerie sul termine, c'è chi è idraulico o schizofrenico e chi è poeta, basta),
nel primo messaggio del blog mi par giusto piazzare una poesia, e la piazzo. La poesia non è dedicata né
a Petarda né a Sel, se no sarebbe troppo semplice. La scelgo soprattutto perché è la più recente che ho
scritto, o quasi. Cogliamo l'attimo.
TI LEGGEVO POESIE NUDI NEL LETTO DOPO L’AMORE
Ti leggevo poesie nudi nel letto dopo l’amore:
non avevamo vent’anni, non era tanto tempo fa,
era oggi pomeriggio e avevamo più di cent’anni
fra te e me. Ti leggevo poesie nudi nel letto:
non è un ricordo lontano perso nelle nostalgie,
era oggi pomeriggio con un cielo grigio e azzurro
mescolato dal vento – e i colori vivaci sul terrazzo.
Non avevamo vent’anni, non era un tempo lontano,
era oggi pomeriggio ed era la prima volta
in vita mia che leggevo poesie nudi nel letto,
tu la prima volta che qualcuno te le leggeva,
e sono nudo al tavolo adesso che scrivo
mentre tu sei quasi addormentata sulle lenzuola spaiate
di due verdi diversi, recuperate insieme
per questa casa che sembra di studenti squattrinati.
È di oggi pomeriggio la luce sui coppi dei tetti,
le mansarde di fronte abitate da slavi e magrebini;
se dico questo secolo intendo dire il ventunesimo,
il nostro: nel Novecento non t’ho conosciuta ma ora
ti ho letto poesie per la prima volta nudi nel letto,
le lenzuola spaiate di due verdi diversi
spinte via dalle gambe, fresche ancora del nostro sudore.
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TRE LIBRI SEGNALATI
martedì 5 giugno 2007, 8.24.40 | molinaro
Dopodiché, essendo un intellettuale più o meno gemebondo, eccomi a segnalare
tre libri. Un libro di poesie di un poeta bosniaco, uscito nel 1999, che trovo molto
bello e che quasi nessuno conosce in Italia, un libro di poesiole doppiosensuali di
una mia amica che sta a Venezia, uscito pochi giorni fa, e un racconto lungo di una
mia amica che sta dalle parti di Savona, che uscirà entro il corrente mese di
giugno. Del secondo e del terzo ho scritto la prefazione e nota. Quindi una
segnalazione da «semplice» lettore, di un grande poeta recentemente defunto, e due segnalazioni da
amico e collaboratore di due autrici che considero valenti. Del libro del poeta bosniaco propongo una
poesia (letta a voce molto bene dall’amico Cesare a una festa agreste a Erli, dietro Albenga, il 26 maggio
scorso), degli altri due propongo perlappunto la mia prefazione o nota. Ecco dunque qui di seguito le cose.
Da Izet Sarajlić, 30 febbraio, San Marco dei Giustiniani, Genova 1999, la poesia a pag. 17
Nati nel Ventitré, fucilati nel Quarantadue
Questa sera ameremo per loro.
Erano 28.
Erano cinquemila e 28.
Ce n'erano più di quanto amore ci sia mai stato in una poesia.
Ora sarebbero padri.
Ora non ci sono più.
Noi, che sui marciapiedi di un secolo abbiamo sofferto
le solitudini di tutti i Robinson del mondo,
noi, che siamo sopravvissuti ai carri armati e non abbiamo ucciso nessuno,
mia piccola grande,
questa sera ameremo per loro.
E non chiedere se potevano tornare.
E non chiedere se si poteva tornare indietro mentre per l'ultima volta,
rosso come il comunismo, bruciava l'orizzonte dei loro desideri.
Attraverso i loro anni senza amore, trafitto e ritto,
è passato l'avvenire dell'amore.
Non ci sono stati segreti di erba schiacciata.
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Non ci sono stati segreti di bluse sbottonate.
Non ci sono stati segreti di gigli lasciati cadere dalle mani stremate.
C'erano le notti,
c'era il filo spinato,
c'era il cielo che si guarda per l'ultima volta,
c'erano i treni che tornano vuoti e squallidi,
c'erano i treni e i papaveri,
e con essi, con i tristi papaveri di un'estate da soldati,
con un magnifico senso di imitazione, si batteva il loro sangue.
E intanto sui Kalemegdan e sui Nevskij Prospekt,
sui Boulevards del Sud e i Quais degli Addii,
sui Campi dei Fiori e sui Ponti Mirabeau,
meravigliose anche quando non amano,
attendevano le Anne, le Zoje, le Jeanettes.
Attendevano il ritorno dei soldati.
Se non fossero tornati,
avrebbero dato ai ragazzi le loro bianche spalle mai abbracciate.
Non sono tornati.
Sui loro occhi fucilati sono passati i carri armati.
Sui loro occhi fucilati.
Sulle loro Marsigliesi mai cantate fino in fondo.
Sulle loro illusioni crivellate.
Ora sarebbero padri.
Ora non ci sono più.
All'appuntamento d'amore ora attendono come tombe.
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Mia piccola grande,
questa sera ameremo per loro.
(1953)
Da Clara Vajthó, Poesiole doppiosensuali, Graphe.it Edizioni, Perugia 2007, la mia prefazione
La prima cosa notevole è che questi piccoli componimenti leggeri, che ruotano su arguti incastri di parole,
sono vere poesie: ci trovi lo sguardo attento e meravigliato che scava nelle cose in cerca di senso e di
ritmo, e ci trovi anche una storia viva, narrata in sottili trasparenze.
La seconda cosa notevole è la voce argentina di un parlare erotico al femminile che risulta assai
innovativo: non cade dentro il gorgo ritroso e lamentoso della femmina doverosamente sofferente pure nel
sesso (retaggio d’antica sottomissione e mercificazione, camuffata da famiglia e religione), ma neppure si
perde all’inseguimento delle espressioni più crude o sguaiate della tradizione erotica maschile, di più
collaudata (ma spesso falsa) liberazione.
Clara Vajthó mette in versi un eros che assomiglia, nella sua limpidezza, al gioco dei bambini: serio
preciso attento, e simultaneamente gioioso stupito lieto. In questo orizzonte le differenze fra ciò che è più
lirico e ciò che è più ironico, fra ciò che è più vestito di metafora e ciò che è più nudo e crudo, perdono il
carattere di contrapposizione e diventano complementari pennellate a dipingere lo stesso quadro:
ventaglio di esistenze quotidiane in un chiaroscuro nitido, scritto in colore amoroso e in musica giocosa.
Allora anche espressioni come «apro le gambe», o riferimenti diretti al membro e alla vagina, perdono
ogni traccia di volgarità o di tavolo anatomico, e si restituiscono, come è giusto, alla piena naturalezza
dell’essere, la stessa a cui appartiene il desiderio che «ronza... dentro il cuore», così come l’amore:
«L’amore che hai vissuto / non è tempo perduto / l’amore che hai sognato / è tempo anticipato».
Questo sciame di brevi poesie è dunque un gioco (spesso il titolo contiene, in modo più o meno
enigmatico, la chiave di lettura dei versi) eppure va oltre: va oltre senza strafare e senza presunzione,
proprio come il bambino, che quando gioca a fare il pirata della Malesia è pirata ed è in Malesia, anche se
sa benissimo che fra cinque minuti salirà le scale e si laverà le mani per sedersi a cena con mamma e
papà.
Da Chiara Borghi, Il tempo è scaduto, Edizioni Joker, Novi Ligure (AL) 2007, la mia nota
Il primo libro di Chiara Borghi, Drake’s Heaven, del 2001, è stato definito fra l’altro “romanzo di
formazione” e “monografia sulla psiche giovanile”. Questo suo nuovo lavoro, Il tempo è scaduto, apre uno
sguardo più ampio sulla vita osservata nel suo aspetto individuale e, insieme, in quello sociale,
inscindibile. C’è ancora un riferimento generazionale, ma la generazione di cui si parla sembra via via
ampliarsi fino ad abbracciare quasi tutti i viventi del momento storico contemporaneo: i più anziani,
sconfitti, non hanno saggezza da regalare ai giovani, perché la saggezza è stata corrosa e dilapidata dal
trionfante materialismo che ha trasformato l’uomo in “produttore e consumatore”, e il senso di vuoto si
estende ad accomunare i nati nel dopoguerra, negli anni Cinquanta, e i nati alla fine del Novecento
(“secolo breve” oppure, da un altro punto di vista, secolo lunghissimo, separatore di mondi).
La riflessione filosofica sull’esistenza resta centrale nel percorso dell’autrice, e talvolta l’intreccio della
storia sembra un canovaccio su cui l’importante è tessere immagini e meditazioni. Il protagonista, un
uomo sui trent’anni, parla in prima persona, mescolando il presente al passato. La sua vicenda è esile,
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tutta interiore, non ha nulla di sensazionale. La tragedia si dipana nel suo animo a partire dal suicidio della
ragazza amata, dalla perdita di un amore che poteva, forse, disegnare un senso, tracciare una rotta nella
vanità del quotidiano – e forse no, forse tutto si sarebbe comunque irrimediabilmente dissolto sotto il peso
di una plumbea impossibilità, di un destino pre-scritto.
L’uomo si stacca dalla vita a poco a poco con una rassegnazione calma, quasi sconcertante, che sembra
averlo accompagnato sempre: da un matrimonio contratto per inerzia a un lavoro accettato per
stanchezza, alla noia delle compagnie, fino al lampo d’amore che però lo trova incredulo, inadeguato e
infine inetto, incapace di prendere e farsi prendere. L’occasione perduta di vivere davvero apre la porta
all’irrompere della morte.
C’è forse il nulla della piccola borghesia, che in Occidente sembra aver contagiato più o meno ogni strato
sociale, all’origine di questo vuoto: “Anche se il luogo comune recita che bisogna credere e lottare, questo
nostro esserci non è vita, non è speranza, non è guerra e non è pace: è solo un crudelissimo lungo addio”
– dice l’uomo.
Il gesto finale estremo del protagonista del racconto non è un gesto d’amore ma di fuga, la fuga dalla più
orribile e più desiderata delle cose, la “vita normale”. All’enunciato del titolo sembra doversi aggiungere un
avverbio: il tempo è scaduto finalmente: è scaduto il tempo grigio dove manca il coraggio di versare il
sogno nella realtà, dove per vigliaccheria si dichiara l’impossibilità di credere e impegnarsi, dove la
disperazione diventa un vizio comodo. In questo senso – e forse al di là della stessa intenzione conscia
dell’autrice – il racconto esce dall’intimità di una vicenda sentimentale e proietta sullo schermo il dramma
di una generazione (in senso ampio, come dicevo) a cui, nel frastuono incessante di un pandemonio di
stimoli altamente tecnologici, il potere tenta di amputare l’organo essenziale del vivere: la ghiandola del
sogno. Inceppato il motore del desiderio, l’orizzonte si restringe e il viaggio si chiude. Il tempo è scaduto
sì, ma è scaduto di qualità, come un prodotto industriale che si vuol vendere a prezzo troppo basso. Se la
vita è un giro in un centro commerciale, morire è meglio.
Ma la vita può essere altro? Chiara Borghi parte da un pessimismo predestinato che mi spingo a definire
irritante, provocatorio: “ogni persona è una pellicola su cui il tempo e le occasioni imprimono una storia”, fa
dire al protagonista nelle prime pagine del libro. Nessun margine di libertà e di scelta, nei riquadri chiusi
dei fotogrammi del tempo e delle occasioni? E tuttavia, nello svolgersi della storia, l’amore sembra essere
una possibilità reale, un’acqua che lambisce e che potrebbe penetrare. Nel libro precedente Chiara
incideva rapporti umani più duri: “o si calpesta o si è calpestati”. Qui c’è invece uno spazio di tenerezza, di
commozione. C’è in qualche modo il germe dell’amore stesso (cioè della vittoria della vita sulla morte, mi
sia permesso dirlo: l’amore è sempre rivoluzione), ma è un seme che non riesce a radicarsi.
Forte è la tensione a liberarsi della prigione individuale: “Naufragare nell’aria come nell’acqua,
disperdermi, disintegrarmi, dissolvermi lievemente, in un rarefarsi di cellule” – questa una delle sensazioni
che il protagonista del racconto prova quando è invaso dal pensiero della ragazza amata. È in questi lampi
che lo stile dell’autrice sale più alto, è qui che il racconto ci dà il meglio. Un racconto che è forse una
dichiarazione, un manifesto spirituale, un appello. Ed è anche una domanda.
Uscire dalla pasta molle e insidiosa della rinuncia piccoloborghese, riappropriarsi del coraggio e del rischio
della vita, è un’illusione o è una possibilità? Il racconto di Chiara Borghi lascia, problematicamente, la
questione aperta. E lascia, secondo me, un’ansia di fertilità. È un grido sommesso, che va in cerca di chi
ha orecchi per intendere. Ma così, senza apparire, senza retorica. Come un remoto spiraglio.
Chi sono i miei colleghi
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martedì 5 giugno 2007, 11.58.57 | molinaro
Poco fa sull'autobus 1 mentre andavo a prendere un lavoretto in una casa editrice una bella signora
bionda mi ha chiesto un'informazione, e poi ha attaccato bottone. Mi ha fatto notare che l'autobus era bello
pulito. Perché lo puliscono loro. La cooperativa dove lavora lei. Ci sono diverse cooperative, diverse per
ogni deposito di autobus. Quella dove lavora lei è la migliore. "Passiamo dappertutto con il detergente e il
disinfettante. Mica come certe altre cooperative che danno un colpetto di straccio e via. La differenza si
sente". Aggiunge orgogliosa: "I pullman per le olimpiadi li hanno fatti pulire a noi, anche se la cooperativa
di via Nizza sarebbe stata più vicina. Eh, hanno verificato, e hanno scelto noi". Poi sospira: "Ma certo con
questo sistema delle cooperative non sai mai com'è. A gennaio e febbraio ho preso 1200 euro, ma questo
mese non arrivo a 500. Mi tocca girare qua e là". Esito un attimo, e poi le rispondo: "Anch'io all'inizio
dell'anno ho avuto molto lavoro. Una cosa di fino, fatta rapidamente e bene. Poi però per due mesi niente.
Adesso vado a prendere un altro lavoretto". Mi chiede in che settore, e le dico: "Editoria, libri". Sorride
complice: "Eh, è così. Io sono iscritta al sindacato, ma non c'è niente da fare". Ci intendiamo
perfettamente, finché scendo alla mia fermata e penso che ho chiacchierato con una collega. E con una
della mia classe. Forse è qui che sta nascendo una nuova classe sociale, quella che forse saprà anche
lottare, al posto del proletariato ormai dissolto nelle nebbie della cultura piccoloborghese. Puoi pulire gli
autobus o puoi pulire le frasi di autori distratti per libri eleganti, e puoi essere orgoglioso di come pulisci
quegli autobus e quelle frasi: orgoglioso, a testa alta. Ma se prendi quattro o cinque euro all'ora netti (è la
paga sia per gli autobus sia per i libri), e non sai se e per chi e quanto lavorerai il mese prossimo,
appartieni alla stessa classe, alla stessa compagnia. Non saprei bene come definirla, questa nuova classe
sociale, ma esiste. Forse è semplicemente la classe di chi lavora bene e ha voglia di fare cose ma non ha
in mano le leve del grande macchinario tritatutto, nemmeno le levette piccole, quelle riservate ai leccaculo
e agli ignavi più comodi. Di chi è serio e anche un po' orgoglioso, ma prima o poi, chissà, avrà voglia di
buttare un po' di ghiaia in quegli ingranaggi. Anche se non si sa ancora nemmeno da che parte
incominciare. Magari ditelo a Prodi. O non diteglielo, che è lo stesso.
Com'è che ieri ho aperto questo blog
martedì 5 giugno 2007, 17.21.27 | molinaro
Scattano, le cose. O sfumano, tornano, vanno, vengono. Aprire un blog non è una cosa
epocale, l’ho fatto ieri e ci ho messo pochi minuti. Però non saprei dire perché proprio ieri.
Tante volte avevo pensato di farlo, tante volte avevo pensato di non farlo mai. Succede così.
Vale per cose ben più importanti, anche. Sedici anni fa ho smesso di bere. Perché proprio in
quel momento? Già da anni prima ero conscio del problema. Undici anni fa mi sono
separato da mia moglie. Perché quell’anno e non quello prima o quello dopo? Il rapporto era
insopportabile già da tantissimo tempo. Ma le situazioni insopportabili si sopportano, fino a un certo punto che non si
sa qual è.
O almeno, io non lo so. Non generalizziamo. Altri forse sono più programmatori. Certi nodi si sciolgono e certi
restano annodati. Per tanti che ne sciogliamo, moriremo sempre con qualche nodo ancora stretto. Alla mia veneranda
età non so proprio perché gli amori più solidi cominciano in modi così deludenti, senza sogni; e gli amori sognati o
non cominciano neppure o cominciano sì ma durano poco. È una cosa che mi infastidisce alquanto. Non è detto che
sia una regola generale, magari è successo solo a me, e in tal caso aspetto e spero l’amore-sogno che durerà e sarà
solido. Ma certo che il tempo passa e la vita non è eterna. Forse invece avere avuto qualche amore solido e qualche
amore-sogno che comunque qualche mese è durato è già una grande fortuna, forse a tanti non è successo neppure
così, è successo molto di meno, magari non è successo nessun amore per come intendo io. E anche lì: non si sa mai
bene che cosa si intende. Fa niente. Io continuo a innamorarmi e a provarci.
Non c’è un’epoca predestinata. Una settimana fa mi sono buttato per la prima volta in un gelido torrente di montagna.
A vent’anni non l’avrei mai fatto, ero troppo pauroso e imbranato. A quarant’anni ho smesso di portare la canottiera
d’estate. Non è che prima la portassi per un motivo preciso. Da bambino mi avevano detto che era bene portarla e poi
non ci avevo mai più pensato. A volte le cose non mi vengono in mente subito.
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Al primo anno di università, nel 1972, c’era una ragazza piccolina con i capelli lunghissimi che frequentava con me il
corso di romeno. Le piaceva tutto quello che facevo ed era contenta di venire nella mia stanzetta di studente. Ho
pensato che avrei potuto provare a baciarla. L’ho pensato nel 1997. Lei nel frattempo aveva sposato un vietnamita e
fatto dei figli, credo. È molto simpatica. Io dovrei essere più tempestivo. Adesso sono migliorato un po’, però.
Va bene, ma in certe cose ero preveggente: studiavo romeno e a Torino non c’era nessun romeno, ma io lo
immaginavo che oggi sarebbe stato pieno! Ehm. Adesso mi serve. Oddìo, non a guadagnare denaro; mi serve così a
livello di volontariato. Qualche immigrato mi chiede di tradurgli dei documenti o cose così, poi non è mica che mi
paga, anzi mi chiede se ho venti euro da prestargli e io glieli presto, ma non ditelo in giro, per favore.
Forse un blog non è che serva a scrivere tutte queste cazzate. Non ho ancora deciso a che cosa serve e probabilmente
non lo deciderò. Mah, ci metto un’altra poesia recente, e basta.
IL CONTRORELATORE
La tua tesi sul teatro di satira
con cui sei diventata dottoressa
in filosofia nell’ateneo di Genova
dev’essere una cosa interessante
e vorrei leggerla. Le poesie che scrivi
raggiungono una certa intensità
almeno qualche volta e io le apprezzo;
e il tuo nuovo racconto ha uno stile più saldo
del precedente. Sei brava e sei amabile,
fiera ragazza con gli occhi molto azzurri
(forse darebbe un bel nome in cinese
o in pellerossa), però ti ho sognata
in altre circostanze: che ballavi
sui cubi in discoteca, per lavoro,
o baciavi in un bosco di castagni
un uomo, o ubriaca ti sprecavi
in qualche sera storta. Non s’appiglia,
l’amore, ai meriti curricolari
né alle più degne imprese, lo sappiamo:
s’infila nelle crepe per spiare
cose più ambigue – che sa decifrare:
è questo il bello. Comunque la tesi
se me la presti la leggo volentieri
e parleremo di letteratura
mentre il pensiero, senza farsi vedere,
sfiorerà le tue labbra e le tue unghie,
ti slaccerà la gonna e il reggiseno.
Intrecci di poesie e non solo di poesie
mercoledì 6 giugno 2007, 12.11.41 | molinaro
La festa di poesia, musica e cose varie a Erli (SV) il 26 e 27 maggio è stata molto
bella. È la terza volta che partecipo. Quest’anno Chiara e io abbiamo voluto leggere
poesie in coppia, scambiandocene anche una, nel senso che lei ha letto una poesia
mia e io una poesia sua. Un prestare la voce alla poesia dell’altro. Alla fine della
nostra performance Nico, il grande capo di Erli, ci ha un po’ intervistati, con
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domande anche difficili. Io avevo dato al “pubblico” (se così vogliamo chiamarlo: la
compagnia di amici di Erli) un fascicoletto con alcune mie poesie, e dalla “platea” (per così dire: la
piazzuola, o radura, sotto le case, dove si fa la festa) si è alzata la voce di alcuni: «Leggici quella
dell’amore gioioso». Quella dell’amore gioioso è una piccola poesia di desiderio che secondo me non è
neppure fra le mie migliori. È una piccola invocazione. Ma Nico ha detto: «Allora leggila, su». E poi ha
aggiunto: «Anzi, potrebbe leggerla Chiara». E questa è una curiosa coincidenza, perché Chiara prima,
mentre una sera a Savona in piazza del Popolo preparavamo la nostra performance, aveva detto che
proprio quella poesia le sarebbe piaciuto leggere – anche se dopo ne avevamo scelta un’altra che pure le
piaceva, una nata in un viaggio a Bucarest (lei è affezionata all’Europa dell’Est). Si vede che in qualche
modo quella poesia è proprio destinata a Chiara. Perché ho raccontato questo? Forse perché è bello
pensare che i pensieri legati alle poesie viaggino per canali misteriosi fra le persone. E poi forse è una
scusa per parlare di Erli, che merita: è un paese dove c’è una borgata rimessa a posto da un gruppo di
validi volenterosi, la contrada Bassi, e dove ogni anno, solitamente l’ultimo finesettimana di maggio, si fa
una festa per dare il benvenuto all’estate. Ci potete arrivare da Albenga, in Liguria, prendendo la strada su
verso il passo che porta a Garessio, in Piemonte. O viceversa. È luogo di confine. Va bene. E poi questo
raccontare è anche una scusa per offrire tre poesie. La prima è la mia cosiddetta suddetta dell’amore
gioioso, che in realtà lo chiede, non lo ha: Fammi scrivere versi d’amore gioioso. La seconda è la mia
poesia che Chiara ha letto a Erli, Vento dell’Est, e la terza è la poesia di Chiara che io ho letto a Erli, In
morte a un amico. Sì, è stato bello. Bisogna intrecciare, abbracciare, amare.
FAMMI SCRIVERE VERSI D’AMORE GIOIOSO
[di Carlo]
Fammi scrivere versi d’amore gioioso:
da troppo tempo mancano da me.
Fammi scrivere versi d’amore gioioso:
poi li tolgo dal foglio e li semino in te.
Vedrai che germogli, vedrai che primavera!
Fammi scrivere versi d’amore gioioso:
li potrai coltivare nell’orto del tuo seno.
Sorrideranno quando fiorirai.
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IL VENTO DELL’EST
[di Carlo]
Rodica si concede a Bucureşti
con ritrosia. L’amico la spalleggia
cercando di ottenere anche due paia
di pantaloni, oltre il mangianastri.
Deve tornare da sua madre a Giurgiu:
ha gli occhi blu come il Danubio blu.
Io parlo româneşte troppo bene,
per questo è diffidente: dice che
non lascerebbe mai il suo paese.
Trascorriamo la notte in una stanza
lercia, senza nemmeno un lavandino,
che mi è costata quattrocento lei;
giaciamo stretti in un lettuccio sghembo,
timidamente forzati a toccarci,
sicuri appena dei nostri vent’anni
e con l’amore di non far l’amore.
All’alba un vento gelido ravviva
la cenere dei suoi capelli corti
mentre mi lascia in Calea Victoriei.
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Carlo Molinaro
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Racconto tutto al vecchio alcolizzato,
ex miliţian ex securist ex uomo,
che incontro per le strade di Giuleşti:
dice che la conosce, che è fututa
(lemma neolatino) fino in bocca,
mi dice la sua età e il suo cognome,
e che non è di Giurgiu ma di Arad.
Io mi sdegno con lui, lo ingiurio un poco,
però non se ne accorge, e andiamo a bere
un intruglio che chiamano coniac,
perché la ţuica non si trova più.
Entriamo in casa, e m’offre con orgoglio
un bel pezzo di carne affumicata,
frutto di relazioni altolocate;
poi conosco sua figlia, brutta e grassa,
che con la scusa d’una passeggiata
mi porta in un negozio per stranieri
a comprare una gonna e una bottiglia
di whisky vero, con un prezzo assurdo.
Protesto che non ho quasi più soldi:
lei mi conduce al lago Herǎstrǎu,
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dove c’è pace e il cuor si riconforta.
Dormo da loro clandestinamente,
perché la legge snaturata vieta
la sacra antica ospitalità:
e la casa è graziosa, e fuori ha preso
a nevicare, e io teneramente
li stupisco cantando un loro canto.
Alle cinque, il mattino, scendo in strada
per la coda dell’olio, con la madre
di Elsa, la ragazza brutta e grassa.
La neve fa una pasta scivolosa
sulle pietre rotonde mal disposte.
Mi prende un senso strano di dolcezza.
Cosa farà Rodica stamattina?
Fra cinque giorni tornerò a Vercelli.
IN MORTE A UN AMICO
[di Chiara]
Non ti avvertono
gli amici
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Carlo Molinaro
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quando se ne vanno.
Non ti telefona nessuno
se deve dirti «io parto,
io non torno più».
Nella navata gremita la folla s’accalca
ma è tardi, è già l’attimo dopo (di nuovo vita),
non si fa notare lei, tra noi,
non smuove l’aria
non calca
non parla.
Solitaria
fa cenno con la mano
di seguirla
nel suo lontano.
È pausa musicale,
è spazio vuoto nel saliscendi del bus della folla
che sembra smarcata
mentre sempre è
anticipata e rincorsa dall’ombra scura,
l’impronunciabile suono:
Morte
(non c’è più).
La mauvaise graine
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Carlo Molinaro
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giovedì 7 giugno 2007, 9.51.49 | molinaro
Pensavo ancora a che cos’è un blog. Normale, l’ho aperto solo da tre giorni, è la fase in cui
uno si interroga. Tranne quelli che prima s’interrogano e poi fanno le cose, più saggi, ma io
no, io prima faccio le cose e poi penso se era il caso – per me è l’unica via possibile, perché
se ci penso prima poi non faccio niente – vale anche per sposarmi, mettere al mondo un
figlio, prendere un lavoro, eccetera.
Un blog è un contenitore. Quelli di personaggi famosi (Beppe Grillo per esempio) o di
organizzazioni sociopolitiche probabilmente servono anche a organizzare appunto movimenti sociopolitici. Ma io
non sono un personaggio famoso e non ho questa intenzione. Credo di intendere il blog, questo blog, come una specie
di lettera rivolta a chi ha voglia di leggerla. Chi mi conosce sa che di lettere ne ho sempre scritte molte. Il mio
epistolario (se qualcuno l’avesse conservato: io no di certo) occuperebbe più volumi di quello del Mazzini, che pure è
stato stampato in una quarantina di tomi. Certi giorni la mia cassetta della posta riceveva anche cinque o sei lettere.
Quasi tutte colorate, con disegni e ornamenti, quasi tutte di ragazze. Sì, intendo lettere di carta con il loro francobollo
– ormai bisogna precisarlo. Le più belle in assoluto sono state quelle di Diletta, fra il 1993 e il 1996. Anche se ci
vedevamo e facevamo l’amore, ci scrivevamo magari tre lettere nello stesso giorno, addirittura.
Adesso succede molto meno. C’è la posta elettronica ma non è la stessa cosa. Dai, su, tu, chiunque tu sia, magari
scrivimi, oggi l’affrancatura è 60 centesimi, abbordabile, meno di un caffè, e l’indirizzo è via Pinelli 34, 10144
Torino. No, non hanno intitolato una via a quel Pinelli volato dalla finestra della questura, questo è un Pinelli uomo
politico dell’Ottocento.
Per un lungo periodo lettera, caffè, giornale e biglietto dell’autobus hanno proceduto a prezzo uguale. Per molti anni
erano tutti a 50 lire. Poi si sono ritrovati insieme ancora a 100, a 150 lire. Questi discorsi mi fanno pensare che non
sono più un ragazzino. Vabbè. Adesso sono più sparpagliati: lettera 60 centesimi, caffè prevalentemente 80
centesimi, giornali perlopiù un euro, biglietto dell’autobus a Torino 90 centesimi ma lo vogliono aumentare con la
scusa della metropolitana.
Il blog insomma per me è uno spazio libero in cui divagare. Non mi preoccupo di destare l’interesse di qualcuno. È
una lettera a un destinatario imprecisato. Ecco, oggi almeno la penso così. Ieri sera alla stazione di Vercelli ho
incontrato ben tre persone. Strano perché di solito non incontro nessuno, la mia città natale mi è diventata abbastanza
estranea. Ma ieri ho incontrato un compagno di scuola (eravamo insieme nella stessa classe alle elementari e anche
alle medie, poi al liceo in classi diverse) che mi ha pure chiesto una copia del mio romanzo Io sto come mi pare. È
esaurito, forse lo ristamperanno quest’autunno ma non è sicuro. Ho ancora un po’ di copie mie d’autore, se qualcuno
ne vuole me lo dica.
Lui fa l’avvocato quindi dovrebbe passarsela bene ma adesso non tanto, dice che c’è crisi, poco lavoro e poi non lo
pagano. Eh, la crisi c’è. Anch’io sono sempre senza soldi. Pazienza. Non mi lamento troppo. Non sono mai stato un
arrapato del lavoro, lo faccio bene, credo, quello che faccio, ma sono così svagato, adesso sono le nove passate e
sarebbe meglio essere già al lavoro anziché scrivere nel blog. Lavorare in casa senza un orario preciso è un vantaggio
ma anche uno svantaggio: il cartellino da timbrare mi costringeva, quand’ero travet; adesso rimando, e poi finisce
che lavoro ancora alle tre di notte.
Poi ho incontrato una bionda poetessa con il marito, che era lui mio compagno di scuola, non di classe perché è di
due o tre anni più giovane. Con lei faccio il LovePoetry!Tour, che lo trovate fra le pagine amiche di questo blog.
Sicuramente sbaglierò qualcosa, io con la privacy (parolaccia inglese: come facevamo prima di importarla?) ho già
fatto casini a volte, e questo, il blog, è un luogo a rischio. Devo ricordarmi che può leggere chicchessia. Ma starò
attento. Pochi nomi! Una frase come «ieri sera ho fatto meravigliosamente l’amore con Xxxxxx» potrebbe creare
problemi con, secondo i casi e le età, i genitori, i figli, i fratelli, i fidanzati o i mariti di Xxxxxx. Già mi hanno fatto
notare che nel mio libro di poesie La parola rinvenuta ci sono parecchie dediche con nome e cognome e qualcuna sta
in capo a poesie dove si capisce fin troppo bene quello che è successo. Ma insomma la poesia è un po’ una zona
franca... o no? Certo l’amore libero è rimasto fra i sogni, e bisogna un pochino distinguere i sogni dalla realtà, anche
se non sempre, non proprio sempre.
Sta piovendo davvero a dirotto su Torino alle 9.26 del mattino del 7 giugno 2007.
Una mia amica-amore mi ha scritto recentemente una poesia che parla di questo, dell’amore e dei sogni, e voglio
citarne almeno i primi versi: Non sminuire troppo / questo amore / non sarà sogno / è vero / ma è pelle sulla pelle / è
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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abbraccio / in giorni dove non c’è abbraccio. Ricevere poesie dedicate a me è raro, di solito sono io quello che le
scrive. Questa è molto bella.
Ma non sempre è vero che l’amore vissuto concreto si oppone all’amore sognato. Per fortuna non sempre. A volte il
sogno precede, a volte si effonde dopo, a volte accompagna, a volte segue. Quei due o tre che conoscono bene la mia
poesia sanno che non sono di quei poeti lagnosi che scrivono solo per quelle che non gliela danno. Chiaro che scrivo
anche poesie di corteggiamento, di desiderio non (ancora) appagato; ma tante mie poesie sono per l’amore appagato,
contento, vissuto, pieno. Dato che prenderò probabilmente l’abitudine di spargere qui mie poesie, ve ne offro una
d’amore contento, tratta da Sospeso sogno e poi ripubblicata nell’onnicomprensivo La parola rinvenuta. Poi mi metto
a lavorare, che se no è inutile che mi lamento che non ho soldi. Poi adesso non so perché mi è venuta in mente una
bellissima canzone di Léo Ferré, La mauvaise graine, il testo dovrebbe essere qui
http://perso.orange.fr/scl/Lamauvaisegraine.htm finché c’è, perché internet è il regno dell’effimero.
IL GUARDIANO DEI SOGNI
Tu eri un sogno. T’ho sognata una notte
e m’hai riempito il sonno di colori.
Ma quella notte il guardiano dei sogni
– il guardiano che tiene chiuso l’uscio
fra sogno e realtà – s’è addormentato.
S’è addormentato lui! Tu sei sgusciata
lesta fuori e il mattino t’ho trovata
nel letto accanto a me. Che cosa fortunata!
Adesso tu sei la mia fidanzata.
LA MANO CHE NON MORDI
venerdì 8 giugno 2007, 1.02.19 | molinaro
Fare pubblicità gratis a una casa editrice grossa mi rompe un po’, ma fa lo stesso.
Questo libro mi piace e mi coinvolge. Un buona chiave per capire qualcosa dell’ex
Iugoslavia ma anche della Romania, che non è molto diversa. Io che con la
Romania ho avuto profondi rapporti, che ci ho viaggiato molti mesi nel corso di
molti anni, e che mi sono imparentato con romeni, ritrovo nel testo un sacco di
cose, quindi posso dare la mia «conferma», per quel che vale, a ciò che scrive
Ornela. Sono solo ottanta pagine ma dense di sostanza. Si legge in una sera. Ho comprato due copie del
libro, una per me e una per Chiara. Faccio spesso così: anche se ho pochi soldi, quando un libro mi
colpisce ne compro un’altra copia, a volte persino altre due, per qualcuno che a quel libro mi sembra
adatto. Bene, non mi dilungo: il libro è La mano che non mordi, di Ornela Vorpsi (che scrive in italiano: non
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Carlo Molinaro
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è una traduzione), Einaudi, Torino 2007, pp. 88, euro 8,80 (non so se l’hanno fatto apposta: esattamente
dieci centesimi a pagina). Io l’ho comprato a Torino alla libreria Massena 28, ovviamente in via Massena
28, ottima e volenterosa piccola grande libreria aperta al nuovo e agli incontri: http://www.massena28.com
Poetry slam al «Circolo dei lettori»
sabato 9 giugno 2007, 19.43.03 | molinaro
Ieri sera ho partecipato a un poetry slam organizzato al «Circolo del lettori», a Torino in un
palazzo sontuoso, del Seicento, mi pare, che mette soggezione. È un palazzo dove abita
anche della gente, certo gente un po’ particolare, non credo precari da 700 euro al mese. C’è
pure un portinaio che sembra un ammiraglio (ma non è sempre il medesimo: anche lì,
ormai, cooperative sparse di ammiragli a tempo determinato e senza pensione). Quindi è un
condominio, e funziona come tutti i condomìni: i condòmini si lamentano del viavai del
«Circolo dei lettori», benché tale circolo sia aristocraticissimo. È nella natura del condomino lamentarsi: dove c’è una
discoteca si lamenta della discoteca, dove c’è un bar si lamenta del bar, dove ci sono bambini che giocano si lamenta
dei bambini che giocano, dove non c’è nulla si lamenta che il quartiere è abbandonato.
Comunque: ho partecipato al poetry slam e sono arrivato terzo su sette. Non male, anche se come al solito (è almeno
la terza volta che mi succede) dopo la partenza lanciata con un componimento classico di sicuro effetto (il Recitativo
contro i treni rapidi), mi sono fregato al secondo giro con una poesia che stavo ancora scrivendo, nuova, neppure
ancora finita, e per di più vagamente d’amore. Poco adatta. È un errore che commetto spesso, ma non importa. Mi
rifiuto di scegliere sempre i pezzi più adatti alla competizione, altrimenti la poesia poi comincia a sembrarmi un
mestiere e se mi sembra un mestiere poi rischio di odiarla come si odiano tutti i mestieri: come si odia, naturalmente,
ogni cosa che deve essere fatta in cambio di qualcosa.
La poesia in questione avevo cominciato a scriverla il pomeriggio all’Imbarchino, un posto affacciato sul Po che vi
consiglio vivamente (è al Valentino, più o meno sotto il castello della facoltà di Architettura, un po’ a valle, mi pare,
delle società di canottieri Armida e Cerea – o un po’ a monte, adesso non riesco a focalizzare, comunque nelle
vicinanze) perché è bellissimo, è gestito da una cooperativa di ragazzi e puoi passarci tutto il pomeriggio prendendo
un caffè (80 centesimi) o anche prendendo niente, ma qualcosa prendi, dai, se no finisce che fallisce e chiude e
sarebbe un vero peccato. Poi avevo continuato a scriverla cenando con un’insalata al Brek di piazza Carlo Felice.
Quando l’ho letta al poetry slam non era proprio finita, ma quasi; adesso è finita e ve la offro qui. La copertina di
libro a cui è ispirata la potete comodamente vedere: è l’immagine attaccata al messaggio che precede questo. Bene.
Va così.
LE ALI DI CHIARA
Osservando una fotografia intitolata appunto Le ali di Chiara, sulla
copertina del libro di Ornela Vorpsi La mano che non mordi,
nell’edizione Einaudi, collana L’Arcipelago Einaudi, 110, Torino,
febbraio 2007.
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Carlo Molinaro
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Il fiume s’è alzato, ha coperto i tre gradini
più bassi. Le ali di Chiara
sono dipinte sulla schiena. Hanno tolto i tavolini
dalla terrazza inferiore. Le ali di Chiara
sono dipinte sulla schiena in color sangue.
Si resta a bere sul terrazzo più alto. Le ali
di Chiara, color sangue, non sono per volare.
Si servono caffè in tazze di plastica. Le ali
vere sono nascoste. Gli studenti sfogliano
dispense in fotocopie rilegate con spirali.
Le ali scendono sulla schiena come sangue.
Squilla un telefono. Bisogna cancellare
le ali di sangue perché possano schiudersi
le ali vere. Quattro canottieri spingono un armo
nella corrente. Come cancelli il sangue?
È giugno, è tempo d’esami, due ragazze
s’interrogano di biologia. Non lo cancelli
ma seccherà, e si distaccherà. Il fiume è gonfio,
dopo la siccità prende respiro. Le ali di Chiara
si apriranno leggere, invisibili, frantumeranno
il sangue. Un ragazzo si toglie gli occhiali.
Asciugate dal sangue le ali di Chiara
la porteranno in volo, via dall’amore in eccesso,
via dallo stringere di braccia senza garbo,
via dalla nostalgia carnivora, da tutte
le trappole del tempo. Un cameriere
prepara per la sera. Osserveremo
il volo libero, non alzeremo il braccio
per fare segni, non racconteremo
come si svela il suo mistero. Il fiume
trascina tronchi grigi. Eviteremo
di fare chiasso, d’innamorarci troppo
o di esternare chissà che sciocchezze.
S’accende qualche luce dietro il banco,
un uomo indossa il grembiule e risciacqua
i boccali. Le ali di Chiara
non saranno più argomento per discorsi
quando Chiara, ordinata una birra,
sorriderà come dovrebbero sorridere
tutte le donne, in piedi, fra gli amici.
Torino, 8-9 giugno 2007
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Un sabato sera in casa da solo
sabato 9 giugno 2007, 23.07.27 | molinaro
Un sabato sera in casa da solo. Non mi dispiace poi tanto, andrò a letto presto, sono
stanco, domani mi aspetta una domenica lavorativa. Credo di avere capito un’altra cosa
su questo blog che ormai ha quasi una settimana di vita. Forse l’ho aperto per tenere di
nuovo un diario io, semplicemente un diario mio. Da i 13 ai 40 anni circa l’ho tenuto,
un diario: scrivevo quasi ogni giorno su un’agenda gli avvenimenti, i pensieri, le
considerazioni. Ho tutte quelle agende in uno scaffale, è divertente a volte (ma molto di
rado) andare a riscoprire gli eventi di un giorno lontano. Giorni importanti: il 1° febbraio 1969 dichiarai
apertamente il mio amore a Chiara (dopo averci pensato più di un anno, s’intende). Non la stessa Chiara di cui
ho già parlato in questo blog, perché questa era ancora molto di là da nascere, le mancavano una dozzina
d’anni ancora prima di venire al mondo. Un’altra Chiara. Giorni meno rilevanti: il 1° giugno dello stesso anno
1969 feci una pedalata da Vercelli fino al santuario di Crea, con amici di cui nel diario elenco i nomi. Un diario,
cose grandi e piccole. Poi non ci sono più riuscito. Ho riprovato, ogni tanto, a cominciare un quaderno. Ma
sono tutti abortiti dopo poche pagine. Tenere quaderni non è (più) da me. Anche le poesie le scrivo su fogli
sparsi, prima di trascriverle al computer. Le cose non mi piace più raccontarle solo a me stesso, a un diario
chiuso in un cassetto. Sarò diventato più estroverso, che volete mai. Era anche ora, si potrebbe dire. Ma sì, vado
a dormire. Poco fa mi frullava in capo una domanda: ma se sono permessi l’alcol, il tabacco e le religioni, che
senso ha vietare gli spinelli? Buona notte.
Vercelli, Vercelli, stazione di Vercelli
domenica 10 giugno 2007, 23.54.47 | molinaro
Un temporale violento su Vercelli ha fulminato il televisore di mia madre e un treno,
ma con un altro treno sono tornato a Torino. La domenica sera vado spesso a cena
da mia madre a Vercelli. Dopo il temporale, alla stazione, nuvole di zanzare.
Vercelli, la mia città natale, ha con me un rapporto tenue, debole, forse
insignificante. C'è uno scarso interesse reciproco. Credo che nessuna libreria di
Vercelli tenga miei libri. Li terrebbero se scrivessi di storia locale, o di cucina, o se
almeno, pur essendo un poeta, fossi un poeta dialettale che va alle sagre. Credo che non mi perdonino il
mio trovarmi meglio a Torino, che a me appare così naturale. E a Vercelli non so mai che cosa raccontare.
Mi chiedono come stanno i miei figli e nipoti e come va il lavoro. Stanno bene, per fortuna, e il lavoro va
come va, c'è e non c'è, è poco pagato ma si tira avanti. D'accordo, ma, detto questo, potremmo parlare di
qualcosa un po' più in confidenza? Di che cosa ci ha emozionati stamattina e di chi siamo innamorati?
Uno se la aspetterebbe, questa confidenza, dal natio borgo selvaggio. E invece no, niente.
Prima di entrare in stazione ho preso un orzo in tazza grande nel chiosco della piazza lì davanti: è l'unico
bar di Vercelli che, si può dire, frequento, almeno occasionalmente. Ci sono guardiani notturni, taxisti,
vagabondi, viaggiatori e stranieri. Mentre bevevo l'orzo ho sentito ordinare un caffè e ho avuto
un'illuminazione. Il caffè è stato ordinato con queste parole: "Ma sì, vah, dammi un caffè, ah". Ma più che
le parole conta il tono, un tono rassegnato e nello stesso tempo infastidito, stanco, scazzato. Quasi a dire:
non sarebbe il caso di prendere un caffè. Non sarebbe il caso di fare nulla. Non sarebbe il caso di parlare,
di comunicare. Non sarebbe il caso neppure di vivere. Non vorrei mai confidarti, barista, che voglio un
caffè. Cioè, che forse lo voglio. Lo voglicchio. Dio quanto mi pesa questa confidenza. Ma per stavolta, vah,
ma sì, uff, dammi un caffè. Mi sono accorto improvvisamente che a Vercelli quasi tutti i caffè si ordinano
così. Che dire qualsiasi cosa è una grande fatica. Anzi, non è una fatica, è un disonore. Se fossi un vero
uomo starei zitto. Ma mi abbasso a parlare per chiedere un caffè, sì, vah. Me ne vergogno molto.
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Vercelli mi ha abituato a questo: a considerare ogni cosa che faccio, ogni cosa che dico, un disonore,
un'onta, un abbassamento. Un'umiliazione. A meno che uno gridi, che sia prepotente, allora è un altro
discorso, dopo che uno ha gridato forte e a lungo il caffè non deve più nemmeno chiederlo, basta un
cenno.
Mah. Probabilmente esagero. È stato anche il luogo della mia infanzia. Qualche sogno ci è rimasto. Però
da non dire, appunto. Da tenere ben nascosto. Ben chiuso. Come le cose vergognose. Fra le risaie, solo i
deboli e le donnicciuole possono avere un'anima da comunicare. Gli uomini stanno zitti, o parlano di
cazzate, che è lo stesso che stare zitti. Va così. Eppure c'era, poco distante da Vercelli, una grande
foresta, e lì il silenzio aveva un senso, e io stavo zitto per non disturbare, e ci scrissi una poesia. Ma non si
poteva stare per sempre zitti e chiusi. Secondo me, almeno, non si poteva. Io ho preferito andare via.
RICORDO D’INFANZIA
Sí, tu niñez: ya fábula de fuentes.
Jorge Guillén
C’era, poco distante da Vercelli,
una grande foresta. A torso nudo
m’inoltravo nel verde, e mi colpiva
il sole, che oscillava sulle foglie.
C’era una chiazza d’acqua che agitava
bolle di sabbia, e nasceva un ruscello
che rallentava in piccoli laghetti.
Molto lontano, il croscio di una cava.
C’era un sentiero nitido, compatto
di terra bianca fra due cigli d’erba:
di colpo si perdeva sul ghiaione
sparso di secchi rami calcinati.
Il fiume scintillava e scivolava
vegliato dagli stridi degli uccelli.
Sopra il filo dell’acqua, qualche uomo
stava in piedi, qualche volta, fissando.
Spingevo piano la mia bicicletta
perché non disturbasse. Mai nessuno
disse sconce parole.
Liberiamo il libero amore
lunedì 11 giugno 2007, 10.51.47 | molinaro
Le utopie sono sempre state pericolosissime e tanti (troppi)
sono stati i filosofi utopici: persino Platone può essere
interpretato in questo senso, ma poi arriviamo a Tommaso
Moro, Tommaso Campanella (forse Tommaso è un nome da
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utopista?) e ad architetti come Le Corbusier, e così via. Finché
l’utopista è un giocherellone che si diverte a immaginare una vita perfetta (senza
rendersi conto della contraddizione primaria già insita nel termine: una vita
perfecta è prima di tutto una vita passata, finita, quindi è la morte) possiamo
anche lasciarlo stare nel suo brodo. Immaginare un mondo perfetto è come la
masturbazione, mentre vivere nel mondo imperfetto è come fare l’amore; se lui
preferisce masturbarsi, cavoli suoi. Quando però l’utopia viene propagandata e
usata dal potere per imporre un modello totalitario, allora non è più innocente:
c’è un filo rosso che lega Platone a Hitler e Stalin (l’ha evidenziato Karl Popper).
Insomma sì, l’utopia è pericolosissima.
Nelle utopie spesso ci sono alcuni ingredienti comuni: abbondanza di merci e di
beni, meccanismi sociali funzionalissimi, abolizione della proprietà, educazione
comunitaria dei bambini, libero amore. Pare che per gli utopisti queste cose siano
della stessa natura, da mettere nello stesso paniere. A me sembra che l’ultima, il
libero amore, sia invece molto diversa. Per inciso, notiamo che è l’unica utopia
che nessuna dittatura ha mai promesso. Vorrà ben dir qualcosa.
Il fatto che gli utopisti mettessero il libero amore nel paniere con l’abbondanza di
beni materiali (il paese di Cuccagna) secondo me dimostra che erano utopisti
maschilisti, e il loro discorso assomigliava a un pane e figa per tutti. Ci sono stati
anche utopisti più seri, forse, che hanno previsto un libero amore anche
femminile. Però ancora in modo molto materiale, carnale, mentre l’amore è un
cortocircuito di carne e spirito – le due cose insieme, sempre. A ogni amore
partecipano i cieli, come scrissi in una poesia molti anni fa. Ma il problema è un
altro: è che il libero amore, proprio in quanto libero, con l’utopia fa a pugni, e
dunque inquadrarlo nel pericoloso schema dell’utopia è da mentecatti.
Il libero amore è una cosa che nasce democraticamente dal basso,
semplicemente facendolo. Infatti quel poco che esiste esiste così. Mica con i
proclami. Libero amore è una ragazza di Genova che conosco, che nel
festeggiare i suoi 18 anni ha constatato divertita: «Coi ragazzi ho fatto l’inverso
del numero degli anni, ne ho avuti 81». E non ha perso il conto, perché ognuno
ha avuto la sua importanza. Libero amore è un amico che sta dalle parti di
Savona che dopo tanti discorsi e tante poesie sull’universalità dell’amore, sul
profumo di tutte le donne e di tutte le città, si scopre geloso come un serpente e
incapace di tollerare che la «sua» ragazza baci un altro, e però non ha più tutto
un universo a dargli ragione come sarebbe successo cinquant’anni fa, e va pure
in crisi. Libero amore è una ragazza lombarda che s’innamora di uomini e donne
e lavora normalmente e non ha altri problemi che quelli che nascono dai
sentimenti. Libero amore è quando chi critica le ragazze dai molti fidanzati viene
considerato non più di moda, e succede così, spontaneamente, non perché
qualcuno l’ha deciso. Libero amore è quando m’innamoro di una ragazza con tutti
i suoi altri amori o quando lei s’innamora di me con tutti i miei altri amori. Libero
amore è persino stare insieme solo in due, se oggi o sempre ci va bene così, ma
senza pensare neppur lontanamente di fare una cosa più giusta di altre. Sono
tutte faccende che nascono dalla quotidianità, dal basso. Lentamente, forse
troppo lentamente, ma nascono.
Fare discorsi utopici sul libero amore è invece contraddittorio, appunto, è voler
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Carlo Molinaro
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normare e schematizzare ciò che non è normabile né schematizzabile: come si fa
a dare una norma all’aggettivo «libero»? È la trappola dell’utopia. Dunque
liberiamo il libero amore dall’utopia del libero amore. Non è un meccanismo che
deve ben funzionare, il libero amore. È un casino, con tutti i suoi drammi. Ma è
bellissimo!
Ora, io ho parlato del libero amore perché sono notoriamente maniaco di questo,
ma mi viene il ragionevole dubbio che il discorso valga anche per tutto il resto.
Per la democrazia, per la libertà politica, per la libertà religiosa, per le scelte
economiche, stilistiche, estetiche. Tutte queste cose se vengono imposte dall’alto
cadono su di noi come una cappa di piombo, magari formalmente perfetta ma
che ci soffoca e ci uccide. Se nascono lentamente dal basso, saranno sempre
imperfette, conflittuali, ingarbugliate, ma vive, vere, con meravigliosi precari
sprazzi di felicità (e non la tetra felicità perenne promessa/promossa dagli
utopisti).
Persino il mitico non fate la guerra fate l’amore è uno slogan troppo totalitario.
Nella vita potrà capitare di far guerre, neppure le guerre si possono cancellare
dall’alto, d’autorità: cercheremo di evitare le guerre, ecco tutto, nel nostro
piccolo, dal basso. Ma non sempre ci riusciremo. Tantomeno riusciremo a far
sempre l’amore. Io stamattina mi sa che non lo faccio: le due donne che ogni
tanto gradiscono farlo meco sono lontane; un’altra non lo gradisce ormai più
tanto; una che mi piace moltissimo mi ha detto di no, benché io non mi rassegni;
con qualche altra ci sono sviluppi possibili ma per oggi un po’ astratti. Quindi
anche non fate la guerra fate l’amore è un po’ una cazzata che, in fondo, nega il
libero amore: ciò che è libero è precario, imperfetto, vagante, trepidante,
ansioso, bello, inatteso, imprevedibile, fuggente, incompiuto, indefinibile – e
soprattutto non potrà mai stare dietro un imperativo, perdipiù plurale, collettivo,
come fate.
Fatevi tutti una buona giornata, però! Ciao!
Buon compleanno, Francesco!
martedì 12 giugno 2007, 21.51.09 | molinaro
Vent’anni fa, di sera come adesso, nasceva il mio secondo figlio, Francesco. Un figlio che
compie vent’anni è sempre un’emozione. Del resto la prima figlia, Lucia, mi ha già dato
pure l’emozione di secondo grado: nonno di due nipotini. Forte, Lucia, 24 anni e già due
figli. Ma forte anche Francesco. Ho due figli tosti, mi piacciono molto, sono entrambi in
gamba, critici eppure gentili, autonomi ma non isolati. Sanno amare la società senza essere
travolti dalle sue componenti consumistiche, sanno vivere con poco, sanno apprezzare ciò
che il denaro non compra. Eh, insomma, non vorrei fare un panegirico, adesso, ma con tanti genitori che si lamentano
dei figli e viceversa, dire che io sono contento dei miei figli (e loro sono contenti di me, e c’è un dialogo molto bello)
mi sembra un contributo all’ottimismo cosmico. Buon compleanno, Francesco!
(nella foto, Francesco un paio di anni fa con la chitarra di Fabrizio de Andrè nel negozio genovese di Gianni Tassio
in via del Campo)
La fiacca, lo scialo, l'amour, la guerre, le travail
giovedì 14 giugno 2007, 10.15.44 | molinaro
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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La fiacca, lo scialo, perdere tempo e pensare che forse lo si
perde comunque, oppure mai. Non estremizziamo: ci sono
modi migliori e peggiori di impiegarlo. Ma non sarò mai un
positivista. Ricordo bellissime giornate in cui non ho combinato
nulla di oggettivo e tantomeno di produttivo. Parole dal
significato incerto, peraltro. Stamattina alle sei mi hanno
svegliato i vigili urbani per chiedermi di spostare la Panda. Non che fosse
posteggiata male, è solo che è esplosa una tubatura e devono scavare proprio lì,
sotto la mia Panda. Bene, l’ho spostata. Così adesso so che il passaggio di
proprietà è registrato, se mi hanno trovato subito leggendo la targa. Però gli
adesivi da appiccicare sul libretto non sono ancora arrivati.
Mi ha mandato un messaggio una mia amica di Venezia, era dal dentista. Il
dentista mi ha fatto pensare a un’altra amica, di Roma, che aveva un dentista fra
i suoi tre amanti principali, che la trattavano tutti e tre malissimo e secondo me
lei era – ed è – una ragazza splendida. Un anno e mezzo fa all’improvviso ha
smesso di rispondere al telefono e ai messaggi e alle lettere e poi dopo che ho
insistito in vari modi mi ha mandato un messaggio laconico dicendomi di non
cercarla più. Mi sto ancora domandando perché e che cosa ho fatto di sbagliato e
mi manca. Chiaro però che a me mancano troppe persone perché ciascuna di
loro possa considerare la cosa rilevante. Mi piace questa frase che mi è venuta
così senza volere, l’avesse detta Woody Allen la metterebbero qua e là nei posti
dove si mettono le frasi. A me mancano troppe persone perché ciascuna di
loro possa considerare la cosa rilevante. Le persone, e le donne in
particolare, gradiscono una certa esclusiva. Comunque l’amica di Roma, che poi
non è proprio di Roma ma ci abitava e non so se ci abita ancora, dopo avere
abitato a Como e a Parma, mi manca «specialmente». Chissà se sono troppe
anche le persone che mi mancano «specialmente». Sono incostante e poco
gerarchico. L’altra notte ho dormito solo tre ore e non per insonnia ma perché ho
lavorato fino alle tre e mi sono dovuto alzare alle sei, ma non sono uno
stakanovista, è solo che faccio tutto alle ore sbagliate, per esempio adesso tutti i
bravi adulti regolari lavoratori staranno appunto lavorando e io cazzeggio nel
blog.
È complicato non fare nomi, l’amica di Venezia, l’amica di Roma (che poi a Roma
ne ho due o tre o quattro), mi ci ingarbuglio. Ma inventare nomi di fantasia è
peggio ancora. Odio quando lo fanno i giornalisti: «La piccola Chiara è stata vista
l’ultima volta appollaiata su un palo del telegrafo a Cosseria, in provincia di
Savona. Gli inquirenti hanno immediatamente interrogato la popolazione per
accertare come mai a Cosseria ci sia ancora un palo del telegrafo, visto che
primo il telegrafo non si usa più e secondo adesso i cavi sono tutti interrati.
Naturalmente Chiara è un nome di fantasia. La polizia brancola nel buio, per
forza che poi qualcuno qua e là si prende una manganellata a caso».
Ieri ho passato molte ore a letto con un’altra amica, questa dei dintorni di Torino,
a parlare, dormire e fare massaggi (niente più di questo, ragazzi, niente più).
Certe cose normalissime a raccontarle suonano strane. Come scrive Stephen
King in un suo racconto giovanile (Stand by me, un gran bel racconto), le cose
importanti sono anche semplici ma sono le più difficili da raccontare. L’amica con
cui sono stato a letto ieri (vedete come la frase è equivoca!) ha trovato in casa
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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sua una lettera mia per lei già aperta da altri, presumibilmente i suoi genitori,
diciamo quasi certamente i suoi genitori. Non è la prima volta che accade. Stavo
macchinando con lei di mandarle magari nei prossimi giorni un po’ di lettere con
dentro solo un foglio con su scritto: Ma farvi i cazzi vostri no, eh?
Sì, la cosa dello spionaggio è un po’ collegata a quella dei nomi. Un’altra amica
ancora (è chiaro che con il termine «amica» definisco una molteplicità di rapporti
con varie sfumature; ma esiste forse una parola migliore?) sta dalle parti di
Vicenza, è una ragazza molto dolce, scintillante, i suoi baci sono buoni, ci piace
abbracciarci le poche volte che possiamo. Se scrivessi qui il suo nome potrebbero
esserci problemi familiari per lei, forse.
A volte però ci si lancia e non ci si bada. In un locale in riviera ho letto una
poesia d’amore per una splendida ragazza e c’era lì anche il suo fidanzato, e si
capiva benissimo per chi era la poesia. Uno in certi momenti pensa: basta, vada
come vada. No? Mica si può sempre star lì. L’amour, la guerre, Julienne, come
dice quella poesia di Guido Catalano con musica di Andrea Gattico [in Sbronzi
all’alba senza sigarette, vi consiglio il CD ma anche lo spettacolo dal vivo, per
esempio lo fanno adesso a Torino venerdì 15 alle 22 all’Imbarchino (che è un
posto di cui parlo in un messaggio precedente) e sabato 16 alle 21.30 alla
libreria Massena (altro posto di cui ho già parlato – è bello, mi accorgo che
ricominciano a esistere dei luoghi, c’è stato un periodo che quasi non ce
n’erano)].
Certo che scrivere fluentemente puttanate è una cosa che mi riesce abbastanza
bene. A questa riga sono arrivato in una ventina di minuti, conosco gente che ci
metterebbe un giorno o non ci riuscirebbe mai. Mi pagassero per scrivere queste
puttanate avrei risolto ogni mio problema economico. Ma poi forse no,
immediatamente non mi sentirei più libero. Amen. Mettiamoci al lavoro, l’altro,
quello noioso obbligato e pagato, benché poco. Buona giornata!
Gli straccetti
venerdì 15 giugno 2007, 6.40.05 | molinaro
Basta, oggi lavoro e basta se no poi diventa davvero un casino. Oggi il blog neanche lo
guardo, sono le sei e mezza del mattino e mi metto al lavoro – e basta! Vi offro solamente
una poesia scritta l’altro ieri, ispirata da una ragazza che vedo spesso, e alla quale gli
straccetti... Beh, lo dice la poesia. Buona giornata, gente.
GLI STRACCETTI
Chi è che non vorrebbe toglierteli
gli straccetti di cui ti sei vestita
stasera – lo farei anch’io qui adesso
nella luce di miele di questo caffè
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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– lo farei volentieri anche se
sono ben preso da un’altra maestosa
ragazza azzurra, da una bianca mandorla
acerba, da una bruna montanara
e da altre donne superbe e festose
di svariati colori e svariati profumi
– quegli straccetti te li toglierei
senza pensare ad altro, in solo omaggio
alla gioia, alla vita, alla fuggente
felicità – ma soprattutto a noi,
a noi qui ora, qui adesso, qui a bere
una tisana d’erbe, in questa sera che non è
mai stata prima e non sarà mai più.
L'anima
sabato 16 giugno 2007, 1.48.18 | molinaro
Nella prefazione al mio libro La parola rinvenuta Sandro Gros Pietro a un certo
punto sottolinea come io sia un poeta che ha il «coraggio» di parlare di anima, in
pieno XXI secolo: e cita una serie di mie poesie in cui compare appunto la parola
anima. Non so se ho avuto bisogno di coraggio per scrivere anima, direi che m’è
venuto così senza pensarci, che non l’ho fatto apposta. L’anima per me non credo
che sia una cosa di religione: è soprattutto un fluido, un plasma un po’ magico
perché pur essendo individuale può fondersi con altre anime. Ora mi è successo di nuovo di parlarne, in
una piccola poesia di stampo genovese, Sottoripa: il secondo verso della seconda sestina si chiude con
anima. Ma anche stavolta non l’ho fatto apposta. E nel cuore della notte che segue un venerdì di lavoro e
precede un sabato di lavoro, mi permetto di offrirvi la piccola poesia. E la sua anima.
SOTTORIPA
C’è la freschezza buona della sera:
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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ho visto una finestra scintillare
in un lampo d’arancio. In queste stanze
abitano persone. Ti vorrei,
ragazza, qui: vorrei che usassi il mio
asciugamani: che tu fossi a casa.
Basterebbe scoprire il varco aperto
o il punto di contatto, dove l’anima
ritrova sé nell’altro: l’improvvisa
gioia di combinarsi, come quando
ha un odore di te l’ombra che sale
imprecisa da un angolo del porto.
That's all jazz
domenica 17 giugno 2007, 1.34.40 | molinaro
Secondo me il jazz, più che un genere musicale, è quando un
po’ di amici si trovano a casa di qualcuno, o in un posto piccolo,
per fare musica fra loro. Se aggiungiamo alla musica la poesia,
si è fatto del jazz stasera alla libreria Massena a Torino. Una
ventina di amici, una tastiera, un violino, i fogli con le poesie.
Sono arrivato in lieve ritardo perché Claudia non finiva di
vestirsi e truccarsi, così sono entrato che già Arsenio leggeva, Guido lo guardava,
Andrea e Mayumi suonavano. C’era anche Stefania, una collega o ex collega o
paracollega o nient’affatto collega (con il lavoro precario non si capisce più un
cazzo), che è carina ed è alta quasi come me e allora le ho dato un bacio. Mi
sono seduto su uno sgabello in fondo.
La prima poesia di Arsenio mi ha subito stimolato risonanze e fantasie, perché è
così che mi succede. Partecipazione. Una poesia forse un po’ da laudator
temporis acti, anche se non del tutto. Parlava di una Torino d’altri tempi, più
sportiva, e di ragazze di adesso troppo svestite, e di baci che duravano quindici
minuti ma solo nei primi tempi, e ogni bacio fa sì che quello dopo duri di meno,
insomma il tempo, con la ripetizione, accorcerebbe i baci. Io che Torino la vedo
più colorata adesso, e per me le ragazze sono sempre ancor troppo vestite, e che
il bacio più lungo della mia vita l’ho dato a maggio ma intendo il maggio del
2007, anzi era il 1° giugno, e mi piacerebbe darne uno più lungo ancora martedì
prossimo a Venezia e uno a Vicenza e uno ancora più lunghissimo sabato fra Novi
e Tortona ma quello sarà difficile, non seguo tanto il discorso arseniano, ho i
tempi a rovescio, forse, e le meglio cose le devo ancora fare, sperando nelle
more delle Moire; però la poesia mi è piaciuta abbastanza lo stesso.
L’importante è che non ci si perda a rimpiangere passati che non sono stati
migliori del presente, ogni tempo è in sé, e nessuno sa di fare le cose mentre le
fa, lo si sa solo dopo, e il jazz appunto non è più a New Orleans o nel Missouri, e
può essere alla libreria Massena una sera a Torino, ma non lo sappiamo adesso,
e forse nel 2070 diranno «che schifo questo vacuo presente, non sono più gli
anni eroici d’inizio secolo, quando si trovavano a suonare e leggere poesie nelle
librerie».
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Dopo le altre poesie di Guido e la musica di Andrea e Mayumi ero molto
emozionato: se mi avessero chiesto di improvvisare una poesia avrei potuto,
perché avevo tirato su la serata come una carta assorbente, me n’ero imbibito, e
ne avevo un disegno netto dentro, combinato con le cose mie, tutta una roba da
dire, volendo. Da improvvisare lì. Versione unica irripetibile. Jazz.
Perché io quando improvviso improvviso davvero. Come a Savona al Raindogs,
mica me l’ero preparata. C’era Chiara, c’era amore e rabbia, c’era colore, c’era
tensione ideale e non ideale, i versi mi sono scoppiati dentro e li ho buttati fuori:
poésie de l’art, come la comédie, sul momento. Certo che rischi grosso, può
sempre uscire una stronzata. Se salti un tempo, una pausa, è finita. Certo che
consumi energie e nervi a manetta, da perdere qualche chilo. Certo che non lo
puoi fare tutte le volte. Ma per me l’improvvisazione è così. Ho sentito Beppe
Grillo e Dario Fo, e anche la senatrice Franca Rame, dire che l’improvvisazione
non s’improvvisa, che in realtà è tutto preparato meticolosamente, che non c’è
nulla di più preparato di quello che sembra improvvisato. Sarà, ma secondo me
così non vale. Ci prendono per il culo anche loro. Certo, se devono farlo
obbligatoriamente a ogni spettacolo, li capisco anche. Però non è
improvvisazione onesta. La chiamino in un altro modo. Non è jazz.
Sia come sia, che la ricordino poi mitizzata nel 2070 oppure no, questa serata
alla libreria Massena è stata una bella serata, io me la prendo adesso, che nel
2070 non ci sarò proprio, questo è certo. Jazz. Hic et nunc. Ho comprato due
copie della nuova edizione del libro di Guido, I cani hanno sempre ragione, una
per me e una da regalare a Chiara con dedica alla sua neoadottata cagnetta Zoe,
che oggi mi ha detto che è stupenda, e le farà piacere un libro che le dà sempre
ragione, a Zoe, e anche se non sa leggere io dico che lo capisce.
Avec le temps
lunedì 18 giugno 2007, 13.21.55 | molinaro
Non è vero. Non è vero quello che dice questa bellissima canzone di Léo Ferré. Credimi:
non è vero. Sono un uomo ostinato, sono un bambino ostinato, e te lo dico forte: non è vero.
Ma la canzone è davvero bellissima. È bellissima e perciò non ha bisogno che si creda che
dica qualcosa di vero. Tu credi a me: non è vero che con il tempo non si ama più.
Avec le temps...
Avec le temps, va, tout s'en va
On oublie le visage et l'on oublie la voix
Le coeur, quand ça bat plus,
C'est pas la pein' d'aller chercher plus loin
Faut laisser faire et c'est très bien
Avec le temps...
Avec le temps, va, tout s'en va
L'autre qu'on adorait, qu'on cherchait sous la pluie
L'autre qu'on devinait au détour d'un regard
Entre les mots entre les lignes et sous le fard
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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D'un serment maquillé qui s'en va faire sa nuit
Avec le temps,
Tout s'évanouit.
Avec le temps...
Avec le temps, va, tout s'en va
Mêm' les plus chouette's souv'nirs ça t'a un' de ces gueul's
À la Gal'rie j'farfouill'
Dans les rayons d'la mort
Le sam'di soir quand la tendresse s'en va tout' seule
Avec le temps...
Avec le temps, va, tout s'en va
L'autre à qui l'on croyait pour un rhum' pour un rien
L'autre à qui l'on donnait du vent et des bijoux
Pour qui l'on eût vendu son âme pour quelques sous
Devant quoi l'on s'traînait comme traînent les chiens
Avec le temps, va, tout va bien.
Avec le temps...
Avec le temps, va, tout s'en va
On oublie les passions et l'on oublie les voix
Qui vous disaient tout bas
Les mots des pauvres gens
Ne rentre pas trop tard, surtout ne prends pas froid
Avec le temps...
Avec le temps, va, tout s'en va
Et l'on se sent blanchi comme un cheval fourbu
Et l'on se sent glacé dans le lit de hasard
Et l'on se sent tout seul peut-être mais peinard
Et l'on se sent floué par les années perdues
Alors vraiment
Avec le temps on n'aime plus.
Sabato 23 giugno a Pozzolo Formigaro
giovedì 21 giugno 2007, 10.21.59 | molinaro
Messaggio di servizio: sabato 23 giugno a Pozzolo Formigaro, provincia di
Alessandria, c'è il Festival della piccola editoria di poesia. Dibattiti, letture e cose
varie. Trovate il programma nella figurina. A proposito, lo sapete tutti che quelle
figurine nei messaggi si ingrandiscono cliccandoci sopra, neh? Certamente lo
sapete tutti, sono solo io che ci ho messo un po' a capirlo. Sul programma mi sono
permesso, egocentricamente, di segnare con una freccetta rossa lo spazio-lettura
in cui probabilmente leggo io. Non chiedetemi come si arriva a Pozzolo Formigaro, ammesso che
qualcuno voglia venirci, anch'io me lo dovrò cercare; si narra che sia più o meno fra Novi Ligure e Tortona,
o giù di lì. Dicono che ci sia un bel castello, però! Altra notizia: venerdì 22 giugno, cioè domani ormai, a
Genova al Festival della poesia legge Cesare Oddera, alle 18, alla loggia dei Mercanti in piazza Banchi, si
veda qui: http://www.festivalpoesia.org/programmi/22giugno.html
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Uccelli e scarpine
giovedì 21 giugno 2007, 15.18.39 | molinaro
Due poesie scaturite da un giro verso il vicino – molto vicino – Oriente. Così, al volo.
GABBIANI (SÌ, HAI SENTITO BENE: GABBIANI)
Tutte le regole a volte conviene
trasgredirle: anche quella che vieta
di mettere in versi i gabbiani e i puledri
(e – benché un po’ meno gravi – i ciclamini):
l’armamentario dei vecchi azzimati
che sbafano Carducci e carciofini.
Sì, però se i gabbiani alle sei del mattino
fanno bordello davanti alla finestra
aperta sulla calle in sestiere Castello
e ci rompono il sonno del dopo l’amore,
bisognerà citarli. Non è una colpa grave:
qualcuno deve pur dare la sveglia.
Qui a Venezia è difficile che passi
il camion della rumenta come a Genova
o il primo tram come a Torino. Qui
tocca ai gabbiani. Niente di male. Sto
sveglio disteso sul lenzuolo, nudo,
e penso: Sono un uomo fortunato.
Perché ho fatto l’amore con una donna
e ci siamo piaciuti di più che le altre volte;
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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perché c’è intorno una città che s’anima
e io la sento. È divino sentire la città,
sentirla per davvero! Fa quasi una vita
sentire e amare la città e la donna.
La donna amata può avere difetti,
scatti di malumore, rughe, pause,
distacchi: ma ogni cosa è dentro un quadro
meraviglioso. La città può avere
impunemente i camion, le serrande
scaraventate – persino i gabbiani.
DEL PARADISO NON C’IMPORTA NULLA
Romina toglie le scarpine rosse
e cammina nell’erba. Non è un prato
di montagna o collina, è solo il parco
davanti alla stazione. Le scarpine
le tiene in mano, sono rosse come
la maglietta scollata, gli orecchini
e la fettuccia che regge un pendente
di forma acuminata. Ci abbracciamo
e ci baciamo. Non è il paradiso,
è solo il parco davanti alla stazione
dove si rischia forse un vetro rotto
o una merda di cane. Sono baci,
normali baci di città, gli abbracci
che si danno i ragazzi nei quartieri
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Carlo Molinaro
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delle stazioni.
Noi siamo i ragazzi,
i baci sono baci, le scarpine
sono rosse, i piedi di Romina
sono i suoi piedi, l’erba è l’erba, qui
ci siamo noi che ci abbracciamo e crédimi
del paradiso non c’importa nulla.
Topless!
venerdì 22 giugno 2007, 9.33.08 | molinaro
Oggi mettiamo una cosa leggera, che devo finire dei lavori e poi partire per Genova. Dato
che faccio quasi tutte le cose a rovescio, nel tempo, a venticinqu’anni di sesso ne facevo
pochissimo e mi consolavo «guardando» – una situazione da pensionato della bocciofila,
insomma. Scrivevo anche poesie sul girl watching, e simili, come queste due qui sotto (da
La parola rinvenuta, Genesi Editrice). Che comunque anche oggi lo preferisco al bird
watching, s’intende. Ma insomma. In spiaggia ero sempre a passeggiare e tenevo la conta
dei topless, che poi riferivo in cifra e in percentuale all’amico Franco (più pazzo di me) con cartoline balneari
(scrivere cartoline era l’altra attività preferita delle noiose vacanze spiaggesche) – non esistevano né internet né sms
all’epoca. Bah, comunque. Anche oggi considero il topless lodevole, pure per ragioni sociopolitiche (scherzo? in
parte, in parte... io non scherzo mai del tutto!), in quanto opposto praticamente a tutte le religioni (che io tutte
appunto cordialmente detesto) e, naturalmente, a tutti gli stati confessionali o teocratici. Il topless politico, insomma.
Fossi una donna starei sempre in topless. Certo, a petto nudo ci sto anche da maschio, ma non è la stessa cosa. Un
tribunale statunitense, peraltro, ha assolto una donna in topless (negli USA c’è ancora chi le denuncia, e però c’è chi
le assolve: grande paese di grandi contraddizioni, l’Amerika!) proprio con la motivazione della parità: se a un uomo è
permesso stare a torso nudo, è anticostituzionale che non sia permesso a una donna. Fra le ragazze giovani il topless
non è sufficientemente diffuso, occorrerebbe una campagna pubblicitaria che lo promuovesse. Ma temo non
convenga all’industria, perché mediamente il reggiseno di un costume da bagno è molto più costoso delle mutandine.
Vabbè. Cazzeggiando in rete mi sono imbattuto in un sondaggio promosso da un giornaletto per teenagers (vedi
figura) che dà il topless al 12,37 per cento. Poco, ma su certe spiagge sembra pure di meno. Su, su, ragazze, più tette
al vento, per due validi motivi: il mio piacere e la lotta dura contro vescovi, rabbini e imam!
TEMPO D’UN POMERIGGIO AL MARE
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Sulla spiaggia, di pomeriggio, il vento
(tra moderato e forte)
sconsiglia il bagno ed invoglia al passeggio:
le onde s’arricciano fino all’orizzonte,
dritto davanti si vede Montecristo.
Seduto accanto all’ombrellone chiuso,
finito di leggere un capitolo
del Caballero de la Triste Figura,
grosso volume che un’amica mi ha prestato,
mi godo il transito delle ragazze
bianche, arrossate, abbronzate,
coi loro costumini vivaci, interi
o due pezzi (più rara chicca il topless);
sento lo scalpicciare nel risucchio
della battigia e qualche gaia sillaba.
E presto scrivo queste righe in margine
a una rivista che ho preso e che fingo
di guardare (guai a farsi scoprire
versificando...), e c’è la sabbia e il sole
e velocissime le tavole a vela
vanno e vengono a riva, e passa un tempo
che non sarà poi troppo differente
da quello che scorse gli sbarchi di Enea,
e altri suoni, altri costumi, altre cose
terribilmente vicine nella Storia.
AURE BALNEARI
La spiaggetta di Zoagli è breve:
dopo un bagnetto nell’acqua sporca,
l’unico passatempo passabile
è il girl watching.
Veramente
nemmeno lì c’è molto da scialare:
qualche ventenne ossuta e sospettosa,
vaste madame con bambini e sciampo,
una tedesca con le tette rosse,
tutti tipi così.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Ma io sono tenace nella scepsi,
e trovo, infine, un fiore selvatico
in uno sciame di ragazze tenere
portate in riva al mare da due suore.
È bionda come il grano: mi ricorda
un giovanile amore: quindici anni
potrebbe avere: uno sguardo che taglia
lo spesso del meriggio, e sente d’alba
immaginata su terre serene.
Non è in costume da bagno: veste
dei calzoncini rosa e un reggiseno
verde. Al lobo un orecchino
minuscolo sfavilla.
Su una piccola spugna bianca e rossa
prende il sole e ne rende,
parlando a bocca a bocca con l’immenso;
e fra i corpi mortali disseccati
e la luce infinita si pone
corda di passaggio,
riflesso (e tanto basta) di ciò
che vive dopo...
Esito sproporzionato
di una ricerca da guardone: ma
la grazia non si merita, si ha
quando e finché si ha.
Il caffè riscaldato
venerdì 22 giugno 2007, 12.02.19 | molinaro
Dato che comunque, volente o nolente, invecchio, a volte affiorano ricordi lontani, e ce n’è
qualcuno apparentemente insignificante che riaffiora più spesso, con un fastidio
ingiustificato, o apparentemente ingiustificato. Uno che salta su ogni tanto è quello del
pomeriggio del caffè riscaldato. Roba di quarant’anni fa: avevo tredici-quattordici anni e a
casa mia erano venute tre o quattro persone (amici? conoscenti? questo non lo ricordo –
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Carlo Molinaro
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c’erano almeno un maschio e una femmina, ma credo che fossero più di due in totale, e
avevano qualche anno più di me, forse una specie di delegazione di una scuola, o di un oratorio, o di chissà che
gruppo, una cosa quasi un po’ ufficiale, non ricordo). Ma ero contento perché i miei non c’erano ed era una delle
prime volte che accoglievo persone in casa mia – cioè, insomma, a casa dei miei, una casa mia non ce l’avevo,
ovviamente. Si fermarono forse un’ora, discorsi vari, doveva esserci qualcosa di «culturale» ma non ricordo, non ho
idea degli argomenti. Quello che ricordo è che, con grande sforzo (ero timidissimo e allergico, più di quanto lo sono
adesso, ai convenevoli, alle cerimonie, all’offrire il tè o quel che l’è), dissi se potevo offrire qualcosa. Loro risposero:
«Magari un caffè, grazie». Io a tredici-quattordici anni non avevo la minima idea del funzionamento di molte cose: le
donne, certo, ma anche le caffettiere. C’era in casa del caffè avanzato dalla colazione preparata da mia madre, e dissi:
«Ve lo riscaldo». Mettere il pentolino sul fornello era una cosa che sapevo già fare. Ed ecco che qui ho il ricordo
violentissimo: come avessi bestemmiato, risposero: «No, no, allora no, grazie, riscaldato no, fa niente, non prendiamo
niente, grazie lo stesso». Ci rimasi malissimo. Non dissi nulla, perché avevo esaurito la scorta (in me allora
ridottissima) dell’energia del dire. Ma ci rimasi malissimo. Certo era deplorevole che io a tredici-quattordici anni non
sapessi nulla del funzionamento di una caffettiera (di nessun tipo), ma c’è da precisare che, non prendendo all’epoca
personalmente caffè, non mi ero mai interessato al problema, e ciò non mi crucciava. Il funzionamento di una
caffettiera non era una mia priorità. Ma quella volta mi sentii proprio male.
Eppure ancora oggi penso che quelli là erano degli stronzi, tutto sommato. Io se vado ospite a casa di qualcuno,
anche adesso, prendo quello che mi danno, qualunque cosa purché non velenosa e non alcolica. In Romania ho
bevuto intrugli che ridire né sa né può chi di laggiù ritorna; in certe case ho mangiato ogni e qualsiasi cosa, persino il
riso latte e zucca che è un sapore dei peggiori mai creati dall’umanità; un caffè offerto lo prendo indifferentemente
nuovo o riscaldato, caldo o tiepido, macchiato o no, con uno o due o nessun cucchiaino di zucchero, insomma non me
ne frega niente: se m’importa della persona che me lo offre, non m’importa del caffè. Quindi quegli stronzi mi
avvilirono tantissimo e a distanza di quarant’anni ogni tanto me lo ricordo e mi dà fastidio. Forse dovrei raccontarlo a
uno psicanalista, ma con quello che costano!
Con ciò naturalmente non voglio offendere chi non sopporta il caffè riscaldato. Adesso la caffettiera la so usare e se
venite a trovarmi ve lo faccio sul momento, prometto.
Bella serata di poesia ieri a Savona
lunedì 25 giugno 2007, 19.59.11 | molinaro
Ieri sera a Savona al Raindogs c’è stata una grande serata di musica e di poesia. Grande,
perché è andata proprio bene. Tutti quelli che hanno letto o suonato hanno fatto bene. Gli
altri erano contenti di esserci e di ascoltare. Non succede spesso che vada bene così. Io nel
mio piccolo mi sono lanciato sull’inedito. Beh, sul molto inedito. Nel senso che la prima
poesia che ho letto, Sottoripa, l’ho scritta qualche giorno fa; e le altre tre che ho letto,
Invettiva contro una canzone di Mogolbattisti, Invettiva contro un’altra canzone di
Mogolbattisti e Profumo di lavanda, le ho scritte ieri pomeriggio stesso. Le ho lette che erano ancora scarabocchiate
a mano su un foglietto. Ma perché sì, sì, bisogna rischiare, buttar dentro del nuovo, no? Come se non bastasse, dopo
la serata ho scritto ancora un’altra poesia, Interpretazione e dialogo. Una giornata davvero fertile. Cioè, poi magari
sono cazzate, ma la giornata è stata fertile, su questo non ci piove. Vi sbatto tutte le suddette poesie qui sotto.
SOTTORIPA
C’è la freschezza buona della sera:
ho visto una finestra scintillare
in un lampo d’arancio. In queste stanze
abitano persone. Ti vorrei,
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ragazza, qui: vorrei che usassi il mio
asciugamani: che tu fossi a casa.
Basterebbe scoprire il varco aperto
o il punto di contatto, dove l’anima
ritrova sé nell’altro: l’improvvisa
gioia di combinarsi, come quando
ha un odore di te l’ombra che sale
imprecisa da un angolo del porto.
INVETTIVA CONTRO UNA CANZONE DI MOGOLBATTISTI
In primo luogo se guidi a fari spenti nella notte
sei un pericolo pubblico e dovrebbero toglierti la patente.
E se prendi a pugni un uomo solo perché è stato un po’ scortese
sei un grandissimo stronzo manesco prepotente.
Ma soprattutto: cosa stai a recitare la parte del grande intellettuale,
quello che le cose le capisci solo tu, che fai il sostenuto,
e alla ragazza le dici: capire tu non puoi,
tu chiamale, se vuoi, emozioni.
Ma l’hai deciso tu che lei non può capire?
Ma ci hai mai provato a spiegare?
No, non ci hai provato, perché la prendi per una deficiente,
e invece mi sa che sei tu che non capisci una mazza
e stai lì a masturbarti con i tuoi concettini poetici
e fai tanto il grand’uomo e poi se andiamo a ben vedere
non sai neanche cosa vuol dire amare
e ti sfoghi della tua incapacità rovesciandola su di lei, dicendole:
capire tu non puoi, tu chiamale, se vuoi, emozioni.
Secondo me non sei capace neanche di trombare bene.
Di sicuro come giardiniere sei una frana,
se copri di terra la piantina verde sperando possa
nascere un giorno una rosa rossa. Coglione,
se la copri completamente di terra non nascerà un bel niente,
sei capace di distinguere una rosa da una patata?
Se vuoi andare in giro per ore e ore a fare il cretino,
a guardare il mondo come fosse roba tua che solo tu capisci,
cazzi tuoi, ma non credere, brutto stronzo,
che lei non possa capire.
Forse ne capisce più di te,
e quando crollerà il tuo castello di niente
(che dire di carte sarebbe già troppo)
e sarai nella merda fino al collo, senza sapere com’è successo,
magari allora verrà lei a dirti:
capire tu non puoi, tu chiamale, se vuoi, emozioni.
E a te ti toccherà constatare e rispondere
che no, non sono emozioni, è merda.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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INVETTIVA CONTRO UN’ALTRA CANZONE DI MOGOLBATTISTI
Acqua azzurra acqua chiara un cazzo!
Come fai a scrivere un verso di una canzone
che dice a quest’ora, cosa vuoi,
mi va bene pure lei? Io, brutto stronzo,
la vorrei proprio conoscere
quella poveretta lei che ti va pure bene
ma solo a quest’ora – e scriverei per lei
la mia più bella poesia d’amore:
per lei che la prendi così, a quest’ora, cosa vuoi...
Cosa vuoi tu, pezzo di merda!
Ti sembra il modo di trattare una ragazza?
Che poi arriva quell’altra bella azzurra e
tutto questo non c’è più. Che gentile!
Ma vai a cagare, Mogolbattisti!
Non sopporto chi usa le persone in questo modo.
Falla conoscere a me la ragazza
che ti va bene ma solamente quando
son le quattro e mezza ormai
– perché, alle sei del pomeriggio cos’è,
una troietta stupida stronzetta? Vai a cagare,
Mogolbattisti, ti dico solo una cosa:
vai a cagare. Se incontro la ragazza
delle quattro e mezza ormai
scommetto che me ne innamoro e sto con lei
e forse la sposo e ci faccio dei figli
e tu la tua acqua azzurra
te la ficchi su per il culo, ti ci fai una pera,
che ti faccia venire la diarrea.
PROFUMO DI LAVANDA
Sulla strada da Mallare al santuario
un cespuglio di lavanda si sporge
da un muricciolo. È in piena fioritura.
Passo il braccio fra le spighe, le sento
un poco resistere e un poco piegarsi
al mio premere, al mio scivolare.
Quando riprendo il cammino mi annuso
l’odore di lavanda sulla pelle:
è buono, è mio, resta qualche minuto
poi svanirà – ma adesso c’è ed è mio.
È meglio prenderlo così, il profumo:
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Carlo Molinaro
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portarlo in palmo di mano
senza strappare il fiore, senza cedere
alla smania, all’omicida velleità
di possedere, di portare via.
INTERPRETAZIONE E DIALOGO
a Chiara e a Zibba
Dice: «Mi piace dove dice
La gente muore sola
perché non ha ardimento».
La mia piccola Panda verde ospedale
non ha lo stereo, non stiamo ascoltando
quella canzone. No: ma ne stiamo parlando.
Resto un poco in silenzio. Ho sbagliato
strada – sbaglio strada ogni volta
che sono con lei – dovrò prendere
l’autostrada a Tortona, allungando
di venti chilometri almeno. Dico:
«Ma secondo te cosa significa
che la gente muore sola
perché non ha ardimento?»
Si volta verso me. La luce del quasi tramonto
le fa il viso più limpido. «Non so,
veramente. Mi piace così,
non ci ho mica pensato a che cosa
significa. Adesso ci penso».
Interpretare due versi di una canzone
non sarà forse un esercizio utile,
ma è buono, è giusto, è per dirci qualcosa
di non banale, tornando a Savona.
«Forse è il coraggio di mettersi in gioco
in un amore». «Intendi: di impegnarsi?» «Non so,
non è la stessa cosa?» «Forse no».
«Il coraggio di prendere – o di lasciarsi prendere?»
«Questa sì è la stessa cosa». «Dovrebbe».
«E se hai ardimento non muori solo? Fabrizio
dice che quando si muore si muore soli,
e basta». «Ma qui Zibba intende una cosa diversa:
il contrario di morire soli non è morire in compagnia,
è vivere». «Sì, dev’essere così». «Tu vivi?»
Ho esagerato, non attendo risposta. Cambio
l’argomento, lo cambio di poco: «Pensi ancora
che o si calpesta o si è calpestati?» «Forse
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Carlo Molinaro
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non l’ho mai pensato veramente». «Tre mesi fa
mi hai scritto di sì, che lo pensavi». «Forse
non era vero». Congiunge le dita:
ha mani bellissime, ha mani sincere.
Spingo la Panda ai centotrenta all’ora
per non farla tardare troppo alla cena
con il suo fidanzato e con gli amici. Ma
siamo in ritardo di forse tre ore:
«Non correre. Minuto più minuto meno,
avranno ormai finito di mangiare.
Ma ci terranno almeno un piatto di ravioli».
Non è nervosa del ritardo. È linda.
Scivola liscia l’autostrada, tranquilla.
Penso ancora all’avere ardimento
e al morire da soli, e vedo morti e ardimenti
come zolle di terra, diverse, rovesciate,
friabili o compatte, rosse o nere, lavorate
o incolte: ma ciascuna ha la sua erba:
che sia verbena o sia gramigna, dà
il suo filo al telaio del grande disegno.
E sia così. L’ardimento di prendere
(ti ruberei, ti porterei con me
in luoghi che non sai), l’ardimento
di non prendere (ho il mio amore,
sono felice adesso), l’ardimento
di farsi uccidere dalla poesia
– o forse questa è vigliaccheria –
l’ardimento di lasciare, di scegliere;
l’ardimento di non scegliere,
di non lasciare mai. Chi sono io
per dir qualcosa? Arriviamo, scendiamo,
c’è ancora, sì, un piatto di ravioli.
Io non lo so se moriremo soli.
In decalcomania
mercoledì 27 giugno 2007, 16.59.25 | molinaro
Le poesie fanno strani giri. A volte possono arrivare a essere lette dagli «altri» poche ore
dopo essere state scritte, come tre delle poesie di domenica scorsa a Savona, o come una
poesia che scrivo di getto e magari metto subito, per esempio, in questo blog. Altre volte le
cose vanno molto diversamente. Questa poesia qui sotto, Evanescenza, la scrissi intorno al
1980. Dopo il 1980 ho pubblicato molti libri, ma non l’ho mai messa in nessun libro. Credo
di non averla mai fatta leggere nemmeno ad amici. E nemmeno alla ragazza di cui parla
(che non so se l’avrebbe gradita, con quell’epiteto del terzultimo verso). Poi nel 2003 mi è arrivata una proposta da
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Carlo Molinaro
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una rivista di New York, volevano una mia piccola sequenza di poesie inedite da pubblicare. Io avevo appena messo
il meglio di cui disponevo al momento in Entro incerti limiti, delle Edizioni Joker. Ero scarso di inediti. Ma una
rivista di New York è un’occasione da non perdere, no? Così ho preso i migliori (pochi) inediti recenti che avevo
ancora, e poi ho, come suol dirsi, frugato nei cassetti. E ho riesumato questa poesia di quasi un quarto di secolo
prima. Non so perché l’ho fatto. Non credo che all’improvviso mi sia sembrata più bella e più degna di
pubblicazione. No, dev’essere stata una cosa così, d’istinto, senza motivo. Forse un attimo di tenerezza per la ragazza
in questione, per quegli imbranati e smutandati giri in moto in cui lei... non mi si concedeva. Persa poi di vista presto,
magari sarà una grassa signora della buona borghesia vercellese, adesso. In sostanza, ho mandato quella poesia, con
altre, a New York nel 2003. Ma le riviste letterarie sono lente anche nei dinamici Stati Uniti, e così solo alla fine del
2006 la poesia è comparsa su una pagina della Italian Poetry Review della Columbia University. E solo pochi mesi fa
sono riuscito ad avere per posta una copia della rivista (si vede che la poesia viaggia ancora sui vecchi bastimenti, per
traversare l’oceano). Poi improvvisamente sabato scorso a Pozzolo Formigaro, al Festival della piccola editoria di
poesia, su un banchetto ne trovo un sacco di copie, della Italian Poetry Review: perché si sono «gemellati» per la
distribuzione con un editore italiano, la Casalini Libri. Buona idea. Allora ne ho comprate tre o quattro, e una l’ho
subito regalata a Chiara che era con me. Bene. E in sostanza tutta questa faccenda mi ha fatto venire voglia di farvi
leggere Evanescenza, poesia rimasta nel cassetto per un quarto di secolo e poi pubblicata, sì, ma solo a New York!
Lo trovo quasi divertente, tutto ciò. La poesia non è probabilmente delle mie migliori (se non mi decidevo mai a
pubblicarla ci sarà stato un motivo), ma ci volteggia un po’ di quell’ariosa minigonna estiva, in quelle gite lungo la
Sesia negli anni Settanta, a far l’amore più o meno libero (più meno che più) sui ghiaioni e nei pioppeti. Beh, lei non
con me, d’accordo, io contribuivo solo dandole un passaggio in moto. Era una bella bruna con gli occhi chiari, i
capelli morbidi, le cosce solidissime bene scolpite e quella curiosa abitudine di non mettere le mutande. Almeno
d’estate.
EVANESCENZA
Facciamo un giro? Bagnava la sella
dietro me sulla moto: la gonnella
si rimboccava e lei (con buona pace
degli igienisti) era senza mutande
nei calori di giugno in camporella.
L’impronta scura nella similpelle
evaporava al sole dopo un nulla,
ma prima era disegno di farfalla
che prometteva tante cose belle:
farfalla trasudata di magia.
E invece la dannata puttanella
non me la diede mai: me la mostrò
solo così, in decalcomania.
Clodia, Catullo e Cicerone
giovedì 28 giugno 2007, 9.52.15 | molinaro
Per le ragazze di costumi non rigorosamente allineati è sempre
stato difficile ottenere giustizia. Stanotte pensavo a Clodia, la
fidanzata di Catullo (lui nelle poesie la chiama Lesbia, per
necessaria discrezione), di sicuro un bel tipetto di donna. Era
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Carlo Molinaro
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sposata con un tal Quinto Cecilio Metello Celere, che fu anche
console, e ciononostante si faceva un sacco di altri uomini; d’altronde se il
quarto dei nomi del marito si riferiva anche alle prestazioni sessuali, c’è da
capirla. Ma, scherzi a parte, sembra che il Cecilio Metello la prendesse
abbastanza bene. Fu un altro dei suoi morosi, un certo Marco Celio Rufo, cha
dai dati biografici mi sembra un oscuro leccaculo arrampicatore sociale, che
invece tentò di avvelenarla per rubarle dei soldi e dei gioielli – e qui si dimostra
che fra certi uomini politici romani del I secolo avanti Cristo e certi marocchini
che a Porta Palazzo ti fregano il cellulare nel XXI secolo dopo Cristo non c’è
nessuna differenza sostanziale; anzi, i secondi sono migliori perché almeno non
ti avvelenano.
Il suddetto Celio era amico di Cicerone, posso immaginare che tipo di amico: gli
si era appiccicato per far carriera, certamente. Ma a Cicerone piaceva, e sul
come e perché gli piacesse non stiamo ad approfondire, saran ben cazzi loro.
Comunque, quando il perfido Celio, dopo essersi trombato l’ingenua Clodia
(almeno in questo caso ingenua), cercò di avvelenarla e derubarla, fu in qualche
modo beccato, perché finì sotto processo per veneficium, appunto. Ma qui salta
fuori il Cicerone, potente avvocato, che con un’arringa piena di stronzate riesce
a far assolvere l’amichetto. Va da sé che nell’arringa non parla di fatti concreti
ma getta fango su Clodia, di lei ricordando libidines, amores, adulteria, Baias,
actas, convivia, comissationes, cantus, symphonias (Cic., Pro Caelio, 35) e
sottolineando che lei le ammette pure, queste cose, non le nasconde (forse è
questo il peccato più grave per una donna, allora come ora: la sincerità). Clodia
era una che trombava, beveva con gli amici, andava in spiaggia e ascoltava
musica: come darle credito? Assolvete dunque il povero Celio. E così fu.
Oggi forse le cose vanno un po’ meglio (mi han sempre fatto ridere quelli che
lodano i buoni costumi antichi – la Roma di Cicerone era ben peggio della
Roma di Veltroni), però certo è ancora difficile per talune ragazze ottenere
giustizia se subiscono soprusi e violenze. Ma qui mi vengono in mente cose che
non posso dire, e concludo con il pensiero che comunque a Clodia/Lesbia,
maltrattata dalla «giustizia», sono rimasti almeno frammenti di grande poesia; e
a un’altra che so io, del XX secolo dopo Cristo, sono pure rimasti frammenti di
poesia, certo meno grande, ma si fa quel che si può. Però, ragazzi, quando
studiate Cicerone, ricordate che non era affatto un uomo onesto e integerrimo,
non più di quanto lo siano certi noti avvocati-politici di adesso, che non posso
neppur nominare perché il potere in tutti i secoli è feroce, e la libertà
d’espressione in tutti i secoli è relativa.
Sparare
giovedì 28 giugno 2007, 10.36.56 | molinaro
Ecco, scritta ieri sera, in treno. Stamattina c’è un
cielo bellissimo su Torino, così come ieri sera e anche
l’altro ieri sera, e l’aria sa di mare.
NON DI TUTTI I POETI IL COMPITO È SPARARE
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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a Cesare Oddera
Non di tutti i poeti il compito è sparare
– e non è detto che l’amore uccida:
la mancanza, sì, uccide. Quand’ero bambino
non c’era nulla che fosse intero: solo
brandelli presi per pietà e tenuti
nascosti con ringhiosa gelosia
come fa il cane con le ossa marce
– gli scarti della mensa.
Ho faticato
a trovare a cucire a rimarginare
una materia del vero – del vivo.
Non di tutti i poeti il compito è sparare:
tu spara se il tuo amore deve uccidere
per penetrare e trattenere. Io
tesso versi di lino per asciugare il sangue
uscito, perché nella cicatrice
bianca risplenda un amore superstite
un altro poco.
È questo il breve
mio ardimento: raccogliere, abbracciare
ciò che il colpo sparpaglia – sentire
che la vita mi scappa, sì, dalle dita
– però stringere il pugno ancora più forte.
Hina
venerdì 29 giugno 2007, 9.32.39 | molinaro
Sono qui stamattina che faccio la rassegna stampa sull’immigrazione, uno dei lavoretti con
cui campo (la faccio per una bella associazione, Fieri: www.fieri.it), e leggo che al processo
contro i massacratori di Hina Saleem, la ragazza uccisa nei dintorni di Brescia l’11 agosto
2006 perché voleva vivere normalmente, e dunque rifiutava le regole del suo clan e della
sua religione, non è stata ammessa la costituzione di parte civile da parte di un’associazione
di donne musulmane. Lo trovo sconcertante: oltre a non difenderle noi (la sinistra purtroppo
su questo ha molte ambiguità), non permettiamo neppure che si difendano da loro, le donne musulmane. Chi mi
conosce sa che detesto le religioni (le considero strumenti di potere e d’oppressione, tutte), ma, appunto, non faccio
distinzioni: oltre al cristianesimo e all’ebraismo, per dire, detesto cordialmente anche l’islam. La sinistra invece
sembra fare timorose distinzioni, che personalmente non sopporto. Quando fu uccisa Hina scrissi una specie di
poesia, che si trova a pag. 571 del mio libro La parola rinvenuta. Ce l’ho voluta mettere, allora, nel libro, pur
sapendo che non è una «vera» poesia, ma piuttosto un discorso civile. Ma mi sembrava necessario. E mi sembra
necessario anche adesso. E ve la faccio leggere, o rileggere, qui sotto.
HINA
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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alla memoria di Hina Saleem
Ma perché non sappiamo più difendere
i valori dell’ottantanove – e non mi riferisco
al 1989 ma a quelli più importanti
del 1789, liberté égalité fraternité?
Dal 1989 in poi abbiamo esportato
non libertà ma libero mercato,
e quello torna al mittente, sui denti,
come è naturale. Non sappiamo difendere
la libertà in cui pure viviamo. Intellettuali
di destra e di sinistra ci sputano sopra,
mossi da biechi interessi. Libertà
è dire ciò che vuoi, scriverlo, fare
ciò che vuoi senza doverti nascondere:
è un concetto assai limpido e semplice.
Con tutti i suoi difetti, l’Occidente,
il cosiddetto Occidente, essenzialmente
l’Europa, l’Europa occidentale,
questo concetto l’ha portato avanti.
Ci sono state malattie, il nazismo,
il comunismo, il consumismo, sì,
però il concetto rimaneva chiaro.
Sei libero se puoi stare o non stare
con tuo marito, se puoi credere o no
che esiste un qualche dio, se puoi andare
dove vuoi con chi vuoi, se puoi pensare
e dire idee d’ogni sorta, cominciare
qualsiasi avventura, e anche nel piccolo
vivere quotidiano puoi vestirti
come ti pare, non devi andare a messa
né a convegni obbligati né ossequiare
qualche padrone o eminenza. È semplice,
mi pare, definire libertà:
le grandi cose sono molto semplici.
(Anche il limite è semplice: non nuocere
all’altra gente, dare un contributo
alla collettività. Non è difficile,
davvero, definire libertà,
per noi, dal 1789 in qua.)
Quello che forse non è a tutti chiaro
è che questa libertà è un valore,
un vero valore in sé, una cosa per cui
c’è da lottare sempre, un valore da difendere.
Le religioni (che la libertà la odiano, tutte)
hanno i loro riti e i loro martiri.
La libertà ha i suoi semplici martiri,
come Hina Saleem, sacrificata
come un agnello su un altare perché
voleva lavorare per suo conto,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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vestire un top e una minigonna,
fare l’amore senza maritarsi,
seguire idee sue e non d’Allah.
Questo è successo in una città
d’Italia, e alla martire Hina darei
almeno la cittadinanza alla memoria,
farei di tutto perché sia ricordata
almeno come Franca Viola – già,
ma è ricordata Franca Viola che
ha difeso sulla sua pelle la libertà
d’amore in Sicilia quarant’anni fa?
Anche da noi ci sono maschi loschi,
che vogliono le donne prigioniere,
fidanzate mogli figlie sotto rigido
controllo, ce n’è ancora di maschi così,
perciò non si deve abbassare la guardia.
Se non vi ricordate Franca Viola,
fatevi una ricerca (e vergognatevi
almeno un po’) e per Hina Saleem
ci sia memoria e onore, quello che
è dovuto a chi dà (volendo o no)
la vita per la nostra civiltà,
questa splendida cosa che dobbiamo
tornare a coltivare, libertà:
che non abbia a insecchire, che non sia
calpestata dai barbari di dio.
Torino, 22 agosto 2006
L'amore ai tempi della telematica
sabato 30 giugno 2007, 9.14.14 | molinaro
Ieri una ragazza (da cui non me lo sarei mai aspettato perché mi sembrava che ci fosse
un’ottima intesa fra lei e me – ma posso sbagliare) mi ha detto di sentirsi invasa da me.
Tralascio i dettagli più intimi perché... sono fatti nostri, ma rifletto su quel concetto di
invasione. Certamente quando ho una piena di sentimenti sono portato a comunicare molto,
e comunico con una certa svagata leggerezza anche con – potenzialmente – il mondo intero
(qui in questo blog, per esempio – ma pure nei libri di poesie, che in fondo sono una cosa
intimissima data a tutti). Nei confronti del mondo, amen, è una scelta mia che il mondo può ben sopportare –
nessuno è obbligato a leggermi.
Ma nei rapporti da persona a persona, e forse soprattutto con le donne e ragazze, queste moderne tecnologie mi sa che
devo gestirle con più raziocinio e moderazione. Penso a mie storie di una decina di anni fa. Ragazze che magari
potevo vedere una volta alla settimana o anche meno, e si faceva l’amore in macchina o in alberghi a ore o su un
prato, perché non c’erano case disponibili. E come si comunicava? Il telefono era quello di casa, controllato quindi da
genitori o altri parenti e affini: da usare con molta cautela. Il sms non si sapeva ancora che cosa fosse. Internet non si
era ancora diffusa, non esisteva la mail. Ricordo telefonate fatte da cabine, nell’ora in cui si sperava di non beccare,
al posto della ragazza, il padre o la madre. E lettere, tante lettere di bella carta, sperando che in casa non ci fosse
nessuno così spione da aprirle e frugarle (anche se a volte c’era).
Ma, insomma, la comunicazione era molto più lenta, calma. Anche se D. e io, pure al tempo dei francobolli, eravamo
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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capaci di scriverci tre lettere nello stesso giorno, e magari in un giorno in cui ci eravamo anche visti. L’amore è
sempre una piena impetuosa di voglia di comunicare. Ma con le moderne tecnologie c’è qualche rischio di eccedere.
Fino a pochi anni fa (il mio primo cellulare l’ho preso nel 2003) se ero in riva al fiume e vedevo qualcosa di bello e
volevo condividerlo con una ragazza (o con tre ragazze – che ci volete fare, sono fatto così!), perché è bello
condividere il bello con chi si ama, dovevo tenermi il pensiero, e poi dirlo quando ci vedevamo, oppure scriverlo in
una lettera che arrivava dopo giorni. Adesso invece le mando un sms, con l’ebbrezza (malata?) di condividere subito,
condividere l’immagine mentre la vedo, il pensiero mentre lo penso. Probabilmente è sbagliato. E può ingenerare
overdose e invasione. Sì, queste tecnologie moderne vanno gestite con attenzione.
A E., la ragazza che ieri mi ha detto di sentirsi invasa, scriverò su carta, e non troppo spesso. Non sono contrario al
progresso, ma va trattato nel modo giusto. Anche se comunque l’amore, per una ragazza o per dieci ragazze, è per sua
natura un eccesso, in ogni epoca. Se no, che cavolo di amore è? Sciacquetta?
Il muro oltre il cancello
domenica 1 luglio 2007, 2.30.13 | molinaro
Ieri la mia amica Clara mi ha scritto una frase folgorante. O, almeno,
folgorante per me. Eccola: «C’è un muro dietro il cancello che
scavalchiamo senza suonare, e vasti prati e sentieri e sorgenti se
aspettiamo che ci venga aperto». Mi sono accorto che questa frase è una
svolta – non «la» svolta, la vita è tutta uno svoltare – ma «una» svolta
importante nella (mia) maturazione umana. Non ci avevo mai pensato.
Una frase importante per me e forse addirittura per la pace nel mondo. Vabbè non
esageriamo.
Diciamo che da ragazzo pensavo l’esatto contrario: un giardino, uno spazio oltre un cancello,
poteva avere valore per me se e solo se ci entravo scavalcando, senza dover chiedere il
permesso a nessuno. Chiedere il permesso non solo mi umiliava profondamente, non solo
violentava la mia timidezza (anche oggi faccio fatica persino a telefonare all’idraulico per
chiedergli di venire ad aggiustare un rubinetto: io e chiedere non andiamo ancora d’accordo,
anche se mi sforzo di evolvermi), ma vanificava completamente lo spazio da esplorare: se
me lo permettono, pensavo, dev’essere già stato esplorato, già codificato, già precotto, già
con sentieri che mi toccherà seguire, e allora a che serve? Oltre a ciò, lo sforzo emotivo di
chiedere il permesso mi svuotava di ogni energia, per cui dopo averlo compiuto non avevo
più la forza di oltrepassare il cancello. Già avevo chiesto il permesso, basta: andavo a
dormire. Troppo stanco!
Forse ero un ragazzo strano, forse no. Tutti i ragazzi si ribellano al limite delle «cose
permesse» perché vogliono «tutto». I più baldanzosi si ribellano saltando protervi nel
proibito davanti al mondo, magari compiaciuti. Io ero timidissimo e la mia ribellione era la
clandestinità. La mia infanzia e la mia adolescenza sono state solitarie e clandestine, fuori
dal mondo, nell’unico spazio dove non devi mai chiedere il permesso: quello che abiti solo tu.
Non è stato granché, ma è andata così.
Ecco, non so bene se c’è davvero un nesso, ma la frase di Clara mi illumina sui rapporti
umani. L’atteggiamento che avevo da ragazzo era forse inevitabile, ma davvero mi faceva
trovare davanti a un muro. E mi vietava vasti prati e sentieri e sorgenti. Nei rapporti umani
non va bene scavalcare il cancello. A volte bisogna chiedere il permesso. A volte neppure
chiedere il permesso, ma solo aspettare e sperare che il cancello venga aperto.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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La cosa in realtà non mi è chiarissima, ci sto pensando adesso, ore due della notte fra il 30
giugno e il 1° luglio. In diretta. Facciamo un esempio. Se una ragazza mi piace io prima di
tutto mi faccio dei giri di fantasie e fantasticherie su di lei. Poi cerco di sapere qualcosa di lei,
o comunque qualcosa di più di quello che già so. Questo d’altronde è normale, tutti fanno un
po’ così. Si cerca di acquisire dati per poi farsi avanti con qualche cognizione di causa,
migliorando le possibilità di successo. Ma dopo c’è uno snodo importante, il momento in cui
appunto ci si fa avanti. Lì c’è da stare attenti a non scavalcare il cancello, a non spingersi
chissà dove immaginando cose infondate, o rattoppando insieme minime confidenze
completandole con la propria interpretazione e magari costruendo un personaggio
immaginario che poi può scontrarsi con la ragazza reale. Lì bisogna avere pazienza, stare
sulla soglia, guardare bene, capire che cosa c’è davvero oltre il cancello, aspettare appunto
che venga spontaneamente aperto, in modo da vedere la realtà di lei, la realtà di lei da
amare, e non il muro delle proprie solipsistiche fantasie.
Lei magari il cancello lo apre subito, magari lo apre lentamente, magari non lo apre mai.
Adattarsi a questo è cosa molto aspra e dura (soprattutto se lo apre molto lentamente o,
ahimè, mai), è dura un po’ come da ragazzi chiedere – chiedere il permesso o qualsiasi cosa,
è durissimo chiedere, ma a voi non vi sembra difficilissimo? Succede solo a me? Per me lo è
sempre stato. Sì, per me è quasi patologico, lo so, ricordo di avere girato ore per città ignote
piuttosto che chiedere un’informazione a un passante. Volevo trovarla io quella via, da solo –
non so se è orgoglio o timidezza, forse è la stessa cosa? Il bello è che se poi riuscivo a farmi
forza e a chiedere dov’è la via tale, dopo ero contentissimo. Mah. Ci riuscivo rarissimamente.
Ora un po’ di più.
Insomma, non estremizziamo. Un certo grado di distorcimento della realtà,
nell’innamoramento, è inevitabile. Il fenomeno per cui lei fa un sorrisetto di circostanza (un
sorrisetto che farebbe quasi a chiunque) e lui, essendone innamorato, lo interpreta come un
«ti amo! ti sorrido perché ti amo!», è un fenomeno classico, da manuale. Però a una certa
età bisogna anche cominciare un po’ a capirlo. Anche se la tendenza rimane. Anche a
cent’anni credo che se una che mi piace mi farà un sorrisetto io penserò «sì sì mi ama!» –
posso arrivare ad aggiungerci un «forse». Che carattere di merda che ho, troppo
disperatamente ottimista.
Ho la sensazione di avere detto cose molto confuse. Eppure la frase di Clara è stata proprio
illuminante. Cercherò di sforzarmi di aspettare le aperture dei cancelli. Cioè, almeno nei
rapporti umani amichevoli amorosi, s’intende. In altri tipi di lotta invece i cancelli si devono
scavalcare eccome, su questo non c’è dubbio, per esempio se sono transenne della polizia
che vuole impedirti di manifestare, lì bisogna scavalcare. Ma in amore no. Credo di no. Ci sto
meditando.
Certo che nella conoscenza di una persona una minima dose di scavalcamento ci va anche,
magari per vincere una sua paura o per aiutarla a conoscersi meglio lei stessa. La frase
stessa di Clara ha scavalcato qualche mio cancello. Ma lì è in un senso diverso. Forse.
Comunque ci vuole molta delicatezza.
Intanto è il 1° luglio, il che significa che metà del 2007 è già passata. Piena di avvenimenti,
da un lato mi sembra un secolo (in senso positivo) e dall’altro, come sempre, il tempo vola e
fugge. Facciamo festa: è mezzo capodanno, o capodimezzanno. Cameriere, gazzosa per
tutti!
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Due cuscini di materiale sintetico
lunedì 2 luglio 2007, 22.11.43 | molinaro
Lavorare, lavorare, ma poi si crolla. Oggi alle quattro del
pomeriggio mi sono buttato sul letto per riposarmi un attimo. Mi
sono svegliato alle otto passate. Sembra che stia arrivando un
temporale. Ancora un poco assonnato mi sono messo a scrivere
una poesia, forse sedimentata da fatti e meditazioni di questi
giorni. Adesso sono le dieci, non ho cenato ma non ho molta fame.
Magari esco. Prima vi offro la poesia. Si sa ormai in giro che sono quello che offre le
poesie scritte da cinque minuti, invece di stare a meditare mesi o anni se vanno bene
o no. Ma che importa. E poi si può sempre buttarla via anche dopo.
IL MALINTESO
«Scusate» disse lei vestita nel lutto di una piccola città
e Humpty Dumpty chiuse un enorme occhio selvaggio.
Joyce Patricia Adès (sposata Mansour); traduzione di Verena Alò
Ciò che pensavo soprattutto era che avrei dovuto spolverare
bene la casa – non è lavoro da poco, adesso è piena
di polvere sui libri e batuffoli di polvere sotto il letto –
e inoltre comprare due cuscini di materiale sintetico
– i miei sono di piume, molto vecchi – per il giorno
in cui lei si sarebbe decisa a venirmi a trovare. Questo
perché so che è allergica alla polvere e agli acari.
Non dubitavo che un giorno sarebbe venuta a trovarmi,
probabilmente entro l’estate: avevo già adocchiato
alla Coop dei cuscini di gomma con un prezzo accettabile.
Questa della polvere e degli acari era la cosa fondamentale:
se no mi si soffocava, la ragazza. Ma pensavo
anche altri dettagli: quali tazze usare per colazione
(le più piccole, smaltate, con disegni di luna e di stelle
o le più grandi, sbarazzine, con oche mucche e maiali)
e quali lenzuola mettere nel letto, quelle sul rosa o quelle
sul verde, o addirittura cogliere l’occasione per comprare
un paio di lenzuola nuove. E altre cose ancora:
se togliere o no dal salvaschermo del computer
la foto di lei nuda; se portarla per cena al cinese
di corso Regina o piuttosto al ristorante popolare
di via Mantova nel quartiere di corso Regio Parco;
se andare o no a visitare il museo del cinema
– questo dipende anche da quanto si ferma,
da quanto tempo abbiamo da spendere per noi.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Così quando mi ha detto che non sarebbe venuta affatto,
dopo un brusco imprevisto discorso dalla distanza
della sua piccola città, ci sono stato male
come un bambino deluso e mi sono sentito
anche in difetto, perché mi sono accorto
all’improvviso che il mio sguardo aveva messo
colori miei nei suoi disegni – aveva aggiustato
qualche riga dei suoi gesti, forse persino inventato
qualche tratto che lei non aveva tracciato.
Non è che non fosse vero niente, dopo anni
di variegata conoscenza. È che si sbaglia
per la causa dei sogni, a rileggere una lettera,
ripensare un pensiero, ricordare una serata
che già è remota, trovare un breve messaggio
sul telefonino – si può perdere il tatto
del mutare dell’altra persona: come quando
ritorni dopo un tempo in un luogo che conosci
perfettamente – così credevi – e lo trovi diverso
e non sai se è cambiato il luogo o se sei tu
che sei cambiato o se forse non avevi
visto così bene, quando allora c’eri stato.
Un malinteso. Però non è detto, non è mai sicuro:
magari i cuscini di materiale sintetico alla Coop
li compro lo stesso, non si può mai sapere.
Potrei usarli intanto per la sedia e il divano
se ci metto una fodera d’un colore che resiste allo sporco.
¿Qué es poesía?
martedì 3 luglio 2007, 1.10.35 | molinaro
¿Qué es poesía?
dices mientras clavas
en mi pupila tu pupila azul.
¿Que es poesía?
¿Y tú me lo preguntas?
Poesía... eres tú.
Gustavo Adolfo Bécquer
¿Qué es poesía?
dices mientras clavas
en mi pupila tu pupila atroz.
¡Qué es poesía!
¿Y tú me lo preguntas?
Poesía... soy yo.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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José Agustín Goytisolo (facendo la parodia a Bécquer)
Leggendo per caso i versi di Bécquer, poeta dell’Ottocento, in un simpatico blog, ho
pensato a Chiara e ai suoi occhi azzurri puntati nei miei, e mi sono trovato subito
romanticamente d’accordo con Bécquer: che cos’è la poesia? – chiedi mentre
inchiodi nella mia pupilla la tua pupilla azzurra. Che cos’è la poesia? E tu me lo
domandi? La poesia... sei tu.
Poi in un altro sito ho trovato una parodia di Bécquer fatta da un poeta del
Novecento, Goytisolo: che cos’è la poesia? – chiedi mentre inchiodi nella mia pupilla
la tua pupilla atroce. Che cos’è la poesia! E tu me lo domandi? La poesia... sono io.
Al di là dell’intenzione dissacrante di Goytisolo (io avrei fatto la parodia cambiando
solo eres tú in soy yo, e lasciando azul la pupilla, senza renderla atroz – un contrasto
focalizzato su tu/io e basta), c’è da meditare su che cos’è la poesia e su chi fa la
poesia, in particolare la poesia d’amore. C’è dentro la verità della donna amata (tú) o
c’è quasi soltanto la personalità del poeta (yo)?
Oggi si propende forse per la seconda ipotesi, e infatti Goytisolo è del Novecento e
Bécquer dell’Ottocento. Ma non vuol dire. D’altronde non siamo nemmeno più nel
Novecento. La dialettica è eterna. Forse lo è anche al di fuori della poesia. Anche
nell’innamoramento, dico nell’innamoramento di chi non scrive neppure un verso:
quanto c’è davvero della persona amata? Non è tutta una costruzione della persona
amante, ripiegata in definitiva su sé stessa, con l’altra a fare solo da grazioso
specchio? Il dubbio insorge.
Però secondo me una vera poesia d’amore non esiste senza una vera persona
amata, amata nella sua realtà tutta intera. Magari si attraversano prima nebbie di
masturbazioni pseudoamorose, ma poi ci si arriva, all’essenza della persona amata,
a lei davvero, e solo in quel momento nasce la poesia d’amore.
Così la penso io, almeno. Che sono un po’ romantico, forse. Come canta Zibba: «La
nostra malattia / è quella d’esser romantici. / Di guardar bene nel cuore degli altri. / Di
fare a gara di sputi con gli angeli. / E le battaglie contrastano dentro, / tra le pareti del
petto e lo scroto, / e Margherita scappa lasciando solo / un terribile vuoto. / La gente
muore sola, / perché non ha ardimento. / E Margherita lascia l’amore. / Lascia che
non ha tempo».
No, non cambio idea, io a Chiara dedico i versi di Bécquer. Pur tenendo ben presenti
anche quelli di Goytisolo, perché essere romantici non vuol dire essere coglioni.
Freschi di stampa
martedì 3 luglio 2007, 18.01.07 | molinaro
Parliamo una volta di libri. Piccoli libri freschi di stampa, da piccoli bravi editori. Per i tipi delle Edizioni Graphe.it
di Perugia (già benemerite per aver pubblicato le Poesiole doppiosensuali di Clara Vajthò) è uscito un libretto di
brevissime poesie di Natale Fioretto, intitolato ...e sia!. Sembrano haiku, pur non avendone la struttura, e sono
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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accompagnate da ideogrammi giapponesi disegnati da Junko Fujita. Formano una piccola costellazione di immagini,
alcune suggestive. L’insieme però mi appare troppo vago, sfilacciato. Cito una delle composizioni: Basta parlare di
ricordi. / Si possono perdere e non voglio. / Un brivido. / Una scheggia di futuro / mi trafigge.
Le Edizioni Vitale di Sanremo hanno invece pubblicato Dentro una sospensione, raccolta di poesie di Felice Serino
in cui sembra dominare un problematico anelito verso una diffusione-fusione dell’io nel tutto. Con uno stile che si è
fatto più maturo (Serino pubblica poesia dal 1978, sette libri, questo è l’ottavo) l’autore percorre la strada necessaria
che per l’intreccio di vita e morte sfocia nel mistero di cui dobbiamo cercare l’impossibile senso, un senso che
nessuna tradizione culturale ci preconfeziona più. Riporto per intero la poesia intitolata L’essenziale: arrivare
all’essenziale: via / il superfluo (lo sa bene il poeta – un / sansebastiano trafitto / sul bianco della pagina) // così il
corpo: si giunge / col vento azzurro della morte / al nocciolo: all’Essenza: non altro / della vita / che avanzi in
pasto al suo vuoto / famelico – / quando nella curva / del silenzio / essa avrà ingoiato la sua ombra.
Le Edizioni Joker di Novi Ligure hanno partorito proprio ora, in carne e ossa (in carta e inchiostro) il libro di
Chiara Borghi Il tempo è scaduto, corredato di mia nota che già misi in questo blog, qui:
http://blog.libero.it/molinaro/2799254.html – dove parlo anche di Clara Vajthò, nonché di Izet Sarajlić. Ne è uscito
un bel libretto, un racconto snello sospeso tra sogno e filosofia. Citare un pezzetto di un racconto non ha molto senso,
e allora di Chiara cito invece una poesia inedita, che sta qui appoggiata sul mio tavolo, e si intitola Ancora no.
Perché ho alzato la tavoletta? / Ancora non mi fido del tuo ambiente. / Ho ascoltato lo scroscio, in piedi. / Ancora
asciugo le mani nella carta. / Lascio lì i tuoi asciugamani, / ancora io non mi sento a casa.
Un mese di blog
mercoledì 4 luglio 2007, 4.13.11 | molinaro
Ecco, oggi è un mese che ho aperto questo blog. Nel complesso sono soddisfatto:
ho scritto una specie di diario pubblico, offerto a chiunque voglia leggerlo, ci ho
messo pensieri, poesie, osservazioni, qualche notizia, qualche fatto. Mi sembra
questa la strada da seguire. Ho avuto alcuni riscontri, ho anche ricontattato qualche
persona che avevo perso di vista. L'unico neo è stato un malinteso "comunicativo"
con una ragazza marchigiana che conosco da tanto tempo e che a causa di questo
"incidente" sembra ora essersi allontanata da me. Ma spero che ci ripensi: in realtà non è successo nulla,
solo uno screzio partito oltretutto da un commento malevolo di un'estranea sul suo blog. La
comunicazione astratta, virtuale, ha i suoi rischi. Per questo preferisco sempre che si accompagni
a contatti reali, di presenza fisica (no, non necessariamente in quel senso!). Ma, ripeto, complessivamente
sono soddisfatto. Adesso sono le quattro di notte, sono stato alzato finora a lavorare su un testo con note
complicatissime e sterminata bibliografia, che tratta della raffigurazione delle città: un testo da lavorare
come redattore per una "grande opera" di una nota casa editrice torinese. E non è male, dopo il lavoro
anche notturno, scrivere due righe nel blog, e, nell'occasione del primo mesiversario, o complimese,
ringraziare tutti quelli che hanno letto, leggono o leggeranno. E buona notte!
(il Paperino nella foto è opera di Clara)
Con il tempo
giovedì 5 luglio 2007, 13.13.30 | molinaro
Mi è entrata dentro ieri sera mentre in tram andavo a cena da Claudia (le poesie a volte
«entrano dentro» e poi aspettano). Mi è uscita scritta oggi a mezzogiorno (le poesie non
sopportano di stare dentro a lungo, escono presto in parole, o muoiono – così accade in me,
almeno). Eccola.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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CON IL TEMPO
a Léo Ferré e
a tutte le Chiare le Claudie le Dilette
le Grazie le Romine le Federiche le Clare
le Francesche le Marine le Moniche e
a tutte le altre a tutti gli altri a tutto l’altro
in fondo al tram numero dieci
in corso Duca degli Abruzzi
il tram non è né vuoto né affollato
tutti i posti a sedere sono occupati
e cinque o sei passeggeri in piedi
si fa sera ancora una volta si fa sera
parte un allarme d’auto in lontananza
è luglio ma potrebbe non essere
un uomo con la camicia stropicciata
due ragazze truccatissime
al di là del vetro del finestrino
passano strade alberi muri persone
è il 2007 ma potrebbe non essere
al di qua del vetro del finestrino
un uomo è immerso in tutta questa vita
è un cinquantenne ma potrebbe non essere
forse sta tornando da scuola
forse dall’università
forse da un’azienda dove lavora
da una settimana o da tantissimi anni
forse da un circolo ricreativo per vecchi
forse da un ospedale con una brutta diagnosi
ha gli occhi persi come non vedesse
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Carlo Molinaro
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o vedesse insieme così tante cose
da quasi non vedere
ha gli occhi che brillano in un modo
che non sai se sorride o sta per piangere
è forse preso dal suo primo amore
è forse preso dal suo nuovo amore
o da un amore perso o mai trovato
o da nessun amore
scende dal tram alla fermata di corso Einaudi
ma potrebbe essere un’altra fermata
va da qualcuno ma potrebbe essere
qualcun altro
si fa sera ancora una volta si fa sera
è di questo che s’è accorto all’improvviso
solo di questo nient’altro che questo
7/7/7 e 7/7/77
sabato 7 luglio 2007, 13.35.36 | molinaro
Pensando stamattina che è il 7/7/7 (mi piacciono i numeri e le date, e non pongo
neppure la limitazione della lontananza, che poneva Guido Gozzano: Adoro le date.
Le date: incanto che non so dire, / ma pur che da molto passate o molto di là da
venire) mi sono ricordato di avere commentato con i colleghi in ufficio una data
simile: Ehi, gente, oggi è il 7/7/77, festeggiamo! Beh, non è un ricordo di grande
significanza, l'unica significanza che ha è che esattamente trent'anni fa ero in un
ufficio a lavorare e dunque probabilmente non sono più un ragazzino. Boh. Forse.
Preso da questa cosa delle date, stamattina rientrando a casa (ho dormito da un'amica, sono un po'
girovago) mi sono messo a frugare in uno scatolone di cose vecchie e ho trovato una lettera del 1994 in
cui una ragazza di 18 anni mi dava del maniaco per «averci provato» con lei. E dire che avevo solo 41
anni, allora. Che tipa malmostosa! Per fortuna non tutte sono così succube di queste considerazioni
anagrafiche. Bah, probabilmente non le piacevo, semplicemente. Dato che comunque un po' maniaco lo
sono, non ho resistito alla tentazione di scriverle oggi. Adesso di anni ne avrà ben 31, magari ha cambiato
indirizzo e la lettera non le arriva, magari è sposata, ha figli, eccetera. Ma è un bel gioco ritrovare una
lettera e riscrivere 13 anni dopo. A me piace giocare.
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Carlo Molinaro
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Bah. L'amica da cui ho dormito stanotte di anni ne ha 21 e non mi ha mai dato del maniaco, stiamo molto
bene insieme. Ma il mondo è bello perché è vario e ognuno ha la sua Weltanschauung.
E sono importanti le amiche, le morose, le donne vicine, le fidanzate, insomma chiamatele come volete.
Una mi ha mandato un sms in questo preciso istante per dirmi che ha scoperto di riuscire a toccarsi con la
punta della lingua la base del collo. Uhm, adesso provo. Ma sì, forse ci riesco anch'io. Bisogna capire che
cosa si intende con «base del collo». Voi ci riuscite? Provate, dai.
È una bella giornata e viviamo intensamente perché nulla e nessuno garantisce a nessuno di esserci
ancora l'8/8/8 - e neppure l'8/7/7 - siamo appesi a un filo, non sprechiamo gli attimi.
Vedo sul calendario che oggi inoltre il computo dei giorni passati e da passare dell'anno è 188-177, numeri
curiosi anche quelli. Ma secondo voi perché sui calendari a blocchetto con i foglietti da strappare (che
prendo sempre perché mi piacciono tantissimo, sono fisici, cartacei, e il giorno lo strappi via) mettono su
ogni foglietto giornaliero anche il numero dei giorni passati e da passare nell'anno?
Sullo stesso calendario vedo pure che è san Claudio. Auguri a tutti i Claudi (e anche alle Claudie, se non
c'è una specifica santa Claudia - c'è?), ne conosco fondamentalmente due: un mio compagno di scuola
dalle elementari al liceo, e il fidanzato di una mia amica, insomma di una ragazza che mi piace molto, che
se potessi gliela porterei via, ma tanto non posso e gli auguri comunque glieli faccio. Anche di Claudie ne
conosco fondamentalmente due. Con una facevo l'amore nel 1994, 1995, 1996 (una storia intermittente;
comunque aveva 19 anni e non mi dava del maniaco come la tipa della lettera ritrovata), con l'altra mi
vedo spesso adesso, parliamo, stiamo bene, a volte dormo da lei. Buon onomastico!
Ma quasi quasi quella poesia di Gozzano dove parla anche delle date ve la metto tutta qui sotto, è una
poesia suggestiva. Gozzano per decenni è stato considerato un poeta da salotto per brave signorine, ma
secondo me è un'interpretazione sbagliatissima e finalmente qualcuno se ne sta accorgendo.
Più che una poesia è un vero poemetto, s'intitola L'ipotesi. Buon 7/7/7 a tutti.
L'ipotesi
I.
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via...
E penso pur quale Signora m'avrei dalla sorte per moglie,
se quella tutt'altra Signora non già s'affacciasse alle soglie.
II.
Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta
tra gli agi, mutevole e bella, e raffinata e saputa...
Ma quella che vive tranquilla, serena col padre borghese
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in un'antichissima villa remota del Canavese...
Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, più fresca
dell'acqua, e vive con una semplicità di fantesca,
ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato
e cuce e attende al bucato e vive secondo il suo nome:
un nome che è come uno scrigno di cose semplici e buone,
che è come un lavacro benigno di canfora spigo e sapone...
un nome così disadorno e bello che il cuore ne trema;
il candido nome che un giorno vorrò celebrare in poema,
il fresco nome innocente come un ruscello che va:
Felìcita! Oh! Veramente Felìcita!... Felicità...
III.
Quest'oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille
d'un giorno d'estate, nel mille e... novecento... quaranta.
(Adoro le date. Le date: incanto che non so dire,
ma pur che da molto passate o molto di là da venire.)
Sfioriti sarebbero tutti i sogni del tempo già lieto
(ma sempre l'antico frutteto darebbe i medesimi frutti).
Sopita quell'ansia dei venti anni, sopito l'orgoglio
(ma sempre i balconi ridenti sarebbero di caprifoglio).
Lontano i figli che crebbero, compiuti i nostri destini
(ma sempre le stanze sarebbero canore di canarini).
Vivremmo pacifici in molto agiata semplicità;
riceveremmo talvolta notizie della città...
la figlia: «...l'evento s'avanza, sarete nonni ben presto:
entro fra poco nel sesto mio mese di gravidanza...»
il figlio: «...la Ditta ha riprese le buone giornate. Precoci
guadagni. Non è più dei soci quel tale ingegnere svedese».
Vivremmo, diremmo le cose più semplici, poi che la vita
è fatta di semplici cose, e non d'eleganza forbita.
IV.
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Carlo Molinaro
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Da me converrebbero a sera il Sindaco e gli altri ottimati,
e nella gran sala severa si giocherebbe, pacati.
Da me converrebbe il Curato, con gesto canonicale.
Sarei - sui settanta - tornato nella gioventù clericale,
poi che la ragione sospesa a lungo sul nero Infinito
non trova migliore partito che ritornare alla Chiesa.
V.
Verreste voi pure di spesso, da lungi a trovarmi, o non vinti
ma calvi grigi ritinti superstiti amici d'adesso...
E tutta sarebbe per voi la casa ricca e modesta;
si ridesterebbero a festa le sale ed i corridoi...
Verreste, amici d'adesso, per ritrovare me stesso,
ma chi sa quanti me stesso sarebbero morti in me stesso!
Che importa! Perita gran parte di noi, calate le vele,
raccoglieremmo le sarte intorno alla mensa fedele.
Però che compita la favola umana, la vita concilia
la breve tanto vigilia dei nostri sensi alla tavola.
Ma non è senza bellezza quest'ultimo bene che avanza
ai vecchi! Ha tanta bellezza la sala dove si pranza!
La sala da pranzo degli avi più casta d'un refettorio
e dove, bambino, pensavi tutto un tuo mondo illusorio.
La sala da pranzo che sogna nel meriggiar sonnolento
tra un buono odor di cotogna, di cera da pavimento,
di fumo di zigaro, a nimbi... La sala da pranzo, l'antica
amica dei bimbi, l'amica di quelli che tornano bimbi!
VI.
Ma a sera, se fosse deserto il cielo e l'aria tranquilla
si cenerebbe all'aperto, tra i fiori, dinnanzi alla villa.
Non villa. Ma un vasto edifizio modesto dai piccoli e tristi
balconi settecentisti fra il rustico ed il gentilizio...
Si cenerebbe tranquilli dinnanzi alla casa modesta
nell'ora che trillano i grilli, che l'ago solare s'arresta
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tra i primi guizzi selvaggi dei pipistrelli all'assalto
e l'ultime rondini in alto, garrenti negli ultimi raggi.
E noi ci diremmo le cose più semplici poi che la vita
è fatta di semplici cose e non d'eleganza forbita:
«Il cielo si mette in corruccio... Si vede più poco turchino...»
«In sala ha rimesso il cappuccio il monaco benedettino.»
«Peccato!» - «Che splendide sere!» - «E pur che domani si possa...»
«Oh! Guarda!... Una macroglossa caduta nel tuo bicchiere!»
Mia moglie, pur sempre bambina tra i giovani capelli bianchi,
zelante, le mani sui fianchi andrebbe sovente in cucina.
«Ah! Sono così malaccorte le cuoche... Permesso un istante
per vigilare la sorte d'un dolce pericolante...»
Riapparirebbe ridendo fra i tronchi degli ippocastani
vetusti, altoreggendo l'opera delle sua mani.
E forse il massaio dal folto verrebbe del vasto frutteto,
recandone con viso lieto l'omaggio appena raccolto.
Bei frutti deposti dai rami in vecchie fruttiere custodi
ornate a ghirlande, a episodi romantici, a panorami!
Frutti! Delizia di tutti i sensi! Bellezza concreta
del fiore! Ah! Non è poeta chi non è ghiotto dei frutti!
E l'uve moscate più bionde dell'oro vecchio; le fresche
susine claudie, le pesche gialle a metà rubiconde,
l'enormi pere mostruose, le bianche amandorle, i fichi
incisi dai beccafichi, le mele che sanno di rose
emanerebbero, amici, un tale aroma che il cuore
ricorderebbe il vigore dei nostri vent'anni felici.
E sotto la volta trapunta di stelle timide e rare
oh! dolce resuscitare la giovinezza defunta!
Parlare dei nostri destini, parlare di amici scomparsi
(udremmo le sfingi librarsi sui cespi di gelsomini...)
Parlare d'amore, di belle d'un tempo... Oh! breve la vita!
(la mensa ancora imbandita biancheggerebbe alle stelle).
Parlare di letteratura, di versi del secolo prima:
«Mah! Come un libro di rima dilegua, passa, non dura!»
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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«Mah! Come son muti gli eroi più cari e i suoni diversi!
È triste pensare che i versi invecchiano prima di noi!»
«Mah! Come sembra lontano quel tempo e il coro febeo
con tutto l'arredo pagano, col Re-di-Tempeste Odisseo...»
Or mentre che il dialogo ferve mia moglie, donnina che pensa,
per dare una mano alle serve sparecchierebbe la mensa.
Pur nelle bisogna modeste ascolterebbe curiosa;
- «Che cosa vuol dire, che cosa faceva quel Re-di-Tempeste?»
Allora, tra un riso confuso (con pace d'Omero e di Dante)
diremmo la favola ad uso della consorte ignorante.
Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d'infedeltà maritale,
che visse a bordo d'un yacht
toccando tra liete brigate
le spiagge più frequentate
dalle famose cocottes...
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele...
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi...
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l'ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America...
- Non si può vivere senza
danari, molti danari...
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza! Vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia nel folle volo
vedevano già scintillare
le stelle dell'altro polo...
vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia per l'alto mare:
si videro innanzi levare
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un'alta montagna selvaggia...
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Purgatorio
che trasse la nave all'in giù.
E il mare sovra la prora
si fu rinchiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell'Inferno
dove ci resta tuttora...
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.
Io penso talvolta...
Guido Gozzano
L'insidioso pericolo dell'unico vero amore
domenica 8 luglio 2007, 10.46.13 | molinaro
Prendo lo spunto da un commento in questo blog di Viperovip, che dice: ma ogni amore
non dovrebbe, per essere amore, risultare come il primo e l'ultimo? sennò che amore è? tra
le tante baggianate che ho ascoltato, una m'è parsa giusta: “si ama o non si ama. non si
ama un pò, poco, tantissimo, moltissimo, ogni tanto etc...”. è un pò come vivere: non si può
vivere un pò, o vivere tanto, morire un pochino, morire tantissimo etc... o no?
Questa faccenda a me sembra pericolosa. Come l’utopia è pericolosa per la democrazia (le dittature sono sempre
debitrici di qualcosa ai grandi utopisti come Tommaso Moro, che pure erano probabilmente mossi da ottime
intenzioni), così la visione assoluta dell’amore totale è pericolosa per l’amore vissuto, per l’amore che sta nella carne,
nei giorni, nelle emozioni provate – e non sulla carta, nelle costruzioni mentali, negli ideali astratti.
Ho avuto un certo numero di amori veri e concreti (e secondo me eterni, nel senso che nulla li cancella). In qualche
caso anche più d’uno contemporaneamente. Ecco. Qualcuno potrebbe dirmi: «Significa che non hai mai amato
veramente». Già questa è dittatura semantica sul senso della parola amare, ma facciamo finta di dargli retta, e
mettiamo che io stasera stessa incontri un amore immenso, mai provato prima, travolgente, mai immaginato.
Insomma, sì, ho una certa età, ma può sempre succedere!
Bene. In tal caso dovrei dire che tutti gli altri non erano veri amori?
E se fra un anno incontrassi un amore ancora più immenso e più travolgente e più inimmaginabile? Allora anche
l’immenso di stasera passerebbe nella categoria dei «non veri amori»?
E così via: nessuno può ragionevolmente fissare un limite all’intensità dei sentimenti. Nel nostro piccolo, nel nostro
umano, abbiamo una capacità di sentimento infinita, o almeno indefinita (che è all’incirca lo stesso).
Quindi ogni nuovo amore, definendosi come vero (primo, ultimo, unico), provocherebbe la svalutazione di tutti gli
amori precedenti (o contemporanei). Incontrando la ragazza che amavo e con cui facevo l’amore ieri o tre o dieci o
venti o trent’anni fa le dovrei dire: Sai, ho scoperto che non ti amavo davvero, era una robetta così. E lo dovrei dire a
tutte!
Non so se vi rendete conto della pericolosità di questa catena di svalutazioni. Posso concedere che nella follìa di un
amore intensissimo uno pensi: questo è il vero grande unico amore. Ma è un attimo di follìa, appunto, magari
sublime, ma è un attimo, ed è follìa. Farci su una teoria di vita (o, peggio, proprio una vita) è come applicare alla
realtà l’utopia di Tommaso Moro: è subito Orwell, è subito Lager, è subito Gulag.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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È una svalutazione pericolosa perché coinvolge appunto sentimenti e persone, non cose materiali. Io la capisco poco
anche con le cose materiali: non è che se trovi un ristorante che ti piace di più devi dire che quello in cui hai cenato
per anni con soddisfazione adesso hai scoperto che era una merda. Ecchecazzo! Ogni cosa è preziosa nella sua
diversità.
Secondo me (ma non voglio offendere nessuno, è solo una mia discutibile opinione) a non essere capace di amare
non è chi ha tanti svariati amori, ma chi tende all’unico amore sublime ideale. L’ideale è spesso un paravento, una
maschera. Quanti poeti di amori sublimi e ideali, messi davanti alla ragazza vera, in carne e ossa e difetti, hanno
avuto una smorfia di disgusto... Stronzi! Innamorati solo di sé stessi, del loro bell’edificio letterario, freddo e morto.
Io non sono un grande poeta, ma, nel mio piccolo, posso confessarvi di non avere mai scritto versi su una ragazza che
non esistesse in carne e ossa, viva. Oh, sì, certo, l’innamoramento può dare una luce diversa, può forse far vedere
qualche dettaglio in modo meno oggettivo – ma che cos’è, nel vedere una persona, l’oggettività? e se la verità di una
persona fosse quella che vede l’innamorato, e si sbagliassero tutti gli altri?
A ispirarmi le poesie – e l’amore – sono sempre state ragazze di cui potrei darvi una precisa descrizione, un nome,
cognome, località, codice fiscale... Vabbè adesso non esageriamo.
Amare una persona significa soprattutto vederne l’umana meraviglia, e desiderarne la vicinanza, il contatto,
l’abbraccio, la mescolanza d’anime e corpi. [Scusate, ho messo un amare significa, roba da Love Story e/o Baci
Perugina, ma fa lo stesso. Posso esprimere la mia idea anche in questo modo.]
Dopo che hai scoperto la meraviglia che c’è in una donna, e te ne sei innamorato, questo amore nulla lo cancellerà e
nulla lo svaluterà. Tantomeno lo svaluteranno gli altri amori per altre donne. Perché, grazie a Dio (o a chi per lui), al
mondo non c’è «una sola» donna meravigliosa. Ce ne sono tante. Diverse. Splendide. Amabili.
Insomma, secondo me l’assolutismo in amore è pericoloso come in ogni altro campo, come lo è in politica, in
filosofia, nella scienza. Magari stasera incontro una donna più meravigliosa di tutte quelle che ho conosciuto, mi
innamoro ancora di più di come mi sono mai innamorato, ma non dirò mai a quelle che ho amato fino a oggi: sai, con
te non era vero amore. Non lo dirò: perché non lo penso.
Il passato svalutato dal futuro è un concetto terribile, non per nulla lo usano i religiosi: «figliuolo, quando avrai
scoperto la vera Fede, la vera Verità, il vero Dio, tutto il resto, tutto quello che vedevi prima, ti parrà scialbo e
insensato». Con tutti quei vero e con tutte quelle maiuscole, te lo ficcano dritto nel culo, i maledetti! L’amore è
adesso, ed è sempre – questa è la sua meraviglia. Secondo me. Nella mia umile opinione. S’intende.
Monogamia, poligamia...
martedì 10 luglio 2007, 10.46.55 | molinaro
Parlano di monogamia, poligamia, fedeltà, infedeltà... Queste storie che
s’intrecciano e si strecciano, s’imbrogliano e si sbrogliano, si sfilacciano,
si riannodano, si tramano, si tramandano, si perdono, si perdonano, si
donano, si prendono. Questi vuoti che si riempiono, questi pieni che si
svuotano, il bicchiere a metà, l’assenza del bicchiere, bere alla canna,
bere alla fontana, l’acqua c’è quando c’è, è un flusso, non è una
quantità. Le cose da fare, le cose da non fare, lavorare, pensare. Stare insieme, non stare
insieme, ti amerò per sempre, non voglio vederti mai più, amo soltanto te, voglio dimenticare,
voglio ricordare. Cucire, tagliare. Fare, disfare. Dicono che un grande amore possa durare
un solo giorno, ma se mi sei piaciuta ti cercherò anche il giorno dopo e quello dopo ancora.
Se mi sei piaciuta ti aiuterò a lavare i piatti e ti massaggerò la schiena, vorrò bene ai tuoi
bottoni, ai tuoi cani e ai tuoi fidanzati. Non andare via. Ritorna, se vai. Stiamo andando via
tutti, lo sai. Scegliere, non scegliere. Sciogliere, non sciogliere. Condensare. Cagliare.
L’essenza. Il succo. Il contorno. Progettare è pure necessario. Vivere alla giornata. La vita
stessa è una giornata. La condizione per la pace è non avere nulla da difendere, nulla da
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Carlo Molinaro
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conquistare, solo spazio da abitare. Vivere, convivere. Dividere, condividere. Strano verbo
condividere, vorrebbe dire unire e usa invece dividere. Effettivamente ogni unione è una
divisione: se mi unisco a te, ci dividiamo dal resto del mondo. La condivisione ci distingue,
quindi sì, è divisione. Io non ho soluzione, non sono un filosofo e sono più sognatore che
pensatore. Non divento saggio perché non faccio meditazioni ma fantasticherie, e ho letto su
qualche libro religioso che c’è una bella differenza, così pare. Nel nido o capanna a due
cuori ® ho fatto anche due figli ma mi sono sentito spesso solitario; fuori, in piazza, mi sono
sentito spesso in comunione. Non c’è storia: c’è stamattina che mi sono alzato alle cinque a
lavorare e fra un po’ vado dal barbiere a farmi tosare. Non ho mai lasciato nessuna, non ho
mai troncato di netto – vengo molto criticato per questo, ricordo che già Diletta si stupiva:
come sarebbe che non hai mai lasciato una ragazza? Così, non so, non è accaduto,
semplicemente; forse potrebbe accadere, forse no. Mi hanno lasciato loro, direi, se no
adesso avrei quaranta ragazze e potrebbe essere difficile gestire la cosa anche se nel
profondo non credo che sarebbe poi così difficile. Ciascuna di loro avrebbe magari anche lei
quaranta ragazzi e sarebbe un altro bel gruppo di 1.600 persone ma poi no perché ognuno
dei loro ragazzi avrebbe quaranta ragazze quindi altre 64.000 persone ma ognuna di queste
a sua volta quaranta ragazzi dunque altre 2.560.000 persone e poi ci sono pure le lesbiche e
i gay e si arriva in fretta a collegare tutto il mondo in un amore. Non credo che ci sarebbero
poi tutti quei problemi organizzativi, si vede caso per caso, non è lì la vita, non è
nell’organizzazione. Mah, non so, comunque, boh, non voglio disegnare utopie adesso,
dicevo ieri o l’altro ieri che sono pericolose le utopie, meglio stare sul personale, io
personalmente ho quaranta ragazze perché così le sento dentro di me, quelle che non vedo
più le considero in sospeso. La fine di qualcosa è un concetto che la mia mente non
comprende. Potrei anche sposarmi domani, ho sognato di farlo al municipio di Quiliano, o
potrebbe essere altrove, un bell’abito bianco per la sposa, e poi si vede come va, se ci si
ama in qualche modo va, anzi di certo va in ottimo modo. Sono l’uomo più fedele del mondo,
su questo ho pochi dubbi. Monogamia, poligamia, strani discorsi, discorsi non d’amore. Vado
dal barbiere.
La fata inodore e insapore
martedì 10 luglio 2007, 11.29.06 | molinaro
Una fiaba con cui ho partecipato a un premio letterario nel
Canavese («Una fiaba per la montagna», dell’Associazione Culturale ‘L
Péilacän), che aveva per tema obbligato il treno – a me piace il treno,
quindi nessun problema. Che poi il treno c’entra fino a un certo punto. È
pubblicata nell’antologia del premio, ma credo che ciò non vieti di
metterla qui.
LA FATA INODORE E INSAPORE
La fata Acidula era una fata pendolare: prendeva il treno a Pont Canavese e raggiungeva
Torino, mischiandosi a operaie, impiegate e studentesse, stava qualche ora o qualche giorno a Torino e
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poi tornava a Pont. Lo faceva da cento anni (le fate non invecchiano), cambiando spesso
travestimenti per non dare nell’occhio, e adeguandosi ai tempi delle ragazze umane e alle loro mode.
Nel 1906 per il primo viaggio si era messa una camiciona con qualche pizzo e una gonna lunga alla
caviglia; nel 2006 portava un esile corpettino stretto sotto il seno e una minigonna a mezza coscia.
Perché la fata Acidula faceva la pendolare? Un po’ perché non sapeva rinunciare ai boschi del
Canavese, benché ormai radi e assai poco magici, e quindi non voleva trasferirsi definitivamente in
città come avevano fatto da tempo diverse sue amiche; e un po’ perché viaggiare in treno le piaceva.
Non si imponeva però dei ritmi fissi: a volte faceva quattro viaggi nello stesso giorno, altre volte si
fermava a Torino tutta una settimana. Di notte per dormire si rifugiava fra i cespugli sulla riva del Po:
diventava piccolissima (per le fate è un gioco facile cambiare dimensioni e aspetto o anche rendersi
invisibili) e chiacchierava con gli insetti prima di addormentarsi.
La fata Acidula faceva quello che fanno tutte le fate monelle: girava, osservava, giocava,
svolazzava, faceva innamorare ragazzi. Aveva però un problema: era inodore e insapore. Tutte le fate,
fin da quando Madre Terra le scodella in un bosco (nascono sempre lì), hanno il loro odore e il loro
sapore. Spesso sono odori e sapori di frutti e di fiori, di erbe, di resine; qualcuna, un poco più lasciva,
sa di muschio o di riva di fosso. Acidula non sapeva di nulla. Glielo avevano fatto notare i primi elfi
con cui si era azzuffata sotto i funghi: “Sei una delle fate più belle, ma non hai odore e non hai sapore:
come faremo a ricordarci di te?”. Gli elfi, infatti, riescono a ricordare solo le cose che colpiscono tutti
e sette i loro sensi (i cinque che hanno anche gli umani, il sesto che qualche umano ha e qualcuno no, e
il settimo che hanno soltanto gli elfi, le fate, i fauni, le ninfe, i poeti e poche altre strane creature).
Anche quando faceva invaghire un ragazzo sul treno o a Torino, Acidula era tormentata da
questo problema. I ragazzi le dicevano sempre: “Sei la ragazza più bella che io abbia mai baciato,
sembri una fata – e qui sempre Acidula si strizzava un occhio da sola – però quando ti bacio non sento
nessun sapore e quando ti annuso il collo non sento nessun odore: forse sei finta, non posso
innamorarmi di te”.
Acidula, che non era finta e che in fondo era una brava fatina, si affliggeva molto. Qualche
volta si diceva che era meglio così: era meglio se i ragazzi non si innamoravano, perché le fate restano
qualche giorno e poi volano via, non fanno coppia e tantomeno famiglia, e lasciano cuori infranti –
anche se poi, diciamolo, gli uomini si consolano in fretta. Però alla fine si stizziva e s’arrabbiava:
perché proprio lei doveva essere priva di odore e sapore, a differenza di tutte le altre fate?
Una notte andò a consulto da una vecchia strega che abitava in una grotta vicino a Ivrea, una
che si diceva girasse per il mondo da diecimila anni e avesse conosciuto gli antenati dei faraoni
d’Egitto, all’epoca in cui uomini e divinità discorrevano ancora tranquillamente, come fosse normale.
La strega prese mazzetti di erbe che solo lei conosceva, li strofinò sulla pelle della fatina, ed emise il
suo responso: “Il tuo odore e il tuo sapore sono più forti di quelli delle tue amiche, ma sono nascosti
da una pellicola invisibile che ti avvolge tutta. Madre Terra fa così: quando le succede di creare una
fata dal sapore troppo forte e inebriante, la avvolge in una pellicola che la fa sembrare inodore e
insapore; il tuo odore non lo puoi sentire neppure tu. Ma quando incontrerai il maschio giusto (elfo,
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fauno o umano che sia), quello che saprà annusare oltre la pellicola, e si innamorerà di te,
allora la pellicola si squarcerà e svanirà, e tutti sentiranno fortissimo il tuo sapore”.
Acidula si rallegrò e da allora visse nell’attesa di incontrare quel maschio. Ma elfi e fauni con
cui si appartava continuavano a dichiararla inodore, e anche i ragazzi non sentivano sapori. Fu una
sera sul treno da Pont che la cosa accadde. Un uomo salì a Torino Stura, e andava solo a Torino Porta
Susa, pochi minuti di viaggio. Il treno era pieno di odori, non tutti gradevoli, eppure l’uomo, appena si
sedette nel posto di fronte alla fata Acidula, sgranò gli occhi e le rivolse uno sguardo come fulminato
d’amore. Forse quell’uomo non avrebbe osato dire nulla, perché era timido; le fate però timide non
sono e fu Acidula ad attaccar discorso:
“Perché mi guardi così? Che hai?”
L’uomo si fece coraggio e disse:
“Hai un profumo meraviglioso”.
Nell’attimo successivo, Acidula sentì il proprio odore. Era davvero forte e particolare, sapeva
di susina e di basilico ma anche di terra bagnata e di creolina, di notte alla stazione, di mattina nel
bosco. Improvvisamente tutti gli uomini lo sentirono. Un ferroviere restò lì come incantato.
L’uomo che inconsapevolmente aveva rotto il sortilegio scese a Porta Susa con Acidula e se
ne innamorò perdutamente. Si chiamava Felice e di fatto era felice, come ogni innamorato del mondo.
Acidula stava con lui poche ore e poi scappava, perché era una fata, e le fate non si fermano a lungo da
nessuna parte. Ma si accorse di essere innamorata dell’uomo, e tornò dalla strega di Ivrea, che le
spiegò:
“Se vuoi posso farti bere una pozione magica che ti trasformerà in ragazza umana. Attenta
però: perderai ogni potere magico, e poi invecchierai, probabilmente ingrasserai (gli umani mangiano
certe schifezze...) e diventerai brutta e infine morrai”.
L’amore è l’amore, e Acidula accettò. La strega le disse che, diventando ragazza umana,
doveva anche cambiare nome. Prese le lettere del suo nome, A, C, I, D, U, L, A, le mise in un calice e
le rimescolò, disponendole così: C, L, A, U, D, I, A. Fu molto soddisfatta di questo anagramma:
“Sai di susina, oltre che di tante altre cose, e ci sono da noi profumatissime susine che si
chiamano così, claudie, e che un poeta vissuto in questa terra ha ricordato: E l’uve moscate più bionde
dell’oro vecchio; le fresche / susine claudie, le pesche gialle a metà rubiconde, / l’enormi pere
mostruose, le bianche amandorle, i fichi / incisi dai beccafichi, le mele che sanno di rose /
emanerebbero, amici, un tale aroma che il cuore / ricorderebbe il vigore dei nostri vent’anni felici. I
poeti sono gli unici, fra gli umani, che a volte vedono noi creature magiche. Ma tu ora sarai una
ragazza e una donna, per tutti. Così hai voluto, vai per la tua strada”.
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Non fu facile per Claudia. Già quella notte dovette scarpinare nel bosco (non poteva più
volare) per raggiungere la strada statale. Attese il mattino, poi con l’autostop riuscì ad arrivare a
Torino e trovò Felice. Claudia possedeva solo i succinti vestiti che portava addosso, non aveva un
cognome, non aveva documenti, non aveva casa. Lo spiegò a Felice che, essendo innamorato, capì
tutto. Le inventò un cognome e la prese ad abitare a casa sua; dichiararono che era profuga dalla
Cecenia, da un piccolo paese dove tutto era andato a fuoco, anagrafe compresa; certo non fu facile,
con la legge sull’immigrazione, ma pagando qualche mancia alla fine saltò fuori un documento, con
un permesso di soggiorno. E Claudia cominciò la sua vita da ragazza umana, col suo odore di susina e
basilico e terra bagnata e creolina e notte alla stazione e mattina nel bosco, e ci furono problemi, e
dovette trovare lavoro, e ormai il suo odore lo sentivano in molti e si innamoravano di lei, ed ebbe
molti uomini, e qualcuno la maltrattò, e certi giorni era stanca e meno bella, eppure lei si sentì tante
volte così piena di gioia da scoppiare, e visse (non sempre ma spesso) felice e contenta, perché alla fin
fine, checché ne dicano, vivere davvero è un pochino meglio che soltanto sognare.
Reality show
giovedì 12 luglio 2007, 17.04.15 | molinaro
Una poesia o qualcosa del genere che m’è scappato di scrivere oggi. Si
sta di nuovo alzando un vento forte, vado a cena da mia madre a
Vercelli, c’è molto lavoro e un po’ di stanchezza, ma sono belle giornate.
REALITY SHOW
Dietro ogni più piccola bugia si nasconde una guerra grande, una guerra contro la realtà.
Chiara Borghi, Il tempo è scaduto, Edizioni Joker, Novi Ligure 2007, p. 7
Li carezzi che nun se potono sgravà
s’addeventano stiticanza custipata,
s’addeventano veleno.
Tiziano Scarpa, Groppi d’amore nella scuraglia, Einaudi, Torino 2005, p. 38
«Lo ami?» «Questo è fuori discussione».
«Sei felice?» «Ma sì, adesso va
bene, ma sì, va bene». Si distende
sulla sdraio. «Avranno del caffè
qui?» «Vado su a vedere». Ritorno
col caffè, la guardo berlo: «Ti porterei
via, via con me, lo so che non dovrei
dirlo». «Lascia perdere» – sorride
imbarazzata o infastidita o compiaciuta
(o non sorride affatto, forse) – prende,
da una borsa, del fumo e le cartine
e si rolla una canna. Me ne offre
un tiro – è una festa, l’offrirebbe
a chiunque – però per me è qualcosa
succhiare l’umido delle sue labbra
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così impresso sul filtro. No, già questo
è rubare, è invadere, è stravolgere
il senso dei suoi gesti. Non c’è nulla
per me. Devo farmi in disparte. Però
non riesco a non sentire il suo sapore
(immaginato) – e non riuscirò
a non riascoltarmi nella mente
le sue parole (poche) – studierò
ogni tono e ogni sillaba, cercando
non ciò che c’è ma ciò che io vorrei
ci fosse: non lo ama per davvero,
non è così felice, lo sarebbe
di più con me – lo esprime la sua voce.
No, non lo esprime affatto, non è vero
niente, è mia fantasia, è una bugia
che mi dico da solo. È così dura
la guerra contro la realtà. E dove
metterò le carezze che non vuole,
i baci che non posso darle in bocca?
Oh, non si muore di questo, via, non siamo
ridicoli. «Andiamo a fare un giro
fino al fiume». «Andiamo: c’è un bel sole:
sono contenta di essere tua amica».
Concrete filosofie
sabato 14 luglio 2007, 9.50.37 | molinaro
Ecco un sabato mattina di luglio, anniversario della presa della Bastiglia. In Francia
è festa nazionale, qui no, e anzi ho molto da lavorare per tutto il finesettimana,
però ieri sera mi sono fatto un viaggio deciso al volo, all’ultimo momento, e ci ho
scritto anche una poesia-filosofia, e sia come sia.
CONCRETE FILOSOFIE D’UNA NOTTE DI PRIMA ESTATE
L’amico che ha prestato all’altro amico
un videogioco dove puoi dar fuoco
alle ragazze e mentre muoiono bruciate
pisciarci sopra mi rimprovera perché
faccio trecento chilometri in una sera
fra l’andata e il ritorno per vedere
una ragazza che sta col suo ragazzo
e a me può dedicare solamente
qualche sguardo parola sorriso
nelle brevi fessure del tempo.
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Carlo Molinaro
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Come puoi farti prendere per il culo,
farti umiliare così? – è la sua tesi.
Ma la ragazza non mi umilia affatto,
non mi dice bugie, è stata chiara
fin dal primo momento, non m’ha illuso
in alcun modo ed è una scelta mia
fare quanti chilometri mi pare
per ritrovarla e poterci parlare:
vederla mi fa bene e non mi nego,
se posso, questo bene.
Ma la ragazza è una bella persona
e certamente ci farei l’amore
se lei volesse se mi amasse se
non avesse il ragazzo o se anche avendolo
non gli fosse fedele insomma se
in un modo qualsiasi ci stesse
per una notte o per un matrimonio
(non limito il futuro con programmi).
Ma la ragazza è una bella persona
e averla amica sempre un po’ più amica
e leggerla e ascoltarla e penetrare
nella sua timidezza e ritrosia
guardandola negli occhi o di profilo
mentre indossa un golfino, perché qui
la notte è fresca e si cena all’aperto,
è un dono alla mia vita e non mi nego,
se posso, questo dono.
Se volessimo usare il gergo in auge
di questi tempi digitali categorici
(ma l’anima è analogica!) diremmo
che il mio è un approccio su vari livelli
flexible targets, flexible goals approach
ma più semplicemente io direi
che lei mi piace e dunque amo vederla
in un modo o nell’altro.
Se il videogioco prestato all’altro amico
serve a sfogare istinti di dominio
sadismo o frustrazione in modo innocuo
mi sa che non funziona. È molto meglio
lasciarsi innamorare, inebriare
dalla giostra dei giorni, riconoscere
che non c’è alcun potere contro il tempo
che ci divora ma stasera è buono
stare a parlare col bicchiere in mano.
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Carlo Molinaro
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C’è chi se non ha tutto butta via
pure quello che ha. Io preferisco
vivere quel che c’è, senza con ciò
vietarmi di sognare tutto il resto
– c’è sempre un resto perché il desiderio
la fantasia il pensiero il sentimento
sono infiniti. E la vita no.
M’ha invitato a una festa a casa sua
e penso che ci andrò: conoscerò
la via dove cammina la mattina,
la stanza dove ha pensato parole,
il suo paese, il suo cortile, il cane.
La cassazione
domenica 15 luglio 2007, 10.26.38 | molinaro
Una mia amica (una delle migliori, una persona che stimo davvero molto) ieri
sera, venuta a sapere, privatamente chiacchierando, fortunatamente per viali
passeggiando (non viviamo sempre davanti a un computer), i nomi dei due
amici miei a cui si accenna nella poesia che ho messo qui ieri, nei primi versi,
quelli che si scambiano videogiochi sadici (o almeno l’hanno fatto in un paio di
occasioni), essendo che conosce anche lei i due soggetti, mi ha detto: «Basta,
quei due sono tagliati via per sempre dalle mie frequentazioni» (non so se fossero queste le parole
esatte, non le ricordo testualmente, ma il concetto è chiaro).
Lei è una tipa esigente in tutto, che si tratti di persone o di gelati. Questo da un lato mi rende «più
orgoglioso» di essere nella cerchia dei suoi amici, ma dall’altro mi dà una qualche ansietà: quella
sensazione che devi stare attento (e dunque un po’ innaturale) perché al minimo errore vieni espulso,
non so se rendo l’idea; e, anche, la sensazione che l’amicizia sia sottoposta a precise condizioni.
Forse è naturale che l’amicizia sia sottoposta a precise condizioni. Forse no. Per me che non la
distinguo molto dall’amore (sono varianti dello stesso sentimento e me ne accorgo soprattutto nei tristi
casi di perdita: il vuoto lasciato da un amico che ti molla o da una «fidanzata» che ti molla brucia di
fiamme quantomeno simili) non è tanto naturale, probabilmente, che l’amicizia sia sottoposta a
precise condizioni. L’amore di sicuro non lo è. Non per me, almeno.
Certo mi sembra strano che sia rifiutata una persona, prima amica o amante e amata, per un episodio
o per un dettaglio. Ho sempre pensato che probabilmente l’episodio o dettaglio è una scusa, la punta
di un iceberg non percepito prima, o la goccia che fa traboccare un vaso. L’improvvisa cassazione di
un amico o di un moroso dovrebbe avere radici più profonde e lontane. O forse davvero si può
troncare una relazione (d’amicizia, d’amore) per un dettaglio, per un episodio, per un singolo tratto del
carattere, venuto alla luce da un momento all’altro?
Anni fa un amico, un certo Guido, uno con cui chiacchieravo bene e giocavo a biliardo, troncò
l’amicizia così all’improvviso in un giorno, per cause imprecisate. Federica e, più recentemente, Elisa,
le ho «perse», all’improvviso, per un dettaglio forse, per un gesto, per una parola – così parrebbe – e
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Carlo Molinaro
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oltretutto senza capire neppure quale fosse il dettaglio, quale il gesto. Sono vuoti dolorosi. A essere
sincero fino in fondo, devo dire che li percepisco addirittura come violenze, come stupri in negativo,
non so spiegare bene (*). Sei amico, sei amante, sei moroso, fidanzato, e da un giorno all’altro non lo
sei più, sei tagliato via – è un taglio che sanguina – e spesso, appunto, per un dettaglio emerso, per
un gesto, per una parola (così pare, ma non so se crederci del tutto).
Boh! Forse è naturale, sono strano io che non ho mai cassato una persona in questo modo, è un
discorso già fatto anche in questo blog, che non lascio mai le ragazze, che per me tutto continua, nel
pensiero come nella realtà. Mah! Forse sono inutili farneticazioni. La realtà è che è domenica e che
prima di scrivere questo pezzettino ho già lavorato quattro ore a bozze che devo consegnare lunedì,
domani, e ne ho ancora un sacco, e non ho neppure fatto colazione. In casa sono rimasto senza
niente, vado al bar a prendere cappuccino e brioscia (nel bar dove ciò costa € 1,50 naturalmente, non
in quello dove costa € 2,05!).
(*) Ci provo, a spiegare un po’. Se una azione X, nella fattispecie un rapporto amoroso-sessuale, può anche
essere una violenza (il caso dello stupro o del plagio o delle molestie), allora analogamente una azione non-X,
nella fattispecie la cessazione di un rapporto amoroso-sessuale, può anche essere una violenza – certo non
punibile dalla legge, ma percepita tuttavia come violenza. Sia la azione X sia la azione non-X alterano uno stato
emotivo precedente nella persona che subisce l’azione stessa; è questa alterazione che può anche essere
violenta; quindi dire che lasciare una persona può essere una violenza non mi sembra improprio. Per arrivare a
fare l’amore con qualcuno ci vuole un percorso delicato di corteggiamento, contatto, intesa, comunione (può
durare minuti o mesi ma comunque ci vuole). Smettere di fare l’amore presuppone un processo altrettanto
delicato. In sua mancanza (il taglio netto), può esserci violenza. Boh? Non sono mica uno psicologo, l’ho buttata lì
come m’è venuta!
Né il bene né il male né niente: pensieri d'un caldo versosera
martedì 17 luglio 2007, 20.28.50 | molinaro
Tumori. Il mio barbiere ha riaperto bottega, sono andato adesso a farmi tosare. Dopo due
mesi che era chiuso per malattia. Operato di un tumore che di norma non lascia speranze e
uccide in fretta (forse il peggiore di tutti, stando alla statistica). Mi è sembrato in forma,
allegro. Certo, il male può riattaccare, ma a quel punto potremmo dire che tutti possiamo
ammalarci in qualsiasi momento di qualsiasi cosa. Lui deve avere una sessantina d’anni,
forse tra i sessanta e i sessantacinque, diciamo. Sinceramente pensavo che non avrebbe
riaperto più. E invece.
Tumori. Una mia amica aspetta l’esito di una biopsia. In un punto delicato e pericoloso (non uno dei tumori
«femminili», no, è un’altra cosa). Lei di anni ne ha ventuno. Sono preoccupato. Naturalmente lo è anche lei. Ci si fa
coraggio. Speriamo in bene.
Orrori. È la seconda volta che lo incontro su un autobus. È un uomo di età imprecisabile e ha una malattia che non
so che cosa sia, è tutto coperto di protuberanze carnose grosse come ciliegie, dappertutto, il viso le mani il collo, tutto
quello che il vestito lascia vedere. Emette anche un odore insopportabile, molte persone scendono dall’autobus.
Sembra uscito da un film dell’orrore, è ripugnante. Lo so che mi sto esprimendo in modo violento e «politicamente
scorretto», ma è così, le parole non possono (non devono) coprire la realtà. Penso alla sua infelicità di intoccabile,
inavvicinabile. Accanto a lui ragazze fresche, appetitose (quelle che resistono e non scendono dal bus, almeno). Dura
la vita.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Bruttezza. Anche senza arrivare alla malattia ripugnante di cui al paragrafo precedente, ci sono persone la cui
bruttezza è devastante. Certo, è bello ciò che piace. Certo, si può essere brutti e simpatici. Certo, non idolatriamo
l’apparenza. Si vive per altri valori. Certo. Ma oltre un certo limite la bruttezza non è un’opinione: deformità
evidenti, obesità anneganti, figure prive di ogni forma. A quel livello la bruttezza mi sembra un handicap, non
diverso dalla mancanza di una mano o da una difficoltà di deambulazione o dalla sordità o altro. Compromette la vita
di relazione, rende più difficile l’equilibrio emotivo: è un handicap. Osservando certe persone, di entrambi i sessi, mi
è successo di pensare: preferirei essere mutilato di una mano che essere così brutto. Mi creerebbe meno difficoltà.
Non so se è un vizio mio di «troppo esteta», ma non credo. Oltre un certo limite la bruttezza è un handicap, solo che
riconoscerlo socialmente peggiorerebbe la situazione: «sei così brutto che ti diamo una pensione di invalidità» è una
frase che non credo faccia piacere. Dunque non c’è niente da fare.
Pudore. Guardavo una panchina vuota in piazza Statuto e immaginavo, così camminando nel caldo meridiano (fa
questi scherzi) due che ci facessero l’amore, nudi, o anche non nudi: la gente avrebbe guardato curiosa ma anche
scandalizzata, qualcuno avrebbe gridato commenti anche non gentili, poi qualcun altro avrebbe chiamato la polizia o
i vigili e ci sarebbe stata la denuncia per avere offeso il pudore, nel suo comune senso. Pensavo alla costruzione
culturale secolare che ha prodotto questo: astraendo e astraendo (e mentre camminavo e pensavo «astraendo e
astraendo» muovevo le braccia, me ne sono accorto, le ruotavo per sottolineare l’intensità dell’astrazione: spesso,
quando cammino da solo e penso, mi sa che mi prendono per pazzo) non c’è nulla di oggettivamente brutto o
condannabile in due che fanno l’amore su una panchina in piazza Statuto. Magari anzi sono molto belli da vedere
mentre lo fanno. Eppure è una vista insopportabile, da punire; mentre si sopporta (sia pure con sforzo) la vista
dell’uomo sull’autobus uscito da un film dell’orrore (e la si sopporta giustamente: ci manca solo che, con la sfiga che
già ha, gli si vieti l’autobus). Ma perché i due che trombano invece no, non sono sopportabili? Ce ne siamo costruiti
di garbugli in testa sulla sessualità, in questi dieci o quindicimila anni di storia. Forse è impossibile liberarsene.
Amen.
Pudore. Una sera da mia madre (io non ho televisore e va bene così) guardavo un reality show – o forse non era un
reality show, è una terminologia che conosco poco: comunque, uno spettacolo in cui della gente andava a raccontare i
suoi sentimenti e a litigare con altri con cui invece forse doveva riconciliarsi, c’era una ragazza che aveva tradito il
ragazzo e gli chiedeva perdono in televisione e lui non la perdonava, e interveniva tutta la famiglia, la madre a dire
che fa bene mio figlio a non perdonare quella troia (no, non credo sia stata pronunciata la parola troia, ma tante volte
l’eufemismo è più tagliente di ciò che eufemizza). Non potevo spegnere perché non volevo interferire con la visione
di mia madre (anche se credo stesse sonnecchiando), e allora mi sono alzato e sono andato in cucina per non sentire
più, perché mi veniva da vomitare, perché ciò che passava sullo schermo era avvilente, volgare, insopportabile.
Dunque anch’io ho il mio pudore; è solo un pudore diverso. Non trovo nulla di volgare od offensivo in due che
trombano su una panchina di piazza Statuto, ma in due che si dicono cattiverie davanti a un pubblico voglioso e
feroce, prostituendo i sentimenti, lì sì, trovo la quintessenza della volgarità e dell’offesa. Però lo trasmettono in prima
serata. Farebbero meglio a trasmettere film di Moana Pozzi buonanima, dove c’è assai più finezza e rispetto.
La vecchia autoradio. Ho portato l’auto nella mia officina di fiducia, il cui titolare mi prende sempre per il culo
perché di auto non capisco una mazza, ma è simpatico. C’è da aggiustare la lucina che illumina il cruscotto (in realtà
non funziona da quando l’ho comprata, ma prima o poi dovevo decidermi, se viaggio di notte non vedo neanche a che
velocità sto andando) e poi secondo me anche la spia della benzina. Almeno: se ne accende una piccolina in alto a
destra, tutta nascosta, ma secondo me è di emergenza, la riserva della riserva, e dovrebbe accendersene una grande
vicino alla lancetta del serbatoio, in mezzo, non è così nella Panda? Mi era sembrato... Ma il titolare dell’officina, un
tipo molto paterno con i capelli grigi, mi fa bonariamente: «Guardi, io le credo anche, ma è sicuro che ci sia una spia
della benzina qui? E perché poi dovrebbero essercene due?». Mi sono sentito un po’ scemo, però a me sembrava che
ci fosse, e poi quell’altra è tutta defilata, però chissà, forse mi confondo con la Uno che avevo prima. Bah! Fa lo
stesso. E poi gli ho dato da montare anche la vecchia autoradio che mi ha regalato Cesare venerdì. Su quella Panda
usata c’erano già le casse, e allora ho pensato di metterci l’autoradio, così le sfrutto. È vecchia e mangia le cassette,
non legge i ciddì, ma insomma, io poi un po’ di cassette le ho ancora, ho i Canti picareschi di David Riondino su
cassetta, che mi piacciono molto: Maracaíbo, balla al Barracuda, sì ma balla nuda, Zazà, e l’impiegatino asburgico
che beve Gewürztraminer e ama l’imperatore, e la grande aragosta e le suore di Vigevano che correvano sui trampoli,
era l’estate del cinquantatré. Insomma, quello dell’officina ha guardato l’autoradio con una faccia che subito gli ho
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detto, come per scusarmi: «Non è nuovissima». «Dire che non è nuovissima è un eufemismo, comunque proviamo a
montarla, a volte i miracoli succedono», ha risposto.
La luna di Chiara. E poi ho pensato che Beethoven ha composto il Chiaro di Luna (anche se forse non è stato lui a
chiamarla così, la sonata per pianoforte in do diesis minore n. 14 op. 27 n. 2) e allora ho scritto la Luna di Chiara,
così, tanto per scrivere, perché ne avevo voglia. Non è una poesia, è il testo per una canzone da musicare. Che
differenza c’è? Non lo so, forse nessuna, molte poesie sarebbero musicabili, ma questa qui l’ho scritta con
l’intenzione di fare un testo per una canzone. Avrei anche un abbozzo di musica in testa, ma dato che non so suonare
quasi neanche il citofono e tantomeno so scrivere musica, basta così. E quello nella foto è un motocarro che ho
fotografato a Lisbona nel 2004.
LUNA DI CHIARA
Luna di gesso, luna di cartone,
luna di vetro in posa su un bancone,
luna tolta da un cielo sempre caldo,
luna venduta nei negozi in saldo.
Luna rinfusa, luna paccottiglia,
luna che non ce n’è che ti somiglia,
luna-Taiwan spacciata come rara
– no, non è questa la luna di Chiara.
Luna di Chiara non l’avete vista:
da troppi inverni la tiene nascosta:
non è di plastica né cartapesta:
è viva, cresce, lo spazio non basta.
Luna di Chiara è luna sottile:
può lacerarsi fra il ponte e le vele:
ruba lo specchio all’orgoglio del sole:
c’è chi s’inquieta, chi imbraccia il fucile.
Luna di Chiara è vergine cauta:
non la calpesta nessun astronauta.
Luna di Chiara è astuta bagascia:
non fa capire se prende o se lascia.
Luna di Chiara non è una conquista:
io l’ho incontrata senza farlo apposta
– un attimo negli occhi m’è rimasta:
credimi, è stato un attimo di festa.
Habeas Corpus
giovedì 19 luglio 2007, 8.59.27 | molinaro
Per un’opera a cui collaboro, ho dovuto lavorare redazionalmente alcuni pezzi dell’Habeas
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Corpus Act, fondamentale (mi dicono) documento del diritto inglese, del 1679. Non siamo
riusciti a trovarne una versione italiana «ufficiale», preesistente, e ci siamo lanciati in una traduzione a più mani che
si è rivelata complicatissima, snervante. Incuriosito, sono andato allora in giro per varie fonti a cercare di capire che
cos’è l’Habeas Corpus in generale, che evidentemente precede, come concetto, l’atto inglese del 1679: mi sa di
diritto romano, o giù di lì. Beh, insomma, è in latino, no? E d’altra parte se ne parla spesso in discussioni
contemporanee sul diritto, sulla democrazia, sulla trasparenza, sulla libertà. Sembrerebbe una cosa importante.
Ora, lo so che dicendolo pubblicamente mi espongo a una figura di merda, ma io, dopo avere letto decine di pagine
sull’argomento, non ho capito assolutamente di che cosa si tratti. Forse sono allergico al giuridichese. Ma non lo
capisco proprio, che cos’è l’Habeas Corpus. In genere trovo, come spiegazione, che è «un qualcosa» contro la
detenzione preventiva, «un qualcosa» sul diritto a essere giudicati presto da un’autorità competente. Però non capisco
i termini in sé. Non capisco neanche a quale corpus ci si riferisca, né chi sia il destinatario dell’esortativo habeas.
Abbi il corpo del detenuto? O di chi? Ma poi chi lo deve avere? O abbi tu il tuo corpo, cioè la disponibilità di te
stesso? O abbi il corpo... del reato? O forse corpus in qualche altro senso ancora? Forse la chiave è proprio capire chi
è il tu dell’habeas. E questo non lo trovo spiegato da nessuna parte, ho fatto dei lunghi giri su vari siti... Insomma,
dichiaro la mia ignoranza: pur avendo lavorato redazionalmente parte del testo dell’Habeas Corpus Act (che significa
poi metterlo in un italiano decente, o almeno provarci – quando il concetto è garbuglioso, non è facile illimpidirlo), io
a tutt’oggi non so rispondere alla domanda: «che cos’è l’Habeas Corpus?» Certo, colpa mia, sicuramente, che sono
allergico alla terminologia dei diritti (nulla, nulla, nulla capisco di leggi, decreti, atti processuali e roba del genere, è
proprio una lingua a me aliena – e questo mi preoccupa un po’, perché la legge, per essere uguale per tutti, dovrebbe
essere comprensibile a tutti, o quantomeno provarci), ma colpa anche di un mondo delle leggi, appunto, che forse da
sempre è stato lontano dalla gente. D’altronde, in Inghilterra nel 1679 credo che poca gente parlasse latino, e quindi
per i sudditi di Sua Maestà l’habeas corpus poteva anche essere una minestra di verdure. Insomma, qualcuno mi dice
in modo semplice che cos’è l’Habeas Corpus? A questo punto sono curioso davvero, accidenti! Sembra una cosa
importante anche per il diritto di oggi! Quindi andrebbe un po’ spiegata... I due nella foto sanno certamente di che
cosa si tratta, se hanno scritto quello striscione, però va spiegato! Insomma!
Savona e dintorni
venerdì 20 luglio 2007, 9.48.38 | molinaro
Stasera vado a una festa in un paese alle spalle di Savona. Si prevede una cena a base di
cozze o, come si dice in Liguria, muscoli. Prendo l’auto, mi caccio nel traffico dei
vacanzieri, e ci vado. Poi tornerò a Torino nella notte. Una sfacchinata, sì, ma sono
affezionato a quella zona, appena nell’entroterra, dietro Savona. Ci ho trovato paesaggi,
tensioni, emozioni, amici, musica, poesia, lunghe notti chiare, un amore ricambiato con una
ragazza sfavillante (poi finito perché pare che tutto abbia a finire, in questa fragile vita
mortale) e un amore non ricambiato con una ragazza più sfavillante ancora ma vagamente fidanzata con un altro
(beh, nessuno è perfetto!). Mi sembra che tutto ciò sia moltissimo, per una zona così piccola, un raggio di una ventina
di chilometri, e allora ci sono affezionato, e stasera vado a mangiare le cozze.
Intanto vi offro una poesia scritta nel 2003 appena un po’ più in là, dove comincia Genova. Che fra Savona e Genova,
è tutta una fascia di terra amabile, anche se io, come dice la poesia, vagamente straniero lo sono ovunque.
PASSAGGIO A V.
Spiaggia di Vesima, buttato sui sassi
a torso nudo coi miei vecchi jeans,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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con le scarpe da profugo romeno,
la faccia di randagio fuori età.
Mi chiede una bambina: «Sei straniero?»
Sento le pietre calde sulla schiena.
Socchiudo gli occhi. Le rispondo: «Sì».
LA STRANIERA
domenica 22 luglio 2007, 14.27.55 | molinaro
Sarà che collaboro a una rassegna stampa sull’immigrazione per
una lodevole associazione (www.fieri.it). Sarà che faccio
volontariato in un gruppo che offre alcuni servizi agli immigrati.
Sarà che Torino è una città multietnica e mi accade di partecipare
in occasioni multietniche. Sarà, più semplicemente, che sono un
vagabondo. Fatto sta che oggi mi è venuta una poesia
sull’immigrazione. Non so se è una poesia «civile». Tutta la poesia è civile. E
comunque la cosa non ha importanza. Forse è una poesia d’amore. Insomma è una
poesia, per quel che vale, ed eccola qua.
LA STRANIERA
Si è integrata – o così sembra. Parla
la loro lingua, con qualche esitazione.
Cucina le verdure; ha preparato
una festa stasera.
Loro arrivano
un po’ per volta.
Io ero già lì
ad aspettare, apparecchiando il tavolo
con lei, nel mio silenzio.
Sono uomini, tutti uomini: se hanno
una donna, non l’hanno portata.
Uno di loro è il suo fidanzato,
il fidanzato della donna straniera:
lo riconosco perché lei gli dà un bacio.
Mangiano, bevono. Dicono battute
sulle solite cose: le serate
al mare, le automobili, le moto,
le case da comprare – e poi le donne.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Lei, la straniera, cerca di rispondere
a tono – oppure invece si ritrae
aggrottandosi – oppure nasconde
un disappunto in un gesto qualsiasi.
Questo nuovo paese non è il suo
ma un’immigrata si deve adattare.
Il fidanzato è un poco più gentile
e le offre un riparo. Gli altri ruttano
e vagamente forse compatiscono
l’amico che s’è preso questa donna
kosovara o macedone o boema,
non lo sanno neppure di preciso.
Il fidanzato è un poco più gentile
ma neppure lui sa. Le lontananze
non s’imparano parlando o promettendo:
devi averle percorse.
Sto in silenzio
e mangio la verdura. La straniera
ha negli occhi altri cieli e altri ragazzi
lasciati. Ma non c’era sicurezza
laggiù, non c’era pane e anche l’amore
era un bene di lusso che trovavi
un giorno sì e troppi giorni no.
Qui invece pane e amore hanno una certa
garanzia, norma CE, quality control,
benché ci scappi a volte qualche frode
di mafia. Hanno una certa garanzia:
pazienza se il sapore non è forte
né dolce come là nelle pianure
tra la Vltava e il Labe.
Sto in silenzio,
vedo le bianche nubi velocissime
nell’azzurro degli occhi: mi son perso
nei paesi più ostili e seducenti,
dove nessuno sapeva chi ero. Neanche oggi
sanno chi sono. Io sono qui per sbaglio.
L’immigrata concede sguardi brevi
ai miei sguardi. Diffida del mio essere
diverso: teme io voglia riportarla
subdolamente ai suoi sogni precari,
quei sogni senza casa e senza parte
in cui soffrire ancora. Cosa voglio?
Perché non sto al mio posto? Ho parenti
dell’Est? O sto giocando con un poco
d’imparaticcio nel volontariato?
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Le direi: Vieni via perché ti amo
e ti conosco, perché sarà bello
restare insieme. Non le dico nulla.
Sono lontano da lei e dagli altri
che ormai, più brilli, scoreggiano pure.
Ripongo i piatti lavati nel vecchio
mobile in legno e vetro.
Sto in silenzio.
Saluto e torno verso casa, nella
notte ormai fonda. Vado. Ho il privilegio
di non avere patria – ma non basta. Lei
si è integrata – o così sembra. Parla
la loro lingua, con qualche esitazione.
L'ombelico del poeta e l'autogrill di Guccini
martedì 24 luglio 2007, 10.34.17 | molinaro
In un messaggio di questo blog ho messo due poesie-invettive contro due canzoni di MogolBattisti. Invettive perché? Perché trovo che siano testi maschilisti, egocentrici ed egolatrici,
canzoni di pseudamore dove lei viene ridotta a una cosa anche un po’ stupida.
Contro due testi vagamente commerciali (benché Battisti abbia cantato pure canzoni
emozionanti, colonne sonore di feste d’adolescenza) è forse fin troppo facile scagliare
invettive di quel tipo. Ma stamattina ho pensato che un certo maschilismo, un certo
egocentrismo e una certa egolatria si trovano spesso anche in ben più «nobili» canzoni e poesie.
Stavo canticchiando una canzone di Francesco Guccini che mi piace molto (e che continuerà a piacermi molto),
Autogrill, e notavo alcune cose. Sì, qui c’è una ragazza più vera, più delineata, presa in un gesto concreto (la ragazza
dietro al banco mescolava birra chiara e Seven-up), descritta con più cura (il sorriso da fossette e denti era da
pubblicità... bella d'una sua bellezza acerba, bionda senza averne l'aria, quasi triste come i fiori e l' erba di scarpata
ferroviaria... specchiò alla soda-fountain quel suo viso da bambina), insomma c’è lo sguardo rivolto a lei. Lei esiste,
possiamo pensare che esista. E meno male, Guccini è Guccini, non è Mogol-Battisti.
Eppure. Eppure anche qui subito ci si ripiega al proprio interno: i sogni miei segreti li rombavano via i TIR... il
silenzio era scalfito solo dalle mie chimere, che tracciavo con un dito dentro ai cerchi del bicchiere... e io sentivo
un’infelicità vicina. Beh, è inevitabile, si dirà: la poesia è interiorità. Sì, certo. Ma la ragazza sembra pian piano
ridursi a una componente della scena, a un’immagine (come i visi alle pareti di quel piccolo autogrill), a una
componente non tanto diversa da quella del paesaggio fisico (basso il sole all'orizzonte colorava la vetrina, e
stampava lampi e impronte sulla pompa da benzina).
Alla scena il soggetto narrante (poetante, cantante?) imprime un tocco proprio, fa un gesto, non si limita alla
contemplazione: misi un disco nel juke-box per sentirmi quasi in una scena di un film vecchio della Fox. Però ecco, è
ancora una scena letteraria, è un film vecchio della Fox, e sembra quasi una scusante la frase successiva: per non
gettarle in faccia qualche inutile cliché
picchiettavo un indù in latta di una scatola di tè. Fra l’altro sull’efficacia decliscettizzante di tale picchiettamento mi
permetto di nutrire qualche ragionevole dubbio.
La sensazione è che a questo punto sia già tutto finito, tutto ridotto a un gioco di pensiero. E infatti c’è quella che
secondo me è una frase chiave della canzone: Ma nel gioco avrei dovuto dirle... Ecco: «ma» (perché «ma»? che cosa
si oppone?), «nel gioco» (gioco: dunque è pre-scritta l’impossibilità che sia realtà), «avrei dovuto» – come, avresti
dovuto? e perché non lo fai? che cosa o chi te lo impedisce?
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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I due versi successivi, contenenti ciò che «avrebbe dovuto» dirle, sono bellissimi: non la vedi, non la tocchi oggi la
malinconia? Non lasciamo che trabocchi: vieni, andiamo, andiamo via. Può essere significativo il fatto che, non
molto tempo fa, questi versi io li abbia scritti su un biglietto che ho dato a una ragazza, che vedevo in una luce simile,
in una malinconia simile, e ho voluto (non «avrei voluto») dirglielo, e gliel’ho detto. Non è venuta via con me, ma ci
ho provato. Non rinuncio mai senza provare.
Poi nella canzone l’atmosfera si rompe, come è naturale, entra gente nell’autogrill, tutto torna a essere qualsiasi
(anche la ragazza?) e lui si alza e se ne va per la sua strada (mi chiamò la strada bianca) dove non c’è sicuramente
posto per la barista dell’autogrill – avrà ben altro da fare. A conferma della ribanalizzazione della ragazza (chissà,
forse ormai non è più nemmeno bionda senza averne l’aria), il nostro le lascia addirittura un nichel di mancia – cazzo,
almeno questo poteva risparmiarcelo però, è davvero brutto.
Ora, non so neppure cosa voglio dimostrare, probabilmente nulla, parlo così per parlare, e la canzone è comunque
bella. Però... Però mi è successo di osservare una ragazza dietro il bancone di un autogrill – o in qualsiasi altro luogo
del pianeta. Mi è successo di trovarla bella, bella di una sua bellezza. Di cominciare a desiderarla, di cominciare,
massì, a innamorarmene. Se tante volte non ho detto vieni, andiamo, andiamo via è stato solo per timidezza. Non
perché pensassi che era solo un gioco. Non perché la vedessi solo come una tessera di un mosaico. Non perché mi
servisse solo per farci pensieri, fantasticherie, poesie o canzoni. Chi se ne frega delle poesie e delle canzoni. Vieni,
andiamo, andiamo via davvero. Qualche volta mi è riuscito di dirlo. Qualche (rara) volta siamo andati via. Amare
(una donna, ma anche la realtà, il mondo, insomma tutto) è slanciarsi, muoversi, avanzare, agire. È non poter stare
fermo, cazzo! Non è chinarsi su un foglio o su una chitarra. Quello viene dopo, quello viene per raccontare, per
riprendere, per forse (presuntuosamente) eternare un qualcosa – ma prima lo devi vivere, vivere tutto, rischiare,
rischiare anche di conoscerla, di vedere com’è diversa, di prenderla con te, la ragazza che mescola birra e gazzosa,
forse sposarla, farci tre figli, andare ad abitare al suo paese, conoscere sua madre e il suo cane. Forse: non è detto che
accada, ma forse. Se no, se già in partenza lei è solo un pezzo della scena di un film vecchio della Fox, beh, allora è
una cazzata, un’egolatrica masturbatoria solipsistica cazzata. Ed è anche, ora esagero ma chi se ne frega, una
vigliaccheria. Se i poeti sono questi inconcludenti coglioni innamorati solo del loro naso e della loro penna, fanno
bene le ragazze a fidanzarsi con gli agenti immobiliari. E vaffanculo. Scusate, ho trasceso ma mi bruciava un po’
dentro.
L’amore vero non è tanto quello che strappa i capelli, ma quello che ti strappa da te stesso, dalla contemplazione
compiaciuta del tuo ombelico del cazzo. Le poesie vengono dopo. E soltanto quelle che vengono dopo sono le più
belle. Le altre sono letteratura, solo letteratura, e ne ho le palle piene. E scusatemi ancora, e la canzone di Guccini è
comunque bella e la canticchierò ancora, e stasera vado a Venezia a trovare una donna e non un mio sogno, e di ciò
sono felice, e buona giornata a tutti voi.
Al mare!
venerdì 27 luglio 2007, 12.13.38 | molinaro
Oggi pomeriggio vado al mare, e ci resto per qualche giorno. Una breve vacanza. Mi sento
pieno e vuoto, meravigliato e stanco, entusiasta e malinconico. Una lucente ghirlanda
aggrovigliata. Al mare festeggerò anche il mio LIV compleanno. Scritto alla romana suona
bene, insomma, ai uònt tu liv. E andiamo avanti, finché ce n’è.
D’altronde è così da sempre. Anche nella Bibbia c’è un po’ tutto e il contrario di tutto. Se
da un lato Qohelet dice:
Vanità delle vanità, vanità delle vanità, tutto è vanità. Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che
sostiene sotto il sole? Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo. Il vento soffia
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per
ricominciare gli stessi giri. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo
dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre. Ogni cosa è in travaglio, più di quanto
l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire. Ciò
che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei
secoli che ci hanno preceduto. Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto
succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi. Io sono stato re
d'Israele a Gerusalemme, e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò
che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si
affatichino. Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al
vento. Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato. Io ho
detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno
regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta
scienza». Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho
riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento. Infatti, dove c'è molta saggezza c'è
molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.
Dall’altro lato la ragazza innamorata del Cantico dei Cantici dice:
Baciami dei baci della tua bocca, poiché le tue carezze sono migliori del vino. I tuoi profumi hanno
un odore soave; il tuo nome è un profumo che si spande; perciò ti amano le fanciulle! Attirami a
te! Sono scura ma bella: è il sole che mi ha abbronzata. I figli di mia madre si sono adirati contro
di me; mi hanno fatta guardiana delle vigne, ma io, la mia vigna, non l'ho custodita. Il mio amico è
per me come un sacchetto di mirra, che passa la notte sul mio seno. Il mio amico è per me come
un grappolo di cipro delle vigne d'En-Ghedi. Come sei bello, amico mio, come sei amabile! Anche il
nostro letto è verdeggiante. Le travi delle nostre case sono di cedro, i nostri soffitti sono di
cipresso. Qual è un melo tra gli alberi del bosco, tal è l'amico mio fra i giovani. Io desidero
sedermi alla sua ombra, il suo frutto è dolce al mio palato. Egli mi ha condotta nella casa del
convito, l'insegna che stende su di me è amore. Fortificatemi con schiacciate d'uva passa,
sostentatemi con mele, perché sono malata d'amore. La sua sinistra sia sotto il mio capo, la sua
destra mi abbracci! Ecco la voce del mio amico! Eccolo che viene, saltando per i monti, balzando
per i colli. L'amico mio è simile a una gazzella, o a un cerbiatto. Eccolo, egli sta dietro il nostro
muro e guarda per la finestra, lancia occhiate attraverso le persiane. Il mio amico parla e mi dice:
«Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, poiché, ecco, l'inverno è passato, il tempo delle piogge è
finito, se n'è andato; i fiori spuntano sulla terra, il tempo del canto è giunto, e la voce della tortora
si fa udire nella nostra campagna. Il fico ha messo i suoi frutti, le viti fiorite esalano il loro profumo.
Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni». Il mio amico è mio, e io sono sua: di lui, che pastura il
gregge fra i gigli. Sorgi, vento del nord, e vieni, vento del sud! Soffiate sul mio giardino, perché se
ne spandano gli aromi! Venga l'amico mio nel giardino e ne mangi i frutti deliziosi! Io dormivo, ma
il mio cuore vegliava. Sento la voce del mio amico che bussa e dice: «Aprimi, sorella mia, amica
mia, colomba mia, o mia perfetta! Poiché il mio capo è coperto di rugiada e le mie chiome sono
piene di gocce della notte». Io mi sono tolta la gonna; come me la rimetterei ancora? Mi sono
lavata i piedi; come li sporcherei ancora? L'amico mio è bianco e vermiglio, e si distingue fra
diecimila. Il suo capo è oro finissimo, le sue chiome sono crespe, nere come il corvo. I suoi occhi
paiono colombe in riva a ruscelli, che si lavano nel latte, montati nei castoni di un anello. Le sue
gote sono come un'aia d'aromi, come aiuole di fiori odorosi; le sue labbra sono gigli, e stillano
mirra liquida. Le sue mani sono anelli d'oro, incastonati di berilli; il suo corpo è d'avorio lucente,
coperto di zaffiri. Le sue gambe sono colonne di marmo, fondate su basi d'oro puro. Il suo aspetto
è come il Libano, superbo come i cedri. Il suo palato è tutto dolcezza, tutta la sua persona è un
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incanto. Tal è l'amore mio, tal è l'amico mio. Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo
sul tuo braccio; perché l'amore è forte come la morte, la gelosia è dura come il soggiorno dei
morti. I suoi ardori sono ardori di fuoco, fiamma potente. Le grandi acque non potrebbero spegnere
l'amore, i fiumi non potrebbero sommergerlo. Se uno desse tutti i beni di casa sua in cambio
dell'amore, sarebbe del tutto disprezzato.
E io dico che è tutto vero, tutto è vanità e tutto è amore, e vado al mare. Però... mi sento più innamorato che vano.
Nonostante i LIV anni, mi sento più la ragazza dalla pelle bruna che il re investigatore di saggezze. Basta, vado
qualche giorno al mare, ho lavorato tantissimo, mi riposerò un po’, guarderò l’azzurro, dormirò. Domani è un altro
giorno. Passate buone giornate, voi. Il mio coetaneo David Riondino, anche lui LIV quest’anno, non avrà l’autorità
della Bibbia, ma il ritornello della sua canzone Crepuscolo del Novecento mi sembra una delle cose più sensate che
siano mai state scritte: «Tu prendi il tempo buono, perché presto finirà, e gòditi il tempo cattivo, perché non durerà».
Zoagli
domenica 29 luglio 2007, 16.43.37 | molinaro
La tentazione di scrivere due righe anche dal mare è forte, pure con un modem lentissimo e un portatile
IBM già antico, pagato 150 euro al mercatino dell'usato, con la tastiera inglese che ho impostato come
italiana e trovo i tasti a memoria. D'altronde un redattore purista non può sopportare di mettere gli
apostrofini al posto delle accentate, c'è un limite a tutto... Un giro in spiaggia, un concerto a Genova ieri
sera, e poi molto riposo, molto dormire. Zoagli è un posto tranquillo, nonostante la stagione di punta. Il
vizio di scrivere permane (ho scritto a un amico una lettera di otto pagine a mano, domani gliela spedisco),
ma si fa anche dell'altro. L'amica che è meco cucina ottimo pesce, io ho fatto il bucato e steso le magliette
al sole dietro casa, ed è un bell'effetto di colori. Lascio scorrere le immagini e i pensieri, passeggio,
discorro, e ogni volta che mi viene sonno dormo. Non è male, in sostanza. Guardo le scritte sui muri e
sulle scogliere, ci sono lunghe storie d'amore con botta e risposta, slanci e abbandoni raccontati con spray
o pennarelli. Prevalgono quelle cattivelle, ma forse è solo perché chi è felice non sta tanto a scriverlo sui
muri. Una cattivella ma fantasiosa è sulla passeggiata a mare a levante e dice: "Gaia troia: [segue una
lista di una ventina di nomi maschili alcuni dei quali con accanto la cifra "2", credo a significare che per
esempio di Alessandri o Roberti nella vita di Gaia ce ne sono stati due], totale 25, troia". Va da sé che mi
piacerebbe immediatamente conoscerla questa Gaia dai venticinque uomini attestati su muro. Che poi
magari non è vero niente, e comunque venticinque non sono mica tanti. Beh, certo dipende anche dall'età,
se Gaia ha poniamo quindici anni sono un buon numero, ma... Vabbè. Stasera andiamo a sentire un coro
nella chiesa del paese. Cosette così, e via, là. Passatevi buone giornate.
Geografia
domenica 29 luglio 2007, 19.48.40 | molinaro
Poi mi è venuta una poesia, questa qui sotto. E adesso una doccia, una cena, e fuori, nella serata in riva
al domestico mar Ligure. Domestico non è un insulto per un mare, e forse neppure per diverse altre cose.
GEOGRAFIA
non voglio sapere dove vai
voglio sapere che torni
Guido Catalano
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 74 di 404
Tornato da Venezia e da un amore
amato bene, senza riposarmi vado
dall’amica a Torino, che mi parla
di gioie e di dolori e penso a un’altra
che manda baci da Vicenza e a una
che baci non ne manda, da Savona.
Non c’è nessuna dispersione, c’è
soltanto un senso di tempo che passa
o spazio (dicono che sia la stessa
cosa, io non saprei), c’è uno squagliarsi
di vita e tutto ciò non ha rimedio
né in un amore né in molti né in nessuno.
È come è, non c’è nulla da aggiungere
né da togliere, la vita è stata aggiunta
e sarà tolta, non c’è un senso, ma
lasciate che io corra qualche giorno
ancora per Venezia, per Vicenza
e Torino e Savona e ogni altro luogo.
Zoagli, 29 luglio 2007
Tre cosette oggi
lunedì 30 luglio 2007, 22.15.41 | molinaro
Oggi ho scritto tre cosette in versi. Sarà il mare che mi fertilizza. Peggio per voi! Non faccio
vita balneare, ma per fortuna questa parte di Liguria è affascinante e piena di risorse, con i
monti che cadono direttamente nelle acque. La spiaggia è solo una delle tante possibilità per
chi ha qualche ora libera qui. Poi si può salire in alto, passeggiare, mangiare un’ottima
granita di mandorla, e scrivere.
GIORNO DI VACANZA
Mi piace lavare a mano le magliette di diversi colori
e stenderle sul filo dietro casa.
Metto quella azzurra accanto a quella arancione.
L’aria di mare qui le asciuga in fretta.
I calzini neri danno meno soddisfazione
ma fanno pure la loro figura, ciascuno
con la sua molletta. Le mollette sono alcune
di legno e altre di plastica, alcune bianche
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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e altre gialle. Antonella prepara
il pesce con gli aromi e le melanzane ripiene.
PESCE
Il sole è tramontato già da qualche minuto
ma le cicale fanno gli straordinari
sui pini arrampicati alla scogliera.
Io penso al pesce. Lo so che non c’entra,
ma penso al pesce che mi ha dato Chiara
quando sono stato a casa sua.
Pesce già sventrato e sviscerato
con le sue belle mani. Una ragazza
che sa sventrare e sviscerare i pesci
a me fa sangue, m’eccita. Sei anni
or sono m’ero innamorato d’una
pescivendola del mercato di Porta Palazzo:
aveva anche lei belle mani, i capelli
mossi, ondulati – e anche con lei
non c’era stato niente proprio niente da fare.
COLOR PARADISO
«Il cielo è porcellana trasparente,
ha quel colore come del paradiso»
– dice Antonella ed è vero e lo scrivo
non per rubarle l’idea ma perché
lei non lo scrive e qualcuno deve farlo.
È vero, ho visto anch’io, la trasparenza
del cielo in questo minuto è porcellana
sottile: è evidente. Sì però è evidente
ora che lei l’ha detto, non lo era
prima che lo dicesse. Allora credo
che lei davvero sappia pure che
colore ha il paradiso, ma su questo
non posso dare una conferma mia,
io non arrivo a tanto. Io trascrivo.
Due cosette anche oggi
martedì 31 luglio 2007, 21.52.38 | molinaro
Oggi, alla vigilia del mio compleanno, sono stato a fare
una gita alle Cinque Terre, e a Riomaggiore ho scritto due
poesie. La prima si intitola appunto Riomaggiore, perché
non sapevo come intitolarla diversamente. La seconda si
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28/05/2008
Carlo Molinaro
intensa.
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intitola Scena. È stata una giornata emotivamente molto
RIOMAGGIORE
Non sono in riva al mare:
il mare è in riva a me
e mi osserva. Le mie onde
sono le stesse da milioni di anni.
Lui le vede ogni attimo diverse.
Non sto guardando il cielo:
il cielo sta guardando me.
Le mie nuvole sono soltanto vapore.
Per lui hanno forme ogni attimo diverse.
Nella mia eternità lui lo guardo morire
invidiando il suo tempo che finisce.
SCENA
È meglio piangere d’un pianto colorato
che far l’amore d’un amore sbiadito.
Il mio caffè, il vino nel bicchiere.
Issa la vita agli alberi le vele:
il vento di morte la fa navigare.
Scendiamo piano per le scale al mare.
Svelta lei toglie la blusa e la gonna,
a torso nudo s’immerge nell’acqua.
Resto seduto sui sassi a guardare.
Digital
venerdì 3 agosto 2007, 1.17.54 | molinaro
Oggi tra un viaggio e l’altro, per di qua e per di là, ho scritto queste due
cose. Forse c’entrano l’una con l’altra. L’innamoramento non è digitale, è
analogico. Quando si fa l’amore non ci sono punti staccati da contare,
non ci sono valori numerici. E l’innamoramento è connaturato alla
persona come la carica elettrica alla particella, e, come della carica
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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elettrica, non se ne capisce granché, è così e basta. Forse è meglio
andare a dormire.
LASCIAMO STARE LE COSE COSÌ
Se si potesse travasare l’innamoramento
da una persona all’altra come un liquido
(ho in mente cinque o sei donne, facciamo sette)
disporrei diversamente
sia il mio verso di loro sia il loro verso di me.
Il mio verso di loro è già meno squilibrato
(ha meno deviazione standard, credo si dica in statistica,
ma non sono sicuro, forse è meno scarto dalla norma)
perché di tutte sono innamorato almeno un po’:
non ce n’è nessuna che ne abbia proprio zero.
Il loro verso di me è peggio distribuito
perché qualcuna con lo zero credo ci sia.
Sì, lo travaserei da una all’altra, dosando diversamente.
Per far coincidere il massimo innamoramento mio
con il massimo innamoramento suo, dico di una di loro?
Potrei travasare il loro o il mio o entrambi. Uhm. Sì. Boh.
Ma forse è meglio che non si possa travasare,
mi sa che combinerei solo dei casini.
Lo concentrerei tutto in una
o lo livellerei equamente come nei vasi comunicanti?
No, mi sa che è una stronzata.
Lasciamo stare le cose così.
Certo che però...
No, lasciamo stare le cose così.
PUNTI DISCRETI
In un mondo digitale la circonferenza non esiste.
Se sono punti staccati, discreti, per quanto piccoli e numerosi,
è un qualcosìgono (un tantissimìgono) ma non una circonferenza.
Quindi quel problema della quadratura del cerchio
è roba superata, non pensateci più. Cancellato.
Il nostro tempo è il tempo dei problemi cancellati,
e d’altronde mica si potevano risolvere, è più pratico così.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Digitale, digitale, l’analogico è superato,
tutto è fatto di punti staccati. Staccati, staccati!
L'insalatona
venerdì 3 agosto 2007, 10.30.04 | molinaro
Ieri sono stato in giro tutto il giorno e sono tornato a Zoagli verso le nove di sera, in treno.
Non avevo mangiato nulla per tutto il giorno; ho pensato di concedermi un’insalatona nel
meno caro dei ristoranti della piazzetta (che non è economicissimo, ma gli altri tre sono
inabbordabili, almeno per me, sono assurdi). Avevo la mia maglietta azzurra da tre per
cinque euro al mercato, forse un po’ sbrindellata, una borsa a tracolla e un sacchetto di
plastica in mano: normale corredo da viaggio. La barba non fatta, vabbè. C’era un casino di
tavolini liberi, anche defilati, anche neppure apparecchiati. Chiedo a un ragazzuolo se c’è posto per cenare. Ah non so
devo chiedere ma credo di no, mi fa. Arriva una tipa un po’ meno ragazza e mi dice: Ah no, adesso no, come minimo
ci vuole un’ora, è tutto occupato.
Va bene, mettiamo che fosse tutto prenotato (occupato no: era vuoto!), la gente cena tardi, mettiamo che fossero
prenotatissimi anche i tavolini piccoli defilati, quelli dove si sta comodi da soli, che in due già ci si ingombra.
Mettiamo che proprio non ci fosse posto. Non facciamo le solite dietrologie da intellettuale di sinistra.
Però cazzo a me è proprio sembrato che mi abbiano mandato via perché non gli piacevo. Non si sono neppure scusati,
no, bruschi. Affanculo, sono andato a dormire senza cena, che in Occidente si mangia sempre e comunque troppo e
un giorno di digiuno non fa male a nessuno.
Poi stamattina ho scritto questa specie di poesia, che non c’entra assolutamente nulla. Buona giornata!
SMS
Quando mi scrive un messaggino arrabbiato
(o che sembra arrabbiato: i messaggi sms
non hanno voce né tono e sono brevi,
spesso si fraintendono) a me viene
subito il batticuore
e potrei dire che la causa è l’amore
e sarebbe romantico e andrebbe bene,
come causa, potrei fermarmi lì
mentre cerco di rimediare o non rimediare
con miei messaggi a lei.
Invece vado avanti a pensare
se forse non è l’amore ma un orgoglio,
o se è il timore di perderla, una cosa che,
mi hanno spiegato da sempre,
è ben diversa dall’amore. Credi di amare una
solo perché hai paura di perderla? Quello
è solo egoismo! Discorsi così mi rintronano
le orecchie fin da quand’ero bambino
o quasi. Pensandoci, venivano
tutti da adulti che non è che amassero tanto.
Forse dicevano pure stupidaggini.
So badare alla mia casa, so fare il bucato,
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28/05/2008
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so anche passeggiare da solo fantasticando
e so cenare da solo al ristorante cinese senza grandi
malinconie. Dunque se ho paura di perdere
qualcuna, non sarà che la amo?
Certo, poi ci sono tutte quelle altre faccende,
quelle sere che ho voglia e scoperei
non dico chiunque ma una ventina di nomi
li ho subito in mente, anche di più, d’accordo,
ma intanto magari le amo davvero e poi insomma
questa è la conferma che i discorsi sull’amore
sono tutti un po’ delle cazzate
anche se non potremo mai smettere di farne
perché è logico parlare delle cose importanti
vuoi mica parlare solo di Juve e Toro
e la nuova Fiat Cinquecento e com’è quel vestitino
nella vetrina in via Garibaldi o della fame nel mondo
che, messa nel contesto, è come il vestitino,
e poi vedete che quando si parte
con questi discorsi non si finisce più, si sbrodola,
e va bene che parlare è pure naturale
però l’amore alla fine è meglio farlo,
il vestitino se si può tu fa’ che indossarlo
e la fame nel mondo tu riduci i consumi
e basta, ora rispondo al messaggino
e l’arrabbiatura passa e forse ci ameremo noi
alla faccia di tutto e di tutti e vado in paese
a prendere un caffè e alla Posta a spedire
un libro a un amico che è da un po’ che devo mandarglielo.
In riva alla riviera
venerdì 3 agosto 2007, 13.48.31 | molinaro
Oggi la questione pranzo l’ho risolta con tre yogurt (frutta e cereali) presi
dal panettiere. Prima però sono stato su una panchina e ho quasi
inevitabilmente scritto la cosa che metto qui sotto, In riva alla riviera.
Andrebbe dedicata, oltre che al De Andrè in epigrafe, anche alla
Szymborska che mi ha stimolato sul concetto di «partecipare» (si veda
Conversazione con una pietra, in Vista con granello di sabbia, Adelphi,
Milano 1998, nona edizione maggio 2007, pagg. 49-51), e a Clara che mi
ha regalato per il mio compleanno il libro della Szymborska, ma si rischia
di diventare pedanti: in sostanza, tutto alla lunga è dedicabile a tutto,
perché tutto influenza tutto, come sappiamo da sempre.
IN RIVA ALLA RIVIERA
Passan le villeggianti
con gli occhi di vetro scuro
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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passan sotto le reti
che asciugano sul muro.
Fabrizio De Andrè
Estraneo alle villeggianti
ma estraneo anche ai pescatori
osserva le une e gli altri
con occhi quasi uguali.
Le villeggianti il petto e le cosce,
i pescatori le squame e i calzoni:
ma non può partecipare.
Lo guardano con diffidenza perché
si è seduto su una panchina neppure lato mare
anzi con le spalle al mare
e scrive su un quadernetto.
Una volta che scriveva su un taccuino stando in piedi
in un posto qualsiasi che poi per caso
era un posteggio di automobili,
uno gli si è avvicinato e gli ha detto allarmato:
Scusi ma qui la sosta è permessa, no?
Eppure non era vestito da vigile urbano,
era piuttosto malvestito; e questa cosa
non è un’invenzione, è successa davvero:
lui racconta le cose successe davvero
ma non può partecipare.
Rientro a Torino
lunedì 6 agosto 2007, 16.51.22 | molinaro
Finita la settimana di giri al mare, rieccomi a Torino con un
lunedì che non vuole ingranare, mille cose da fare. Ieri sera
a Savona ho sentito il concerto di Zibba alla festa di
Rifondazione Comunista, ed è stato emozionante, coinvolgente.
Forse ad aumentare l’emozione è stata la persona che avevo
accanto, ma comunque Zibba e il suo complesso sono molto
bravi. Se nel disco solo una canzone o due mi avevano preso veramente, dal
vivo ho percepito che tutte o quasi trasmettevano qualcosa di molto intenso.
Il sito zibbiano lo trovate qui a sinistra nelle «pagine amiche» (Zibba e
Almalibre).
E adesso sono di nuovo a Torino, tento di lavorare, e prima ho scritto una
poesia su un abbraccio.
UN ABBRACCIO
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Abbracciarti è stato abbracciare una nuvola
– anzi: diventare una nuvola con te:
così fresco e leggero non m’ero sentito
mai – neppure da bambino – come ieri quando
ho immerso il viso nei tuoi capelli ricci:
m’han bene accolto, avevano l’odore
che non è odore: è la cosa che senti
se respiri all’aperto dopo caduto il vento,
dopo riapparso il sole.
È stata
la danza di due corpi senza peso
né ingombro, o d’uno solo mescolato:
e vuol dire, vuol dire, per me lungo e goffo:
è stato un minuto – no che dico molto meno
di un minuto – non importa – le nuvole
non hanno un tempo per le loro forme.
Ignara – o no – tu sei tornata a casa.
Ho imboccato l’autostrada di notte:
nel buio tumultuava la battaglia
di sogno e nostalgia, di meraviglia
e sbaglio, di lottare e rinunciare.
Bar Corallo
martedì 7 agosto 2007, 15.43.42 | molinaro
Il solito bar è chiuso per ferie e allora ho preso il caffè nel bar accanto. Ho letto sullo
scontrino che si chiama bar Corallo. Forse ci sarà scritto anche sull’insegna ma non l’avevo
mai notato. Si chiamava bar Corallo anche quello di una frazioncina di Vercelli dove
andavamo a bere da ragazzi. Non c’è più da molti anni quel bar. A bere lì, intorno al 1970,
eravamo sovente l’amico Vispo, che è morto un anno e mezzo fa proprio di troppo bere,
l’amico Denis, che si è perso per meandri psichiatrici, l’amico Livio, il più sano di tutti, che
aggiusta le mietitrebbie, e io, che poi sono diventato astemio in tempo utile. A volte giocavamo a biliardo, stecca
all’italiana, cinque pirolini, ma con le buche, come si usava allora. Non fu mai chiarito se il pirolino centrale, quello
rosso, buttato giù da solo valesse otto punti, come il filotto, o cinque. Buttato giù con altri ne valeva quattro, su
questo non ci pioveva. A proposito, sta piovendo su Torino oggi. «Il pleure dans mon coeur comme il pleut sur la
ville. Quanto ha ragione Verlaine! Anche se ogni stagione è buona per piangere», cita e scrive Chiara a pagina 40 del
suo libro. Mi piacerebbe offrirle stagioni buone per ridere, ma pare che non tocchi a me farlo - pure, credo che ne
sarei capace - presuntuoso, certo.
Il bar Corallo, oltre gli amici dispersi, mi ha fatto venire in mente Rosa, che abitava lì a due passi. Una delle ragazze
che ho corteggiato invano nella mia adolescenza. Scrivevo per lei ingenue poesie. Non mi ha mai cagato neppure di
striscio. Rifiuto su tutta la linea. La mia principale attività fra i 15 e i 21 anni è stata quella di ricevitore di rifiuti
(praticamente, un cassonetto). Poi ci sono stati periodi migliori, per fortuna.
I rifiuti erano formulati nei modi più svariati, bruschi o gentili, ma l’effetto era lo stesso. Me ne viene in mente uno,
quello di Rita, sarà stato il 1971, che alle mie timide profferte ribatté un «per carità, parliamo d’altro». Sì, me li
ricordo tutti a memoria, certo che me li ricordo, è logico.
Giusto stamattina, 36 anni dopo, da una ragazza a cui timidamente riprofferivo l’amor mio sincero mi sono beccato
uno «spero non ricomincerai con il solito discorso». Che assomiglia molto al «per carità, parliamo d’altro».
Ah, mi sono sentito come a vent’anni! Cioè malissimo. Un po’ il timore che invecchiando la percentuale di rifiuti
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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torni ad avvicinarsi a quella dei vent’anni ce l’ho. Dovrei mettere la testa a posto, stare con una donna, una sola e
basta, forse – la cosa che non mi è mai riuscita. Bah! Se non mi riesce non mi riesce. Anche se quella di stamattina
magari la sposerei, perché poi le cose folli vanno fatte e rifatte (se no che vita è?), ma certo se lei mi dice «spero non
ricomincerai con il solito discorso», ho idea che questo matrimonio non s’ha da fare, né domani né mai.
Ora non voglio lamentarmi. Qualcuna a cui piace fare l’amore con me c’è, e lo si fa, e sono stato ben più fortunato
dei due amici del bar Corallo, uno morto e l’altro impazzito. Il terzo, quello delle mietitrebbie, invece magari è
contento, ma è da un po’ che non lo sento. Livio, se leggi questo blog, fatti vivo. La stagione del taglio del riso non è
ancora cominciata, qualche momento libero dovresti averlo.
Ma sì, va abbastanza bene. È solo che io vorrei tutto, naturalmente, e non ho il senso del tempo. Rosa adesso sarà una
signora cinquantenne, ma io la vedo sempre come in questa poesia, che trovate a pagina 148 del solito libro:
AI CAPPUCCINI NEL 1972
Che sole giallo! L’orecchino brilla
nell’aria d’oro. Rosa è in paradiso
seduta sul gradino. Che favilla
d’argento è il suo sorriso
di bimba buona! Il tramonto odoroso
di legno e foglie
chiude tutto in un cerchio prezioso.
Devo solo ricordarmi che, anche se Antonella dice che ne dimostro al massimo 42 (chissà perché poi proprio 42 e
non 41 o 43) e so che è sincera (se ne dimostrassi 65 me lo direbbe senza alcuna pietà, con il suo meraviglioso
trasparente disarmante candore), di anni ne ho 54. Questo cacchio di dettaglio a me non viene mai in mente, quando
ci provo con una ventenne, a me sembra di essere come lei, proprio non mi ricordo, non mi accorgo, mi sembra tutto
così normale. Però il bar Corallo di quella frazioncina di Vercelli è chiuso da tanti, tanti anni, al suo posto dev’esserci
un’agenzia immobiliare o qualcosa del genere. E questo è un fatto. Però... Però succede ancora tante volte che il
tramonto odoroso di legno e foglie chiude tutto in un cerchio prezioso. E in quel cerchio mi sento sempre uguale, con
la stessa voglia di baci.
Ma va bene. Stasera probabilmente avrò baci, e baci buoni. E non sposerò quella che stamattina mi ha detto «spero
non ricomincerai con il solito discorso». Tutto non si può. Forse.
Ed è subito sera
martedì 7 agosto 2007, 16.15.38 | molinaro
È in treno, sta venendo a Torino da me. Arriverà fra meno di tre ore. Volevo mettere la casa un po’ a posto e non l’ho
fatto. Ho perso tempo a pensare a mille cose. Anche a lei, sì. Forse faremo l’amore, è abbastanza probabile ma non
certo, perché l’amore non è mai certo. Ho pensato a lei e ad altre 999 cose. Stamattina ho dialogato con quella che mi
ha detto lo «spero non ricomincerai con il solito discorso» di cui al messaggio precedente. Poi ho pensato che oggi è
il compleanno di D., una delle ragazze che ho amato di più, e il suo compleanno è curioso, perché lei è nata
esattamente mentre io facevo l’amore per la prima volta: è nata quel giorno di quell’anno. Ho pensato che domani
operano C. di una cosa non benigna, ma speriamo guaribile guaribilissima. Ora telefono a C. che è agitata – è
naturale. Poi mi faccio una doccia e mi concentro sulla splendida donna che è in treno e sta arrivando da me. Devo
anche cambiare le lenzuola, non ricordo da quanto tempo non le cambio. Ho mandato ad A. un pacco con un albero
fatto di fil di ferro, ho prenotato la cena stasera al Pastis, telefono anche a mia figlia adesso, e poi... Poi ho un sacco
di lavoro. Io non capirò mai quelli che se non hanno lavoro si annoiano. Ci sono milioni e milioni di altre cose
importantissime da fare ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, e si perde beatamente un sacco di tempo, ed è subito sera
come dice Quasimodo che comunque non è poi quel grande poeta.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Incrociamo le dita
mercoledì 8 agosto 2007, 11.07.36 | molinaro
Per una mia grande amica che oggi è sotto i ferri del chirurgo, per una cosa non proprio benigna. Forza.
Andrà tutto bene. Sei fortissima e bellissima. Ti voglio bene. Guarirai perfettamente.
Foto libre (libre da privacy?)
mercoledì 8 agosto 2007, 18.41.19 | molinaro
Tolta la tetta di D. dal messaggio n. 59 (anche se non è detto che a D. spiacesse!).
A S. invece avevo chiesto espressamente se potevo usare foto come questa qui
del messaggio n. 61 per pubblicizzare il mio romanzo (è quello che nella foto lei sta
leggendo, distesa sul mio letto), e lei mi aveva detto di sì, e infatti avevo mandato in
giro mail pubblicitarie con foto di lei leggente, così. Quindi ecco un esempio di foto
che non dovrebbe violare la privacy. A ogni buon conto, per maggior sicurezza, ne
prendo una dove il suo viso è dietro il libro. A proposito, il libro «Io sto come mi pare» è esaurito (è andato
bene...) ma forse lo ristamperanno.
La felicità
mercoledì 8 agosto 2007, 19.43.34 | molinaro
Non è inedita, è dal libro, ma oggi ho voglia di proporla qui, in questo giorno
piovoso d'agosto a Torino. La felicità, così come il suo opposto, è un tema che vale
in qualsiasi giorno.
LA FELICITÀ
a Erica Pampararo
La felicità è una merce rara e deperibile
va consumata fresca
non contiene coloranti né conservanti
non si può surgelare né inscatolare
arriva su strani banchetti
i banchetti di felicità
lontani dai soliti mercati
non arriva frequentemente
non si sa quando arriva
e se arriva non viene venduta
perché non ha prezzo ma
la prende il primo che passa
e se nessuno la prende
non va in magazzino
non si ritrova nei saldi
resta persa sprecata gettata via
neppure riciclabile
proprio sprecata buttata via e anzi
i residui non consumati
sono inquinanti
possono danneggiare l’ambiente
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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perciò se vedi un banchetto di felicità
affretta il passo e prendila
non disperderla
consumala tutta presto fino all’ultima briciola.
(da La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006, pag. 543)
Cardi e soffioni
giovedì 9 agosto 2007, 9.53.43 | molinaro
Una poesia scritta al volo stamattina.
CARDI E SOFFIONI
a Clara Vajthò
Nel prato ci sono cardi e soffioni, hai visto.
I cardi sono più aspri e meno amabili.
I soffioni sono più morbidi e invitanti,
ma ogni colpo di vento ne porta via un pezzo.
Considerato peraltro che anche i cardi
a fine stagione marciscono,
scelgo i soffioni. Anzi no:
scelgo un po’ tutto. Prendo tutto. Tutto. E tu?
Profili
giovedì 9 agosto 2007, 10.39.00 | molinaro
Guardavo un po' di questi profili che ci sono negli "spazi" di Libero.it, e notavo che
nelle "tre cose odiate" molto spesso compaiono la falsità e l'ipocrisia. C'è un sacco
di gente che odia la falsità e l'ipocrisia. Certo, anch'io le odio. Ma mi sorge
spontanea una domanda. Se così tanta gente odia la falsità e l'ipocrisia, come mai
al mondo ce n'è una valanga? Non sarà che anche a noi che diciamo di odiarle,
ogni tanto un pizzico di falsità e di ipocrisia fa comodo? E quello che a noi sembra
un pizzico a un altro sembra una trave, e viceversa? Non è una provocazione, è una domanda che pongo
a me stesso, e ci penso su. A volte anche la limpidezza è qualcosa che si recita. C'è tanta strada da fare.
Buona giornata!
Poesia recuperata
giovedì 9 agosto 2007, 23.40.27 | molinaro
Questa poesia avrebbe fatto comodamente in tempo a entrare nel librone uscito lo scorso
novembre. Ma la scartai. A dire il vero non la trascrissi neanche sul computer. Fino a pochi
minuti fa era scarabocchiata su un foglietto e basta, con il suo luogo e la sua data, Pesaro 18
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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luglio 2006. Probabilmente non mi era parsa riuscita, forse mi era sembrata ambigua. Anche
adesso, rileggendola, non riesco a capire se è ironica o no (a conferma che gli autori non necessariamente sanno
quello che scrivono). Ho sempre un po’ di paura a recuperare una poesia che avevo scartato, perché penso che se
l’avevo scartata ci doveva essere un motivo, forse pensavo proprio che era brutta e avevo ragione, e mi sbaglio
adesso a recuperarla. Eppure ritrovandola ora, a più di un anno di distanza, mi sembra che un suo senso ce l’abbia. E
allora eccola qui. Bella o brutta che sia.
LA FEDELTÀ DELLA PANCHINA
Questa panchina di via Collenuccio
mi è molto più fedele di casa mia.
Casa mia mi è fedele fino a un certo punto.
Può lasciarmi, se non pago l’affitto.
Può diventare lercia, se non faccio le pulizie.
Mi pone un sacco di condizioni,
quasi quasi mi ricatta.
Questa panchina no. È mia
quando mi ci siedo.
Non devo né pagare affitto né fare pulizie:
è mia per sempre senza condizioni.
(Salvo che il comune di Pesaro decida
di toglierla, ma ciò starebbe fra gli eventi
imponderabili, come i terremoti.)
Questa panchina di via Collenuccio
mi è fedele in modo perfetto.
Mia per sempre, finché vivrò e saprò camminare.
Questa è la fedeltà senza difetto.
POESIA SCRITTA DIRETTAMENTE SUL BLOG
venerdì 10 agosto 2007, 16.01.06 | molinaro
Ecco, voglio fare una specie di poesia direttamente sul blog. Da
adesso a fra un’ora al massimo, perché poi devo partire per Mallare.
Una poesia «de l’art», nel senso della commedia. Improvvisata. Senza
pretese. Senza neanche la pretesa di essere una poesia. Ma scritta
così, di getto, direttamente sul blog. Ecco, adesso la comincio.
POESIA SCRITTA DIRETTAMENTE SUL BLOG
Il pomeriggio del dieci agosto giorno pascoliano
in cui stanotte forse vedremo cadere le stelle
(me nessuna stella cadrà nella mia rete)
(no, l’idea di rete non mi piace, diciamo che
nessuna stella cadrà accanto a me)
sono qui nella mia casa a Torino
ho in bocca ancora il sapore di una donna bionda
che dopo l’amore mi ha scritto una poesia
una poesia bella, l’ha scritta lei per me,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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per una volta s’è invertito il ruolo consueto,
e io con lei ho scritto cose sulle panchine
per la prima volta in vita mia, ho scoperto
che il pennarello bianco da panchine
si chiama uniposca, poi ho comprato delle scarpe
con un tipo di laccio che non avevo mai visto
e lei invece non aveva mai mangiato
la farinata di ceci fatta nella teglia,
e dunque ogni giorno nella vita
c’è qualcosa di nuovo, ma adesso
parto per andare a una festa sui monti liguri
in campeggio, e ci vado soprattutto per vedere
una che non è che mi voglia poi tanto vedere,
e che non mi concederà di conoscere
il suo sapore e tantomeno scriverà poesie per me.
Non è che la cosa mi sembri ingiusta, è così,
è come è. La donna con cui ho fatto
l’amore ieri, oltre al sapore e alla poesia,
mi ha lasciato cinque cassette, forse sei,
dovrei alzarmi e andare a vedere,
sono di là sparpagliate sul letto, me le ha date
perché Cesare mi ha regalato per la mia Panda
una vecchia autoradio presa da una sua
vecchia auto, che non mangia i CD ma le cassette,
e allora mi va di avere cassette, e fra quelle
che mi ha lasciato lei ieri ce n’è una di De Andrè
che si intitola Mi innamoravo di tutto,
ecco, appunto, ci siamo capiti.
E c’è anche Anime salve cassetta originale,
dico cassetta originale non copiata,
secondo me è una rarità, è un oggetto
molto prezioso e molto particolare.
La donna con cui ho fatto l’amore ieri
e quella con cui non lo farò stasera
hanno quasi lo stesso nome, due varianti
dello stesso nome, la donna con più anni
ha la versione più arcaica-latina,
la più giovane la versione più italo-moderna,
ma poteva anche essere il contrario
perché alla fine i nomi girano come girano.
Arsenio mica ci verrebbe a una festa in campeggio
perché ha mal di schiena, io ci vado
anche se sono ben più vecchio,
per vedere quella che non mi vuole poi tanto,
e poi per vedere gli altri amici, davvero,
anche per questo, non è che lo scrivo
per divagare o per dare un contentino,
insomma. Dopo le piogge di ieri
è venuto fuori un sole limpidissimo,
se resta così ed è così anche in Val Bormida
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Carlo Molinaro
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le stelle cadenti mi sa che si possono
vedere davvero, io però alla storia
del desiderio non è che ci credo molto,
ne ho viste cadere non molte ma cinque o sei sì
e un paio di volte ho fatto in tempo a esprimere
il desiderio ma col cazzo che s’è avverato.
Poi il desiderio di stasera sarebbe fin troppo
evidente, e peraltro c’è da dire che è uno
dei due desideri che neanche i geni delle lampade
degli aladini possono realizzare (l’ho imparato
in un film di Walt Disney), pare che i geni
lampadicoli non possano fare le seguenti
due cose: resuscitare un morto o far innamorare
qualcuno. La prima andrebbe contro l’ordine
dell’universo, che anche i geni devono
rispettare, e la seconda sarebbe contro
il libero arbitrio, e posso anche capirlo, mettiamo
che una vecchia orrenda racchia trovasse
una lampada-di-aladino, magari dal rigattiere,
e saltasse fuori il genio e quella esprimesse
il desiderio che io mi innamori di lei,
voglio dire, potrebbero girarmi le palle, no?
Quindi far innamorare non lo può proprio nessuno,
o succede o non succede. Io sì dicevo
m’innamoro un po’ di tutto, ma non di tutto
nella stessa misura, comunque insomma
vada come vada, oggi sembra davvero
una bella giornata. Sì, ragazzi, è il dieci agosto,
un giorno che fa pensare alle svariate estati
passate, io per la cronaca ho fatto l’amore
per la prima volta il 7 agosto 1972,
avevo diciannove anni appena compiuti,
non precocissimo, non lo sono stato in nulla,
tranne forse in una sorta di malinconia
per la quale dicevano, quando avevo dieci anni,
che ero un «bambino vecchio» (gentili!),
in paga ora diventerò un «vecchio bambino»
così chiuderò il cerchio, o forse è come
dice mia madre, che io non sono mai cambiato,
mai in tutta la mia esistenza,
dice che a sette anni avevo la maturità
di un quindicenne – e adesso anche.
In realtà non è proprio così, certe cose
sono anche cambiate. Oggi ho pranzato
con mio figlio (il secondo) che è tornato
dal campeggio in Spagna, a proposito,
per stasera io non ce l’ho mica la tenda,
ma mi arrangio, c’è posto in una tenda
di Cesare, poi ci sarebbe posto anche in quella
dove dorme da sola chi-so-io ma lì temo
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che non dormirò, neanche se le prometto
che si dorme bravini bravini da fratellini.
È arrivato adesso un sms di Franco,
uno di quei suoi sms un po’ pazzi dove dice
che il mondo sta finendo, o parla del pelo
di Paola, ma finché c’è il pelo di Paola
forse il mondo non finisce. Forse.
Mah, insomma, sarà meglio che io concluda
e che mi faccia una doccia. Va ben che nel viaggio
in macchina, con questo sole, suderò
di nuovo come una capra (sudano le capre?)
ma una doccia prima di partire la faccio,
capitasse davvero di dormire con qualcuna,
benché sia un’eventualità del tutto improbabile.
No, non è che mi lavo solo per le donne,
però diciamo è un incentivo, ecco.
Intanto non sono riuscito a sentire l’altra amica
che hanno operato ieri, no ormai l’altro ieri
(il tempo, il tempo!), è andata bene pare,
ma è un male insidioso, guarirà ma non è
una cosa da niente, proverò a richiamarla,
magari non può rispondere perché ha intorno
quei rompiballe dei suoi genitori
che credono che io sia il suo amante,
vecchio amante corruttore, ma si sbagliano
(magari avrei preferito che non si sbagliassero,
ma invece si sbagliano, siamo diventati
amicissimi e basta, anche se ci vediamo
spessissimo, anche se a volte dormiamo insieme,
capisco che è difficile crederci, certo,
ma è proprio così), insomma basta,
speriamo che tutto vada bene per tutti,
noi speriamo che ce la caviamo come diceva
un best seller di anni fa ormai obliato
(giustamente), mi faccio la doccia,
e anche la barba, mi vesto e vado a Mallare.
Ho scritto per circa quaranta minuti
e non ho nessuna intenzione di rileggere.
Non è questione di fare della spontaneità,
la spontaneità può essere anche nelle poesie
molto elaborate, non è quello, è che oggi
mi andava di fare così, adesso, qui.
Un paio di poesie anche in questa domenica preferragostana
domenica 12 agosto 2007, 14.03.31 | molinaro
Un paio di poesie scritte in questa mattina di domenica d’agosto. Fra un lavoro e l’altro,
perché in questi giorni devo lavorare molto, anche se è domenica, anche se è d’agosto. C’est
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la vie! Guadagnassi almeno bene – invece non guadagno granché. Sui giornali è tutto pieno
di discorsi su cose di soldi che sembrano importanti per il mondo, ma io non ci capisco un accidente, e neppure
m’importa, non ho idea di che cosa siano un bond, un prime rate o un subprime (quest’ultimo è nuovo, lo trovo per la
prima volta sul giornale di oggi – la prima volta per me, s’intende), e lo spread per me è soltanto una parola che sui
siti porno statunitensi indica quando le modelle hanno le gambe disunite. Che può essere un bel vedere.
GIOCARE CON LE PAROLE
Giocare con le parole, giocare con la realtà.
La realtà non è accondiscendente, fa a modo suo,
scompiglia sempre ogni tattica. Le parole
sembrano più docili, più disponibili, però
neppure loro si piegano al tuo gioco:
spesso si rivoltano, s’impennano,
dicono di meno o di più o d’altro e non puoi
dominarle, ti devi adattare. Sono loro
che giocano con te. Sei tu il principiante,
quello che perde sempre. Puoi tentare
di perdere un po’ meglio, d’impegnarti
fino all’ultima mossa. Di perfezionarti,
capire qual è la loro strategia, costringerle
a svelarti qualcosa – qualcosa di te.
CRONACA D’UNA FESTA IN MONTAGNA LA NOTTE DI SAN LORENZO
Ho avuto freddo da solo nella tenda
dopo la festa alla Colla di San Giacomo,
796 metri sul livello del mare,
accampati nel prato, ma potevo
prevederlo, dovevo portarmi
qualche coperta in più, era chiara
la prospettiva: di notte fa freddo
anche il dieci d’agosto. Da lì
si vede il mare in lontananza, con le navi,
Finale Ligure e un cielo stellato
profondo, come fossero più strati
di stelle a varie distanze, le sfere
del paradiso di Dante.
Noi di sotto
abbiamo cantato e suonato (anche
mangiato e bevuto, certo) alla luce
d’un fuoco di legna e di poche candele:
il rito che da secoli propizia
il miracolo della comunione.
Ci siamo divertiti (per usare
più semplici parole) ed è bastato
un aggancio, una strofa conosciuta
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a memoria per essere più amici,
per ridere e giocare. Chi poteva
ha poi fatto l’amore, ma d’amore
ce n’è per tutti dappertutto in queste
notti magiche ancora, intatte notti
quando il tempo dà un turno di riposo
al suo eterno mestiere.
La mattina
(complici il freddo e la mia imprevidenza)
mi sono alzato assai prima degli altri
e sono sceso a piedi giù in paese
a comprare un giornale e la focaccia
per tutti, e l’ho portata su e s’è fatta
colazione e ci si è lavato il viso
nella fontana fresca. Poi ciascuno
è tornato pian piano alla sua vita.
Ebbene sì, altre quattro
lunedì 13 agosto 2007, 1.06.21 | molinaro
Lo so che rischio l’overdose, ma non è un flusso che si possa regolare.
Poi magari sto un sacco di giorni senza scriverne. Ma oggi ne ho scritte
altre quattro. È vero che potrei non metterle qui. Ma mi piace metterle
qui. Troppo male in fondo non faranno. Ho fatto una passeggiata al
Valentino, era pieno al novanta per cento di stranieri, si vede che i
torinesi o sono andati in ferie o sono chiusi in casa o frequentano altre
zone del capoluogo subalpino. La città m’è sembrata quieta e un poco imbambolata. Poi nella
sera s’è fatta più dolce. E queste sono le quattro poesie.
PICCOLE ONDE
Il Po è increspato di piccole onde
che assomigliano a certi intonaci smaltati
che non usano più. Il Po è verde carciofo
qui a Torino fra la sponda del Valentino
e l’altra sponda sotto la collina.
Le piccole onde è il vento che le fa
e fa sbattere la finestra dell’Imbarchino
e non ci sono altre onde perché
anche i canottieri sono andati in vacanza,
c’è solo qualche kayak sotto riva.
Fra la pergola e l’acqua alcune rose
hanno già il frutto che dalle mie parti
chiamano gratacǜl, altre sono ancora in fiore:
qui non stanno a potarle. È Ferragosto.
Una ragazza discute sui colori
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dei fenicotteri; l’ultimo sole dà ai mattoni
quel colore che hanno solo i mattoni di sera
con l’ultimo sole. Un ragazzo gesticola.
Il cielo viaggia su toni discreti:
tramonta piano piano con un bianco
che non è proprio bianco ed un azzurro
che non è proprio azzurro. Questa
tranquillità mi traversa e m’abbraccia
in un panico quieto, sorridente.
Il vento svolta e rovescia un bicchiere
di plastica che rotola sul tavolo.
PICCOLA FILASTROCCA PER CLAUDIA
Claudia bambina che litiga a scuola,
Claudia che le compagne la lasciano sola.
Claudia così strana da diventar qualunque,
Claudia che non si arriva mai al dunque.
Claudia che disegna facciate di chiese,
Claudia lo stesso disegno per un mese.
Claudia che nello specchio vede niente,
Claudia che il suo profumo non lo sente.
Claudia che studia economia in facoltà,
Claudia architettura il lavoro non lo dà.
Claudia che intona barattoli a tovaglie,
Claudia combina mutandine e maglie.
Claudia che ride e nessuno la vede,
Claudia che piange e nessuno ci crede.
Claudia accende passione e desiderio,
Claudia nessuno la prende sul serio.
Claudia che sposa l’estate con l’inverno,
Claudia la storia una riga di quaderno.
Claudia che tutti han qualcosa da dire,
Claudia non c’è chi s’impegni a capire.
Claudia ci fosse uno che rinuncia a qualcosa!
Claudia licenziata con tre versi e una rosa.
Claudia innalzata, esaltata, travisata,
Claudia imprigionata. Claudia non amata.
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Claudia l’iperbole, il sole, la stella,
Claudia non vedono che è appena bella.
Claudia che è mia figlia e mia sorella.
Claudia tante cose da scoprire e da inventare.
Claudia ora basta con questo incasinare.
Claudia non c’è troppo tempo da sprecare.
Claudia tu e io ci daremo da fare.
LINGUE
Due romenelle alla fermata aspettano
un autobus sbagliato. Dico loro:
Duminica nu trece cinzeci doi
aici. Trebuie să luaţi şaizeci patru! (*)
Mi guardano stupite e diffidenti.
Conosco lingue che forse non dovrei;
non ne conosco che forse dovrei.
[(*) La domenica qui non passa il cinquantadue, dovete prendere il sessantaquattro.]
FIORI BLU E SPACCHETTI
La piccola cameriera del ristorante cinese
di via Gioia quasi angolo corso Vittorio
ha un semplice vestitino corto a fiori blu
con gli spacchetti ai fianchi, semplici anche loro,
con gli spacchetti ai fianchi che le arrivano
ben sopra la retta immaginaria che prolunga
la base del triangolo rovesciato a punta in giù
che i poeti del Seicento chiamavano boschetto
o prato dell’amore, o qualcosa del genere.
Ha gambe bianche e sode, gambe semplici
come il vestito e come gli spacchetti;
è tutto semplice, sì, ma congegnato
bene per catturare un desiderio:
con il viso, le braccia e il portamento
mette una voglia davvero non da poco
di cingerla, cercare sotto i fiori
blu cosa c’è, portarla a far l’amore in una stanza
o al fiume. Non si può. Prendo un caffè.
Poesia per la vigilia di Ferragosto
martedì 14 agosto 2007, 6.59.57 | molinaro
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Vigilia di Ferragosto, città deserta (ma poi neanche tanto), tutti in ferie
(ma poi neanche tutti), e io per fare il bastian contrario ci metto una
poesia sul lavoro e sulla merce, scritta ieri in treno passando per Milano
(Milano è sempre la sede più giusta per scrivere di merce e di lavoro,
no?). Buon Ferragosto a chicchessia, comunque!
MERCE E LAVORO
Il lavoro è mercificato – si lamenta
qualche anima bella in sinistra apparente.
Il lavoro è mercificato? Non direi.
Alla merce si presta una certa attenzione.
Si cerca di venderla al prezzo più alto.
La merce è ben protetta. Sulla merce
si fanno studi amorevoli. Ci si cura
che la merce sia libera, senza frontiere.
La sua patria è il mondo intero! Della merce, dico.
La sua legge è la libertà! Della merce, dico.
I sacerdoti del tempio del mercato
(nessuno scaccia i mercanti dal tempio – in realtà
nessuno mai li ha scacciati – in realtà
sono loro, da sempre, a costruire i templi
– in realtà da sempre è un mercato il tempio)
officiano i riti dell’adorazione della merce,
recitando le nuove formule eucaristiche:
«È da merce che deriva la parola mercato.
In principio era la merce. La merce è il verbo.
La merce è il padre, il mercato è il figlio,
la multinazionale è lo spirito santo
che procede dalla merce e dal mercato:
con la merce e il mercato è glorificata».
La merce è grande e il mercato è il suo profeta.
Chiesa moschea e sinagoga sono
la stessa merce in tre distinte ipostasi,
sono la stessa sostanza della merce.
Nel contesto di questa nuova religione
(forse neppure così nuova, in fondo)
la moderna religione della merce e del mercato,
mercificare è sinonimo di santificare.
Il lavoro no, non è mercificato.
Il lavoro è merdificato – e così sia.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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La tenda a ore
martedì 14 agosto 2007, 11.05.33 | molinaro
Altra piccola poesia derivata da una buona idea osservata ieri in riva a un lago con
l’amica.
LA TENDA A ORE
Su una panchina in riva al lago, fra
bambini in bicicletta e pescatori
si fa quel che si può: la lingua in bocca,
la mano sotto il reggiseno, i corpi
abbracciati in diverse posizioni
più o meno scomode.
È bello qui
passare un pomeriggio dopo un viaggio
per incontrarci, raccontarci cose
e stare a lungo in silenzio a guardare
noi stessi e il mondo.
Però un’altra volta
ci procuriamo anche noi una tenda
piccola da campeggio, che si monta
in tre minuti, come abbiamo visto
che han fatto una ragazza e il suo ragazzo
a pochi metri da noi sotto gli alberi.
La tenda a ore, piantata e spiantata
nel tempo giusto d’un fare l’amore.
Sembra una buona idea. Però non ditelo
ai sindaci, se no poi quelli prendono
provvedimenti. I sindaci, oramai
persino quelli di sinistra, odiano
i vagabondi amanti sognatori:
odiano chi non lascia giù denaro,
odiano chi non si fa registrare
nelle strutture alberghiere. Malvagi
sindaci, che vi venga un accidente.
Sul lungolago o nel giardino, sulla
panchina o nel prato o nell’aiuola
fiorita o nella più spoglia piazzuola
o nel vicolo o dietro la stazione
delle corriere o nel sottopassaggio
ci baceremo sempre con la stessa
gioia. E voi dovreste ringraziarci:
una città senza baci sarebbe
un livido fantasma di città.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Sì, la prossima volta ci prendiamo
una piccola tenda e la mettiamo
in riva al lago per una o due ore:
e ci facciamo per bene l’amore.
Da un phone center di via del Campo
mercoledì 15 agosto 2007, 12.01.20 | molinaro
Sono a Genova di Ferragosto, Genova deserta, Genova dove tutto è chiuso. Quasi tutto. In via del Campo
c'è questo phone center aperto. Il gestore sembra indiano, così a occhio, o pachistano, o cingalese... da
quelle parti, insomma. Chissà perché sono entrato qui e mi sono messo al computer. Forse perché fuori
c'è un caldo un po' afoso. Ieri ho portato al mare mia madre, a Levante. Ora sono in viaggio verso
Ponente e dunque passo da Genova. Genova è sempre un posto che mi affascina. È come quelle donne
non bellissime ma che ti colpiscono per un non so che, e non smettono mai più di colpirti, e il non so che
rimane per sempre un non so che. Un amore che non passa. Come quasi tutti i veri amori.
Adesso poi mangio qualcosa e proseguo verso Ponente. Forse mi fermo a Varazze da un'amica che è in
vacanza lì e forse - ma è meno probabile - anche da un'altra amica che lavora lì e oggi è a una festa al
Nautilus. L'amica che è in vacanza lì mi ha spiegato che il Nautilus è un grande stabilimento balneare,
probabilmente di quelli con annessi e connessi. Vedrò. Forse. E di sera vado a Savona a sentire Cesare e
Mac che leggono poesie in una sorta di spettacolo alla Festa provinciale di Rifondazione Comunista, nel
quartiere di Zinola.
E poi nella notte torno a Torino che ho molto lavoro da fare. Genova deserta ferragostana. Cammino in
questi vicoli e penso ancora a Marì. Poi penso a Clara, poi penso a Romina. Poi penso a Malvina. Poi
penso a Claudia, a Chiara, a Elisa, a Federica. Forse ci vuol poco ad agganciare un mio pensiero. O forse
è così che ha da essere, è normale, l'umanità è una rete cerebrale, noi siamo i suoi neuroni e io ho molte
sinapsi. Penso alla festa della scorsa settimana alla Colla di San Giacomo. Ad Anita che dice che uso
parole desuete. È dolce anche Anita. Per essere un mondo che fa schifo, di cose dolci ne ha tante. Sarà
per quello che scrivo poche poesie politiche (anche se Cesare le preferisce) e scrivo tante poesie d'amore.
Ma in fondo cantare l'amore è un gesto politico. Il libero mercato, le multinazionali, lo sfruttamento, la
devastazione ambientale e la guerra sono frutto della pulsione di morte, come osserva giustamente il mio
amico Franco di Torino. Allora scrivere d'amore, dare spazio alla pulsione di vita, è anche una lotta
politica. E d'altronde lo dicevamo, nel 1968, che il personale è politico (e viceversa). Ora non lo si dice
più? Mi preoccupa il fatto che ci sia chi scinde la sua vita emotiva dalla sua vita sociolavorativa. Fare una
cosa del genere vuol dire o essere schizofrenici o dichiararsi schiavi. Io no, io mi emoziono sempre, e mi
innamoro di tutto.
Non sarò un grande lavoratore, non sarò un grande niente, ma mi sento un uomo. E adesso la pianto che
mi scade il tempo che ho noleggiato in questo phone center. Che è anch'esso un posto affascinante. Nella
Genova chiusa, è un posto aperto. Un ragazzo sta comprando un dvd, forse per un pomeriggio in casa
con gli amici, altri stanno telefonando forse in paesi lontani, un altro osserva un poster, io scrivo nel blog, e
siamo tutti qui insieme, con tutte le lingue diverse che parliamo, e con i nostri desideri, forse meno diversi
fra loro di quanto lo siano le lingue.
Buon Ferragosto!
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Favoreggiamento di strage
giovedì 16 agosto 2007, 12.02.34 | molinaro
Per un lavoro di rassegna stampa che faccio per avere il pur poco panem che non mi danno
certo i carmina, devo comprare spesso Il Sole 24 Ore, giornale economico e di cose varie
gestito, a quanto mi dicono, dalla Confindustria. Ho notato che spesso il suddetto quotidiano
pubblica intere pagine con la mappatura degli autovelox e, più in generale, dei controlli
della polizia stradale in giro per l’Italia. La stessa cosa fanno altri giornali, radio private, siti
internet, eccetera. Tutta una strategia per sfuggire ai controlli, insomma. Esistono anche
navigatori satellitari con l’indicazione degli autovelox, e pare che si stia diffondendo una vernice spray che, spruzzata
sulla targa, impedisce alle telecamere di leggerla – e più o meno tutti ne sono entusiasti e vorrebbero provarla (e
dicendo tutti non parlo di ragazzacci, ma di seri professionisti, lavoratori, padri di famiglia).
Io questa cosa non riesco a digerirla. M’indigna, mi scandalizza, non so che farci ma m’indigna. Già trovo abbastanza
assurdo che gli autovelox siano segnalati in loco. A Torino ce n’è uno, in un importante corso non lontano da casa
mia, che è annunciato da pannelli luminosi, cartelloni, segnaletica orizzontale, avvisi di ogni tipo. Il messaggio che
ne ricavo io è che lì, e soltanto lì, bisogna rispettare il limite di velocità. Un chilometro più avanti, passato il
«pericolo», puoi riprendere tranquillamente a guidare come un pazzo.
Pare che, in Italia, se l’autovelox non è segnalato l’automobilista pirata possa farsi annullare la multa invocando la
privacy o qualcosa del genere. Assolutamente ridicolo. E ho sentito buoni cittadini piemontesi lamentarsi perché i
vigili stavano dentro una zona pedonale a dare la multa a chi ci era abusivamente entrato: secondo loro, sarebbero
dovuti stare all’inizio della zona, a deviare il traffico. Vigili ridotti a segnali stradali, insomma. Perché i segnali
stradali sono ridotti a nulla: chi li guarda più? Tranne forse quelli che segnalano la presenza dell’autovelox...
In Italia la privacy è quella cosa che serve a evitare le multe e a non pagar le tasse (contro ogni controllo fiscale
invocano la privacy!). Nessuno vuole mai essere sanzionato se sbaglia. Nessuno vuole mai pagare niente. Le leggi
valgono solo per gli altri.
Io, se non fosse che non ho potere e sarei travolto e ucciso da una mandria di avvocati prezzolati, denuncerei Il Sole
24 Ore (e tutti gli altri giornali e radio e siti internet che fanno la stessa cosa) per apologia di reato e favoreggiamento
di strage. Ipocriti di merda, piangono sui ragazzi morti sulle strade e poi insegnano a evitare i controlli. Ipocriti di
merda.
Mondo cane. Che poi già mi girano le palle a dover comprare Il Sole 24 Ore, e lo si può ben capire leggendo il mio
Recitativo contro i treni rapidi, a pag. 453-455 de La parola rinvenuta, il libro che potreste anche farmi il favore di
comprare (vedi riquadro in alto a sinistra nel blog!). La poesia ve la metto qui sotto, evidenziando in colore la strofa
che spiega perché soffro a comprare Il Sole 24 Ore. Questo in fondo è un blog di poesie, il resto è accessorio. Baci, e
buon day after di Ferragosto.
RECITATIVO CONTRO I TRENI RAPIDI
I treni rapidi
hanno i finestrini che non si aprono
quindi non sono veri treni
ma capsule o supposte
come gli abominevoli aeroplani
e le automobili climatizzate.
I treni rapidi
hanno il supplemento rapido
a volte Intercity a volte Eurostar
e sono tutti soldi buttati,
un insulto a chi ha bisogno per mangiare.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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I treni rapidi
arrivano troppo rapidi
e questo toglie tutto il gusto
del quieto paesaggio, dell’odore di piscio
o rosmarino delle stazioncine.
I treni rapidi
sono come mangiare al fast food,
sono una sveltina con una puttana
frettolosa e costosa,
sono la macchina fotografica
di un turista giapponese.
I treni rapidi
a volte poi non sono in perfetto orario
e intralciano il traffico
facendo ritardare i diretti
e i regionali che devono attendere
che sfrecci la loro prepotenza:
è sopruso di classe.
I treni rapidi
hanno dentro una cattiva compagnia,
gente che legge stampa di destra
o peggio ancora stampa finanziaria
e dà ordini e appuntamenti col cellulare
allargandosi come una piovra.
I treni rapidi
sono una sventura ambientale,
sono correre troppo che fa male,
sono perdere tutte le occasioni
passando oltre da veri coglioni.
I treni rapidi sono una trappola!
Questo mondo è pieno di trappole!
E tutta la gente ci cade peggio dei topi!
Come fanno a non vedere
i finestrini bloccati?
I finestrini piombati vuol dire
che il treno è per Auschwitz!
È talmente evidente! Idioti!
I treni rapidi
sono celle frigorifere d’obitorio,
sono la follia che separa la via
dal suo contorno, sono la non andata
e il non ritorno e non vedere
né l’inizio né la fine del giorno.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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I treni rapidi
sono la perdita del senso del viaggio
dunque del senso del tempo della vita,
sono una cosa che prima di cominciare
è già finita.
Basterebbe non prenderli.
Ma ho visto ahimè in una stazione
un treno regionale coi finestrini ermetici,
un treno regionale a due piani,
truccato da rapido sigillato
con l’aria condizionata che spacca le ossa.
Un treno regionale moderno
perché nessuno, per povero che sia,
riesca mai più a fuggire dall’inferno.
Uno spettacolo andato non benissimo
giovedì 16 agosto 2007, 15.21.03 | molinaro
Ieri a Savona c’è stato, alla festa di Rifondazione Comunista, uno spettacolo di musica e
poesia. A leggere le loro poesie erano Cesare Oddera e Francesco «Mac» Vico,
accompagnati da un gruppo di musici fra cui l’ottimo Zibba. Si tratta di tre miei amici,
Cesare, Mac e Zibba, e quindi adesso avrò qualche difficoltà a «recensire» lo spettacolo.
Perché, ecco, non mi è piaciuto, non tantissimo.
Non è per le poesie, che in maggioranza già conoscevo, e delle quali alcune mi piacciono
molto, altre abbastanza e altre meno, come è naturale. Ma è lo spettacolo in sé che non è riuscito a imporsi. La scelta
di leggere in mutande e accappatoio non aveva alcun collegamento con le poesie lette né con le cose dette fra una
poesia e l’altra. Restava una trovata isolata, così, scoordinata, e aveva pure una sfumatura di «vorrei ma non posso»
rispetto all’eventuale leggere nudi (che, almeno in riferimento a uno dei soggetti, sarebbe stato assai più gradito a una
ragazza che avevo accanto e che me l’ha detto – eh no, non vi rivelerò mai chi è!).
La musica restava un sottofondo poco avvolgente e poco fruibile, quasi anonimo: non riusciva a farsi ricordare. Ma,
soprattutto, lo spettacolo finiva con l’essere costituito «soltanto» da una sequenza alternata di letture di poesie da
parte dei due autori, con poche parole di introduzione per ognuna, e con una musica sacrificata alle spalle. Non c’è
stato nessun episodio, diverso dalla lettura, a intercalare o a integrare. Anche il finale è stato costituito «solo» da una
lettura di un’altra poesia, sia pure a due voci, sia pure una poesia di Ernesto «Che» Guevara.
E la trovata di mettere sul palco anche un uomo in giacca e cravatta che per tutto il tempo è rimasto semplicemente
seduto a leggere un giornale, idea che di per sé poteva avere un senso, restava però come le mutande e l’accappatoio,
qualcosa di slegato, isolato.
Insomma, alla fine rimaneva un po’ un’impressione di cose a caso messe insieme con il fil di ferro, senza un progetto
efficace. E il pubblico, direi giustamente, è rimasto un po’ distaccato, freddo, con pochi applausi di cortesia, e un
paio di applausi veri solo alle poesie in sé più forti.
Mi rendo conto che non è una «recensione» positiva e spero di non mettere in crisi l’amicizia, adesso! Sono abituato
a essere sincero, lo sono stato anche sul lavoro di altri, ho recentemente vagliato con una certa severità modi e stili
pure di una ragazza che avrei voluto (e vorrei) in ogni modo «conquistare» (e questa è davvero la prova del fuoco per
un’onestà critica e intellettuale!). Credo che la vera amicizia non sia incrinata dalla sincerità, anzi. E ogni critica è
uno stimolo a far meglio. E d’altronde Cesare e Mac hanno non di rado liberamente criticato mie poesie, giustamente,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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e non per questo li ho mandati a quel paese. E dunque, così sia, sullo spettacolo di ieri a Savona ho detto la mia.
La serata ferragostana alla festa savonese di Rifondazione nel complesso è stata bella. Ci sono arrivato verso sera
dopo aver pranzato a Varazze con un’altra mia amica; il tempo era incerto e la pioggia è stata una continua minaccia
che però ha risparmiato cena e spettacolo (a parte una spruzzatina nel finale). Ho rivisto persone che non vedevo da
un po’, ho conosciuto un paio di ragazze nuove, ho chiacchierato e riso alla tavolata di amici, ho fumato il narghilè
con Fabio e con le suddette ragazze nuove, ho discusso di politica (embè, era la festa di Rifondazione Comunista:
non sia solo cotechino, come già si obiettava alle feste dell’Unità). E poi ho ripreso la mia ormai quasi solita
autostrada, che adesso chiamano la Verdemare, e me ne sono tornato a Torino a lavorare.
(Nella foto, Cesare e «Mac» – regolarmente vestiti! – in una lettura di poesie a Genova il 20
maggio 2006)
A.
venerdì 17 agosto 2007, 8.15.06 | molinaro
Oggi, 17 agosto, sono 14 anni da quando ho fatto l’amore la prima volta con A. (e
curiosamente ieri è stato un anno dalla prima volta con C. e dopodomani saranno 16 anni da
quando ho conosciuto M. e si vede che i giorni intorno a Ferragosto sono propizi a nuovi
amori; anche la prima volta assoluta mia fu un 7 agosto – da quella gli anni passati sono
35). La storia con A. è attualmente sospesa, distaccata – anche se abbiamo passato insieme
l’unica settimana di vacanza al mare di quest’anno, tra fine luglio e inizio agosto. È una
storia che a tutti può sembrare strana, la storia «libera», la storia che, senza bugie né nascondimenti, «coabita» con
altri amori. Ma non resta in ombra, non fa da sottofondo, non è una relazione di comodo, anzi ha la sua meravigliosa
importanza. Io (lo si sarà capito) non sono molto portato per l’amore esclusivo ed escludente, per l’amore unico. A
differenza di altri uomini, però, neppure lo pretendo: vedo l’amore germogliare bene in una certa libertà generale,
bilaterale (o multilaterale), spontanea. Il mio modo di trepidare in amore è bene riassunto da due versi di Guido
Catalano che già ho messo in epigrafe a una mia poesia qui imblogata nel messaggio n. 51 del 29 luglio scorso: non
voglio sapere dove vai / voglio sapere che torni. So che è difficile crederlo, ma è così. Non me ne faccio un
programma ideologico, potrei in qualsiasi momento incappare in un amore esclusivo e geloso, benché mi paia
improbabile; ci sono andato vicino un paio di volte, ma non era mai una promessa o un impegno, era un dato di fatto
(pensare a una sola donna spontaneamente), durato in entrambi i casi qualche mese. Quanto al matrimonio, fu una
storia a parte, forse un lungo malinteso (che pure ha dato i suoi frutti). Insomma, A. è stata la donna che per oltre un
decennio meglio si è armonizzata alla mia vita, e io alla sua. Ora, da poco più di un anno, c’è un distacco, un
allontanamento. Che curiosamente (?) si è verificato all’inizio del 2006, in un periodo in cui non avevo altre storie in
corso, prima del bacio a R. del 10 aprile 2006, e dopo un biennio 2004-2005 sostanzialmente monogamico (anche se
non per scelta determinata). Va bene, a parte tutte queste faccende, la sostanza è che oggi è l’anniversario di una
storia importante e lunga e adesso sospesa, distaccata – ci vediamo di tanto in tanto, passiamo qualche ora insieme,
amichevolmente, ma non si fa più l’amore, ci si fa solo un po’ di compagnia, e abbastanza di rado. Le darò un colpo
di telefono, ma forse non gradirà neppure il ricordo di questo quattordicesimo anniversario. E allora io lo ricordo qui,
con tre poesie fra le tante dedicate a lei (molte sono nel libro, altre inedite). Ne scelgo tre, dal libro, e le metto qui. E
poi mi metto al lavoro. Buona giornata.
CAMERA CON RIVERBERI
ad Antonella
«Non mi dispiace
di avere fatto
con te l’amore»
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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dice la piccola magra monella
con le tettine a goccia
bianche appena di un bianco di bichini
portato per un giorno o due di sole.
Pare uscita da un film di Truffaut,
da banlieue parigina:
mi guarda gli occhi
con la franchezza larga di chi sa
i tuoi stessi crocicchi, le panchine…
«Neanche a me dispiace» le rispondo.
Sembra un dialogo idiota
mentre l’ultima luce della sera
accenna i nostri corpi sul lenzuolo
stropicciato e sudato.
Invece, è la sua dichiarazione
a me – e a lei la mia – di rispetto
e d’amicizia: la complicità
seria dei bimbi che giocano insieme.
(Volendo, lo si può chiamare amore,
ma senza enfasi, come si chiama
un bicchiere bicchiere e un tetto tetto.)
ANTONELLA
È un quieto sabato mattina. Qualcuno
chiacchiera sotto la finestra aperta
nell’estate già presa.
Andrò a comprare un giornale fragrante
e passerò nelle strade che vivono
di voci, sguardi, passi, rumori…
È un quieto sabato mattina. Sarebbe
triste – forse angoscioso – se non fossi
tu qui con me a leggere il tuo libro.
GLI ESOTICI FRUTTI
Ho mangiato un platano fritto con lo zenzero
servito su un piatto dipinto a fiori azzurri
da Antonella, mentre fuori sul mare
infuria il vento nella notte nera.
Il frutto più pregiato è l’Antonella:
la fidanzata meno appariscente
che governa discreta il mio harem di passioni
e guarda entrare e uscire le fanciulle
che sempre curiosano e mai s’innamorano,
che vengono e vanno e si portano via
un souvenir di versi e mi lasciano in cambio
libri di nostalgia che Antonella riordina
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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con amore gentile agli scaffali:
poi qualche sera li leggiamo insieme
bevendo un caffè fatto nel pentolino
con la cannella e i chiodi di garofano.
Poesia per me
venerdì 17 agosto 2007, 8.37.14 | molinaro
Una mia amica ha scritto una poesia per me e me l’ha mandata
ieri sul telefonino: poesia via sms. Mi sembra molto bella. Ci ho
pensato su 24 ore prima di decidere di metterla qui – ho pensato
che forse doveva essere solo per me – o forse no, è una poesia, la
poesia è sempre per tutti coloro che sanno leggerla – chissà – poi
a decidermi è stato un verso della poesia stessa, quello delle
ghirlande da appendere fuori – allora appendo qui, qui fuori, la poesia, la poesia di
una poetessa brava che mi ama. Sapete, io scrivo tanto, forse troppo, ma è raro per
me essere oggetto di una poesia, essere io il muso (nel senso del maschile della
musa) ispiratore. Ed è bello esserlo, ogni tanto.
PER TE
Vorrei offrirti un ballo di ragazza
che volteggiando in tondo su se stessa
ti porti in dono un po’ di giovinezza
che tu possa intrecciare coi tuoi versi
e far ghirlande da appendere fuori
che la gente che passa può vedere
mentre alza la testa un po’ per caso
e sapere che è questo che sai fare
sai afferrare le frange del tempo
e trasformare l’amore in amore.
C.
Son troppi i colori del mondo
sabato 18 agosto 2007, 19.54.22 | molinaro
A Torino, dopo una mattinata con un’amica e un pomeriggio di lavoro,
qui da solo nella casa verso sera, con un senso di deserto e di viaggio, di
mancanza e d’attrazione, ho fatto quello che faccio di solito, ho scritto
una poesia, ed è questa.
SON TROPPI I COLORI DEL MONDO
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Intorno al fuoco di fine maggio
cantammo insieme una dolce preghiera:
son troppi i colori del mondo,
non li puoi chiudere in una bandiera.
Mercanti di liquore, Santa Sara
Ebbene così sia. Non ho una chiara
geografia, non radici, non borghi
natii selvaggi, non itache né
zacinti – no: ho strade, strade, strade
e nostalgie di strade, ho l’andatura
quasi impaziente di chi sta partendo.
E tuttavia ho nello zaino case,
ho le impronte e i dettagli delle case:
la mossa degli scuri nelle ore,
il combaciare dei suoni, l’odore.
E tuttavia mi posso ancora perdere
nel sogno strano d’abitare qui
dove stai tu – d’abitarci davvero,
in questa striscia fra la strada e il bosco
sospeso sulla valle – quasi fosse
una cosa possibile o normale.
No. Riparto. Come sempre riparto.
Porto con me lo strepito del treno
inaspettato sul binario che
sembrava morto, sotto il tuo cortile.
Porto le gocce d’azzurro degli occhi,
il gioco della ghiaia, il sentimento
dell’erba, della blusa, il retrogusto
della brace e del pesce. Lascio te
al tuo signore, a chi saprà difendere
la tua camera, l’orto, la cucina.
Non c'è più un buon posto dove andare
domenica 19 agosto 2007, 14.12.56 | molinaro
Ultimamente leggere i giornali mi mette di cattivo umore, ed è successo anche oggi. Un po’
per le notizie, un po’ per il modo in cui vengono date. I giornali sono diventati, quasi tutti,
un vero tormento. E un vero tormento è il mondo «sociopolitico», con la sua regressione
liberticida. Non c’è più un buon posto dove andare! Così oggi dopo averli letti, i giornali, ho
scritto questa non poesia. Buona domenica.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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NOTIZIE DI OGGI
Notizie di oggi: l’islam rompe le palle anche in Malesia,
ad Albenga multano le puttane perché in abiti succinti,
a Torino chi accusa i preti pedofili resta senza avvocati.
Ora: io ho una lista di paesi teocratici e/o forcaioli e/o dittatoriali
e/o bigotti dove evito di viaggiare (per fare alcuni esempi,
il Texas, l’Iran, l’Irlanda, l’Egitto, il Vaticano, la Tunisia,
la California, la Russia, la Cina, la Nigeria, l’Arabia e così via)
e credo che la Malesia fosse già compresa per altri motivi
(pena di morte in vigore), però che palle davvero questo rigurgito
d’oscura religione che sopprime libertà e ragione.
Ora io dico, posso inserire anche Albenga fra i luoghi da evitare
(per la festa di Erli posso passare da dietro, da Ormea)
ma con Torino come faccio, che ci abito? [Quanto sia difficile
mettersi contro i preti l’ho già sperimentato di persona,
del resto, e con molto dolore.] Mi sa che dovrò lasciar perdere
la lista nera, viaggiare un po’ dove càpita: al massimo, uscendo
da certi postacci, mi scuoterò via la loro polvere dai piedi
(per chiudere, guarda te, con una citazione evangelica, Matteo 10, 14,
che già aveva in sé tutto un germe d’intolleranza ab ovo).
Le porte dei cessi
lunedì 20 agosto 2007, 23.51.13 | molinaro
Oggi sono andato a Milano per un lavoro, e sul treno Torino-Milano ho scritto due poesie.
Una risposta preventiva a una domanda che molti si faranno sulla prima: no, non sono
rimasto chiuso nel cesso del treno. Quella sulle porte dei cessi è una meditazione che porto
avanti da molti decenni, e che finalmente, oggi, fra Novara e Magenta, ha trovato modo di
esprimersi in versi. Buone cose a tutti voi.
LE PORTE DEI CESSI E ALTRE COSE COSÌ (TROVAR CLUS)
Le chiusure migliori per le porte dei cessi
sono quelle esterne al corpo della porta,
quelle visibili e maneggiabili nella loro interezza.
Per intenderci: un gancetto o qualcosa del genere,
per esempio un ferretto che ruotando di 180 gradi
va a inserirsi dietro un fermo, dal quale
si può facilmente rimuovere con le mani.
Le chiusure interne al corpo della porta, invece,
se si rompono sei fottuto, resti chiuso nel cesso.
Forse questo discorso è legato alla mia claustrofobia,
però mi sembra che sarebbe un vantaggio per chiunque
la certezza di non restare mai chiuso in un cesso;
e dunque non capisco perché non facciano
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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tutte le chiusure così, esterne all’uscio e maneggevoli.
L’umanità è stupida. Creare difficoltà
inutili e paure inutili è proprio stupido, eppure
lo fanno regolarmente, non capisco perché.
Lo fanno un po’ in tutti i campi dell’esistenza.
Per esempio il gioco di parlare per sottintesi,
di dire non dicendo, di lasciare all’intuito, discorrendo,
io lo odio perché non ci capisco mai un cazzo,
talvolta con gravi conseguenze per me e per gli altri,
e comunque con un senso d’ansietà persistente.
Si obietterà che sono io che sono scemo,
che non ho intuito, che non so leggere fra le sillabe,
insomma un’obiezione come quella della claustrofobia
per i cessi, già, ma anche qui direi che sarebbe utile
per tutti, e non danneggerebbe neppure i bravi intuitori,
se si parlasse chiaro, che comunque è più sicuro,
più garantito, più tranquillo, più leale e più semplice.
Quindi, rivolgendo il discorso all’intera umanità,
e all’Onu, a Human Rights Watch, ad Amnesty eccetera,
propongo solennemente che si mettano alle porte dei cessi
chiusure a vista, sempre maneggiabili, e che si dica
ciò che si pensa con dettagliata chiarezza.
Ma so che non mi ascolteranno, continuerò a trovare
nei cessi quelle inquietanti precarie chiavette
e nei discorsi la voglia di non farsi capire.
IN-CITAZIONE A GIOCO (DAMMI CINQUE VERSI)
C’è chi ne dubita, ma questa mia poesia
dichiara leali le ali di Chiara:
certifica che Chiara sa volare
– e pazienza se fra le corde dell’altalena
non la prenderò come fa il vento alla schiena.
Anniversario con vetri
martedì 21 agosto 2007, 16.13.27 | molinaro
Dopo quella prima volta che facemmo l’amore, passò quasi un anno prima che io ci
scrivessi su una poesia. La poesia non ha tempi fissi, come tutti sanno. Può arrivare dopo un
attimo o mai. Naturalmente. Dopo questo quattordicesimo anniversario passato alla finestra
(in senso molto proprio) ci sono voluti solo quattro giorni prima di scrivere questa poesia
qui. Ah, quella nella foto non è la finestra della casa di allora né quella della casa di adesso,
è la finestra di una casa intermedia, dove ho abitato per tre anni fra il 1997 e il 2000. Era
piccola, al pianterreno, nel cucinino dovevano starci tutti i libri con quei tre piatti e quelle due casseruole, ma era
bella anche lei. Tutte le case dove si è amato sono belle. Il letto era stretto e non tanto comodo, ma ha conosciuto il
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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profumo di Federica, di Grazia, di Kerstin, di Tiziana, di Sandra, di Anna e d'altre che il mio canto qua e là appella.
ANNIVERSARIO CON VETRI
È venuta a casa mia come 14 anni fa
casa mia non è la stessa casa di allora
anche noi siamo un poco diversi – ma non tanto –
mi ha detto: «Laviamo i vetri che se no tu
non ti entra neanche più la luce in casa, pigro
come sei a fare i lavori» e dato che faceva caldo
si è tolta la camicia e aveva un reggiseno grazioso
come quello che le ho slacciato 14 anni fa
quando abbiamo fatto l’amore la prima volta
e anche lei era molto graziosa e perciò le ho messo
le mani sulle spalle e l’ho scossa un po’ e ha detto:
«Lascia stare, mi sono tolta la camicia solo perché
fa caldo a lavare i vetri» e abbiamo lavato i vetri
che effettivamente ce n’era bisogno e adesso vedo
meglio i tetti di fronte e il campanile. Non so
perché l’amore non lo facciamo più, forse qualcosa
intuisco, ma non sono sicuro, di fatto
devo dire che di preciso non lo so. È bello
anche lavare i vetri insieme, è molto meglio
che non vedersi mai, questo è certo, ma l’amore
perché non lo facciamo più
io di preciso non è che lo so.
Corpi, colline, tutto
mercoledì 22 agosto 2007, 10.56.51 | molinaro
Mi sono alzato alle sei e trenta, ho lavorato tre ore filate, poi ho
scritto questa poesia un po’ malinconica, ora bevo un caffè e
riprendo a lavorare, mentre il vento muove la tenda verde sul
terrazzo e la mancanza di senso urla dalle strade. La mancanza
di senso c’è sempre, ovunque e da sempre e per tutti e per
ogni cosa. È solo che talvolta non urla, talvolta ci dà tregua. E a
volte invece urla. Ma adesso basta, adesso torno al lavoro.
PASSANDO PER IL COLLE DI CADIBONA
Può essere che il profilo di queste colline
o mezze montagne, fra il Piemonte e la Liguria,
resti più a lungo del profilo del corpo di lei,
e che la piega accogliente della gora ombrosa
duri oltre la piega accogliente delle cosce,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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e che l’azzurro umido del cielo sopra i boschi
permanga un tempo dopo l’azzurro degli occhi.
Ma questi paragoni cronologici, usati
spesso in discorsi retorici d’equivoca morale
per stabilire improprie gerarchie nel creato,
non mi riguardano: io sono mortale e già un po’ vecchio,
il mio punto di vista non è quello di Dio
ma quello d’un passante che s’allontana e lascia
il corpo, le colline, le cosce, il bosco, gli occhi.
La foto del messaggio precedente
mercoledì 22 agosto 2007, 16.01.20 | molinaro
La foto del messaggio precedente, il messaggio n. 80 di questo blog, con le tre
ragazze che si mangiano lo yogurt, è simpatica, è carina. Mi piace. L’ho presa da
un fotoservizio su internet, ma non credo che mi faranno storie per i diritti. È
roba d’oltreoceano, probabilmente. Non credo che mi faranno storie perché è un
fotoservizio di quelli dove le modelle sono molto anonime. Foto qualsiasi, che
girano così. Insomma: è la prima foto di un fotoservizio porno di bassa lega. Ci
avran speso trecento dollari a dir tanto. Nelle foto successive le tre ragazze si
spogliano, si toccano e fanno varie cose che non staremo qui a elencare,
ovviamente. Perché ho messo quella foto nel messaggio n. 80, accanto a una
poesia un po’ malinconica? Non lo so di preciso (non sono di quegli uomini che
sanno sempre quello che fanno, vorrà dire che magari il Padre mi perdonerà,
Luca 23, 34), ma forse è perché mi dà un’idea da un lato della fuggevolezza delle
cose (di quando sarà la foto? saranno ancora ragazze quelle ragazze? in ogni
caso, poi non lo saranno più) e dall’altro della relatività di certe valutazioni. Le
ragazze sono carine e fresche anche nelle foto successive del servizio, quelle foto
che se le mettessi qui verrei censurato e bandito. Per me, le altre foto di quel
servizio sono fresche e simpatiche quanto la prima: le ragazze anziché lo yogurt
leccano qualcos’altro, che non è mica peggio di uno yogurt, alla fin fine. Non so
bene cosa voglio dire, ma non importa. Vado a braccio. Forse è che la bellezza, il
tempo, i sensi, i pensieri, l’amore, la natura, lo spirito, il desiderio, l’affanno, la
meraviglia, la perdita, la trepidazione, la vita, è tutta una cosa unica, tutto un
turbinare, dentro il quale cerchiamo di fare puerili classificazioni per orientarci. E
non ci orientiamo lo stesso, perché non esiste una direzione da seguire. Siamo
soli e siamo liberi, che ci piaccia o no, e quel che possiamo fare è solo tenerci per
mano, quando e finché ci riusciamo. Buon pomeriggio.
(Ora mi aspetto pure che il solito saputello dica: oh, ingenuo d’un Molinaro, si
vede benissimo anche in quella prima foto che quelle tre sono garçonnes da
pornoservizi. Beh, caro il mio saputello, io non ci credo, lo dici adesso e dici una
scemenza, anche perché le garçonnes da pornoservizi non esistono – così come,
in senso sartriano, non esistono i camerieri – il famoso aneddoto di Sartre e il
cameriere lo sapete tutti, no?)
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Confidenza e fiducia (e valigie)
mercoledì 22 agosto 2007, 18.14.57 | molinaro
Mi dice un amico oggi pomeriggio, in una lunga telefonata con
argomenti misti (donne, rapporti umani, amicizie), che non è
bene credere incondizionatamente alle parole che ci vengono
dette, neppure se ci vengono dette da un amico, da una
persona che stimiamo, da una persona che consideriamo
onesta e sincera. Tantomeno da una fidanzata. Dice che tutti
possiamo mentire o almeno “aggiustare” la verità. E che quindi le parole di
chiunque vanno soppesate, valutate, interpretate. Mi fa un esempio, volutamente
leggero e banale:
– Un ragazzo della compagnia ti racconta che gli hanno rigato l’auto mentre era
posteggiata. Tu gli credi, Carlo?
– Mah... Ovviamente sì, gli credo, perché non dovrei?
– Ecco, mettiamo che invece se la sia rigata da solo contro un muretto,
prendendo male una svolta. Poi non ha voglia di essere preso per il culo, di
sentirsi dire che è pirla, che non sa guidare, eccetera. E allora racconta che
gliel’hanno rigata mentre era posteggiata.
Devo ammettere che in qualche misura l’amico ha ragione. Una cosa così può
succedere, anzi mi è proprio successa quando avevo vent’anni, al ritorno da un
viaggio in Romania. Mi ero fatto fregare la valigia in un modo talmente idiota,
talmente da scemo, intortato da uno furbo a Bucarest (ah, questi romeni! spero
di non fomentare razzismi contro i nostri fratelli neocomunitari, adesso, eh! non
fate di tutte le erbe un fascio!), che mi ero vergognato di raccontarlo ai miei
genitori e agli amici, e l’avevo raccontato in un modo un po’ diverso, anzi proprio
in un modo di fantasia.
Roba di 34 anni fa, ma è la dimostrazione, sulla mia pelle, che l’amico può avere
ragione. Allora bisogna sempre soppesare, valutare, considerare, non credere
mai al cento per cento?
Non so. Lui sicuramente esagera nella... soppesazione, e secondo me si complica
la vita, con una dietrologia continua su ogni discorso. Io preferisco,
fondamentalmente, credere a ciò che mi viene detto. Anche se le sue ragioni
sono valide, non lo nego. Forse ci vuole una via di mezzo. Ma io preferisco
credere, soprattutto se chi mi sta parlando è un amico (o una fidanzata). Del
resto, fra persone mature, il fenomeno del mentire-per-non-sembrare-pirla
dovrebbe, dico dovrebbe, diminuire. Oggi la faccenda della Romania la
racconterei giusta, magari facendoci su una risata.
Anzi, mi sa che adesso ve la devo raccontare, ormai. Solo che è un inganno
complicato. Proverò a condensare. Io già allora parlavo romeno, discretamente,
anche se lo studiavo solo da un anno. Chiacchierando a Bucarest con gente del
posto, feci la conoscenza di qualche ragazza (tutto bene). E anche di un tipo che
parlava un poco l’italiano e che mi avanzò una strana richiesta, una cosa così:
senti, potrei venire un po’ in giro con te e far credere di essere italiano, così
riesco a rimorchiare? In effetti le fanciulle erano più disponibili con gli stranieri
(su questo c’è tutto un discorso da fare ma non ora). Non che l’idea mi piacesse
molto, ma da timido accettai, pensando fra l’altro che, tanto, le ragazze si
sarebbero accorte che non era poi troppo italiano, lui. Così girammo un po’. Nei
“peggiori quartieri” di Bucarest (i più affascinanti, del resto: ci sarei andato
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Carlo Molinaro
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comunque). Era l’ultimo o il penultimo anno in cui era permesso ai romeni
ospitare in casa stranieri: molto turismo funzionava così, un turismo economico,
stroncato appunto un anno o due dopo da Ceauşescu che vietò l’ospitalità nelle
case private. Quindi avevo trovato una camera a casa di una famiglia. E qui
scatta il giochino. L’amico pseudo-italiano viene con me nella casa della famiglia
che mi ospitava, e io, un po’ a malincuore (e un po’ da coglione) lo presento
come “mio amico italiano, che ha fatto il viaggio con me”. Lui tranquillo,
baccaglia la figlia del padrone di casa e le amiche, fa il dandy, e io pensavo
davvero che il suo scopo fosse solo quello. E poi? E poi si va in giro, si visitano
posti, si beve. E poi lui se ne va per i fatti suoi, forse con una ragazza. Fin qui,
che dire? Un furbastro romeno che si accompagna a un italiano per fingersi
straniero e rimorchiare.
Già. Ma quando torno dalla famiglia che mi ospitava, la mia valigia non c’è più.
Spiegazione del padrone di casa: «È venuto il tuo amico e mi ha detto che avete
trovato una camera migliore, e che portava la valigia... Mi spiace! Dov’è che
avete trovato una camera migliore?»
Ora: se il padrone di casa sia stato davvero intortato dal furbastro pseudoitaliano, o se fossero tutti d’accordo, non lo sapremo mai. Ma la cosa certa è che
io fui un vero coglione. E non osai raccontarlo, allora, agli amici e ai miei.
Inventai una balla. Adesso invece lo racconto con la massima serenità. Non è più
un problema.
Il problema è che, forse, ci cascherei ancora. Ma a vivere diffidando non ci
riesco, è troppo faticoso. Perciò poco fa, alla fine della telefonata, ho
semplicemente detto al mio amico che abbiamo un modo diverso di intendere
queste cose, e che il mondo è bello perché è vario. Certo a lui a Bucarest la
valigia non l’avrebbero fregata. Ma non si vive di sole valigie.
Strani meccanici
giovedì 23 agosto 2007, 12.01.31 | molinaro
Ieri sera non mi funzionavano gli anabbaglianti della Panda. Mi era già
successo una settimana fa, e dopo qualche ora avevano ripreso a funzionare.
Ieri sera di nuovo non si accendevano. Stamattina si accendono, ma,
consapevole del fatto che non è saggio girare con fanali che un po’ si
accendono e un po’ no, vado da un elettrauto. Lo trovo dopo un’ora buona,
perché è ancora agosto. Gli spiego il problema, lui prova e dice: «Ma si
accendono». Grazie, lo so che adesso si accendono, però ogni tanto non si accendono, ed è un
problema, no? «Eh, ma se si accendono, non posso farci niente, non so dove mettere le mani». Ma ci
sarà qualche contatto che non tiene bene, un fusibile, un qualcosa... io non me ne intendo, ma ci sarà
un qualcosa da fare. «Eh, ma se si accendono, se adesso funzionano, io non posso mica sapere dove
mettere le mani».
Insomma, niente da fare, me ne sono andato via con il problema non risolto. Sabato sera devo andare
sull’Appennino, anzi sulle Alpi, insomma lì al confine fra le due catene montuose, e se a un certo
punto mi si spengono gli anabbaglianti, che faccio? Guido a fari spenti nella notte alla mogolbattisti o
tengo fissi gli abbaglianti fregandomene d’accecare chi m’incrocia?
E sono qui a pormi alcune domande sulla professionalità delle persone, e anche sul bisogno che
hanno di lavorare. Da me tutti i lavori li vogliono presto e bene, di solito molto presto e bene, e io
cerco di farli, e in genere ci riesco. Quando ho bisogno io di un lavoro fatto, invece, mi sembra sempre
di essere un questuante e un imbecille, uno che chiede una cosa strana, un rompiballe. Non so, sarà
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28/05/2008
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il mio karma. Forse non sono adatto a questa società. E forse sono anche l’unico che ha bisogno di
lavorare per mangiare. Strano, però. Non c’è la crisi?
Il barattolo chiuso
venerdì 24 agosto 2007, 12.47.16 | molinaro
Stamattina sono pieno di sonno, perché sono tornato alle quattro
di notte da Finale Ligure, dove ho passato alcune ore con una
persona importante: deciso così all’improvviso, va bene così, via
(e gli anabbaglianti della Panda sono rimasti accesi). Fra un
tentativo di lavorare e un colpo di stanchezza, fra un pensiero e un
altro pensiero, ho scritto questa poesia qui. Il primo verso
naturalmente è davvero una frase di un’amica, una frase di oggi – io parto sempre da
qualcosa che c’è, non so inventare nulla. C’è già così tanto!
IL BARATTOLO CHIUSO
«Li sto lasciando appassire in un barattolo chiuso»
– dice: parla dei suoi anni, pochi, ventitré
se non sbaglio; poi attenua la frase con un «forse»
– un forse aiuta a non restare annichiliti,
gli occhi serrati contro il muro della vita.
Vorrei dirle – e le dico – «rompi quel barattolo»
ma lo so che non c’è una via d’uscita: le lucciole
o le lasci disperdere nel prato vive e libere
o con la mano le catturi e in mano muoiono:
in un modo o nell’altro tu resti a mani buie.
No. C’è. Qualcosa c’è. C’è andare, correre,
fermarsi, rimanere, ripartire, ritornare
finché c’è fiato – e nelle mani vuote
sarà il sole che ci metterà la luce o un chiaro
di luna o stelle o fuoco o lampadina.
Non è facile. È proprio avere niente
stare così con tutto in giro e non sapere mai
se lo trovi o non lo trovi. Ma in qualsiasi vita
anche nella più bene amministrata
finisce prima la mano che la luce.
Vento
venerdì 24 agosto 2007, 21.59.43 | molinaro
Ma sì, vado a letto presto stasera, scrivo questo messaggio e poi spengo la baracca e vado a
dormire. Se ci riesco, perché sono un po’ inquieto. Sento dell’autunno nell’aria, ho sentito
per un attimo odore di stoppie bruciate e di castagne, e dato che non è proprio possibile, qui
nel quasi centro di Torino, vuol dire che anche gli odori possono essere immaginari, e
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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sembrare veri. E poi sono indietro con il lavoro, ma domani alla festa in Val Bormida ci
vado lo stesso.
Pareva che si facesse a casa di Chiara, per il rischio del maltempo. Poi invece è prevalsa la fiducia (speriamo,
speriamo!) e si farà alla Colla di San Giacomo, accampandosi lì. Chiara e Mac vanno su prima, a cominciare a
preparare. Spero che vengano almeno tutte le persone che c’erano alla festa di San Lorenzo, quella delle stelle cadenti
(cfr. la seconda poesia del messaggio n. 67 – divertente fare rimandi interni come fosse quasi un trattato scientifico!).
E che vengano altre persone. Tu se vuoi venire vieni. Non c'è il numero chiuso.
Da ragazzo non amavo molto le feste in compagnia. Ero un orso scontroso. Adesso invece mi piace far festa, se è una
bella compagnia, e quella di domani lo è.
Certo che la percorro spesso in questo periodo la Torino-Savona. L’ho fatta, avanti e indietro, la notte scorsa, e la
rifaccio la notte prossima. D’altronde alla Colla di San Giacomo (ma anche a Cadibona e a Mallare) in treno è
difficile arrivarci. Tantopiù di sera! Il treno lo uso per Milano, Vicenza, Venezia e Vercelli, le mie mete ferroviarie
più frequenti. Anche per Genova, naturalmente, quando ci vado.
La frase dell’amica, da cui ho tratto la poesia del messaggio scorso (n. 84), mi ha un po’ scosso. Mi vien da dire,
parafrasando il titolo di un film che vidi con Malvina: non sottovalutate le conseguenze della mancanza d’amore. Si
può far finta per anni che tutto vada bene. Ma poi viene al pettine, la mancanza d’amore. Fra persone a me care fra di
loro, e fra persone a me care e me, c’è come un fermento, in questo periodo, di amori e non amori. Tutto un fermento.
Che non sai bene se si ride perché amor risponde, o se si piange forte perché non sente. Cambia come il cielo quando
soffia un vento forte. Resta spesso indecifrabile.
Sì, sta soffiando un vento forte. Qualcosa porterà, lo sento.
(Nella foto, il cielo sopra Torino, uno di questi giorni, visto dal mio balcone.)
Bambini, verità, poesia
sabato 25 agosto 2007, 9.36.55 | molinaro
La frase della figlia quattrenne di Romina, da lei riportata in un commento al messaggio
precedente (Oggi il vento è di tanti colori, come noi, mamma), mi fa riflettere sulla poesia e
sulla verità. Mia figlia Lucia, all’età di tre anni scarsi, dopo un’allegra giornata di gioco e
scoperte a un tratto si rabbuiò. Pensai che le fosse accaduto qualcosa e le domandai che cosa
avesse. Mi rispose, scuotendo il capo: «È già passato tutto un giorno».
I bambini spesso ricavano la verità dalle cose, senza piegarla a preconcetti. Vedono il colore
del vento e il passare del giorno. Le loro non sono metafore, sono osservazioni della realtà.
Credo che la poesia, quando funziona, faccia la stessa cosa. Mette nei versi la verità della realtà, quella verità intima
della realtà che l’occhio adulto nasconde sotto schemi e abitudini, non accorgendosi più della nudità del re – perché
ormai gli disegna gli abiti addosso senza guardare.
Nei momenti di grazia il poeta e l’innamorato non sono dei visionari fantastici inventori che plasmano un mondo che
non c’è: al contrario, sono gli unici che hanno il privilegio di vedere – per un attimo – ciò che veramente c’è. Come il
bambino.
E io, quali verità enuncio? La mia è una maieutica della natura oltre che dell’umanità: solo parlando con le persone e
con le cose riesco a far dire a loro certe verità che poi metto nei versi. E le metto nei versi perché in nessun altro
luogo saprei metterle. Poi mentre scrivo già forse le altero, perché non ho più la purezza del bambino, sono solo un
imperfetto scribacchino. Ma questo è un altro discorso.
Una poesia che non sono riuscito a scrivere e un po' di racconto di festa
domenica 26 agosto 2007, 16.08.58 | molinaro
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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La ragazza con gli occhi finalmente azzurri
tiene la vita in mano. Quando arriva
il braccio grigio del vento
decide lei se farsene abbracciare.
La sua imprendibile complessità...
No, non funziona. Quando una poesia non funziona è meglio smettere. Senza sprecare energia
inutilmente. Il pensiero comincia a ritorcersi all’indietro, la mente si fa troppo affollata, scattano
censure, correzioni, i se e i ma, il possibile lettore entra in campo troppo presto, vede la sposa mentre
si veste, così non va, così non va. Già sul finalmente del primo verso c’era troppa ressa, troppo da
spiegare, che la prima volta l’ho vista di sera e non ero sicuro del colore dei suoi occhi, ci avevo visto
sì un raggio azzurro però, e poi era venuto il discorso con due suoi amici che entrambi mi avevano
detto: «Azzurri? Ma no che non sono azzurri. Ma non li ha scuri?». E io da poeta incerto a dubitare di
averli visti azzurri solo io, dubitare ma in un certo senso anche compiacermene, la vanità del vedere
più dentro. Poi ci sono stati incontri di giorno, al sole, nel chiaro, ed erano azzurrissimi, e c’erano
anche gli amici, e uno di loro ha convenuto: «Sono azzurri, indiscutibilmente azzurri». Finalmente. Ma
quando su un avverbio pesa tutto questo pensiero, non riesci più a scrivere la poesia. La poesia è una
fettina d’orizzonte che se ne frega, devi scrivere finalmente con leggerezza, non importa cosa vuol
dire.
E poi, tiene la vita in mano – anche qui troppo casino, che non è mica tanto vero, lei non è una
ragazza così sicura di sé, o meglio, è sicura come lo è la natura, che non sa quel che fa ma lo fa con
la massima sicurezza (se la interpretiamo darwinianamente, almeno: l’evoluzione è del tutto casuale,
nella sua perfezione). E allora dico troppo o troppo poco, non c’è misura.
Ho agganciato l’immagine successiva a due citazioni (niente di male, la poesia si nutre di poesia, io
spero sempre di essere plagiato, vorrebbe dire che servo a qualcosa): il braccio grigio del vento che è
per la bimba dal bel musetto di García Lorca, e il decide lei se farsene abbracciare che echeggia un
verso di una canzone di Max Manfredi: «Volevo una canzone come una donna di malaffare, / di tutti e
di nessuno, come una lingua, come un altare. / Tutti in fila al lavatoio, quando all’alba si va a lavare, /
tutti in fila sul portone, lei solo sceglie chi deve entrare». Questa è meno evidente, ma, dato che
l’avevo in testa, «è».
La sicurezza che la poesia era ormai abortita l’ho avuta scrivendo la sua imprendibile complessità.
Versicolo astratto. Concettino che sarebbe discutibile anche in un trattato filosofico, figuriamoci in una
poesia. Questo non significa che in lei non ci sia un’imprendibile complessità. Significa solo che io non
sono capace di scriverla. Non sono capace di dire la sua semplice complessità (il contrario della
complessa semplicità gucciniana: «maturo o meno io ne ho abbastanza della complessa tua
semplicità»), non sono abbastanza bravo per raccontare come lei, senza far nulla, mi regala New
York a Cadibona, varcando con noncuranza la siepe che divide il viaggiato dal non viaggiato: o quasi,
se fosse – ma non lo è – possibile, vincendo la partita a scacchi contro la nera signora del limite.
Non sono capace, appunto, e allora è meglio raccontare semplicemente la festa di ieri sera alla Colla
di San Giacomo, sopra Mallare. Il prato, il bosco, il monte, il mare in lontananza, la luna quasi piena,
la fontana, il silenzio: non è uno sfondo da cartolina. In realtà gli sfondi da cartolina esistono solo per
coloro che hanno perso la naturale capacità di essere davvero nei posti, di dimorare in un luogo
(foss’anche per pochi minuti) anziché solo passarci, e di partecipare al luogo (se cammini su un prato,
quel prato non è più soltanto un prato: è un prato con te che ci cammini, è tuo e sei suo: muoversi nel
mondo è un continuo sposalizio, se non sei un imbecille).
Non si era in tanti. C’erano solo tre persone conosciute da me nel profondo (mi sono fermato due o tre
minuti per trovare questa cazzo di espressione conosciute da me nel profondo: quanto ciarpame ho
addosso, quanti fronzoli, quante paure – perché non ho potuto scrivere la parola che mi era venuta in
mente per prima, tre persone amate?): Cesare, Mac e Chiara. Non che gli altri fossero estranei, quasi
tutti li avevo già visti. Nel complesso si era forse una dozzina, o una quindicina.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Ciò che s’è portato per la festa era birra, vino e mezza porchetta, cotta lì sul fuoco con uno spiedo
costruito con legno del bosco, un falò da giovani marmotte (abbiamo poi lasciato tutto pulito e intatto,
niente rumenta in giro e tutta la sicurezza necessaria a non rischiare incendi o altri danni: siamo brave
giovani marmotte); e nel capanno in muratura un altro fuoco, per scaldare un po’ la notte. Il fuoco
dentro il capanno l’ho curato più io, che non prendeva, ci si davan da fare con poco costrutto, ed è
divampato solo quando ci ho soffiato sopra in un modo delicato e vigoroso che so – ma sarebbe
impudico narrare i sogni che ho agganciato a questo fatto, in sé banale e scarsamente significante.
Ciò che s’è portato per la festa era necessario perché ci vuole un nucleo intorno al quale aggregare le
cose importanti, le persone – non si può fare una festa astratta – ma non è la cosa importante. Io
sono astemio e pochissimo carnivoro, ho bevuto acqua della fontana e mangiato quasi nulla, ma sono
stato molto felice. Probabilmente la felicità è calorica, perché non ho avuto fame ieri, e neppure oggi a
pranzo ho mangiato.
Peraltro il rito della mezza porchetta cotta sul fuoco ha avuto qualcosa d’affascinante, bagliori di
sacrifici antichi, ho ancora nella maglietta l’odore di legno, fumo e carne (sì, l’ho rimessa stamattina, la
stessa – mi laverò più tardi – mi piace tenermi le cose addosso). Naturalmente è venuta per un terzo
cruda, per un terzo giusta e per un terzo bruciata, ma non è un cattivo risultato per gente inesperta.
C’è stato da mangiare abbastanza per tutti.
Un momento più magico è stato quando abbiamo cantato, un po’ in disparte, noi quattro, Cesare,
Mac, Chiara e io. Per la prima volta ho sentito Chiara cantare – e perdonatemi, questo ho sentito
Chiara cantare non riesco a non dirmelo in testa che sulla musica di ho visto Nina volare di De Andrè,
la vita è una ghirlanda, c’è il braccio grigio del vento che da García Lorca è passato nella poesia
abortita qui sopra e c’era già in cinque versi miei di qualche giorno fa l’idea che non la prenderò come
fa il vento alla schiena, e il vento alla schiena di De Andrè è probabile che passi per García Lorca –
ieri c’erano coltelli (per la porchetta) ma non maschere di gelso. Ho sentito anche per la prima volta
me stesso cantare, almeno in un paio di canzoni, con gli attacchi giusti, le parole a memoria e non
troppa stonatura: Dio, dammi ancora mille anni, mi servono tante ripetizioni, sono così indietro con il
programma, ne ho da masticare e sputare!
Va bene, la pianto. Comunque abbiamo cantato bene insieme. Cesare ha detto di essere felice e
innamorato e Mac e io gli abbiamo prontamente rimbeccato che sapremo ricordargli che la felicità
esiste – e lui l’ha ammesso davanti a testimoni, ormai – appena riprenderà a lamentarsi dell’infinito
male di vivere. Chiara è dovuta andare via un po’ prima. L’ho accompagnata alla fontana a riempire
sei bottiglie d’acqua da portare a casa, acqua buona, e le ho detto ciao sulla sua vecchia auto che sta
per portare a rottamare.
Poi nella notte è arrivato anche un gruppo di sciamannati che, lì accanto, ha montato una specie di
rave party (moderato) con generatore, casse, musica techno e cose così. Secondo me quella musica
techno e il generatore a benzina e le casse ad alto volume violentavano il genius loci di quello scorcio
lunare, meglio rispettato da noi con il fuoco, le candele e la chitarra acustica. Ma chissà se ho il diritto
di sentenziare così.
Eppure nel gruppo dei ravisti c’è stato uno che, appena saputo che sono «un poeta» (colpa di Cesare,
che mi presenta a tutti così), ha tirato fuori da una borsona alcuni foglietti e mi ha preso in disparte per
leggermi i suoi versi, chiedendomi un giudizio. Sono stato alquanto evasivo, ehm.
Siamo un popolo di santi, navigatori e poeti (milioni di poeti!) che raramente si fermano dopo cinque
versi se la poesia abortisce: non hanno i miei blocchi più o meno severi. Non importa. Sono tornato a
Torino nella notte, i fanali della Panda accesi (fortunatamente – ma devo farli vedere ancora da un
elettrauto) sull’autostrada quasi deserta, la luna tramontata. Sono arrivato a casa. Ho buttato sul letto
le mie mani vuote e mi sono addormentato.
1000 sulla Carretera
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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martedì 28 agosto 2007, 16.34.16 | molinaro
Poco fa ho fatto ho avuto l'onore di essere il millesimo a passare sulla Carretera
Boreal. La cosa mi ha riempito di gioia e l'ho immortalata (vedi immagine). O forse
è che ogni scusa è buona per fare una piccola pausa dal lavoro. Il lavoro è assai, la
paga è poca, le altre cose da vivere sono assai, ma piantiamola di lagnarci, che,
come scrissi in una poesia del 1993, esserci è già tanto. Anzi, ve la metto qui (la
poesia, intendo). Il correttore di bozze della casa editrice milanese che la pubblicò
continuava a correggermi interro in interno. E invece è interro, ovviamente. Ah, i correttori di bozze,
razza malnata. Oh, ehm, veramente è parte del mio lavoro. Già. Il redattore è anche un correttore di
bozze. Amen.
ORRORE DI NULLA
Non è vero che il peggio
è per quelli che restano.
Io piango per chi parte,
non per il curvo crocchio
che fa cerchio all’interro.
La vita ha le punture,
soffoca, stringe, torce;
ma respiri e riprese
sono altra gioia fresca.
Oh, esserci è già tanto!
Dio mio, riannusare
altre terre di marzo,
altri aromi di fuochi.
Ma di chi è partito
non sappiamo più nulla.
Ma me c’as fa a vulèj ben a ün pareč?
mercoledì 29 agosto 2007, 19.55.09 | molinaro
È una cosa che mi raccontò mia madre un po’ di anni fa, e adesso mi è venuta in
mente, intanto che al telefono parlavo con un’amica che si sente abbandonata da
tutti, che dice che non è mai stata amata, che di lei non importa a nessuno. È
scoppiata a piangere.
Da bambino, sui tre-quattro anni, ero scontroso, riottoso, mi rivoltavo come una
biscia a ogni contatto fisico. Veniva di tanto in tanto a trovarci una parente, non importa chi, credo una
parente alla lontana, e provava a volte a farmi una carezza, o qualcosa del genere. Io reagivo appunto
come una biscia, con uno scatto brusco e una pronta fuga. La parente un giorno commentò: Ma me
c’as fa a vulèj ben a ün pareč? Che nel dialetto del contado vercellese esprime: Ma come si fa a voler
bene a uno così?
Non voglio assolutamente prendermela con i miei genitori, adesso; siamo tutti (anche loro!) portatori
di altri genitori, in una catena che si perde nella notte del tempo. Indubbiamente oggi (forse anche ieri)
la psicologia e la pedagogia si porrebbero una domanda preliminare a quella della parente che veniva a
trovarci, una domanda quasi ovvia: Ma perché un bambino di tre-quattro anni reagisce come una
biscia a una carezza? C’è però da dire che all’epoca il comportamento non era visto in modo così
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 114 di 404
negativo. Probabilmente il vero uomo doveva essere una biscia scontrosa. Sui bavaglini scrivevano
non baciatemi (ma perché cazzo?) e c’erano autorevoli signori che dicevano che prendere in braccio
un bambino significava viziarlo. Certo, alcuni zingari romeni (lo so da fonte certa e diretta) tengono i
bambini lontani dal fuoco perché non si abituino a stare al tepore, per il loro bene. Ma è una cosa
diversa.
Ecco, mi è venuta in mente questa cosa della mia infanzia e ho provato una grande tenerezza verso la
mia amica, che è una ragazza sui vent’anni. Non è detto che la sua storia sia simile, magari lei non
reagiva come una biscia alle carezze. Non è questo il punto. È che spesso abbiamo dentro qualcosa che
ci fa allontanare dagli altri, che fa sì che gli altri dicano Ma me c’as fa a vulèj ben a ün pareč? Non lo
facciamo apposta; eppure è una specie di «colpa», e alla fine risultiamo antipatici, sdegnosi,
presuntuosi, egocentrici, insensibili e altezzosi – e chi vuoi mai che ci voglia bene?
Col tempo passa, però. Un pochino passa, e come diceva Stefano Benni in quella poesia di cui ho la
cassetta recitata da Diletta, che adesso l’ho risentita che ho il mangiacassette che prima non l’avevo
più, prima o poi l’amore arriva. È un lavoro di gruppo. Un po’ siamo noi che a poco a poco ci
accorgiamo che si può non scattare come bisce contro una carezza. Un po’ è qualcun altro che
finalmente, anziché domandarsi Ma me c’as fa a vulèj ben a ün pareč?, semplicemente ci prova.
Amica mia di cui non voglio mettere il nome qui, ma tu lo sai se leggi, io ti voglio bene, qualcosa
capisco del tarlo che hai dentro da sempre (o da quel punto remoto d’infanzia che resta infinitamente
insondabile: quando uno comincia a essere biscia?), non tutto capisco ma qualcosa sì, e tu lo sai: non
ti abbandonerò mai, finché vivo. Ci sarà felicità, ci sarà.
Il ciondolo
giovedì 30 agosto 2007, 10.38.22 | molinaro
Per la prima volta, una poesia con riferimento al blog (blog related
direbbero gli yankees, forse). Era naturale che accadesse, la poesia
nasce da tutte le cose della vita, e visto che adesso c’è anche il blog...
Inoltre domani è l’anniversario del bacio di cui al quintultimo verso. E
dunque.
IL CIONDOLO CHE HO MESSO IN CIMA AL BLOG
Il ciondolo che ho messo in cima al blog
non è più in mio possesso. Me l’avevi
solo prestato – l’avevi precisato – e così
quando ci siamo lasciati te l’ho restituito,
conservandone la fotografia. Quando
ci siamo lasciati: non so bene quando è stato,
ma dato che non ti vedo da quattro anni
e mi dicono che vivi con un altro, suppongo
che ci siamo lasciati. Sono cose
che non capisco mai bene, lo sai,
succedono così, capisco sempre dopo.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Il ciondolo starà lì in cima al blog
finché ci sarà il blog: a me non piacciono
quei bar che cambiano aspetto ogni anno,
preferisco Mescita vini dal 1912,
fratelli Pautasso & succ. Amo la permanenza.
Il ciondolo è una margherita dorata
girevole, che simula quel gioco
del m’ama non m’ama, con più varietà:
ogni petalo ha una risposta diversa.
A me è venuto appassionatamente
e l’ho lasciato così. Tu poi l’hai usato
altre volte, con altri? Che risposte
t’avrà mai dato? È stato un bell’amore
fra te e me – io lo farei ancora,
scendere a Principe e trovarti lì
e andare al parco di Nervi – che vuoi mai,
amo la permanenza, te l’ho detto.
Era bello quel ciondolo, comunque;
e il tuo bacio ha fatto di San Giuseppe di Cairo
uno dei luoghi migliori del mondo
– con Altare Cadibona e Mallare
e poi Genova naturalmente – almeno
hai migliorato la mia geografia.
Alleanza
venerdì 31 agosto 2007, 14.23.06 | molinaro
Una trasferta dal pomeriggio alla mattina, in una città in riva al lago, una
sera e una notte con un’amica, la pioggia alla stazione, il Cisalpino (treni
regionali compatibili non ce n’erano!) pieno di gente molto
mitteleuropea, Milano di corsa, poi sono di nuovo qui. Rimettiamoci al
lavoro.
ALLEANZA
Parto dalla stazione di Como San Giovanni.
Il treno, benché svizzero, è in ritardo. Dico:
– Sono contento di queste ore passate con te,
però adesso mi sento malinconico, disperso.
– Anch’io mi sento nello stesso modo.
– Potremmo essere più alleati.
– Come si fa per essere alleati?
Provo a spiegare alleati e m’ingarbuglio
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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come sempre m’accade se provo a spiegare
le varie pertinenze dell’amore.
Lei giustamente tace. Allora dico:
– Nelle risaie il riso è biondo, quasi
maturo. – Non si vede l’acqua, allora.
– No, non si vede. Forse stanno già vuotandole
per la mietitura. Il mio amico Livio
(da tanto non so di lui) sarà impegnato:
cura, prepara e aggiusta le mietitrebbie,
le grandi macchine che tagliano, tirano su
e separano i chicchi dalla paglia.
Dopo un silenzio lei dice:
– Questa è alleanza: sapersi raccontare
la poesia della vita che scorre. Tu
me l’hai portata in dono.
(Sì, è qualcosa. Non basta a colmare
l’incolmabile. Certo. Ma è qualcosa.)
Amor che a nullo amato amar perdona
sabato 1 settembre 2007, 20.03.35 | molinaro
Stavo pensando che quel famoso verso di Dante, amor che a nullo amato
amar perdona, variamente interpretato, invocato e contestato, su di me
un po’ funziona. Però a senso unico. Sì. Entro incerti limiti, con incerte
eccezioni, essere amato mi fa innamorare. A vari livelli forse (ma in
amore a parlare di livelli bisogna stare attenti, non è il pubblico impiego,
le acque si confondono facilmente), in vari modi forse, ma direi che è
così. Adesso come adesso, faccio l’amore con due donne che hanno cominciato loro ad
amarmi, e mi hanno preso pian piano, e io al principio non ero preso per niente, e poi invece
sì, e ho la sensazione che sia stato proprio il loro amore a farmele amare. O almeno,
soprattutto quello, come detonatore, unito certo ad altre affascinanti qualità.
Invece però nell’altro senso non funziona affatto. Le volte che mi sono innamorato io
violentemente e ho trovato un «no», riversare amore su amore non ha per nulla modificato
la situazione. Altrimenti «chi so io» mi cadrebbe fra le braccia. Eh! Ma sì, diciamolo con un
sorriso, a livello di battuta. In fondo Dante l’ha espresso in forma chiara: amor che a nullo
amato amar perdona. Non ha mica scritto amor che a nulla amata amar perdona!
Settembre
domenica 2 settembre 2007, 10.25.24 | molinaro
Oggi devo lavorare disperatamente tutto il giorno (che sia domenica è irrilevante) altrimenti
resto davvero troppo indietro. Ma dato che è cominciato un altro settembre, metto qui una
poesia del 1984 che si intitola appunto Di settembre. È già stata pubblicata in tre libri,
pensate: prima nell’antologia del Premio Montale (Scheiwiller, Milano, 1986), poi nella
raccolta Il gioco che vale la candela (Genesi, Torino, 1988), e infine nel librone
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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«onnicomprensivo» La parola rinvenuta (Genesi, Torino, 2006). Settembre è un mese che
mi è sempre piaciuto, benché sia stato anche il mese della morte di mio nonno (10 settembre 1960) e di mio padre (23
settembre 1976), nonché il mese in cui sono finito con il motorino sotto un’autocisterna (11 settembre 1969); ma dato
che mi sono salvato quest’ultimo evento non è del tutto negativo. Basta, vado a lavorare.
DI SETTEMBRE
Ogni tanto, di settembre, può quasi sembrare
che tutto giri bene.
Con quei primi vapori che riavvivano
la pelle e scendono nei polmoni come una bevanda
che mussi appena e abbia corpo, con quel sole
più domestico, meno incandescente, meno superbo,
come se finalmente avesse capito,
con l’imbrunire che torna a prendere il suo posto
e sgombra in fretta i prati dove i bimbi
hanno sgranato le spighe sottili della piantaggine,
con quell’aria tranquilla che consola le foglie
sul limitare della passione d’oro antico
e del mistero, con quel cielo di un blu non intenso
ma pingue, ma vicino, con l’acqua che preme
e si prepara a rimescolare le carte,
può sembrare davvero che tutto giri bene
e che l’insetto rovesciato, già irrigidito,
che spinge d’ali con sempre meno forza
brulicando di zampe verso la sua vita che svanisce,
sia uno come noi, uno che non ha saputo ancora
la storia ulteriore, il dopo, il di più.
L'amore, la mancanza, i bagnini, che so io!
lunedì 3 settembre 2007, 13.55.40 | molinaro
Se ne parli tanto è perché ne hai mancanza, dice lei – può essere:
io d’amore parlo tanto, in tanti modi, sotto tanti aspetti. Forse la
mancanza è incolmabile. Ma mentre penso questo, penso anche
all’antica, triturata, millenaria domanda: che cos’è l’amore? Per
sentire la mancanza di qualcosa bisognerebbe almeno sapere di
che cosa, no? O forse neppur questo è detto, spesso si sentono
mancanze imprecisate.
Stamattina lo svegliarmi con un desiderio forte e preciso dentro il basso ventre (là
dove Guccini dice che c’è o c’era l’incoscienza – con l’incoscienza dentro al basso
ventre e alcuni audaci in tasca «l’Unità» – ma nel mio ho idea che ci sia sempre stata
troppo poca incoscienza: immenso desiderio sì ma troppo poca incoscienza) mi ha
fatto immaginare un dialogo con un amico, che qualche giorno fa mi aveva detto,
rimbeccando un mio discorso che era riuscito forse (al di là della mia intenzione,
credo) troppo idealistico: non mi dirai che non hai mai scopato con qualcuna senza
esserne innamorato!
A volte io penso immaginando di dialogare con qualcuno, non so se è una cosa
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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patologica, comunque mi succede e amen. Ho pensato-dialogato così:
– Stamattina mi sono svegliato con una voglia tale, che scoperei qualsiasi ragazza
appena carina che ci stesse; e invece sono a casa da solo e mi metto a lavorare.
– Ah, lo vedi? Dunque scoperesti eccome con qualcuna senza esserne innamorato,
per la scopata e basta.
– Sì. Il desiderio stamattina spazia su tutte le femmine ragionevolmente desiderabili.
Me ne sono già venute in mente una cinquantina, conosciute o solo viste, per
esempio due ieri sera a Porta Susa splendide. E potrei andare avanti a pensarci e
trovarne altre centinaia. Eppure continuo a negare che esista la «scopata e basta».
– Ti contraddici, allora! Oh, immagino che adesso tirerai fuori la solita vecchia
citazione: Mi contraddico, forse? / Ebbene, allora mi contraddico / (sono vasto,
contengo moltitudini), di Walt Whitman, Song of Myself, 51-53. Citazione abusata! Do
I contradict myself? / Very well then I contradict myself / (I am large, I contain
multitudes).
– No. Cioè sì, quello è vero comunque, che mi contraddico e sono vasto, ma adesso
no. Adesso non mi contraddico. Anche se in questo momento vedo le ragazze a cui
penso quasi come in una vignetta satirica sul bagnino romagnolo, non mi
contraddico lo stesso.
– Vignetta? Com’era?
– C’era il bagnino che sognava e nel fumetto-sogno il suo universo femminile
costituito da una miriade di donne stese a cosce aperte, disegnate in modo
stilizzatissimo, praticamente una sequenza di wwwww. Tutte assolutamente uguali.
– E dunque! Tutte uguali, tutte buone per una scopata e basta. Ti contraddici
eccome!
– No. A proposito, lo sai che finalmente ho convinto un elettrauto a prendersi cura
degli anabbaglianti della mia Panda? Dice che forse è l’interruttore, ma verificherà
tutti i contatti.
– Non divagare. Spiegami come pretendi di non contraddirti, visto che desideri una
donna qualsiasi per sfogarti il basso ventre eppure sostieni che non esiste la
«scopata e basta».
– Oh, guarda che anche la Anto e la Cla dicono che comunque una scopata è
importante, e quindi già è riduttivo sempre e comunque svilirla con un «e basta».
– Non svicolare.
– Non svicolo e ti spiego. Oggi sarò da solo e lavorerò e, se proprio non ce la farò a
resistere, al basso ventre provvederò da solo (oh, mica ce ne vergogniamo, eh!) [Per
la grafìa vergogniamo cfr. qui.] Ma facciamo l’ipotesi follemente ottimistica che invece
una delle trecento ragazze qualsiasi fra dieci minuti, per un motivo qualsiasi, suoni
alla mia porta e mi dica: Ehi, Carlo, passavo di qui e m’è venuta un’ispirazione, che
ne dici, ci facciamo una scopata?
– Ipotesi davvero ottimistica.
– Sì, diciamo impossibile; ma facciamo finta che. Allora io la bacio e la abbraccio, la
accarezzo, ci sono tutti i preliminari, poi ci buttiamo sul mio letto (magari prima tolgo i
libri, la borsa, le cartelline, le biro, i fogli, l’ombrello, la felpa, il caricabatterie, gli
occhiali di riserva e quell’appendiabiti – sai, di giorno ho sempre carenza di piani
orizzontali su cui appoggiare qualsiasi cosa e uso anche il letto, una volta esauriti i
tavoli e le sedie) e una volta sul letto ci spogliamo e proviamo a farci questa
benedetta scopata. Dico proviamo perché non è mai detto che riesca, non è mai
sicuro, no?
– Beh, certo, proprio sicuri al cento per cento non si può mai essere.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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– Appunto. Quindi se riesce bene è già una gran cosa. Continuiamo con l’ottimismo
e diciamo che riesce bene, sì. A quel punto la scopata è fatta.
– E tu ti sei tolto la voglia, con una ragazza qualsiasi. Proprio una «scopata e basta»,
vedi?
– Già, apparentemente hai ragione. Ma c’è un ma. La ragazza qualsiasi è una
ragazza qualsiasi prima. Ma dopo che ci siamo baciati, accarezzati, coccolati,
spogliati pian piano sul mio letto, e soprattutto dopo che la scopata è riuscita bene, ti
posso garantire che quella ragazza io non potrei più dimenticarla neanche se
campassi mille anni. Dunque, come potrei ancora definirla qualsiasi? E come potrei
parlare di una «scopata e basta»? Vedi che non può proprio esistere una cosa del
genere. E non esiste neppure far l’amore senza essere in qualche modo innamorati,
perché, se una non la dimentico mai più, vuol dire che me ne sono un po’
innamorato, no? Ma qui naturalmente si sconfina nel campo delle infinite definizioni
dell’amore.
– Beh, se la metti così...
Visto che il dialogo me lo sono inventato io, l’amico finisce con il darmi più o meno
ragione (anche se mai del tutto!). Lo scopo del messaggio comunque non era dire
che stamattina mi sono svegliato con più voglia di scopare che di lavorare (questo
non è molto originale!), ma disquisire un poco sull’amore, sulla sua mancanza, su
che cosa è. L’inutil disquisizione! È amore voler far l’amore, è amore essere contenti
se l’altro sta bene, è amore aiutare qualcuno senza contropartite, è amore
contemplare con stupore la vita di qualcuno, è amore un’infinità di altre cose, alcune
collegate al sesso e altre no (se non nel senso generale – freudiano? non vorrei dir
cazzate, m’intendo poco di psicanalisi – per cui tutto è collegato al sesso).
E allora? E allora niente, sarà meglio rimettermi a correggere bozze, che di tempo ne
ho già perso abbastanza. Con oggi, primo lunedì di settembre, ricomincia davvero in
pieno il tran tran della città. Buone cose a tutti.
Gatti, corvi, sindaci e puttane
mercoledì 5 settembre 2007, 12.31.28 | molinaro
Certi provvedimenti di tolleranza zero che vengono proposti in questi giorni in Italia,
da sindaci, da parlamentari e da altri uomini politici e non, mi hanno fatto tornare in
mente una storia a fumetti che lessi sulla rivista Linus tanti anni fa. Erano quelle
storie che stanno in una pagina, una dozzina di vignette o forse meno. Era quel
fumetto con quel pigro corvo (credo fosse un corvo) che nel frigo aveva sempre
cibo vecchio, e con altri vari suoi amici uccelli, una città di uccelli su alberi-case.
Non ricordo proprio come si chiamassero, che fumetto fosse; se qualcuno lo sa lo metta in un commento!
Nella storia a cui mi riferisco, un tale di questa comunità di uccelli lanciava una campagna contro i gatti: si
sa che i gatti sono naturali nemici degli uccelli (se ci riescono se li mangiano). Ma per non essere
politicamente scorretto contro i «poveri» gatti, il manifesto della campagna faceva un discorso più o meno
così: Noi non abbiamo niente contro i gatti. La colpa non è dei gatti. I veri colpevoli sono i padroni dei gatti,
questi ignobili cittadini che prendono i gatti in casa: è colpa loro se qui è pieno di gatti. Quindi noi vogliamo
colpire i padroni dei gatti, sono i padroni dei gatti il nostro obiettivo. Ma come possiamo agire contro i
padroni di gatti? È ovvio: colpendoli in ciò che hanno di più caro. Cioè colpendo i gatti!
Ecco, la tolleranza zero che invocano lorsignori va a colpire una marea di poveracci: accattoni, lavavetri,
venditori di rose o di occhiali, suonatori di fisarmonica, puttane a buon mercato. Però si ripara dietro il
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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discorso che bisogna colpire chi li sfrutta. Sono gli sfruttatori delle puttane il nostro obiettivo. Ma come
possiamo colpire gli sfruttatori? È ovvio: colpendoli in ciò che hanno di più caro (o quantomeno di più utile
e redditizio). Cioè colpendo le puttane!
Ora, io non voglio fare lo snob di sinistra. Capisco che il lavavetri al semaforo, se insiste troppo, è
fastidioso. Capisco che forse un venditore di rose va bene ma se mentre ceni in trattoria ne passano
cinque o sei rompono già un po’ le palle. Capisco che un viavai di auto che contrattano con le puttane
sotto la tua finestra è un panorama che alla lunga forse stanca. Anche se francamente non sono questi i
problemi che affliggono la mia vita. Proprio no. E anzi per esempio i venditori cinesi di occhiali a tre euro
sono la mia salvezza perché così quelli buoni li tengo in casa per scrivere, leggere e lavorare, ma in giro,
per brevi necessità vaganti, mi porto quelli da tre euro, che ne rompo o perdo un paio al mese. E i
suonatori ambulanti (se non sono proprio bambinetti) mi rallegrano, danno un po’ di vita alla città: ce ne
sono alcuni bravissimi. Ecco.
Comunque non è con le retate di accattoni e puttane che si risolvono i problemi. E poi questa «crociata
contro l’illegalità» è pelosissima, è di un ipocrita che fa schifo. Come scrive oggi don Vinicio Albanesi sul
Manifesto in una lettera aperta ai sindaci: «Il lato debole delle vostre recenti iniziative è il doppio passo
che usate costantemente nei confronti dei cittadini che amministrate. Voi non invocate sempre legalità, ma
sopportate molte illegalità sul vostro territorio, quando esse sono a beneficio degli abitanti “doc”:
abusivismo nell’edilizia, nel commercio, nella pubblicità, nell’uso dei beni pubblici, nell’accoglienza etc.
Non controllate, come dite, il vostro territorio, ma sopportate (e alimentate) una diffusa legale illegalità.
Siete molto prudenti o assenti nei confronti dei ceti che contano: diventate severi se i livelli di illegalità
“disturbano” l’equilibrio dell’illegalità nostrana».
Già. È giusto ieri che mi sono sentito rivolgere un ammiccante non le faccio la fattura, così risparmia dieci
euro di IVA. La legalità piace solo se applicata agli altri. Se arriva il vigile a contestarti che hai
parcheggiato in tripla fila bloccando il traffico, è un rompicoglioni: vada piuttosto a caccia di venditori di
rose (fra i quali, detto per inciso, ci sono molti laureati).
Sia come sia, Veltroni dichiarando testualmente che bisogna essere più severi contro le prostitute mi sa
che si è giocato il mio voto alle primarie. Anche se non è che ci siano grandi alternative. Ma votare uno
che finisce a prendersela con le puttane è troppo. Voglio votare la Sinistra, non l'Inquisizione.
La piega sulla Mesopotamia
mercoledì 5 settembre 2007, 15.22.38 | molinaro
Sarà che ho recentemente lavorato (sempre da redattore, mica da autore o studioso,
s’intende) a opere sul cristianesimo e a opere su religioni orientali e cose simili, ma oggi mi
è venuta un’idea, un’immagine sulla religione, su come si è sviluppata. Oh, è un’immagine
da poeta, non da scienziato o da storico, quindi non state a confutarmela su quei piani. Tanto
non capirei!
Pensate a un quaderno aperto con la piega sulla Mesopotamia, o da quelle parti, e con una
pagina appoggiata sull’Occidente e l’altra appoggiata sull’Oriente. Giù nella piega mesopotamica ci sono le prime
religioni, le religioni della Madre Terra. La terra genera, nutre, riaccoglie in sé, genera di nuovo, e così via. Di fatto, è
più o meno quello che ci succede davanti agli occhi, appunto, e quei primi uomini ci hanno costruito la loro
(semplice?) religione. Ma a un certo momento, nell’evoluzione della nostra capatosta, questo essere generati, nutriti e
ritrasformati in terra deve aver cominciato a lasciarci vagamente insoddisfatti. E che senso ha, e a che cosa serve, e
allora ma io che ci sto a fare, e tutto è vano, e che palle! Allora gli uomini sono usciti dalla piega (la piega, il solco, la
rima vulvare) e sono andati a scrivere religioni più gratificanti sulle due pagine. Quelli che sono andati a scrivere
sulla pagina d’Oriente, si sono ingegnati di sottrarsi alla Madre Terra e alle sue precarie rigenerazioni puntando decisi
sul nulla, chiamato in vari modi (il più popolare è nirvana, credo). Un grande impegno spirituale per riuscire a
smettere di vivere e rivivere in immemori innumerevoli altre vite, e per conquistare finalmente il vuoto, l’estinzione
di tutto. E vabbè. Contenti loro. Quelli che sono andati a scrivere sulla pagina d’Occidente invece si sono inventati
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28/05/2008
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teorie per vivere eternamente loro stessi, proprio ciascuno di loro, Anselmo Pautasso for ever, con un dio unico,
molto personale, maschio (per non confondersi con la Madre Terra, quella femmina lubrica bagascia ingoiatrice!), un
dio-io, anche lui con il suo preciso nome, per sempre. E vabbè. Se sentivano questa necessità, come biasimarli? Non
fosse che con le varie religioni hanno fatto sfracelli, non mi sentirei di biasimarli. L’angoscia della mortalità è dura, è
dura non sapere un cazzo e non avere nessuna soluzione. Ma tant’è, io non so un cazzo e non ho soluzione, e ci scrivo
pure una poesia e la metto qui sotto. Quanto alla mia idea-immagine su come si è sviluppata la religione, ribadisco
che è solo una fantasticheria poetica, insomma una cazzata, non state a filosofarci tanto su, che non vale la pena!
VERSO SERA
No io non è che ho una soluzione
non dico universale non ce l’ho
neppure personale quando il sole
comincia – te ne accorgi – a tramontare
ho accettato il mio essere triste
dietro tutti i sorrisi di carta
fa quasi bene accettare la tristezza
capire che non c’è la soluzione
che questa è la realtà e che potrà
abbracciarmi la malinconia
– e con gli anni potrà venirmi incontro
una minima dose di schizofrenia
quanto basterà per potermi guardare
da fuori – guardare l’uomo vecchio
che piangerà quel suo essere vecchio
piangerà perché non saprà fare altro
naturalmente non saprà – e ridere
di nascosto di lui, come fanno i ragazzini.
La mosca nella tastiera
giovedì 6 settembre 2007, 1.31.38 | molinaro
Nella scuraglia (citazione scarpiana) di questa fresca notte che precede un viaggio
verso affascinanti lidi, resto ancora sveglio un poco e penso che in amore (o
insomma in quella cosa fra donna e uomo che siamo soliti chiamare amore) quasi
sempre si raccoglie qualcosa dove non si è seminato, e non si raccoglie nulla dove si
è seminato. D’altronde una cosa così la dice anche il Vangelo da qualche parte.
Qualche giorno fa una piccola mosca s’è infilata nella tastiera qui dell’elaboratore
elettronico, fra la T e la Y e il 6, e non è più uscita. Sarà morta e le sue secche spoglie resteranno lì per
sempre. Ma la morte di un insetto non ci turba, lo dice anche Wisława Szymborska.
Tornando all’amore, spesso si dà ciò che mai si chiederebbe, e si chiede ciò che mai si darebbe. Ho visto
talvolta uomini spaccarsi le ossa per andare incontro a opinabili capricci di fanciulle, e ho visto più spesso
uomini inguaribilmente infedeli pretendere fedeltà. Ma perché scrivo queste inutili parole? M’attende una
donna che nega di essere bionda, ma io affermo che lo è: ha qualcosa di dorato non solo nei capelli. E
nell’abbraccio infine non c’è né seminare né raccogliere: c’è un’erba spontanea da accarezzare, perché
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Carlo Molinaro
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cresca meglio. Non c’è dare né prendere, c’è meravigliarsi di qualcosa che accade. C’è un piccolo miracolo
che non potrà mai essere garantito – forse avverrà ma forse no – e non potrà mai essere negato – forse non
avverrà ma forse sì.
Non c’è da fare nessun giuramento, come in questa poesia di Guido Gozzano, nella quale fra l’altro non
sono mai riuscito a capire in modo proprio definitivo che cos’è il redo.
IL GIURAMENTO
Ritorna col redo,
mi guarda sott’occhi;
un bacio le chiedo:
mi fissa nelli occhi
con occhi sicuri e vuole
che giuri.
- O molle trifoglio,
o mani di gelo!
Che bene ti voglio!
Ti giuro sul cielo! Solleva una mano,
mi dice:
"è lontano!".
- Che sete di baci!
Morire mi pare.
Ah! Come mi piaci!
Ti giuro sul mare! Riflette un secondo,
mi dice:
"è profondo!".
Biancheggia sospesa
in fondo al tratturo
la Chiesa. - Ti giuro
fin sopra la Chiesa! Sorride bambina,
mi dice:
"è calcina!".
- Il fieno ci copra.
Ah! T’amo di fiamma!
Ti giuro fin sopra
la testa di mamma: Mi guarda supino,
mi dice:
"assassino!".
M’irride, ma poi
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Carlo Molinaro
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si piega "...m’inganni?"
- Ti giuro, se vuoi,
pei belli vent’anni! Solleva lo sguardo,
mi dice:
"bugiardo!".
Guido Gozzano
Stamattina l'aria è limpida
sabato 8 settembre 2007, 10.45.29 | molinaro
Stamattina l’aria è limpida, sono tornato ieri da un breve viaggio e
stasera riparto per un altro breve viaggio, e nel frattempo devo portare
avanti del lavoro e fare qualche commissione, però prima ho scritto tre
poesie, che sono anch’esse poesie di viaggio, forse, o forse tutto è
viaggio, più semplicemente.
IL MIO PAESE
Mi accorgo ora di aver perso una poesia
e visi
e voci
e quegli alberi tutti scritti sono tutti stati tagliati
non c’è quasi più il mio bosco
non c’è quasi più il mio mondo.
Chiara Borghi
Ho impiegato molto tempo a ritrovare
la strada. Tutto è cambiato o forse sono io
che non ricordo. Quanto torni al paese
dopo una vita da migrante e non hai
neppure fatto fortuna, ti guardano
da straniero. Infatti sono straniero
– e non lo sono: conosco la lingua:
per me è tutto vecchio e tutto nuovo
contemporaneamente. Questo è
un vantaggio nel decifrare gli alberi
e i muri e le panchine mescolando
la memoria svagata all’entusiasmo
dello scoprire per la prima volta.
Così da qualche parte c’è il tuo mondo,
il bosco non è mai stato tagliato.
Su sentieri dove non ho camminato
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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saprei condurti come guida esperta
a ritrovare i tronchi incisi e anche
quelli che non avevi mai inciso
– e la poesia che credi d’aver perso.
Non si perdono, sai, le poesie:
lasciano un seme che attende nel secco
le nuove piogge per rigermogliare.
La poesia non è le parole
ma ciò che le fa scrivere: il gonfiarsi
d’una ferita, lo sbocco di sangue
dal labbro della terra, la perenne
inquieta trepida urgenza del vivere.
Ho impiegato molto tempo a ritrovare
la strada. E ora infine, a dire il vero,
non sono neanche sicuro che sia
il mio paese. Eppure ne conosco
la lingua e ne ritrovo i tronchi incisi.
E tanto basta.
LA DONNA CHE MI PORTA PER LE CALLI
La donna che mi porta per le calli
a volte ci si perde pure lei:
troviamo un ramo chiuso o che s’affaccia
su un canale – e si deve tornare
indietro, ma c’è tempo per un bacio.
La donna che mi porta per le calli
è a casa sua per tutta la città:
così restiamo intimi fra noi
senza bisogno di chiudere porte
né mettere gli scuri alle finestre.
GIOCO D’ACQUE
Quest’anno l’acqua ha una parte importante
negli amori e nel resto: Romina per mano
sul lago di Fimon, Grazia a parlare
sottovoce sul lago di Como, la laguna
che accompagna i pensieri di Clara,
Claudia sul lungomare di Finale,
Chiara sui sassi del torrente Neva.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Quest’anno l’acqua ha una parte importante.
D'altronde fu così anche in passato:
Francesca sulla Sesia, Rosalena
al torrente Rantiva, Diletta sul Po,
Antonella alle rive del Ticino,
Federica con la pioggia nei capelli
sull'erba presso il Tevere, Marina
camminando nel porto di Genova.
L'acqua ha una parte importante in amore.
Odiare la vita
sabato 8 settembre 2007, 13.04.15 | molinaro
Tornavo poco fa a casa dopo essere stato alla Farmacia della Consolata a comprare una
medicina naturale per mia madre, che la trovo solo lì, e passando davanti a una chiesa leggo
un grosso manifesto che dice: «Chi non odia la propria vita non può essere mio discepolo».
Una frase orribile, una frase che contiene in sé tutto il fanatismo di tutte le religioni. Sì, lo
so che è una frase attribuita a Gesù Cristo (ma i Vangeli sono stati compilati, elaborati e
selezionati dal potere della Chiesa); sì, lo so che bisogna «contestualizzare» (verbo caro a
un mio caro amico!); ma è una frase orribile lo stesso. Chi odia la propria vita è pronto, certo, a essere discepolo,
perinde ac cadaver, di qualsiasi potere che riesca a catturare la sua disperazione. Chi odia la propria vita, secondo la
mia umile opinione, non può amare neppure la vita degli altri e tanto meno aiutare il prossimo suo. Chi odia la
propria vita, in compenso, può schiantarsi con un aereo carico di gente contro un palazzo pieno di gente (New York,
sei anni fa), così come può sgozzare la propria figlia perché indossa la minigonna (Brescia, l’anno scorso), così come
può affogare nel grasso fra un televisore e un hamburger applaudendo la guerra. Tutto in nome di Dio. Sempre in
nome di Dio.
[Forse odiano la vita perché non sopportano l'idea di amare qualcosa che cambia, che è in bilico, che finisce. E non si
accorgono che la loro è un'atroce professione di non fede.]
Festa d'una notte di fine estate
domenica 9 settembre 2007, 16.15.06 | molinaro
Stamattina il barista mi ha fatto sul cappuccino una graziosa foglia disegnata versando il
latte, davvero graziosa, e questo mi ha fatto pensare a Monica, per via della cosa detta a
pagina 311 del grosso libro. Poi adesso scrivendo di una foglia graziosa mi sono venuti in
mente gli occhi grandi color di foglia della graziosa-bambina-puttana di via del Campo.
Così mi disperdo in mille pensieri e concentrarmi è difficile.
Hanno ragione a non fidarsi di me le fanciulle: la mia fragile geografia di donne e campagne
s’appunta a dettagli trascurabili. Sulla mia scheda carburante, ora che devo usare di nuovo un po’ di più l’auto per
raggiungere posti non ferroviabili, otto timbri su nove sono dell’area di servizio Lidora Ovest. Già il fatto che io
continui a usare la scheda carburante anche se non detraggo più niente di spesa (le leggi sono cambiate e poi
comunque onestamente l’auto la uso «per lavoro» forse nel 5% dei casi, un po’ poco!) è vagamente maniacale: è che
mi piace farmi fare il timbro: finché non la trasformeranno anch’essa in qualche fredda vaccata elettronica è bella, la
scheda – guardate l’immagine – con tutti quei timbri su carta che ricordano un viaggio. Quand’ero bambino mi
piaceva se mi mandavano a pagare le bollette alla Posta perché sulla ricevuta del versamento mettevano il bollo
lineare dell’ufficio accettante, il bollo frazionario, il bollo circolare con data, il cartellino gommato del bollettario di
accettazione, ritagliato con le forbici, maestose forbici da ufficio, e la firma dell’impiegato rigorosamente con
inchiostro nero o nero bluastro. Opere d’arte di cui s’è persa la memoria.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Ma perché mi fermo a Lidora Ovest? Per tre motivi. Uno, è l’ultima area prima di Altare, venendo da Torino, e
spesso esco dall’autostrada ad Altare. Due, è situata nel comune di Cosseria, dove abita Cristina, una ragazza
deliziosa con la quale non sono riuscito ad approfondire molto, ma per la quale comunque c’è una poesia a pagina
507. Tre, ci lavora Alessandra, che conosco solo a livello di ciao come va salutami Cesare e gli altri, ma che ha un
bel musetto, e spero sempre di trovare lei di turno, perché mi piace vederla, e poi anche per scambiare davvero, alla
faccia di Guccini, qualche parola con la ragazza che dietro al banco mescolava birra chiara e Seven Up, e il sorriso
da fossette e denti era da pubblicità. Ora sapete in che modo seleziono le aree di servizio in cui fermarmi. Seleziono
così anche quasi tutto il resto del mondo, a dire il vero.
Ma volevo raccontare qualcosa della festa di ieri. Ieri insomma, dopo essermi fermato a Lidora Ovest a mettere venti
euro di benzina, farmi controllare la pressione delle gomme (l’anteriore sinistra era ben sgonfia) e salutare
Alessandra, sono arrivato a Mallare per la festa-cena a base di formaggi (e frutta) detta appunto formaggiata, che sta
diventando una tradizione di fine estate fra noi amici.
Sono arrivato che c’era già qualcuno, poi la compagnia s’è completata. Una tavolata di formaggi, salumi, frutta e
vino. Una decina di amiche e amici – qualcuno che si conosce dall’infanzia, qualcuno da anni, qualcuno da mesi. Mi
sono innamorato anche di queste feste (ma, si sa, io m’innamoro di tutto!) perché c’è armonia, c’è vicinanza, c’è
gioia, e si crea un mondo che, per tre o quattro o cinque ore, è tutto lì, non è disperso. È quasi leggibile, è quasi vero.
Scopro stamattina che ieri sera c’è stata un’importante partita di calcio, ma nessuno di noi l’ha vista e nessuno ne ha
parlato; c’è stato anche il V-day di Beppe Grillo e nessuno di noi se n’è accorto – ma non è disimpegno, è ricaricarsi,
è ritrovare sé stessi, è il necessario silenzio (anche se si parla, si canta e si fa musica) dove cessa l’assedio assordante
del mondo «globalizzato».
Quest’anno ho partecipato di più, a queste feste tra Savona e la Val Bormida, e ho partecipato di più per via di
Chiara, lo ammetto con la massima serenità – la ragazza che non avrò mai se non come amica e che anzi non dovrei
neppure corteggiare – ma ci metto il mio tempo a rassegnarmi. La ragazza con la quale, come ha osservato
giustamente Mac, non c’è verso, anche se scrivo per lei molti versi. Ma in fondo, se questo mio ostinarmi in una
missione impossibile ha avuto l’effetto collaterale di avvicinarmi di più ad altri amici (oltre che a Chiara stessa,
infine: ora almeno «la conosco» un po’ di più – amore non è solo far l’amore), non sarà poi stato male. Mi ha
profondamente emozionato questa bella estate (in senso vagamente pavesiano) savonese (e, su un altro mio versante,
veneta). Viaggi di un giorno o due che hanno rappresentato le mie «ferie» (non ho fatto altre vacanze chissà dove,
non ho denaro, e forse non ne avevo poi neppure voglia: ci sono infiniti misteri in cui immergersi a pochi chilometri
da casa), viaggi fra amiche e amici e amori ricambiati e non ricambiati, viaggi in paesaggi sempre più domestici,
sempre più miei, a incontrare le pietre, le strade, gli usci / e i ciuffi di parietaria attaccati ai muri, / le strisce delle
lumache nei loro gusci, / capire tutti gli sguardi dietro agli scuri, come dice ancora il nostro Guccini.
Scusatemi se è una frase retorica, ma solo l’amore fa conoscere i luoghi. Una settimana a Sharm el Sheik è una
cartolina che si dimentica presto in un cassetto; Venezia Vicenza Savona Cadibona Mallare e la Val Bormida da un
anno in qua sono terra mia, la terra che non perdi mai più. Questo è il viaggio che amo viaggiare.
L’amore è irrazionale ma spesso gioca a rivelare affinità percettibili: alla festa di ieri sera Chiara e io ci
assomigliavamo, eravamo quelli che facevano più fatica a togliere la maschera dei giorni usati, e forse quelli che lo
desideravano di più. Quelli che facevano più fatica a intonare la voce al canto. Quelli che ogni tanto dubitavano di far
davvero parte del gruppo. Quando una banda di ragazzini in campagna deve saltare un ruscello per andare nell’altro
prato, ci sono i primi, i più svegli, che zompano di là senza quasi accorgersene. Poi ci sono quelli un po’ più
circospetti che misurano la distanza e dopo un attimo si decidono a spiccare il balzo. Poi ci sono quelli imbranati,
impauriti, quant’è lungo il salto da fare, la tentazione di dire «ma che mi frega di andare sull’altro prato» e di
restarsene isolati, la paura di finire con un piede in acqua e gli altri che ridono, che vergogna, e poi infine, magari il
secondo o il terzo giorno che la compagnia va su quel prato, la decisione di provarci, sia come sia, la corsa, il piede
sull’ultima pietra, lo slancio, tutto quello che puoi, il cuore che batte a mille, l’altro piede sull’erba di là, lo sforzo del
ginocchio, ci sei! Hai fatto niente, hai fatto ciò che gli altri della compagnia non si sono neanche accorti di fare, un
piccolo salto su un ruscelletto, non te ne potrai certo vantare, però dentro di te è un oro olimpico, e sorridi, con il
cuore che stenta a rallentare, mentre raggiungi il gruppo a giocare.
Mi dirai che non è vero, Chiara, ma io ieri ho visto te e me così, ed è anche per questo che ti voglio bene. Ora la
pianto se no dici che ti corteggio e non devo e mi mandi a cagare e va bene basta.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 127 di 404
Le tre ragazze che conosco da più tempo ieri sera erano bellissime, alla formaggiata. Anita s’è tagliata i suoi lunghi
capelli e sta bene così, arruffata, è un passerotto con una voce limpida come l’anima, una faccia da schiaffi e da baci,
che solo a guardarla tu già sorridi e stai meglio. Ha nello sguardo stupore e disincanto ma il disincanto buono, quello
che serve a fare spazio per altri stupori. Sonia, vestita elegante con qualche saggia scopertura, rivela una figurina
aggraziata, incisa decisa precisa eppure sinuosa, invitante come un sentiero fra le colline, gioco di luce e d’ombra, di
pietra dura e più morbida terra. Chiara anche lei elegante, gli occhi mutevoli come certe giornate di vento, le spalle
solide e fragili, un corpo che è fiero così senza sembrarlo, le gambe selvatiche, le belle mani che si muovono a scatti.
Quando fuma una sigaretta, anche se credo che fumi da molto (e smetti, che fa male alla pelle e a tutto!), il gesto del
braccio e delle labbra è quello di chi fuma la sua prima sigaretta, senza molta convinzione, più per farlo che per
sentirlo, e anche questo è un segno che... No, niente. Niente. Mie fantasie, credo. La fantasia può fare male se non sai
bene come domarla, tanto per insistere nelle citazioni gucciniane.
Cesare, Mac e Alessio erano in buona forma esistenziale e musicale, e anche Luca e Balla erano a loro agio, e anche
Lella, l'amica di Sonia. La cagnetta di Chiara, Zoe, correva di qua e di là attaccandosi un po’ a tutto. È cucciola, ha
solo cinque mesi. Quando l’ho presa in braccio io s’è quietata e quasi addormentata: forse le mie mani sono calmanti
per gli esseri viventi di sesso femminile, non solo della specie umana. Le donne della mia vita ricordano, quasi tutte,
le mie mani, perché sono belle (così dicono) e perché al contatto tolgono dolori e tensioni (così dicono). Forse potevo
fare il pranoterapeuta, occasione sprecata. Ma forse funziona solo con le donne che amo (ed eventualmente i loro
cani?), e allora no, non potevo fare il pranoterapeuta.
Alessio alla fisarmonica, Cesare e Mac e anche Luca e Anita alle chitarre, alle voci un po’ tutti: la musica è stata
buona. E, più tardi, sono stati buoni i discorsi sulla vita. Quando la compagnia è giusta, non si parla di sport e motori:
il discorso, dopo l’opportuno cazzeggio d’allegria iniziale, si indirizza spontaneamente verso cose importanti.
Del vino non so dire, essendo astemio (l’acqua di quelle montagne comunque è ottima); tra i formaggi ce n’erano
alcuni davvero deliziosi, e poi anche semplicemente il grana con le pere è un gran bel mangiare. C’era dell’uva dolce
e croccante, nera, bianca e dorata, moscatella. E i fichi secchi. E le noci. Non ci vuole poi molto, non c’è neanche da
cucinare, solo preparare le cose, disporle. Ed essere amici.
Sono ripartito verso Torino che erano le quattro passate, non avevo sonno, ho guidato con calma nella notte, sono
arrivato a casa con le prime luci del mattino e una falce sottile di luna calante che sorgeva piano all’orizzonte. Ho
voglia di raccontare la festa a Claudia e di massaggiarle un po’ la schiena. Ho voglia di tutto. Stasera mangio il
risotto da mia madre.
La password
lunedì 10 settembre 2007, 23.35.44 | molinaro
L’altra sera chiacchierando con un amico gli dicevo che una mia (e sua) amica mi aveva
dato la password della propria casella di posta, perché io gliela controllassi e leggessi e le
riferissi i messaggi, di persona o al telefono, essendo lei senza computer per lunghi periodi.
E gli spiegavo che la cosa mi provocava quasi un qualche disagio, forse perché io invece la
mia password tendenzialmente non l’avrei mai data a nessuno. Lui un po’ si scandalizzava
della mia malfidenza, e sosteneva che se la dai a un amico, la password, non hai di che
preoccuparti, perché un amico non ti spierà e non ti farà danni, e la userà solo per lo scopo che gli hai richiesto.
Ora, a criticare la mia malfidenza era lo stesso amico che sostiene che in determinate circostanze tutti possiamo
mentire (fa l’esempio del ragazzo che ha rigato l’auto facendo una manovra imbranata contro un muretto ma per non
essere preso in giro racconta agli amici che gliel’hanno rigata mentre era posteggiata); e che quindi nessun discorso,
neppure del migliore amico o della fidanzata, va preso per oro colato: bisogna sempre interpretarlo e vagliarlo.
Ecco un esempio di punti di vista diversi, forse derivati da esperienze personali diverse. A me non viene in mente che
le persone che mi parlano, specie se amiche, possano mentire. In compenso mi viene in mente che esistono
circostanze in cui io stesso potrei fare una spiata nella casella di posta di una persona, avendo la password, e non
resisterei. Magari con motivazioni «d’amore», ma sarebbe sbagliato lo stesso – epperò non resisterei.
Federica quasi due anni fa è sparita dalla mia vita senza farsi mai più trovare, senza dirmi più una sola parola. Ma
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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fino a un attimo prima eravamo in una confidenza piena e totale (e infatti la sua sparizione mi addolora
immensamente – un taglio così improvviso – ne ho già parlato in questo blog). Eravamo in una confidenza tale che,
se necessario, credo che lei mi avrebbe dato la sua password perché io le leggessi e riferissi la posta. Ecco. Mettiamo
che me l’avesse data e che successivamente non l’avesse mai cambiata. Ebbene, io nei mesi successivi, persa ogni
traccia di lei, e ancora oggi, stasera, non resisterei affatto, e andrei ad aprire la sua casella, per cercare di scoprire che
cosa fa, a chi scrive, chi le scrive, insomma qualcosa della sua vita che tanto mi manca. Lo farei «per amore e per
nostalgia», certo non per danneggiarla, ma non è una buona scusa: spiare la posta altrui è comunque una pessima
azione. Però so che lo farei.
Ecco: forse le cose su cui non ci fidiamo degli altri sono le medesime su cui non ci fidiamo neanche di noi stessi. Io
la password della mia casella la darei solo in caso proprio di estremissima necessità. E mi sa che, finita la necessità,
la cambierei. E forse l’amico si sentirebbe offeso dalla mia malfidenza, ma d’altronde io potrei sentirmi offeso dal
suo «interpretare e vagliare» le parole mie o di persone a me care, e così sarebbe un’offesa continua. Meglio capire
che abbiamo tutti i nostri punti deboli, e non offenderci affatto. Siamo tutti diversi e imperfetti. E buona notte.
Il tempo è il tempo; e il nonno, e il cucchiaino
lunedì 10 settembre 2007, 23.57.00 | molinaro
Stasera c’è un po’ di malinconia, non credo sia l’autunno che viene, l’autunno è una
stagione dolce, e poi oggi a Torino la giornata è stata ancora pienamente estiva. No, è
qualcosa che si percepisce ogni tanto: il tempo che passa, le cose che sfuggono. Il tempo
passa sempre e le cose sfuggono sempre, certo; ma è come un treno ben molleggiato che fila
sui binari, è abbastanza silenzioso e non lo senti – solo in certi momenti sobbalza su uno
scambio all’entrata di una stazione, o frena a un segnale, o rimbomba su un ponte di ferro, e
allora ti accorgi che sta andando, per un istante o per qualche minuto – e ci pensi; poi torna il quasi silenzio – e di
nuovo non ci pensi più.
Quarantasette anni fa moriva mio nonno (oggi è l’anniversario) e io ero con lui sotto il fico in cortile, dove si sentì
male per l’infarto; e ventisei anni fa nasceva Chiara (oggi è il suo compleanno) e io ero già un uomo sposato e
impiegato (salvo poi, molto dopo, cessare di essere entrambe le cose!). La mia vita dunque in questo 10 settembre si
estende oltre tutti quegli anni, e il tempo è il tempo, e se io mi sento un ragazzo è una cosa mia d’anima, ma il tempo
è il tempo.
Poi il treno torna silenzioso e non ci penso più. Mio nonno era simpatico e mi dava retta anche se ero un bambino, era
uno dei pochi: gli adulti di norma trattano i bambini come deficienti. Mi insegnò a scrivere, prima in stampatello poi
in corsivo. Oggi direbbero che fece male, perché poi in prima elementare mi annoiavo, già sapendo. Ma all'epoca non
sottilizzavano su questo, prima sapevi una cosa meglio era. Una volta gli domandai se per sciogliere lo zucchero
nell'acqua bisogna proprio girarla con il cucchiaino, o se invece, aspettando molto tempo, lo zucchero si scioglie da
solo. Non mi rispose male, anzi facemmo l'esperimento: mettemmo lo zucchero in un bicchier d'acqua, senza girare
con il cucchiaino, e aspettammo il giorno dopo. Lo zucchero non si sciolse. È solo grazie a mio nonno, e non agli
adulti saccenti che non spiegano niente, se oggi so davvero che lo zucchero non si scioglie senza girare con il
cucchiaino. Altrimenti avrei il dubbio ancora adesso, come su tante altre cose.
Work, coffee & valium
giovedì 13 settembre 2007, 8.58.58 | molinaro
Stamattina, fra un’oretta, vado in un’azienda (una nota casa editrice). Di solito
lavoro in casa, ma ogni tanto ci vuole un po’ di contatto diretto, e allora vado in
azienda. Ci ho lavorato, dentro quell’azienda, per più di un quarto di secolo, mi
hanno dato anche la medaglia e il diploma (vedi immagine), poi... sono diventato
precario. Collaboro dall’esterno. Libero professionista! Succede, nulla di strano, un
po’ è stata una mia scelta e un po’ no. D’altronde, se in amore ho la testa di un
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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ragazzo (così mi dicono spesso), è giusto che anche la posizione lavorativa sia coerente: i ragazzi sono
tutti precari nel lavoro, no? E dunque!
Le aziende sono strane. Chi ci lavora prende un sacco di caffè. Il lavoro è strano. Forse io sono strano. A
me per lavorare non serve il caffè, anzi. Cerco di non prendere niente, ma nelle giornate in cui proprio non
riesco a lavorare, quando il culo mi balza via dalla sedia e ogni pensiero fugge in tutte le direzioni, per
riuscire a lavorare prendo dieci gocce di un blando tranquillante, o almeno mi faccio una tisana, tipo
camomilla. L’esatto opposto del caffè. Devo essere un po’ anormale. Sarà che la stanchezza riesco a
vincerla con la voglia, di solito, non c’è bisogno di caffè. È la non voglia che non so mai come vincerla, mi
manda fuori di testa, mi fa impazzire, il mondo è meraviglioso e io butto via la vita davanti a un computer,
è follia, è sacrilegio... Allora, per lavorare, prendo dieci gocce di tranquillante. Altro che caffè!
Oggi è il cinquantacinquesimo anniversario del matrimonio dei miei genitori. Cioè, lo sarebbe, perché mio
padre è morto trentun anni fa, all’età di cinquantuno. Lavorava tutto il giorno... Ci dev’essere qualcosa di
sbagliato.
La carte postale
giovedì 13 settembre 2007, 17.46.58 | molinaro
Tornando dal lavoro in quell’azienda di cui al messaggio
precedente, ho trovato una cartolina. Così, prima di rimettermi al
lavoro in casa, ho scritto una poesia. Non che fosse obbligatorio.
Ma è successo. D’altronde ogni scusa è buona per ritardare il
momento di rimettersi a lavorare, no? Solo che poi si deve andare
avanti fino a notte fonda, perché il lavoro è quello che è, e resta lì,
non si fa mica da solo.
LA CARTE POSTALE
I fuochi artificiali su Montmartre
dentro la carte postale da Parigi
non sono veri, li hanno disegnati
dopo: sono davvero artificiali.
Anche la chiesa pare una statuina
dentro una bolla con la neve finta.
Ci sono stato, credo, sette volte
a Parigi: da solo, con gli amici,
con una donna, con un’altra donna,
pure in viaggio di nozze. Sono andato
a puttane, a Parigi, sono andato
al Musée Marmottan dove ci sono
soleil levant e l’arrivée d’un train,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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due dipinti che amo; ho visitato
periferie lontane col metrò.
E ci ho mangiato anche il primo kebab
della mia vita e ho visto una vetrina
piena di topi morti, era una ditta
di derattizzazione, certi topi
impagliati più grossi d’una volpe.
La carte postale però non mi ricorda
niente di tutto questo, non è cosa
di nostalgie: mi ricorda la mano
che me l’ha scritta nove giorni fa
(ed è arrivata stamani: la Posta
non è stata veloce), mi ricorda
che qualcuno a Parigi s’è fermato
un minuto a pensare di mandarmi
la cartolina, e l’ha fatto, ci ha messo
un francobollo azzurro, l’indirizzo
ricordato a memoria oppure preso
da un’agendina, ha cercato una buca
e ha imbucato. È per questo che salgo
più svelto e più felice i quattro piani
di scale verso casa e sorridendo
apro la porta e mi verso dell’acqua
che bevo avidamente, poi mi metto
di buona lena al tavolo, al lavoro.
Poesia chiama musica (sul lago d'Orta)
venerdì 14 settembre 2007, 13.33.50 | molinaro
Con la consueta mia tempestività (succede domani!) vi dico della
manifestazione POESIA CHIAMA MUSICA: sabato 15 settembre 2007,
ore 16, Spazio Verde della Fondazione Calderara, Vacciago di Ameno
(Lago d’Orta): lettura di poesie intercalata da intermezzi musicali per
flauto, clarinetto, violino e violoncello, in prima esecuzione assoluta.
Voce recitante: Maria Pilar Perez Aspa. Progetto di Davide Anzaghi. La
cosa interessante è che sono pezzi di musica classica nuovi, composti ispirandosi a poesie. E
io cosa c’entro? C’entro, perché di Pippo Molino sarà eseguito (da Andrea Favalessa) il brano
Rami 1, per violoncello solo, ispirato alla mia poesia Numeri, che sta nel libro a pagina 528 e
che comunque, per l’occasione, vi ripropongo qui sotto. Se qualcuno vuole venire... Se
qualcuno vuole venire da Torino, anzi, gli do un passaggio in macchina, a condizione che
dopo venga con me anche a Carcare (SV) alla cena di compleanno di un’amica, che mi ha
detto «porta chi vuoi». Se qualcuno è qualcuna, è meglio. Ma insomma, vediamo!
NUMERI
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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a Giulia Vay e a Mauro Ferrari
Chissà perché un poeta a Marcarolo
si rattristava scoprendo che i suoi
versi migliori, quando ne contava
compiaciuto le sillabe, svelavano
d’essere endecasillabi. Che male
c’è? Mi sa che parlava per parlare,
pavoneggiando la sua disperata
sete di sconvolgenti novità
di lessico e di ritmo per vestire
con l’ultima fantastica trovata
la vecchia amante sempre più appassita.
Intanto una ragazza ci serviva
al tavolo la pasta e l’insalata:
un bel viso, due mani, cinque dita
per ogni mano, due fragili seni,
due occhi azzurri e una testa biondina.
Su una panchina
venerdì 14 settembre 2007, 20.56.21 | molinaro
Oggi ho scritto su una panchina di corso Cairoli (no, non direttamente sulla panchina: su un
quadernetto, stando seduto sulla panchina) questa strana poesia. Strana poi perché? Non lo
so, mi è venuto da dire così. È sera, è autunno, ho ancora del lavoro da fare.
BILOBA MATRIS
Oggi, quattordici settembre del duemila e sette,
su una panchina di un corso verso le sei di sera
ho chiuso gli occhi e ho sentito il rumore
del traffico e l’odore sia del traffico
sia dell’autunno. Mi è sembrato tutto uguale
a un’altra volta che avevo fatto lo stesso gesto
– sedermi su una panchina e chiudere gli occhi –
più di trent’anni fa.
Dunque sono rimasto un minuto
a pensare al mondo che avrei visto aprendo gli occhi:
mi è parso di arrivarci come sempre da molto lontano,
di sperare vagamente qualcosa di strano,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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e nel rumore e nell’odore della città e dell’autunno
nulla di diverso da trent’anni fa
nulla di diverso nelle mie narici o nelle orecchie
nulla di diverso nel mio cuore
sono stanco ma sono sempre stato stanco
ho voglia ma ho sempre avuto voglia
ho nostalgia ma ho sempre avuto nostalgia.
Mi sono alzato e ho fatto mente locale
per sincronizzarmi alla sera di oggi,
quattordici settembre del duemila e sette:
posso essere figlio padre nonno fidanzato sposo
– più probabilmente nulla di tutto ciò –
ho camminato verso casa con il passo
del forestiero guardingo e curioso, di quello
che tutti lo conoscono ma nessuno gli parla
perché non sai che cosa raccontargli,
perché non sembra mai uno dei nostri.
Una poesia scritta nel 1983 per il 1968 e una ieri per ieri
domenica 16 settembre 2007, 18.03.56 | molinaro
Oggi è il 16 settembre e mi è venuta in mente una poesia che scrissi all’inizio degli anni
Ottanta, riferita a un 16 settembre già allora un po’ lontano, il 16 settembre 1968 (la poesia
è a pagina 110 del librone, chi l’avesse – boh, un duecento copie sono state vendute,
qualcuno dovrà ben avercelo!). Non è una data storica per il mondo, è un ricordo solo mio.
Ero andato a una cena con amici in riva a un lago. C’ero andato per stare con gli amici, ma
forse soprattutto per corteggiare Chiara, una mia compagna di scuola che mi piaceva
tantissimo. Lei però stava con un altro (il cui nome precede il suo nel verso della poesia), quindi era un po’ idiota il
mio corteggiarla. Bah, roba di quasi quarant’anni fa, ero un quindicenne stupidello, oggi non lo rifarei... forse. Però
mi era rimasto il ricordo di una bellissima serata, c’erano gli amici e forse all’epoca «guardare» l’amata già mi
bastava: così una dozzina d’anni dopo ce l’avevo ancora molto bene in mente e scrissi la poesia. Dopo la poesia è
passato un altro quarto di secolo. Uff! Il tempo, il tempo, che palle! Insomma, rimane solo una poesia in un libro.
Oppure rimangono infinite indicibili altre cose, è impossibile saperlo davvero. Lingua mortal non dice. La poesia si
intitola Leopardiana perché lo è.
Ma ieri sono stato di nuovo in riva a un lago (e poi la sera a cena con amici, per un compleanno); in riva al lago c’era
una manifestazione di musica e poesia che è stata abbastanza bella. Mentre ascoltavo la musica e le poesie, e poi
ancora un po’ dopo, ho preso dalla tasca un quadernetto e una biro e ho scritto un’altra poesia. La poesia scritta ieri si
intitola Il percorso. Mi permetto di offrirvi qui sotto prima la poesia scritta ieri per una cosa sentita dentro di me ieri,
e poi la poesia scritta venticinque anni fa per una cosa sentita dentro di me quarant’anni fa. Tutto un po’ resta, un po’
cambia, un po’ si evolve. Le cose possono anche migliorare, forse. No? Forse sì.
IL PERCORSO
Il cielo, il cielo! Si fa presto a dire.
Lui prima lo guardò per darsi un tono.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Dopo s’accorse che è meraviglioso.
La ruggine sul riccio di ringhiera,
un topo grigio sbuca da un chiusino.
Un’ortensia sfiorita, una lampada liberty
dai colori scrostati, la siepe ritagliata.
L’ombra del ghirigoro alla parete.
E sulla ruggine il dito di Clara.
Parti da cose piccole, poi torna
alle piccole cose, dopo il volo.
Il volo dove? – chiede – Il volo dentro
te stesso, il volo che non prevedevi:
l’unico che ti può portare fuori.
Vacciago di Ameno, 15 settembre 2007
LEOPARDIANA
Il sedici settembre sessantotto
(era proprio quel giorno, non è un gioco
cretino di assonanze) passeggiavo
sotto la pioggia (pioveva davvero,
non è un’invenzione letteraria)
col Roberto e col Claudio, con la Chiara,
con la Paola e con la Paoletta
lungo la riva del lago, a Baveno,
e lingua mortal non dice
quel ch’io sentivo in seno.
Torino, settembre 1983
Puttane e analisi psicopoetiche
mercoledì 19 settembre 2007, 10.07.43 | molinaro
Nell’escalation di insulti che c’è stata per tre giorni su questo
blog contro una mia amica (nella sequenza di commenti che ieri
ho necessariamente cancellato) ho notato che si è arrivati, nel
finale, ai termini soliti: zoccola, baldracca, insomma puttana.
Spesso, anche partendo da critiche a comportamenti che non
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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hanno nessun legame con la sfera sessuale (mi pare che
all’inizio si criticasse l’egocentrismo, egoismo, insensibilità, orgoglio attribuito alla
persona in questione), si arriva lì, alla parola magica, puttana. Sì, se l’insultato è
femmina in genere si arriva lì, sia che l’insultante sia maschio sia che l’insultante
sia femmina. Puttana è l’insulto per eccellenza, il padre di tutti gli insulti per una
donna. Non esiste l’equivalente per un uomo, non esiste un insulto padre di tutti
gli insulti al maschile, e anche questo è significativo. E dire che, quando non
indica un preciso mestiere (e raramente lo indica), puttana significa
semplicemente un comportamento sessuale femminile libero e disponibile: con
un pizzico di provocazione, potrei dire che indica un comportamento normale,
non represso. Allo specchio della morale borghese degli anni Cinquanta, il
decennio in cui sono nato, tutte le donne con cui sono stato in vita mia sono
puttane, senza eccezione alcuna. Oggi molti (non tutti) la pensano un po’
diversamente, per fortuna, ma puttana è rimasta una parola magica nel bene e
nel male. Attira tantissimo. Se questo messaggio fosse stato intitolato Cavolfiori
e analisi psicopoetiche, avrebbe destato molto meno l’attenzione.
Quando un uomo dice puttana la sua voce cambia, succede anche al più
emancipato degli uomini. Ascoltate Via del Campo cantata da De Andrè, meglio
se in una delle prime versioni: Via del Campo c’è una graziosa... Via del Campo
c’è una bambina... Via del campo c’è una puttana... Vi accorgerete che su
puttana la voce cambia, prende un’enfasi diversa, diventa più spessa, s’incrina
leggermente, tradisce qualcosa di indicibile.
La puttana nel senso più profondo del termine è una creatura mitologica; io ne
ho dichiarato esplicitamente l’inesistenza nella poesia Le sgualdrine non esistono
(pag. 163 de La parola rinvenuta). La puttana è il miraggio e il timore di ogni
uomo, è la creatura più desiderata e più odiata, la donna che è libera e
disponibile e dunque inafferrabile, incontrollabile, non catturabile, la donna che
sa farti far bene l’amore, quella che dà realtà al sogno più intimo e
inconfessabile, te lo esplicita e te lo mette in discussione, mescolandosi a esso
con naturalezza. La puttana è il sogno che, uscendo dal cerchio della fantasia
onanista, diventa verità vissuta, ti apre i cassetti dove non hai mai voluto
guardare, scompiglia le carte, ti fa scoprire che il piacere è una cosa che puoi
toccare davvero, fuori dagli ermi meandri del tuo chiuso cervello impaurito –
epperò non ti appartiene, non è un oggetto di tua proprietà. La puttana è la fata,
la creatura phantasy che a un tratto s’incarna, ti dice di essere persona fisica,
libera, reale e indipendente come te, ti dice: Bien, et alors? Che cosa sai fare,
ragazzo? E tu fuggi e la insulti, normalmente.
Vengo all’analisi psicopoetica. Ci sono due mie poesie, scritte entrambe circa
venticinque anni fa, che, messe una accanto all’altra, mi hanno fatto capire
(adesso: non quando le scrissi) alcune cose di me stesso. Una è la già citata Le
sgualdrine non esistono; l’altra è Parabola (pag. 144). Anche se dovreste
comprarvelo, quel cazzo di libro, ve le metterò qui sotto, per comodità.
Poesia come autopsicanalisi un quarto di secolo dopo. Ci ho molto riflettuto
stanotte. In Le sgualdrine non esistono c’è sotto sotto la ricerca (ma già
dichiarata impossibile in partenza, fin dal titolo) di una che mi faccia star bene
sessualmente. Totalmente bene, bene davvero. Questo è il concetto, fra le righe
del testo poetico: la puttanella entusiasta, giovinetta / che si butta in braccio a
cento con allegra / spensierata fiducia, per prurigine schietta / della carne e del
sangue. Ci sono un sacco di aggettivi (e io sono noto per l’avarizia di aggettivi,
pare che ci siano mie intere pagine senza aggettivi – non l’ho mai fatto apposta,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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giuro): entusiasta, giovinetta, allegra, spensierata, schietta. Il sesso contento, il
sesso vero e contento: eccolo lì il miraggio.
L’altra poesia, Parabola, apparentemente ha un altro argomento, eppure nel
profondo parla della stessa cosa: trovare una realtà di cui innamorarsi, trovarla
fuori da sé stessi, nella vita vera. Ma anche lì si dichiara un’impotente
impossibilità: l’esiliato disperatamente s’innamora (per inciso: è l’unico punto di
tutta la mia produzione poetica e letteraria in cui compare l’avverbio
disperatamente) ma di che cosa? Di un nome di sua lingua su una prora. Ha
aperto gli occhi, è uscito dal guscio, ha trovato un mondo ostile in cui nulla gli
era domestico, ha viaggiato, è giunto in un porto straniero, ma «per
innamorarsi» cerca qualcosa che appartiene ancora al luogo della partenza, che è
irreale (l’anima dipinta altrove, dunque fuori dalla vita vissuta, dallo spazio e dal
tempo).
Quindi, nella mia auto-psicanalisi, vedo che con quelle due poesie un quarto di
secolo fa dichiaravo, nel profondo, che non esiste la donna e non esiste l’amore.
E adesso, oggi, come la vedo la questione? In divenire, in divenire! Ma ne
parleremo un’altra volta forse.
Dopodiché, le poesie sono poesie, sono testi letterari che hanno il loro valore in
sé (Parabola è anche nella breve silloge che mi valse il Premio Montale che
l’amico Cesare cita continuamente!), e lasciamole stare, sono arte e non
psicanalisi. Però credo di aver cominciato a star meglio quando ho cominciato a
capire che la donna esiste nella realtà e non solo nel sogno (affanculo gli
stilnovisti!), e che ci si può innamorare anche di qualcosa/qualcuna che non sta
nella tela dipinta dalla mia fantasia. Anzi, è solo così che è davvero un
innamorarsi – e non un narcisistico triste solitario specchiarsi. Buona giornata,
gente, e non scrivetemi più insulti fra di voi sul blog, tanto più adesso che avete
capito che nella mia Weltanschauung «puttana» è una sublime qualità!
LE SGUALDRINE NON ESISTONO
Se qualcuno conosce una sgualdrina,
una puttanella,
me la presenti! Ma che sia vera e bella.
Ho cercato per anni. Ho creduto alla gente:
«Quella! La sgualdrinella!» – e sono andato
ogni volta a vedere, ma ho trovato solo
qualche ragazza un po’ nervosa, non facile
nemmeno da discorrere o abbracciare,
reduce da pochi amori complicati.
Ho cercato per anni. Ho creduto ai libri:
e ho rastrellato gli ambienti e le categorie
ivi raccomandate: cameriere, postine,
damigelle annoiate, ragazzette cresciute
a strada e osteria, segretarie scosciate.
Non ho trovato niente: normalissime donne
che s’arrangiano gli interessi loro
come tutte, con i progetti e pochi maschi.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Ma la puttanella entusiasta, giovinetta
che si butta in braccio a cento con allegra
spensierata fiducia, per prurigine schietta
della carne e del sangue, non esiste.
È un’invenzione popolare e letteraria.
(Che peccato, però! Che squallore!)
PARABOLA
L’anima mia è un quadro che dipinsi
ad occhi chiusi in un tempo che non so,
e il soffio della terra ne ha fissato
piano piano i colori.
Il bimbo tenne il braccio
ripiegato sul volto, perché i bimbi
hanno paura. Ma l’uomo, più forte,
osò aprire le mani e guardare.
Allora quasi nulla che domestico
mi fosse io vidi. Solamente, a volte,
un suono un volo un arco una fanciulla
trovo che già conobbi
alla mia tela, forse
quando ancora ero altrove.
E disperatamente m’innamoro:
come l’esiliato quando legge
all’improvviso nel porto straniero
dove cammina pensoso fra gli odori
un nome di sua lingua su una prora.
URLARE
giovedì 20 settembre 2007, 11.22.15 | molinaro
Mi è venuto in mente all’improvviso stamattina. Ero al secondo anno d’università, poteva
essere l’autunno-inverno del 1973. Uscivo dall’aula di un corso affollato – ma non ricordo
che materia fosse. In corridoio una mia compagna di corso, una ragazza alta, un po’
«cavallona», di cui non ricordo il nome (forse Carla, ma non sono sicuro), mi disse
all’improvviso: «Ma a te non viene mai voglia di urlare?». All’epoca la mia risposta, timido
e chiuso com’ero, fu un mezzo sorriso d’incerto assenso, forse del tutto invisibile. Ma le
rispondo adesso, in leggero ritardo, e la risposta è «sì». Ho voglia di urlare.
Sono rimasto seduto nel prato, mentre gli altri che lodavano la libertà dei prati hanno fatto vite ben diverse e lontane,
mi hanno lasciato lì scusandosi con il dire «scherzavamo» (vedi la poesia qui sotto, scritta nel 1984, a pag. 137 del
solito libro); ho trovato altre compagnie, altre vie, altre donne; ho fatto esperienze così belle che non le avrei sperate
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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a vent’anni. Non è che la mia vita faccia schifo. Devo lavorare molte ore al giorno per un pugno di euro, ma non sarò
certo l’unico. Abito da solo, ma è stata una mia scelta che non rinnego. Scrivo, vivo, conosco, talvolta amo, talvolta
persino sono amato. Ho 54 anni e quasi tutte dicono che potrei dichiararne almeno una decina in meno. Toccando
ferro, finora ho goduto di discreta salute, in casa non ho nessun medicinale (cosa che stupisce molti, quasi quanto
l’assenza del televisore e del forno). Frequento amiche e amici giovani e simpatici, che vedo abbastanza spesso.
Pubblico poesie qua e là, partecipo a varie cose di letteratura. Ho due splendidi figli e due nipotini. I miei rapporti
umani sono infinitamente migliori oggi che quando avevo venti o trent’anni.
Eppure. Eppure. Ho una voglia tremenda di urlare. E non urlo.
LA CELIA
All’uomo seduto nel prato tornarono poi,
una sera, i vecchi compagni dell’adolescenza,
e fra i bicchieri gli fecero un discorso, dicendo:
«Noi si celiava. Credevamo che tu lo sapessi.
Non si può vivere tutta la vita da randagi.
Tutti noi già da tempo ci siamo trovati un lavoro
e abbiamo case decenti e buone mogli e figlioli».
L’uomo guardò l’erba fervida d’insetti
che il sole bagnato del tramonto lustrava di rosa morente,
rispose: «Venite pure a trovarmi, qualche volta»
I marinai se ne innamoreranno
sabato 22 settembre 2007, 12.18.07 | molinaro
Mi fa male il braccio destro, specie il gomito. Forse saranno le
dodici ore al giorno passate ultimamente a zompettare fra topo
e tastiera, forse ho trasportato borse un po’ troppo pesanti,
forse il nipotino tenuto sull’avambraccio, forse le due ore di
massaggi a C. a scioglierle i nodini dei muscoletti, forse qualche
telefonata troppo lunga con il cellulare tenuto all’orecchio, forse
le seghe, forse che ho provato a sollevarmi attaccato alla sbarra di un’altalena,
forse i primi acciacchi dell’età, forse qualche orrenda malattia all’articolazione,
forse uno strappo che non me ne sono accorto, forse niente, comunque mi fa
male il braccio destro e devo pur comunicare questa strabiliante notizia
all’universo. Ciò non mi ha impedito di scrivere stamattina questa specie di
poesia sottostante. Buon sabato.
I MARINAI SE NE INNAMORERANNO
Daresti la vita per le cose a cui tieni. Ne sei certa? E per la vita
che cosa daresti? Cosa sono le cose? Le cose t’hanno fatto
del male, lo sai. Resti come Felicita in un verso di Gozzano
in campagna, ma la villa non è più ridente o mai lo è stata
(s’inventano i poeti tante cose): c’è un angolo ambiguo
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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in ogni casa, c’è un orco che passa vicino al paradiso:
non ti mangia, soltanto ti sussurra: non è vero, non è vero.
Gli orchi non sono gli stupidi bestioni delle fiabe popolari:
ci sanno fare, gli orchi. Tu impaurita da naufragi immaginari
ti domandi se t’ama davvero il marinaio reduce da traversate
negli oceani che tu non solcherai. Passerà la nottata. Ma tu
guarda bene dentro la luce del mattino, che è sincera e disegna
un paesaggio diverso da quello dei tuoi sogni notturni.
Un paesaggio più bello – tu ora, lo so, non ci credi – più bello
di quelli dei sogni. Il sogno è come una mamma
premurosa e apprensiva: ti svezza, ti prepara, t’insegna
a conoscere le forme elementari – ma poi è gelosa
e non vuole che tu parta, si fa triste se tu parti. Se tu parti
ti sentirai cattiva per un giorno. Se non parti
diventerai ogni giorno più cupa e cattiva. Non c’è
peggior naufragio che il naufragio immaginario.
Daresti la vita per le cose a cui tieni: a vivere non tieni?
Io non sono nessuno per sputare consigli ma vorrei
consigliarti lo stesso: non sognare di dare la vita
per qualcosa o qualcuno: mettiti bene sveglia e dai la vita
per la tua vita: sarà la tua vita qualcosa e lo sarà
per te e per qualcuno. I marinai se ne innamoreranno.
Senza titolo
sabato 22 settembre 2007, 17.19.49 | molinaro
Oggi mi è arrivata nella mente e nella penna un’altra poesia. Così metto
anche questa nel blog. Non che sia obbligatorio mettere nel blog una
poesia appena la scrivo. Infatti non sempre lo faccio. Ma adesso sono
qui, al computer, ci devo lavorare ancora, mentre fuori è un così bel
pomeriggio, e allora mi viene voglia, e ce la metto. Perché poi è questo,
è la voglia, no? Che altro?
DUE PASSI
Non penso che i giovani d'oggi non abbiano valori. Semplicemente penso
che noi siamo troppo affezionati ai nostri, di valori, per capire quelli dei
giovani. Che avranno a loro volta modo di farsi valere.
(Fabrizio De Andrè, intervistato dopo un concerto a Roma nel 1998)
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Che accade, infine? Ti prendo una mano
o neppur questo: ti guardo e capiamo
che è molto più lunga la muraglia
di quel che si può andare in una vita:
nessuno può abbracciare con lo sguardo
un orizzonte completo; le tracce
dei sentieri cercavano qualcosa
che s’è perso come si perderà
ciò che cerchiamo noi. Però la terra
è benevola al nostro balbettare
parole nuove, al nostro entusiasmarci
d’una scoperta piccola, al brillare
così breve degli occhi che s’incontrano
nel chiaro dolce, prima che sia sera.
Fedeli estremisti
lunedì 24 settembre 2007, 12.15.11 | molinaro
Tranquilli, non sto per parlare dei soliti estremisti islamici (o cattolici). No, restiamo nel
campo delle cose d’amore, insomma di quella cosa fra donne e uomini. Una mia giovane
amica, o fidanzata, insomma una mia giovane amica con cui talvolta si fa l’amore, qualche
tempo fa ha conosciuto un ragazzo su internet (proprio qui, in questo ambito di blog e di
Libero Community). Dopo un po’ di messaggi hanno deciso di vedersi e si sono visti. E si
sono anche trovati bene. Ottima cosa! È sempre un’ottima cosa quando un po’ di questo
virtuale in cui sguazziamo diventa reale. Io spero sempre che mi succeda. Sennonché, il ragazzo in questione, fin dal
primo giorno ha cominciato a smaniare e protestare, appena venuto a conoscenza del fatto che lei ha un altro, anzi
alcuni altri. Le ha detto bruscamente: «Devi scegliere. Non voglio solo le briciole di te».
Io questa faccenda che bisogna scegliere (e dunque escludere, recidere, amputare, mutilare la propria - e in fondo
anche l’altrui - vita) non l’ho mai bene accettata, neppure in un matrimonio; e so di essere poco capito e molto
criticato perciò, ma non so che farci. Però insomma, in un fidanzamento ufficiale, in un matrimonio, sono abituato a
che il problema venga posto (che io lo accetti o no).
Ma è mai possibile che una cosa del genere avvenga pure al primo incontro con una ragazza conosciuta su internet?
Cioè, succede che trovo una che può piacermi, e io piacere a lei, così sembra da qualche messaggio scambiato; ci si
manda qualche mail; poi ci si telefona; poi le propongo di vederci e lei accetta; poi la vedo e ci si piace. Accidenti, ma
quando succede una cosa del genere io sono al settimo cielo, e l’ultima, ma proprio l’ultimissima cosa che mi
verrebbe in mente sarebbe imporre dei limiti, pretendere scelte, cominciare fin da subito a creare problemi! Ma siamo
pazzi?
Se una ragazza mi piace, se addirittura sono innamorato di lei, subito (ma anche dopo) ciò che desidero è che si stia
bene insieme, che ci si dia qualcosa di buono, abbracci carezze sesso sensazioni affetto piacere vicinanza comunione
conforto intreccio d’anima e corpo, tutte le cose belle fra una donna e un uomo. Che lei dia le stesse cose anche a un
altro, o ad altri, non rientra fra le mie preoccupazioni. Ciò che conta è quello che scambia con me; se lo scambia
anche con altri, vuol dire che ne è capace, che ha spazio libero, che forse ama la vita e le persone. Accidenti, se dico
di me stesso che «sono vasto, contengo moltitudini», non sarò così egocentrico da non poter pensare che anche lei «è
vasta, contiene moltitudini».
Per me è così. Ora, lo so bene che il mio discorso è poco condiviso in tanti rapporti «di coppia», fidanzamenti,
matrimoni e simili. Ci sono abituato. Ma che l’estremismo del possesso fedele esclusivo salti fuori già al primo
incontro, questo sinceramente mi stupisce. Non ci vedo nessun germe d’amore. Ci vedo un egoismo invadente che
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Carlo Molinaro
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travolge tutto fin dall’inizio.
Bah! Poi, più conosco gente, più mi rendo conto che gli uomini sono peggio delle donne. Qualche ragazza capace di
condividere serenamente un uomo con altre donne l’ho trovata. Non una moltitudine, ma ne ho trovate. Uomini
capaci di condividere serenamente una donna con altri uomini, uhm, fatemi pensare... ecco... no, beh, sembrava...
però... oh, sì, insomma, qualcuno ce ne sarà, ma non me ne viene in mente nessuno.
Detto poi per inciso: l’amore che mi dà l’amica-fidanzata di cui sopra, quella che il tal ragazzo non vuol condividere,
io non lo definirei mai «briciole». Accade di rado fisicamente, anche per ragioni pratico-logistiche, ma nel pensiero è
una presenza quotidiana, ed è importante. Per me è importante.
Strane cose. L’ultimo amore fulminante-passionale ricambiato che ho avuto (ormai qualche anno fa) era pure quello
condiviso (lei aveva qualcun altro) ma è stato assolutamente meraviglioso e lo colloco fra le cose migliori della mia
esistenza. Oggi c’è un amore più pacato e profondo (ma non privo di passione) che mi sta prendendo via via di più, e
anche lì ci sono condivisioni. E poi c’è tutto il resto. E poi si vedrà, domani è un altro giorno. Il braccio mi fa un po’
meno male, devo finire diversi lavori. Buona settimana a tutti!
Le «famose» mie lettere ai giornali
lunedì 24 settembre 2007, 22.39.43 | molinaro
Una volta scrivevo molte lettere ai giornali. E me ne pubblicavano molte, anche più di
cinquanta all’anno. Soprattutto su Stampa, Repubblica e Manifesto, e poi su Cuore e sul
Vernacoliere, e occasionalmente altrove. Nell’immagine ne vedete una pubblicata su Cuore
che creò un po’ di scompiglio, eufemisticamente parlando. [Molto dolorosa per me.] Sì, per
una ventina d’anni (anche di più) almeno cinquanta lettere pubblicate all’anno, fa... mille
lettere pubblicate? Sì, si potrebbe fare un libro, ma non so se sarebbe poi così interessante.
Io non potrei curarlo, comunque, perché quasi tutte quelle lettere le ho perse: sono un pessimo conservatore delle mie
cose, così come Avellaneda è una pessima incitatrice di vita (questa è una frase criptata che credo possa capire solo
una persona al mondo, una persona che purtroppo non vedo da tanto). Bisognerebbe andare a spulciare negli archivi
dei giornali o nelle biblioteche, con pazienza, giornale per giornale, una ventina di annate e più, e raccogliere le
lettere. Se io fossi molto famoso, lo potrebbe fare un volenteroso studente per una tesi di laurea: «La componente
grafomaniaca in Carlo Molinaro: una vita di lettere ai giornali. Consonanze e dissonanze con la produzione poetica.
Alcuni appunti» (alcuni appunti fa sempre figo in fondo a un titolo, agli accademici fa venire un orgasmo). Ma non
sono famoso, e niente tesi! Però è stato divertente scrivere quelle centinaia e centinaia di lettere su di tutto un po’.
Una sul Vernacoliere, mi ricordo, era intitolata Viva le troie; una su La Stampa proponeva l’abolizione del sistema
contributivo per le pensioni e l’assegnazione di mille euro al mese a chiunque avesse compiuto sessant’anni,
indipendentemente da che cosa avesse fatto o versato nella vita: égalité almeno nella vecchiaia. E via farneticando!
Oh, ma ogni tanto ne scrivo ancora, eh! Di meno, ma ne scrivo ancora.
Calipso
giovedì 27 settembre 2007, 2.17.12 | molinaro
Che cosa si può fare quando ci si è alzati alle sei del mattino, si è
lavorato tutto il giorno, e si è smesso di lavorare verso mezzanotte? Si
potrebbe per esempio andare a dormire. Ma invece a me stanotte è
venuta questa poesia, e non potevo non scriverla. E già che l’ho scritta,
ve la metto qui. E poi, per le due e mezzo, a dormire ci vado davvero.
DISCORSO DI CALIPSO
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Mi parli ancora d’Itaca, vorresti
prendere il mare per tornare a casa
– ma quale casa, Ulisse? Non rimane
intatto ciò che tu lasciasti, giovane,
su quella striscia di terra scoscesa:
e se l’isola pure, per miracolo
fosse la stessa, non ritroveresti
nulla del paesaggio che ha dipinto
l’inquieta fantasia per le stagioni
del lungo viaggio fra le meraviglie:
la tua Itaca è il sogno che hai sognato,
è la tua creatura, il desiderio.
Racconteranno ch’io volessi offrirti,
per trattenerti, l’immortalità.
Fandonie di giullari che non sanno.
T’offro solo un amore, vedi: sono
fatta di carne che tu puoi toccare,
di cuore che alle tue carezze balza,
d’anima che s’affaccia agli occhi e ride
se tu sorridi, di vulva che s’apre
umida quando tu vuoi penetrare.
Io sono vera, Ulisse: tu mi temi
per questo: tu non sai fare battaglie
d’amore o d’altro nella realtà:
ti muovi bene solo nel tuo mito.
Itaca è il tuo pretesto, navigare
è la tua fuga. La sposa fedele
è la tua maschera: copre di bronzo
sonante la tua angoscia e la paura
di vivere e rischiare. Sei un vile,
re di tempeste, astuto giocoliere
che ti nascondi in un trucco di scena!
Ma io ti amo. Se tu partirai
verrò con te, che piaccia o no agli dei:
ti seguirò discreta, sarò l’ombra
delle tue ombre, sarò l’improvviso
dubbio, sarò la mano che per sbaglio
tu toccherai e sentirai toccare
fuori dal cerchio: dove vita è vita
e morte è morte e l’amore è amore.
Allora baceremo la petrosa
Itaca, e belli sì, belli da piangere.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 142 di 404
Secondo discorso di Calipso
venerdì 28 settembre 2007, 18.20.04 | molinaro
Al discorso di Calipso, Ulisse ha risposto. Non possiamo trascrivere qui tutta la risposta di
Ulisse, un monologo lungo e intenso: avremmo bisogno del suo permesso scritto e non
sappiamo come fare; le procedure della Siae per i testi provenienti dai Campi Elisi (o Isole
dei Beati) e più in generale dai Regni dell’Oltre non sono ancora ben definite (ma ci stanno
lavorando: non vogliono mica rinunciare a spremere diritti anche da lì, oltre che dalle letture
di poesie benché inedite e dai balli al palchetto!) e quindi soprassediamo. Ma di come ha
risposto Ulisse ci sono tracce comprensibili nella replica di Calipso; e questo secondo discorso di Calipso invece lo
possiamo mettere qui tranquillamente.
SECONDO DISCORSO DI CALIPSO
Navigatore bambino! Ti spaventa
trovarmi bella subito in quest’isola
troppo bella – e dici che nessuna
(delle tue donne avute, innumerevoli)
s’è mai offerta d’esserti compagna
nel viaggio – e ti ripari col propormi,
in vece tua, l’equipaggio intero
della tua nave, uomini valenti
per le mie bramosie – quasi io fossi
una puttana da sbarco. In compenso
ti chiedi come io possa volere
un povero guerriero come te – e dici:
«Niente in me è delicato, niente è degno
d’amore sconsiderato». Bambino!
Bambino! Hai navigato mille mari
e non hai visto mai l’amore in faccia.
Non ha padroni il cuore, non c’è siepe
a limitare l’anima. Nessuno
può comprare né zefiro né ostro:
la dolce brezza soffia quando soffia
e cessa quando cessa. Se io t’amo
ti posso accompagnare in ogni luogo.
Oh quanto grande è l’infinito e quanto
è grande il vuoto dentro l’infinito!
Per questo ci si lega a qualche bitta
d’un qualsiasi molo, a un sagomarsi
claudicante, al bagliore smerigliato
d’un calore possibile in un uscio.
Non sono una vestale, marinaio,
non la vergine sacra a qualche altare:
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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potrei davvero prendere lussuria
da tutta la tua nave questa notte.
Ma domattina ancora ti direi
che se tu parti io parto, perché t’amo.
Bambino immortalato nel poema,
uomo grande, di te non sanno nulla
gli aedi né i compagni né le donne
né tu stesso. Deponi lo scudo,
non difendere il tuo ruvido petto
dall’abbraccio della fragile mia spalla,
dal tepore della mammella candida.
Sarà la prima volta d’una gioia
non recitata a mente – non dovrai
vergognarti se come un ragazzino
imberbe sentirai i tuoi occhi piangere.
Musica genovese
sabato 29 settembre 2007, 3.30.06 | molinaro
Un premio! Ho vinto un premio organizzato a Genova dal Teatro della Tosse per un testo da
musicare. Raccoglievano la scorsa estate in giro per la Liguria testi poetici musicabili, e poi
ne sceglievano uno. E hanno scelto il mio! Poffarbacco! Domenica 30 sulle pagine genovesi
di Repubblica ci dovrebbe essere un articolo a riguardo. Il mio testo sarà stampato sul
programma della nuova stagione del Teatro, e poi avrò la possibilità di lavorare con qualche
valente musicista per musicarlo, o per imparolare una musica loro, o insomma per provare a
fare una o più canzoni, si vedrà. Sono contento! È la prima volta che Genova ricambia il mio amore letterario con un
premio o qualcosa del genere. [Il mio amore-amore l’aveva già ricambiato con i baci di Marì, che valgono più di un
Nobel, anche se stanno ormai nel passato, e da allora il Polcevera e il Bisagno, e anche il Leiro, e pure il Letimbro, ne
hanno buttata d’acqua a mare, e con l'acqua qualche sogno, ma non tutti.] Sono contento e ringrazio chicchessia, gli
organizzatori, la tosse, la repubblica, gli amici che mi hanno fatto avere il bando, il chebabaro di via del Campo e
anche le due ispiratrici del testo, cioè la Luna e la Chiara. Il testo insomma è questo qui sotto. Se poi alla Luna di
Chiara preferite il Chiaro di Luna, fate voi!
LUNA DI CHIARA
Luna di gesso, luna di cartone,
luna di vetro in posa su un bancone,
luna tolta da un cielo sempre caldo,
luna venduta nei negozi in saldo.
Luna rinfusa, luna paccottiglia,
luna che non ce n’è che ti somiglia,
luna-Taiwan spacciata come rara
– no, non è questa la luna di Chiara.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Luna di Chiara non l’avete vista:
da troppi inverni la tiene nascosta:
non è di plastica né cartapesta:
è viva, cresce, lo spazio non basta.
Luna di Chiara è luna sottile:
può lacerarsi fra il ponte e le vele:
ruba lo specchio all’orgoglio del sole:
c’è chi s’inquieta, chi imbraccia il fucile.
Luna di Chiara è vergine cauta:
non la calpesta nessun astronauta.
Luna di Chiara è astuta bagascia:
non fa capire se prende o se lascia.
[Lo so che quella nell'immagine non è Genova, è Savona. Embè?]
L'articolo sul concorso di Genova
domenica 30 settembre 2007, 9.07.13 | molinaro
Oggi è apparso sulle pagine genovesi di «Repubblica» l'articolo sul concorso poeticantautori, lo potete vedere (spero) cliccando qui. Un bell'articolo, c'è il testo della
poesia, c'è la storia del concorso, ci sono le motivazioni della giuria. Secondo
Giorgio Calabrese, membro della giuria e decano della scuola dei cantautori
genovesi, mi sono meritato il podio anche perché ho osato parlare in termini nuovi
di «Selene, giovane e bella come la raffigurano gli artisti» (vedi nell'articolo). Nel
mondo ci sono strane misteriose corrispondenze di senso, a volte penso che tutti noi, anche quando
perfetti sconosciuti, siamo collegati da un destino, per quanto capriccioso e dispettoso esso sia. Buona
domenica!
Cosette belle
lunedì 1 ottobre 2007, 13.43.39 | molinaro
Sabato scorso ho visto un bello spettacolo, fatto da un gruppo che si chiama Officina 04 e
agisce in campo teatrale e più in generale artistico. Lo spettacolo si intitola Ercole
Saviniano signore di Bergerac ed è liberamente tratto da Cyrano de Bergerac di Edmond
Rostand. Lo allestiscono nei posti più svariati, e il pubblico segue gli attori in diversi
ambienti. Sabato sera la cosa è avvenuta sulle scalinate della basilica di Superga. Molto
emozionante. Bravo Cyrano (Saulo Lucci) e bravi tutti. Guardate chi sono, quello che fanno
e quello che hanno in programma, sul loro sito. E poi in tema di cose belle ascoltatevi anche questo Guccini. E poi
stanotte ho dormito tre ore scarse, per finire un lavoro, e adesso esco un po’ all’aria, che se no divento muffa da
computer, e la muffa non mi piace. Fosse almeno la mussa!
L'arte e la fica
lunedì 1 ottobre 2007, 18.57.15 | molinaro
Quando sono uscito di casa, sarà stato un’ora fa, ho fatto due passi, ho comprato tre cachi e
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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due pere (sia i cachi sia le pere di provenienza romagnola), poi mi sono seduto al tavolino di
un bar, ho preso un caffè d’orzo (cioè un orzo: cosa c’entra il caffè?) in tazza grande, ho scritto il mio nome e la data
di nascita sull’abbonamento mensile del tram di ottobre (bisogna farlo!) e ho scritto anche una poesia. La poesia
adesso è su un foglietto, e penso che la trascriverò qui. Così, tanto per fare qualcosa. Direi che si ricollega al grande
ciclo delle mie poesie sulla fica, la saga vulvocentrica presente soprattutto nei libri jokeriani, da Allo sbocco del
vortice fino a Entro incerti limiti (ma adesso è tutto raccolto nel famoso librone La parola rinvenuta). La fica a volte
è una sineddoche, a volte è un’aura, a volte è un soffio, a volte è Demetra, a volte è terra, è odore animale – a volte è
semplicemente fica.
L’ARTE E LA FICA
Distinguere l’arte dalla fica,
Cesare, non lo so se è cosa d’arte
né cosa fica. Già il verbo distinguere
si distingue per ambiguità: il distinto
signore è quasi sempre un indistinto
puttaniere che ha i soldi per pagare
e disprezzare. So che qualche fica
è artefatta – e forse qualche arte
è ficafatta. Se scrivo una poesia
d’amore, sì, d’amore in senso semplice,
l’amore che intendiamo noi giullari
– non dico Cristo o Gandhi o i santi màrtiri
e non dico nemmeno Che Guevara –
dico per una donna: la cosa che fa scrivere
è che vorrei la fica di colei.
Poi certo, certo, certo, si capisce,
non solo quella: c’è l’anima, lo sguardo,
c’è viaggiare una sera, c’è stupirsi
d’un suo passo o d’un gesto. Ma la fica
comunque la vorrei ogniqualvolta
scrivo versi d’amore con arte
per una donna. Distinguere dunque
non è poi così facile – direi:
non è poi necessario. L’arte c’è
quando c’è. La fica uguale:
c’è quando c’è. Sia l’arte sia la fica
si possono cercare ma sia l’una
sia l’altra non si lasciano trovare
quando vuoi tu, ma solo quando accade.
E così me ne sto con la mia luna
adolescente e non distinguo niente.
Bloganotte
lunedì 1 ottobre 2007, 23.46.28 | molinaro
Stasera voglio andare a letto presto, insomma prima di mezzanotte. Ma ho ancora voglia di
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 146 di 404
scrivere due righe. Scriverle qui. Sono quasi quattro mesi che questo blog esiste. È nato per
caso, un pomeriggio, mi pare, senza nessuna premeditazione. Non ho neppure esagerato nel domandarmi a che cosa
serve. Adesso ho visto che ci sono blog molto specialistici, che trattano un determinato argomento; blog di immagini,
blog letterari, blog che scelgono una linea, un tono. Poi ci sono i blog di puro cazzeggio, ciao buona notte, oggi ho
fatto questo e quello, sono triste sono allegro, un saluto a te, uno anche a te.
Il mio blog è un po’ tutti quei blog e un po’ nessuno. Forse è un po’ originale (se mi consentite di dirlo): già dal modo
di porsi, intitolato Carlo Molinaro, che sono io e non uno pseudonimo, e con i collegamenti al sito letterario e a
quello di lavoro dove trovate pure l’indirizzo di casa e il telefono: ne esisteranno sicuramente (non ho vagato per tutta
la rete), ma fino a oggi non ho trovato nessun blog così diretto, così aperto. Non dico che sia un pregio, e neppure un
difetto: è come è: a me è venuto di farlo così.
Nei messaggi di questo blog ci può essere una mia poesia (questo è un caso abbastanza frequente), magari appena
scritta, o più raramente presa da un mio libro di anni fa. Qualche volta, una poesia altrui, una segnalazione, il
racconto di uno spettacolo visto (come il Cyrano di sabato scorso), la cronaca di un episodio, la storia di una giornata
fra amici o di una festa.
Certo, non c’è omogeneità: c’è di tutto un po’. È un salottino dove racconto qualcosa a caso a chi passa per caso (un
salottino aperto, si entra anche senza bussare, senza doversi vestire in un certo modo e senza portare i cioccolatini) e
dove, anche se non frequentissimamente, qualcuno racconta qualcosa a me, lasciando un commento. Non offro
pasticcini, al massimo qualche verso che talvolta a qualcuno può piacere, e allora sono contento se è un regalo.
E così si va avanti. Stasera mi sento di andare sul personale – come sempre, si dirà – ma ancora un po’ di più. Sono
giornate in cui lavoro molto e arrivo a sera stanco, e sono lavori tirati, ingarbugliati. L’editoria. Molti quasi me la
invidiano: eh, tu lavori nell’editoria. Sì, ragazzi, ma faccio il redattore, l’editor, mica il direttore editoriale. Pasticcio,
preparo, rimescolo e rattoppo testi altrui. Trovate che sia poi così una meraviglia? A me piace scrivere in proprio, ma
per quello non mi paga nessuno. La paga dell’editor è scarsa, io per fortuna non sono un consumista, compro
pochissime cose, quasi niente, eppure spesso mi trovo in difficoltà.
Se qualcuno ha sottomano un lavoro da offrirmi, un lavoro qualsiasi, sì insomma non dodici ore in miniera, ma che
ne so, stare mezza giornata a dare informazioni a uno sportello (non proprio a lui: alle persone che vi si affacciano,
intendo), consegnare pacchi, lucidare maniglie, vendere biglietti, o una portineria con un orario ragionevole, o aiutare
in un negozio, insomma come dicono negli annunci qualsiasi lavoro purché serio (anche non serio, ma un po’
regolare: contratto, contributi), me lo proponga che lo valutiamo. Mica voglio l’oro e i diamanti, a me 999 euro al
mese netti sarebbero manna, quanto cazzo credete che si guadagni con l’editoria? Non sto scherzando. Libero a
partire dal 1° dicembre, diciamo, perché i lavori editoriali che ho in corso li devo finire, mantengo sempre gli
impegni presi.
A proposito di lavoro: domani una mia carissima amica, una a cui voglio molto bene, comincia una supplenza in una
scuola media. So che è il lavoro che le piace, e le auguro che miracolosamente duri tutto l’anno, anche se è difficile.
E adesso vado a dormire, e auguro la buona notte a tutti: a mia figlia con la sua famiglia, a mio figlio, alla mia ex
moglie che fra un mese si risposa, a mia madre che è vecchia (ma poi in fondo ha solo 23 anni più di me), a mia
sorella, agli amici, Cesare, Mac, Marco, Livio, Fabio, Franco quello di Torino e poi chi non mi viene in mente
adesso, alle amiche, Malvina, Claudia, Chiara la Vecchia (in senso pliniano), Alice, Gabriella e poi chi non mi viene
in mente adesso, a quelle che un po’ sono amiche e un po’ le amo e un po’ mi amano (alcune) oppure no, ci sono
situazioni variegate, Clara, Romina, Chiara la Giovane (sempre in senso pliniano), Antonella, alle desaparecidas,
Federica, Elisa, alle ex fidanzate ancora amiche, Grazia, Diletta, Sandra, Claudia la prima, Francesca, alle ex
fidanzate non più amiche, Marì, Valentina, Chiara quella di mezzo (variante pliniana aggiuntiva), Anna, Angelica,
Tiziana, a quelle con cui si è fatta solo una scopata una volta, Silvana, Assunta, Paola, a quelle con cui ci ho solo
provato (qui i nomi sono troppi) e via dicendo, sarebbe molto complesso dare ogni sera a tutti la buona notte. E se
arriva anche di là, buona notte a mio padre, alla zia Rina, a Monica, a Franco quello di Celle Ligure e al Vispo.
Se vado avanti così finisce che faccio tardi anche stasera, meglio concludere. Che sia una buona notte per tutti.
Mi sa che stavolta ho fatto del blog un uso proprio scemo. Ma chi se ne frega. Buona notte.
Le bolle e l'acciaio
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 147 di 404
mercoledì 3 ottobre 2007, 14.46.42 | molinaro
Oggi nella breve pausa dal lavoro che mi sono concesso per l’ora
di pranzo ho mangiato mozzarella e pomodoro e ho scritto una
poesia. La mozzarella e pomodoro non posso condividerla
vobiscum, la poesia sì. Il medico dice che forse dovrei prendere un
quarto di compressa al giorno di Atenololo, per la pressione alta.
Però io ho un’altra teoria: non sarà che ho la pressione alta (non
drammaticamente, però un po’ alta sì) perché faccio cose sotto pressione per circa
20 ore al giorno? Forse è lì che devo agire, più che farmacologicamente. Vabbè.
Oltre tutto Atenololo è un nome così cretino, sembra un alcol derivato dalla scuola
minore di Atene. Vabbè. La poesia la metto qui sotto.
[Un amico mi dice che sono sempre al centro della scena, che sono egocentrico,
sempre lì in prima persona, nelle mie poesie e forse anche altrove. Sarà. Ma ci sono
tanti modi di entrare in scena. Io, è vero, di solito ci entro direttamente, con la mia
faccia e il mio corpo, e sono lì, proprio io, davanti alla platea. Lui di solito, nelle sue
poesie e forse anche altrove, preferisce creare personaggi che fa entrare in scena e
che muove da dietro le quinte, tirandone i fili. Scelta rispettabile, stile valido, il suo
come il mio. Ma non credo faccia differenza a livello di presenza: chi tira i fili impronta
di sé la scena non meno di chi vi entra in carne e ossa, attore e regista nudo.]
LE BOLLE E L’ACCIAIO
Non si sa mai: l’amore rutilante,
splendente di colori arcobaleno,
fiero nel sole, leggero, volante,
può essere una bolla di sapone
e scoppiare e diventare niente.
L’amore un po’ più grigio, più nascosto,
magari ambiguo, con qualche sospetto
di carenza d’affetto da colmare,
di convenienza pratica, di patto
freddo, può durare come acciaio.
Però queste metafore da poeti
sono aria fritta anzi sono stronzate.
L’amore-bolla, finché vola al vento,
è amore-amore ed è meraviglioso.
E infine anche l’acciaio non è eterno.
Anche se va a capo ogni tanto, non è una poesia: è un semplice pensierino
della sera
mercoledì 3 ottobre 2007, 23.39.22 | molinaro
Scorre rapido il tempo.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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È già sera. Di lavoro ho prodotto
molto meno di quel che avrei voluto
– mi tireranno un po’ il culo –
eppure sono stanco.
Sul diario della allora ragazzina
che mi ha regalato la ora ragazza
leggo Oggi 23 settembre
mi sono innamorata di [segue nome
e cognome]. Che freschezza
innamorarsi tutta in un giorno
e scriverlo sul diario.
Vorrei che lo riscrivesse oggi
e fosse mio quel nome e cognome
ma ora è laureata e io sono vecchio
– dunque è soltanto una farneticazione
da evitare. Sono stanco.
Scorre rapido il tempo.
Ma quanto, quanto se ne butta via!
Non dovrei cenare così spesso al cinese,
probabilmente, ma la cameriera
è carina e il menù costa sei euro
caffè compreso.
Del resto il pollo con mandorle
non è un cibo cattivo. A me piace.
Del resto è un privilegio non da poco
ricevere in regalo un diario segreto
che nessuno, nessuno, nessuno ha mai letto
prima di me. Basta non ricamarci
troppo sopra: prenderlo come un regalo
di confidenza preziosa – ciò che è.
Scorre rapido il tempo.
L’amico romeno a cui ho dato qualche aiuto
(traduzioni, annunci, referenze, recapito
presso di me) mi ha regalato uno scaffale.
Così ho aperto scatole di cose
per sistemarle nel nuovo scaffale
e sono saltate fuori lettere di tanti anni fa:
lettere di ragazze, di donne
con dentro dell’amore così vero
che io escludo possa essere finito.
No, c’è ancora tutto. Scorre il tempo
e sono stanco sì però ho voglia
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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di progettare e fare. Domattina
lavorerò in modo più razionale
per portarmi più avanti. Cercherò,
finito questo, lavori diversi.
Prenderò le cose con forza e calma.
C’è da cambiare. Forse anche abitare
con qualcuno. C’è da fare.
Andiamo avanti. Nell’immediato
domani sera vedo Claudia se tutto va bene,
venerdì sera c’è la presentazione del libro
di Luisa e giovedì della prossima settimana
quello di Chiara alla libreria Massena.
Ma domani devo fare assolutamente
cento pagine di editing, non una di meno.
Con serietà, avanti, andiamo avanti.
Scorre rapido il tempo, non lasciamo
che scorra invano.
Ancora si lavora, ancora si sogna, ancora
ci s’innamora. Ci sono
grandi progetti per questo presente.
Scorre rapido il tempo, sono già
le 23.39 e ora clicco e vado a dormire.
Tossendo a Genova la mia "canzone"
giovedì 4 ottobre 2007, 17.07.52 | molinaro
Giovedì 11 ottobre a Genova, alle sei del pomeriggio, alla Fondazione Luzzati
- Teatro della Tosse, in piazza Renato Negri 6/2, sarà presentata la stagione
2007-2008 del Teatro della Tosse. Ci sarà musica dal vivo in Lengua
Serpentina (vedi immagine) e sarà anche letta, da un attore della Tosse, la
mia poesia-canzone Luna di Chiara, vincitrice del concorso dei poeticantautori (vedi il messaggio n. 116).
Io non ci sarò, perché ho un concomitante impegno la sera a Torino, la presentazione del libro di
Chiara - curiosa coincidenza di nomi, anche un po' affascinante, no?
Ma se tu ci vuoi andare, la mia poesia-canzone ci sarà!
Se invece sei dalle parti di Torino, la sera dell'11 ottobre, vieni alla libreria Massena 28 (in via
Massena 28, ça va sans dire) alle 21.15 e mi ci trovi a presentare il libro di Chiara, con Chiara
stessa e (spero) tanta bella gente simpatica.
Tutte queste parole, questi versi
venerdì 5 ottobre 2007, 15.54.38 | molinaro
Tutte queste parole, questi versi.
Un castello di carte di cristallo.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Luccica sì. Però basta un voltarsi
d’una bava di brezza inavvertibile
o un gesto goffo, una mossa sbagliata
e cade giù. Non solo si sparpaglia
ma si frantuma. Tutto quel lavoro.
Che m’importa. In un refolo d’aria
c’è più vivere che nei castelli.
Starò disteso con gli occhi socchiusi
ad aspettare. Qualcuno verrà.
Non sentirò i suoi passi. Sarà aprendo
gli occhi – per uno scatto involontario
d’un nervo – che lo troverò vicino.
[nell'immagine, la pagina del mio diario del 3 giugno 1969 - il numero 5786 in verde accanto alla data è il
conteggio dei giorni della mia vita fino a quel giorno, compreso - ho smesso di contarli quando ho smesso
di tenere un diario - mica tanto tempo fa, a dire il vero]
[la poesia invece l'ho scritta pochi minuti fa]
Canzonetta dei te
sabato 6 ottobre 2007, 12.24.49 | molinaro
Ecco, una canzonetta scritta stamattina, fra una pagina e l’altra del
lavoro. Poi viene a trovarmi un’amica e pranziamo sul terrazzo, adesso
che è tutto pulito e liberato dal ciarpame! Ho comprato persino una
tovaglietta su una bancarella. Il cielo è velato ma direi che sul terrazzo
c’è un buon clima.
[Nell'immagine, foto presa sul mio terrazzo, con amica che ha voluto posare
in posizione secondo me pericolosissima - siamo al quarto piano - io non volevo, avevo paura!]
CANZONETTA DEI TE
ad A., C., C., R., C., G. e F.
(I te. Giusto così senza accento: non voglio parlare
d’infusi diffusi fra gli indiani o gli inglesi.)
(No: penso a tutti i te che ci sono nella mia vita
e in particolare – certo, certo! – negli amori.)
Te che ti vedo e parliamo ancora ma da un anno
anzi ormai più di un anno non facciamo più l’amore
e dici che si stanno sciogliendo dei nodi
– e ne sciogliamo uno ogni tre o quattro mesi:
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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se sono tanti, come pare, non basterà la vita.
Te che ho cominciato ad amarti dopo averti vista nuda
e ho faticato a vederti nuda non perché tu non volessi
ma perché il mio sguardo esitava a guardarti:
aveva paura di trovarti troppo vecchia
anche se in fondo sei più giovane di me
– ma sai lo sguardo lui è fatto così.
Te che ti sposerei senza prima vederti nuda
(e conosco tanta gente che nuda t’ha vista)
così, verrei a stare al tuo paese,
a incontrare le pietre le strade gli usci
se tu volessi – giocherei questo azzardo
fingendo tutta la vita in una canzone
e scommettendo che diventa realtà.
Te che t’ho ritrovata dieci anni dopo
e ci diamo baci rari ma freschi come mattine
e non facciamo nessun progetto particolare
se non continuare a vederci ogni tanto e baciarci
e far l’amore le poche volte che possiamo.
Te che ci parliamo per ore e poi se non parliamo
dopo tre giorni sento già la tua mancanza
e a volte dormiamo pure nello stesso letto
senza toccarci come fratellino e sorellina
salvo un poco di massaggi sulla schiena
e fatico a pensare i miei mesi senza te.
Te che ci siamo guardati negli occhi alla stazione
e abbiamo capito che siamo ancora buoni amici
e c’è forse anche dell’altro ma la notte a casa tua
non abbiamo osato, non ci sembrava il caso,
siamo rimasti lentamente a raccontare
il complesso dipanarsi delle vite.
Te che sei sparita e non mi rispondi
e ormai ho quasi rinunciato a cercarti,
forse non saprò mai che cosa è andato storto
dopo anni così lunghi d’amicizia e d’amore:
non riesco a pensare che non durino ancora
ma devo rassegnarmi che invece così sia.
Credo di avere fatto sette strofe
con sette te ma potrei continuare:
la diagnosi, secondo la dottrina tradizionale,
è che non sono innamorato di nessuna
– però quante dottrine tradizionali già
sono state superate o smascherate
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Carlo Molinaro
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da nuove scoperte, da nuovi orizzonti.
Così io te io credo te di amarti te proprio
e scrivo questa piccola canzonetta dei te
e dichiaro che è una canzonetta d’amore
poi la concludo ti bacio e ritorno a lavorare.
La torta, la metro, l'assenza, il terrazzo, le cosce, l'incredula disperazione, la
bellezza
domenica 7 ottobre 2007, 13.59.29 | molinaro
Mi telefona mia madre: «Ho fatto la torta Duchessa, stasera devi venire
assolutamente». In realtà vado a cena da lei a Vercelli quasi tutte le
domeniche, ma oggi è proprio obbligatorio. Erano anni che le chiedevo di
rifare la torta Duchessa: la faceva tanto tempo fa, poi non più – è un
dolce di cioccolato, burro, noci e panna, una bomba calorica. Chissà
perché ha deciso proprio adesso di accontentarmi. Forse le ultime volte
mi ha visto un po’ deperito o depresso.
Sono uscito e ho preso la metropolitana, il nuovo pezzo di metropolitana che hanno
inaugurato ieri o l’altro ieri. Adesso arriva a Porta Nuova ed è comoda. E c’è una stazione
proprio all’imbocco di via Massena, così all’invito per la presentazione del libro di Chiara ho
appena aggiunto: «metropolitana Re Umberto». Mica roba da niente. Invece la stazione della
metro più vicina a casa mia è Principi d’Acaja. Qui a Torino la toponomastica è molto
sabauda.
Ho riletto la canzonetta dei te, quella scritta ieri, e ho constatato che fra le sette «te» non è
inclusa Marì, uno dei miei amori più forti del XXI secolo. Vorrà dir qualcosa? Vorrà dir che
non era poi così forte? Secondo me no, assolutamente no. Vuol solo dire che le cose vengono
in mente così come vengono, a volte alcune a volte altre. Se l’avessi scritta oggi forse sarei
partito proprio da Marì, ma l’ho scritta ieri ed è andata diversamente. D’altronde è dichiarato
che le magnifiche sette sono solo una rappresentanza di un gruppo più esteso, per fortuna
mia. È assente anche Diletta, grandissimo amore. Quella della canzonetta non è una top
seven, è un pensiero buttato giù a caso in un qualsiasi mattino.
Ora che il terrazzino di casa mia è pulito, pensavo di organizzare una lettura di poesia sul
terrazzo. Non è enorme ma neppure piccolo. In dieci ci si sta. Per le sedie... aspetta che
guardo quante ne ho in casa. Un attimo.
Ecco, ho sette sedie propriamente definibili come tali, ma si possono adattare al ruolo di
sedia altre entità compatibili. Che ne dite? Lettura di poesia sul terrazzo, suona bene, certo
adesso si va verso l’inverno, però può essere un’idea. Ha qualcosa di romano, ma soprattutto
qualcosa di dolce. Ci pensiamo.
Stamattina rifacendo il letto... cioè, non esageriamo: ributtando sul letto la coperta alla bell’e
meglio, mi sono venute in mente, precise, le cosce di Federica. Federica aveva (non so se ha
tuttora) un modo speciale di lasciarsi andare sul letto dischiudendo le cosce, e anche un
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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modo speciale di premermele sui lombi mentre io entravo in lei. Mi metteva particolarmente
a mio agio e dimostrava sé stessa particolarmente a suo agio, con benèfici effetti sull’umore,
sul piacere e anche su un’altra cosa. Pure il pensiero di stamattina credo che sia del tutto
casuale, magari derivato da un sogno notturno, o da qualche inconscio coincidere
d’immagini. I pensieri si concatenano in modi incontrollabili.
Clara mi ha raccontato di aver raccolto un gatto morente, vittima della strada, e di avere
visto nei suoi occhi una disperazione incredula, nell’andare incontro alla morte – e di essere
stata colpita profondamente dallo sguardo di quel gatto. Clara è una delle donne più sensibili
che io conosca. Forse, con tutte le nostre presunzioni e religioni e filosofie, nell’ultimo istante
moriamo anche noi umani come i gatti, con negli occhi una disperazione incredula: ma
possibile, ma possibile che sia così, ma possibile che io muoia? Come se non lo avessimo mai
saputo. Forse qualcosa dentro di noi è gatto, e non sa.
Cesare dice che l’uomo è allo stesso tempo amico e nemico della bellezza. Credo che abbia
ragione, anche se tutto è ancora più ingarbugliato, anche se la bellezza forse certe volte è un
qualcosa che, alle persone e alle cose, gliela decidiamo noi, come decidiamo il sorriso alla
passante di quella canzone: quella quasi da immaginare / tanto di fretta l'hai vista passare /
dal balcone a un segreto più in là / e ti piace ricordarne il sorriso / che non ti ha fatto e che
tu le hai deciso / in un vuoto di felicità.
Ecco che è lunedì mattina
lunedì 8 ottobre 2007, 10.00.04 | molinaro
Altra settimana, ma avendo lavorato anche il sabato e la domenica non mi accorgo tanto del
cambio. Il superlavoro che faccio è indubbiamente molto fruttuoso (nell’immagine, il saldo
del mio conto stamattina), però tante volte vorrei fare qualcosa di manuale e tranquillo, con
orari ben delimitati, non so, il magazziniere, qualcosa del genere.
Questa settimana è poi densa di occasioni poetiche. Domani pomeriggio, martedì, sarò
impegnato al Circolo dei Lettori in una presentazione reciproca con Guido Catalano
nell’ambito del festival Torino Poesia (il programma completo delle manifestazioni di Torino Poesia, con un sacco
di cose interessanti, è qui). E giovedì sera alla libreria Massena presento il libro di Chiara: venite, che vale la pena:
chi non c’è mai stato scoprirà anche uno spazio culturale molto interessante.
E vabbè. Rimettiamoci al lavoro. Buon lunedì, ragazze e ragazzi.
Da un abbiocco
martedì 9 ottobre 2007, 8.11.39 | molinaro
Dormo poco in queste notti, poi succede che in mezzo al
pomeriggio, in un improvviso senso di quiete, m’addormento ma
non del tutto, un po’ sì e un po’ no, e un po’ penso e un po’ dormo,
e un po’ guardo e un po’ sogno, e ieri è andata così, e ci ho scritto
una poesia. Adesso ho da lavorare poi dopo pranzo c’è la
presentazione incrociata con Guido Catalano, come dicevo nel
messaggio di ieri. Buondì.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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DA UN ABBIOCCO
Un filo d’aria spinge una tendina
a sporgersi da un taglio di finestra
nel pomeriggio fermo. M’addormento
a tratti e a brevi tratti mi risveglio
mischiando il sogno in sonno al quasi sogno
dello sguardo che fruga nella luce
sparpagliata nello spazio fra i muri
cercando scene al proprio immaginare
o soprattutto impreviste comparse
fuori tema, persone che rivelino
la novità: questo è un altro teatro,
il programma di sala era sbagliato:
alla finestra s’affaccia qualcuno
che non conosco e non è storia mia:
merita dunque muovermi, scoprire.
Poesie incrociate
mercoledì 10 ottobre 2007, 9.40.22 | molinaro
Ieri il pomeriggio di «presentazioni incrociate» al Circolo dei Lettori è andato bene. Guido
Catalano e io ci siamo letti vicendevolmente (cioè io ho letto poesie sue e lui poesie mie),
ma soprattutto abbiamo dialogato e detto e fatto cose varie. Mi sembra che l’effetto sia stato
buono. A me è piaciuto il modo in cui Guido mi ha letto, e penso che a lui sia piaciuto
abbastanza come l’ho letto io. Il filo tematico che abbiamo seguito è stato, più o meno,
quello dell’amore e della solitudine. Le poesie che abbiamo letto come gran finale sono
state la mia Questa solitudine non è poi così agevole da sopportare (pag. 567-568 del mio librone) e la sua I sombi
(che è sul suo blog). Comunque ve le metto tutte e due qui sotto.
Poi io mi sono lanciato anche in una sperimentazione, cioè lipperlì ho «detto» una poesia di ispirazione catalaniana.
Cioè ho inventato, improvvisato una poesia (d’amore) assumendo uno stile catalaniano. Voleva essere un omaggio e,
anche, voleva mostrare che la contaminazione, la fusione, la vicinanza di esperienze poetiche può essere fertile, utile,
positiva. Credo che i gruppi, le «scuole», le correnti, o qualcosa del genere, nascano così, scoprendo affinità: non le
puoi creare a comando, e recenti esperienze lo dimostrano. Il rischio era quello della parodia, o addirittura della presa
per il culo, lo so, ma credo/spero di averlo evitato: ho scelto di «fare» una poesia d’amore, che emotivamente dentro
di me era troppo forte per poter scadere in parodia. Ne è uscita una poesia d’amore per una donna, con dentro una
enclave d’amore per un’altra donna, sostenuta anche da una componente visiva (un gesto d’amore di una delle due
donne manifestato nel fatto che lei mi aveva rivoltato il colletto della camicia, della camicia che avevo addosso
proprio lì durante la lettura: una vecchia camicia consunta ma a cui sono affezionato, e lei mesi fa mi ha rivoltato il
colletto, per renderlo un po’ meno liso, un lavoro di cucito, e a me questo è sembrato un gesto d’amore): poesia, arte
visiva-gestuale, improvvisazione vera (decisa sul momento), contaminazione di stili in praesentia: questa è
sperimentazione di livello, a noi le avanguardie milanesi ci fanno un baffo!
Il titolo della poesia è Il verso lapsus, e deriva dal fatto che una delle due donne (l’altra, non quella del colletto) mi ha
scritto alcune poesie «di diniego» (anche questo potrebbe essere un genere letterario nuovo), cioè poesie per dare un
due di picche, però piuttosto belle, e dove l’innamorato alla fine cerca sempre uno spiraglio di non diniego (l’anello
che non tiene, il filo da sbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità, come scrive Montale) e in questo
caso il verso di lei, della fanciulla, è scioglierò la tua fantasia con il mio ghiaccio, che è certo un diniego,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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l’intenzione di gelare le fantasiose avances dell’altro, però quel verbo sciogliere è un po’ un lapsus, più o meno
freudiano, perché non è adatto, ci sarebbe voluto appunto un gelerò o qualcosa del genere, perché nella sequenza
sintagmatica sciogliere+fantasia+ghiaccio la struttura profonda (si vedano gli studi di Saussure e dello strutturalismo
linguistico, la grammatica generativa, con intersezioni alla psicanalisi e alla teoria antropologica dei modelli
ancestrali nel subconscio collettivo) indica che ciò che può sciogliersi è casomai il ghiaccio, e a scioglierlo è la
fantasia, e dunque! Più semplicemente, tutto questo indica quanto un innamorato può arrampicarsi sugli specchi per
vedere un non diniego in un diniego.
Ma questa poesia non la leggerete mai (al massimo ne emergeranno tracce in poesie che scriverò, ma diverse), perché
non è mai stata scritta, è stata solo detta, e non c’erano (credo) registratori, e chi era là l’ha ascoltata (se è stato
attento), e nessun altro mai la ascolterà né leggerà. L’arte in un solo attimo, come le statue di ghiaccio e i castelli di
sabbia, ecco.
Sì, Guido e io abbiamo fatto della sperimentazione di livello, lasciatemelo dire! Insomma, si fa qualcosa, quel che si
può, finché siamo qui, facciamo cose di livello, finché non arriva la livella, quella di Totò. Da bambino mi piaceva un
sacco stare al passaggio a livello a veder passare i treni, dopo che si erano abbassate le sbarre facendo dlin dlon dlin
dlon, ma adesso li hanno sostituiti quasi tutti con sottopassaggi, perché la gente non ha più voglia di soffermarsi,
hanno tutti fretta. Sì, che vita di corsa. Adesso corro dalla commercialista ma al ritorno devo ricordarmi di comprare
almeno la carta igienica se no finisce che devo pulirmelo con le Pagine gialle, come facevo ai tempi dell'università.
I SOMBI
vampiri?
no
lupi mannari?
no no
spettri?
nemmanco
mostri spaziali?
neanche
demoni?
ma figurati
ciò che più io temo
che mi fan tanto ma tanto spavento
ma tanto
son: i sombi
i sombi son i morti che tornano
essi camminano morti purulenti
lenti camminano gli cadono i pezzi
ma non si fermano e sono tanti
che uno pensa tanto io scappo
ma loro sono anche più di cento
e non si fermano
mai
tu se hai un fucile devi sparargli la testa
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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l’unico modo e sparargli la testa
allora cadono
ma ce ne son altri dietro
e altri ancora dietro
e dietro ancora
e altri
escono di dappertutto
da sotto la terra
da dietro le porte
dalle botole
dalle finestre
dal soffitto
scardinano rompono piano piano
e ti trovi circondato
voglion mangiarci le nostre carni
e se ti mordono poi
ti viene il male
e diventi anche tu un sombo
essi basta loro di graffiarti
con l’unghìolo sombico
basta giuro un piccolo graffio
e tu ti sombifichi
diventi un sombo
allora se tu vedi anche fosse tua sorella amata
che è stata anche solo un po’ ma poco graffiata
allora tu mi dispiace
devi ammazzarla
spararle in testa subito
prima che diventi un sombo femmina
e se tu invece a te capita
che un sombo ti graffia o anche solo ti da un morsichino
allora tu devi avere coraggio
essere sincero con te stesso
e spararti una palla nella testa
se non c’è soprattutto nessuno che ti aiuta farlo
fallo
qualcuno ha detto che pena i sombi
che pena poverini i sombi
sono metafora sociale i sombi
ma che metafora e metafora sociale stupidone!
trovati circondato da trenta sombi
dentro una casa di legno
o nella tua macchina in panne
o in un bosco buio senza luna
allora lì poi ti voglio vedere la metafora sociale
quando ti mordono la chiappa
allora lì
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28/05/2008
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ti voglio
la metafora
mamma mia speriamo mai di no
Guido Catalano
QUESTA SOLITUDINE NON È POI COSÌ AGEVOLE DA SOPPORTARE
Premessa. Non voglio fare discorsi da artista maledetto,
tantomeno discorsi retorici sulla solitudine del poeta. Metto le mani avanti.
Pensavo solo che Cesare Pavese all’incirca alla mia età
(qualche anno di meno se non sbaglio)
si è ucciso. Non ci risulta che avesse il cancro né altri gravi problemi;
aveva un certo successo,
pubblicava dai migliori editori o comunque da buoni editori;
non aveva grane economiche, era in crescita;
credo potesse permettersi di «vivere dello scrivere», cosa che io non potrò mai.
Eppure si è ucciso.
Forse c’è qualcosa che isola, demarca, disadatta l’artista – qualcosa così.
Prendiamo questo mio vivere libero
che a me pare l’unico possibile
e che soprattutto mi pare aperto, amorevole, disponibile,
rivolto agli altri con un sorriso complice.
Questo mio vivere viene perlopiù respinto al mittente
come una lettera non desiderata,
come se fosse mostruoso, egoista, odioso, inaccettabile.
Certo, non so se tutto ciò sia in qualche modo legato all’essere poeti.
Forse sarebbe stata questa la mia visione (e passione) del mondo
anche se non avessi mai scritto un solo verso.
O forse invece un legame c’è. Chi potrà mai dirlo.
Questo avere una vita direi meravigliosa da offrire e gli altri
te la risputano in faccia come fosse merda fresca.
Questa solitudine non è poi così agevole da sopportare.
Mah.
Queste sono parole così, parole che forse non servono a nulla.
Magari Cesare Pavese aveva tutt’altri motivi per uccidersi, non lo sapremo mai.
Io del resto non ho alcuna intenzione di uccidermi:
sono troppo pigro per mettermi a fare una cosa che col tempo viene da sé.
E comunque la mia vita è meravigliosa e amorevole
– e andate a farvi fottere.
Questa solitudine non è poi così agevole da sopportare, ecco tutto.
Ma ci sono altre solitudini e altre difficoltà e ognuno ha la sua croce e amen.
Basta. Non voglio fare discorsi da artista maledetto;
se (poniamo) sono un artista è perché sono benedetto;
prendo un caffè e faccio ancora due passi sul lungomare di Pesaro.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Il contatore
giovedì 11 ottobre 2007, 1.00.13 | molinaro
Il contatore del blog gira molto più in fretta di quello del sito. Mentre scrivo, il sito conta
17.469 visitatori dal 5 dicembre 2000: cioè in quasi sette anni. Il blog conta 17.367 visitatori
dal 4 giugno 2007: cioè in poco più di quattro mesi: è il momento del sorpasso. In quattro
mesi il blog ha contato visitatori come il sito in sette anni. Povero sito, andate a vederlo
ogni tanto. Capisco che è più statico, lo aggiorno raramente, però insomma!
Va bene. Le città sono donne, Venezia è Clara, Vicenza è Romina, Savona è Chiara,
Genova è Marì, Parma è Federica, Como è Grazia, Monopoli è Sandra, Friburgo è Francesca, Villastellone è Diletta,
Vigevano è Antonella, Oleggio è Valentina, Ivrea è Claudia, Cosseria è Cristina, Bucarest è Rita, Vercelli è nulla,
Torino è un’altra Claudia, Pesaro è Elisa, Borgo d’Ale è Alice, Milano è Angelica, Torino è anche Tiziana, Mazara
del Vallo è Titty, Montevarchi è Serena, Napoli è Isabella e così via. Rimane vero anche se alcune di queste donne
non le vedo da anni, così come alcune di queste città. La geografia amorosa è per sempre. Si può arricchire di nuovi
luoghi, ma non può perderne.
Giornate di lavoro intenso, di poca resa, di un qualche affanno, questo precipitoso ottobre. Ma prendiamo le pause
giuste per le cose buone. Non facciamoci travolgere. Stasera, giovedì, c’è la presentazione del libro di Chiara, e lo so
che l’ho già detto alcune volte, ma come non dirlo ancora nel giorno giusto? Nell’immagine, Chiara alla cena del suo
compleanno, un mese fa. Foto fatta col telefonino, al volo.
La sera dopo, venerdì, domani insomma, nello stesso luogo presenta le sue poesie Guido Catalano: un’altra serata che
merita. La libreria Massena secondo me può diventare a Torino un punto d’incontro importante (no, non ho nessuna
partecipazione agli utili, è un parere disinteressato). Fra l’altro, è anche una libreria che vi fa arrivare i libri, se li
chiedete, per esempio anche il mio (ecco, qua sono già un po’ meno disinteressato), ma comunque tutti quelli dei
«piccoli», che se li chiedete in altre librerie magari vi mandano gentilmente a quel paese. Ci sono ancora copie
disponibili delle Poesiole doppiosensuali di Clara Vajthò, e da domani ce ne saranno di Il tempo è scaduto di Chiara
Borghi, e c’è anche Izet Sarajlić, per completare la trilogia che misi nel secondo messaggio di questo blog, agli
albori. Sicché!
La serata di Chiara
venerdì 12 ottobre 2007, 2.04.15 | molinaro
La presentazione del libro di Chiara è andata bene. C’era abbastanza
gente, considerando che a presentarsi era un’esordiente che, non
essendo di Torino, non poteva contare nemmeno sulla cerchia degli amici
che vanno alle presentazioni per amicizia appunto, si sa com’è!
Gente che ha partecipato, anche, con domande, osservazioni, discorsi.
Una serata viva. Chiara ha raccontato sé stessa e io ho raccontato
Chiara e tutti e due abbiamo raccontato il libro e ne abbiamo letto qualche pagina (poche,
perché le pagine stralciate da un racconto possono facilmente annoiare). Ho letto fra l’altro la
descrizione di Genova che riporto qui sotto. Poi si è tirato tardi a mangiare qualcosa e a
bere, anche se a quel punto Chiara è dovuta andare via perché è venuto a prenderla il suo
fidanzato che poi stamattina lei deve essere a scuola alle otto meno un quarto. Se no poteva
fermarsi a dormire da me, da me c’è posto, la mia casa è ospitale. Bene. Adesso a dormire ci
vado io, contento che la serata alla libreria Massena sia andata bene, bene per tutti. La
libreria Massena è proprio un bel posto che fa delle belle cose (c’è il collegamento al suo sito
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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nelle pagine amiche di questo blog).
A Genova le scale si intersecano le une con le altre e si sovrappongono in geometrici giochi di vicoli stretti
e gallerie di ciottoli.
La giornata prende vita su quelle scale, nel salirle e nello scenderle prudente, con le ginocchia che
tremano un poco e l’occhio buttato a terra, lanciato su ogni gradino come una mano tesa a fare
conoscenza.
Le ore che Genova ti concede sono un saliscendi di emozioni e parole a raffica, come uscite da una radio
impazzita, che alla fine diventano scontate – e allora si tace e ci si ferma immobili, ci si mette alla finestra
a guardare le luci delle case sulla collina che disegnano un presepe. Mi accorgo che solo pochi sanno
immaginarlo.
Quando imbrunisce, Genova accende i neon, gialli, rossi ma soprattutto verdi, delle osterie dove si va a
bere e si tira tardi.
Genova accende i riflettori e diventa teatro, palcoscenico di una rappresentazione grottesca: si mette a
brillare con il trucco pesante sugli occhi, come una prostituta del centro storico. L’insegna della Campari
s’improvvisa stella cometa se la fissi un po’ stringendo le palpebre dalla piazza della stazione Principe.
C’è una Genova distinta sulla circonvallazione a monte, una Genova che sta zitta quando ti vede e non ti
saluta, ma ti guarda.
Genova non m’assomiglia se non per il buio del mare che confonde e infonde una nostalgia sottile.
Genova ti conquista, ora dopo ora, mentre la percorri e ripercorri per fermate e numeri di bus. Genova ti
seduce come un amante che si nega al telefono quando lo chiami e che ti rifiuta ogni invito, ma che ti
richiama sempre il mattino dopo per sapere che cosa hai fatto la sera senza di lui.
Le case a Genova si arrampicano le une sulle altre, sono peluche su un armadio minuscolo, sono cozze
nere su uno scoglio scosceso, sono la creazione di un bimbo con le costruzioni a mattoncini.
Genova è ardesia, asfalto e mare in successione, dalla spianata di Castelletto. Genova è una maga che
non regala niente, ti fa sudare ogni cosa e ti tende tranelli, ti costruisce labirinti per farti perdere, perché
non vuole essere scoperta.
Genova è una ricca signora, legnosa e magra, che si cambia d’abito più volte durante il giorno, bara
quando gioca a carte in salotto, circuisce i suoi amanti e poi li inganna e li abbandona.
(da Il tempo è scaduto, di Chiara Borghi, Edizioni Joker, Novi Ligure 2007, pp. 47-48)
Poesia scritta testé
venerdì 12 ottobre 2007, 15.24.56 | molinaro
LA TAZZA DI ANTONELLA
L’ha comprata che ci conoscevamo
da poco, ed è sempre rimasta
in casa mia. È una tazza rotonda
senza manico, color terracotta,
d’una misura strana: troppo grande
per il caffè, però troppo piccola
per il tè o la tisana. Io la uso
per il caffè, che mi piace allungato.
Saranno dieci anni che la uso.
Ha un’incrinatura. Da due o tre anni
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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ha un’incrinatura che, come fanno
le incrinature, nel tempo va avanti:
parte dal bordo, s’incurva e prosegue
più o meno orizzontale: ha ormai percorso
quasi metà della circonferenza.
Penso ogni volta: devo buttarla via
prima che mi si rompa nelle mani.
Poi penso: no, perché buttarla via?
– finché dura la uso, ma devo prepararmi
all’idea che si rompa, devo essere
pronto, per non restarci troppo male.
Ma veramente non c’è nessun metodo
per non restarci male. Non c’è modo
di prepararsi. Si può solo scegliere
se buttare la tazza al primo allarme
(il male adesso, dare un pugno e via
nascondendo nel colpo l’amarezza)
o tenerla, tenerla finché dura
(il male un giorno, un qualsiasi giorno
incredulo e improvviso tradimento).
Io scelgo la seconda. Sia perché
ogni caffè è un caffè guadagnato
nella bella tazzina color terracotta
– e sia perché l’anno scorso una tazza
gialla, solida, intatta, di quelle
da colazione, mentre la sciacquavo
così d’un tratto mi s’è rotta in mano
e m’ha tagliato malamente, ho perso
sangue nel lavandino – e non aveva,
all’apparenza, alcuna incrinatura.
Torino, 12 ottobre 2007, all’ora di pranzo
[anche l'immagine, raffigurante la tazza in questione, è di pochi istanti fa, «in diretta»: scattata con il
telefonino e mandata sul computer via mail - a volte ancora mi sconcertano queste moderne tecnologie.
Eh? come? ma sì, certo che la tazza esiste, eccola lì: non sono capace di inventare le cose, sono un
semplice descrittore del mondo, del mondo che c'è]
Terzo discorso di Calipso
venerdì 12 ottobre 2007, 20.24.43 | molinaro
Al secondo discorso di Calipso, dopo che al primo, Ulisse ha risposto ancora (si vedano i
messaggi 114 e 115). Come al solito la Siae, sezione Campi Elisi, impedisce la
pubblicazione qui del discorso di Ulisse (ma prima o poi si troverà un accordo: sentiremo
anche il parere di Al Gore, adesso che gli hanno dato il Nobel per la pace). Quindi mettiamo
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solo il discorso di Calipso, con la quale abbiamo un rapporto privilegiato di concessione
copy free. Il dialogo fra quei due comunque ha un certo interesse, io trovo. Dai tempi di Omero certe sfere interiori
non sono poi cambiate granché.
TERZO DISCORSO DI CALIPSO
Non c’è amore che non generi dolore
o invidia o gelosia. Per me ti voglio:
non è un capriccio il mio. Se tu tornassi
a Itaca, la tua fedele sposa
la tratteresti come le altre donne:
tappe del tuo viaggio. Dopo un mese
o un anno ti riavrebbe la tua smania
del folle volo: la tua smania, la sola
che non tradisci. Tu viaggerai per sempre:
solo la nera morte fermerà
il pellegrino in cerca di stupore.
L’hai detto tu: nessuna mai s’è offerta
d’accompagnarti in viaggio – ed è l’unico modo
per esserti compagna. Io sì, mi offro,
e non per sete d’avventura: so
ben viaggiare da sola, cosa credi? Ma
è che ti amo, non capisci questo?
Ti è così nuovo un amore disposto
a condividere la navigazione
nei flutti dell’ardire e del conoscere?
Sì, vedo dai tuoi occhi che ti è nuovo.
Ora mi dici che vuoi accettare
per questa notte di stringerti a me:
che vuoi sentire calore e speranza
dentro di me (sarà la mia speranza
che vuoi sentire – tu crudele – o non
sarà la tua speranza, che rinneghi?)
e ripartire all’alba – e affermi altero:
«Scioglierò la tua fantasia con il mio ghiaccio».
Che stramba frase: di natura è il ghiaccio
che si scioglie, non è la fantasia.
La lingua può tradire qualche volta
segreti di cui l’anima ha timore,
prode che tutto credi di sapere!
Ma vieni dunque: facciamo l’amore
come tu vuoi, nella mia grotta, e all’alba
ripartirai da solo, se vorrai,
ancora solo per l’inquieto mare.
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28/05/2008
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Io spero certo di scioglierti il ghiaccio
e di partire insieme a te, ma se
troppo duro sarà il tuo non volere
tu partirai, non te lo impedirò.
Sai dove avrai rimpianto del mio amore,
Ulisse? Non nei luoghi dove andrai,
non fra i palazzi regali o le tende
o i villaggi o le isole incantate
dove le donne non ti mancheranno
e ti si apriranno e colmeranno
le voglie al corpo e allo spirito i vuoti
per qualche dolce amplesso intorpidito.
No: io non ti mancherò nelle tue isole.
Ti mancherò da morire fra isola e isola,
ti mancherò nel viaggio, sì, nel viaggio:
nella tua patria vera, quando tu
sei tu, quando il tuo sogno è realtà
ma non trova uno sguardo in cui conoscersi.
Allora tu rimpiangerai Calipso.
Sarò, per sempre, la sola che s’è offerta
d’accompagnarti, sarò l’unica nomade
capace di seguirti, la tua sposa
vera: quella che sa sciogliere i nodi
nelle burrasche del tuo strazio, altro
che i nodi d’un domestico telaio
nella casa serena in cui – lo sai –
non troveresti la quiete che non cerchi.
Uomo, conosci te stesso! Ma ora
facciamo l’amore, vieni qui nella mia grotta:
forse l’abbraccio potrà ciò che non possono
milioni di parole in versi o in prosa.
Un errore di lettura
sabato 13 ottobre 2007, 19.31.15 | molinaro
Oggi a Genova mi ha colpito una scritta su un muro. L’ho letta e l’ho fotografata (vedi
immagine). Però al primo colpo non l’ho mica letta giusta. Sapete, quelle scritte in spagnolo
sui muri di solito parlano di carceri (da bruciare) e di ribellione alla repressione. Scritte
politiche, anche se di una politica molto «esistenziale» (giustamente). Influenzato da ciò,
dopo a travez de al posto di lágrima ho letto un qualcosa di indistinto e confuso che ho
interpretato come «griglia» (lagrija, lagrilla, boh? qualche fantasiosa cazzata così), ovvero
«inferriata». Non sapendo bene lo spagnolo, nella fretta e nella luce un po’ così, ho letto ciò che mi aspettavo di
leggere, anziché quello che c’era scritto. È un fenomeno noto: l’interpretazione precede la percezione e la adatta. Lo
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sanno bene i correttori di bozze, che devono esercitare l’occhio a controllare carattere per carattere, perché a una
lettura veloce normale, in genere, se al posto, che ne so, di deposito c’è scritto deposiro, non te ne accorgi, perché
«sai» che ci va deposito e deposito leggi automaticamente. Beh, io sono andato un po’ oltre, nel malintendere, ma ero
pure un po’ appannato, e insomma ho interpretato la scritta così: «Qualsiasi stella guardata attraverso un’inferriata è
una croce». Che poi un suo senso ce l’aveva. E ho cominciato a elucubrare un embrione di poesia sul fatto che
l’immensa distanza di una stella può equivalere a un’inferriata, e se la distanza fra me e la stella è incolmabile, se non
ho speranza di raggiungerla, anche da libero, da non prigioniero, è come se ne fossi separato da un’inferriata. Poi
però ho riguardato la scritta nella foto che avevo scattato e mi sono accorto che non c’era, dopo a travez de, una
misteriosa parola a me sconosciuta che potesse voler dire «griglia, inferriata», ma c’era la più facilmente traducibile
parola lágrima. Quindi: Toda estrella mirada a travez de una lágrima es una cruz. E dunque: «Qualsiasi stella
guardata attraverso una lacrima è una croce». Meno politico forse, ma più «poetico» e intenso, partecipe anche di una
concreta fisicità, a rafforzare la metafora: un punto luminoso visto attraverso una goccia di liquido – o un velo di
pianto – prende a volte davvero la forma di croce. Ecco dunque, non ci ho fatto su nessuna poesia, la scritta in sé lo è
già. Una poesia sul muro. Non l’avevo letta giusta. A volte succede di non leggere bene le scritte. A volte succede di
non leggere bene neanche le persone, ma questo è un altro discorso.
Coraggio, amore, tempo, parole e così via
lunedì 15 ottobre 2007, 12.08.15 | molinaro
Vicino, lontano. Amore, non amore. Reciproco, non reciproco.
Parole. Coraggio. Stamattina pensavo che a morire d’un colpo di
pistola facendo i rivoluzionari ci vuole coraggio, ma a morire di
cancro in un ospedale dopo mesi di inutile degenza fra tubicini e
fialette ce ne vuole forse di più. Qualcosa si può decidere e
qualcosa no. Parole, parole. Forse le poesie d’amore, benché
anch’esse non servano poi a nulla infine, sono le parole meno inutili. Muovono da un
sentimento verso un sentimento. È qualcosa. Ne metto qui una che ho scritto l’altro
giorno in treno. L’amore. Il coraggio. Le svolte. Passare la giornata a lavorare non so
se è coraggio o vigliaccheria, o niente di tutto questo. So solo che lo sto facendo.
CLARA
Ha gli occhi chiari e io la trovo bionda
nei capelli ribelli, nella pelle,
anche nel pelo rado fra le cosce:
benché lei neghi la sua bionditudine.
Scrive per me le poesie d’amore
più belle che nessuna abbia mai scritto.
Siamo curiosi delle nostre cose:
sovente ci parliamo fitto fitto.
Altre volte però stiamo in silenzio
e ci esploriamo come una campagna
dove forse uno è stato, forse no:
trova insieme ricordi e roba nuova.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Uno sfogo inconsulto non è un insulto
lunedì 15 ottobre 2007, 18.12.50 | molinaro
Di solito non indulgo a sfoghi inconsulti, anche perché lo sfogo inconsulto è solo una
piccola parte di verità. Però in fondo anche tutto il resto è solo una piccola parte di verità.
Allora adesso ho deciso di indulgere a questa non poesia che è uno sfogo inconsulto. Scritta
(giuro) in venti minuti, non uno di più, e va la beccate com’è. Tenendo presente che mi sta
già passando, sono già di nuovo più ottimista, ma ogni tanto c’è qualche momento di sfogo
inconsulto e allora perché reprimerlo?
[Nell'immagine, ciò che avrei voluto vedere, nei miei sogni, sulla strada fra Mallare e San Giacomo quest'estate! Che
c'entra? Niente! Perché?]
LA LETTERA DI CONSUELO
(che in realtà non c’entra nulla)
Enfin. Senza ritmo, così, buttiamo fuori
una specie di non poesia. Oggi m’ha scritto
improvvisamente
Consuelo dicendo di sicuro non ti ricorderai di me.
Invece mi ricordo benissimo, Consuelo, di Genova,
con tutto il suo cognome un po’ sardo e l’indirizzo
ben su nell’entroterra, lungo il Bisagno, oltre l’autostrada:
perché non mi sarei dovuto ricordare?
Saranno passati dieci anni, forse dodici, un’inezia.
La gente si dimentica.
Devo rivedere quella poesia che piaceva a Diletta,
quella dell’autobus del cuore,
che dicevo che il mio cuore è un autobus pieno
di persone e ricordi. I ricordi vabbè.
Ma le persone, mi sa che sono scese.
La stessa Diletta chi l’ha vista più o sentita?
Qualche mese fa le ho mandato un sms e la risposta è stata:
Non mandarmi sms a quest’ora che dormo.
Federica è quella che è scomparsa più bruscamente,
lei ha il record della scomparsa brusca, sparita.
Però di gente scomparsa ce n’è tanta.
Sì, parlo soprattutto di donne ma non solo.
Quell’amico, amico si fa per dire, che mi ha usato
(ma sì diciamolo: basta buonismo: mi ha usato)
per un suo progetto culturale del cazzo
e poi finito quello chi l’ha più visto?
E quell’altro, con tutte le sue analisi
sulla mia psicologia, forse alla fine
voleva trombarmi la moglie, che poi
stavamo ormai separandoci quindi non è
che fosse tutto quel problema senonché
a lei non piaceva proprio per niente,
e dopo diecimila discorsi e critiche varie
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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e proclami di amicizia quella vera, minchia,
s’è dileguato da un giorno all’altro?
Questo per dire che non sono solo le ragazze,
non solo le donne. Voglio dire, cazzo,
tutti abbiamo tante cose da fare,
io questa non poesia la scrivo in mezz’ora di respiro
fra un lavoro e l’altro, però il tempo lo trovo.
Cioè non so, voglio dire, ma come si fa
a staccarsi così? Dicono che eh cosa vuoi
la vita separa. Sticazzi! La vita separa
chi vuol farsi separare. Gente via da tanti anni,
o anche da molto meno, cioè anche la Claudia,
avrà da fare, va bene, ma cagarmi un attimo,
io l’ho ascoltata per un anno di fila
a qualsiasi ora per qualsiasi suo problema
ed ero felice di farlo, ora va bene
che in queste cose non c’è compensazione
è deprimente anche solo pensarci, a una compensazione,
però possibile che non le venga voglia
più di dirmi una parola, così d’un tratto, stop!
Ecchecazzo, ecchecazzo, ecchecazzo!
Va bene, ci sono le fasi, le situazioni,
le realtà che cambiano – anche quelle, poi,
non è mica che cambino tutte da sole,
un po’ forse sì, succedono, ma un po’ tanto
le facciamo succedere noi, se no che viviamo
a fare? non decidiamo niente?
Belin di Giuda, mi sento un po’ solo e agitato,
e non fatemi la morale che dovevo stare sposato
in bella coppia fissa che neanche quella
era la soluzione, no, qui è un’altra faccenda,
Monica di Roma s’incazzava perché per rispondere
al telefono lasciavo raffreddare gli spaghetti,
ma cazzo a me sembra normale anteporre
chi mi vuol parlare alla temperatura degli spaghetti
che cazzo mi frega della temperatura degli spaghetti!
sono sempre stato troppo disponibile
però mi è sempre sembrato giusto così
cazzo cazzo cazzo
forse è una questione di priorità
è vero io non ci ho mai tenuto a mangiar bene
e non ci ho mai tenuto al lavoro
così non ho fatto molta carriera anzi nessuna
non ho mai messo il lavoro al primo posto
questo è verissimo
neanche l’università l’ho mai messa al primo posto
anzi diciamolo che non me ne fregava un cazzo
ho fatto Lettere tanto per leggere qualche libro
e poi bon, un lavoro l’avevo trovato
ma mica c’entrava con la vita
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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e che palle, la priorità è un’altra
non il lavoro gli studi e neppure in un certo senso
la famiglia, perché la famiglia è compresa
nelle persone, quindi basta dire che contano
le persone ed è detto tutto,
ma insomma, poi precisamente
la priorità è un’altra cosa
io non dimentico ma vengo sempre dimenticato
non mi caga nessuno in nessun ambiente diciamolo
perché non rompo le palle a nessuno
neanche rompere le palle è mai stata una priorità per me
scrivo le mie poesie mica vado a sleccazzar intellettuali
ecchecazzo
ma poi no questi sono dettagli
non è questo
la priorità è un’altra
e qui mi avvalgo di una cosa di cui si sono avvalse con me
molte donne incazzate e qualche uomo,
cioè la famosa terribile frase
hai capito benissimo (e io non capivo, è crudele)
oppure è inutile spiegartelo (ma prova!)
per una volta me ne avvalgo io e dico
che se la priorità non avete capito qual è
è inutile spiegarvela
affanculo
sono qui da solo a lavorare
cazzo state facendo
affanculo
affanculo
affanculo.
(Consuelo, guarda che tu non c’entri nulla, è stato solo un involontario spunto la tua lettera, sono sicuro che lo
capisci, questo sì, eh! Sono felicissimo che tu mi abbia riscritto dopo dieci anni, anzi! Andiamo avanti! Spero!)
Riflessione più calma sullo sfogo inconsulto di ieri
martedì 16 ottobre 2007, 11.49.45 | molinaro
Lo sfogo di ieri è stato trovato divertente dalla maggior parte di quelli che l’hanno letto e
sono contento che sia così. Era appunto uno sfogo, scritto in versi (se versi si possono
chiamare). Oggi prendiamo la cosa con più calma. In realtà un po’ preoccupato lo sono, più
seriamente parlando. C’è una sottile linea rossa che divide il prendere le cose con sorridente
ironia, con uno sguardo positivo sulla vita e sull’essere, dall’altra versione, la versione
dell’angoscia. Da giovane quella sottile linea la varcavo spesso e quindi so bene quel che
dico. Da più (ehm) maturo, sono riuscito quasi sempre a far prevalere la versione sorridente, nei meandri delle
giornate, anche davanti agli inevitabili dolori, drammi e delusioni che di ogni vita sono parte. Però la linea rossa è lì,
non è distante, la strada è stretta e non puoi allontanartene troppo, è un po’ come la muraglia di montaliana memoria.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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E adesso percepisco un periodo di rischio, a volte mi sento barcollare. Camminiamo tutti lungo un precipizio, questo
è certo; la differenza è il passo, diritto e sicuro o più incerto. A farti cadere può essere un sasso sconnesso, una buca,
una frana, ma più probabilmente una vertigine in un punto qualsiasi, dove il sentiero magari non presenta difficoltà
particolari. A volte, in questo periodo, provo sintomi di quella vertigine.
Ci posso scherzare sulla nostalgia di una Claudia che non mi cerca più, di una Federica scomparsa, di una Chiara che
non mi dà speranze d’amore, sulla dispersione, sulla lontananza; posso cercare di sorridere nelle mie giornate di
lavoro solitario al computer; posso prendermi in giro da solo perché m’innamoro di ragazze troppo giovani per me;
posso pensare che c’è chi mi ama, e anche se sta a tanti chilometri di distanza mi ama lo stesso e ci si vede quando si
può, e ci si scrive; posso guardare ai lati positivi, fra cui il principale oggettivamente sono i miei figli, però i figli
giustamente sono e devono essere persone autonome con la loro vita (ormai non ho più figli sotto i vent’anni); posso
concentrarmi sulle poche amicizie solide, sulle cose che bene o male so fare, sui valori in cui credo, insomma su tutto
ciò che è il bene di vivere, in contrapposizione al male.
Ma non posso nascondere che non è un grandissimo momento. La maggior parte delle poesie che ho scritto
quest’anno potrebbero formare un libro-canzoniere per qualcuna che fin dall’inizio mi ha detto (in tutta onestà):
«Toglitelo dalla testa». Cinque anni fa c’era stata una simile concentrazione di poesie, anche allora un piccolo
canzoniere per una singola donna (pure pubblicato in un libretto: Sospeso sogno), con una piccola differenza: lei
c’era stata, l’amore si faceva.
A chi legge le poesie non gliene può fregare di meno, lo so; lo dice giustamente Vecchioni: tanto che importa / a chi
le ascolta / se lei c’è stata o non c’è stata e lei chi è (da Luci a San Siro).
Ma io ho deciso di fare di questo blog non solo un luogo letterario (scelta discutibile, ma è la mia) bensì anche una
specie di diario personale, e allora queste cose le racconto, e sia come sia.
Va bene, torno al lavoro. Segnalo ancora un po’ meglio che alcune mie poesie sono state pubblicate qui. Dato che
sono stati così gentili da pubblicarle, almeno segnalarlo. Oltre tutto alcune non sono state messe finora da
nessun’altra parte, neppure in questo blog, dunque sono ineditissime e le trovate solo lì!
Su, dai, Carlo, lavora, il tempo passa per tutti, e domani viene a trovarti una che ti vuole bene, smettila di lamentarti,
che sei noioso. Con tanta gente che sta ben peggio, eh! Noioso!
[Nell'immagine: quello che i miei occhi penetranti vedevano quando la mia compagna di corso Nadia
andava alla lavagna durante un seminario a Palazzo Nuovo, Facoltà di Lettere, nel 1974. Infatti non ho la
minima idea di quale fosse l'argomento del seminario, ma chi se ne frega. Sono sicuro che non era poi
così importante.]
Un inedito di tre anni fa
mercoledì 17 ottobre 2007, 13.56.14 | molinaro
Non è che, tutte le poesie che ho scritto, le ho pubblicate. Certo
che no. Ma non ho molta roba nei cassetti perché spesso ciò che
non pubblico poi lo butto rapidamente via. Se mi piace, lo tengo e
alla prima occasione lo pubblico. Se non mi piace, perché tenerlo?
Lo butto via. Con qualche eccezione. Qualche poesia infilata qua e
là in qualche cassetto rimane. Stamattina ne ho trovata, per puro
caso, una del 12 dicembre 2004. Che avevo scartato. Rimasta dunque ineditissima:
forse anzi nessuno mai l’ha letta, neppure un amico in confidenza. Ritrovandola oggi,
mi pare che un suo senso ce l’abbia. Fra l’altro parla a un certo punto di tempi già
scaduti prima che e più oltre dice che non scade il tempo. Un nesso con il discorso di
Chiara sul tempo scaduto: solo che nel 2004 non conoscevo Chiara e forse lei non
aveva neppure ancora cominciato a pensare o scrivere Il tempo è scaduto. Mi piace
immaginare (anche se mi è sempre difficile crederci veramente) che possano
esistere delle pre-corrispondenze, dei percorsi che annunciano futuri incontri. Ma
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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così, senza pretese, intendiamoci. Probabilmente questa poesia l’avevo scartata
perché troppo «mentale», troppo «di testa». E in effetti sì, un po’ lo è. Però c’è dentro
qualcosa che oggi mi fa pensare, e mi vien voglia di metterla almeno qui sul blog. E
visto che è una voglia facile da togliermi, me la tolgo.
REVANCHE D’ENFANT
Ecco: un odore di pesci lontani
forse visti ma forse immaginati
tra fogne e fossi, tra quartieri e laghi
per mute passeggiate e frutta giù
nell’erba, le formiche nere grosse
su ceppi marci d’alberi tagliati:
è l’odore di legno e d’acqua ferma
nell’aria corta all’argine del fiume:
lo scintillare d’un coccio di vetro,
voci dopo il canneto, il macinare
della pietra alla cava – l’improvviso
umido della sera – un disoriente
di tempi già scaduti prima che.
Ecco: un’immobile corsa all’impronta
di nessun passo, l’indecifrata mappa
di sentieri allusivi, senza cigli:
vuoi o non vuoi, è l’inganno iniziatico
preteso come prova per entrare
dove non ami entrare – è la risata
di moribonde vite inconosciute
che t’inseguono fino dentro casa.
È tutto falso.
Ecco: un pugno di nulla l’ho tenuto
con cura nel mio angolo e so che
ho fatto bene – mi lascio a me stesso:
così mi prenda un flusso d’incoscienza
che redima le scorie, digerisca
i colpi a vuoto sul fumo che pare
nascondere misteri e non è che
fiato d’un drago banale, fantoccio
per disviare, per assimilare
il tagliente bambino all’uomo innocuo,
docile secchio di calcina spenta.
Nel mio pugno di nulla ho conservato
gli odori deboli, i persi colori
di cui voci ridicole volevano
privarmi: ho ricomposto un paesaggio
e ho visto che è buono e che non scade
il tempo: tra le spume e i sotterranei
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 169 di 404
guizzano i pesci come sempre, come
avevo già intuito – ho buone mani
per afferrare, naso per fiutare
e occhi per guardare e appena qualche
cicatrice, ma vecchia: stringo forte
il mio coltello, credevate e invece
non m’avete fregato e io non sono
uno dei vostri.
Torino, 12 dicembre 2004
Storie che finiscono
giovedì 18 ottobre 2007, 18.35.23 | molinaro
Parlavo stamattina, con un’amica, di storie che finiscono o non finiscono.
E adesso mi è venuta in mente una poesia che in un certo senso tratta
dell’argomento. Una poesia di «dopo un amore». È a pag. 341-342 di La
parola rinvenuta, e l’ha scelta e letta, fra altre, Guido Catalano al Circolo
dei Lettori quando abbiamo fatto la «presentazione incrociata» martedì 9
ottobre scorso (vedi messaggio n. 129). Eccola qui sotto.
RIMEMBRANZA IN GENNAIO
1.
Così scintillante. Così
come t’ho vista non sarai mai più,
perché la cifra della tua bellezza
è custodita nella mia pupilla.
2.
Ci vuole un verso aspro, che non ceda
alla tentazione del ritmo
per dire il tuo bacio, un sapore
di ferro e di geranio: ne parlo
con cognizione di causa
perché ti ho baciata e perché
da bambino mangiavo i gerani
e facevo capanne di lamiera.
So che potevi essermi compagna.
3.
Quel saputello che ti bacia adesso
scommetto che non sa fare disegni
sui tovaglioli. Scommetto che ride
nei momenti sbagliati, e non ti ascolta.
Sei l’unica, la sola
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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sua fidanzata? E con ciò? Sapessi
quante ridicole coppie qualsiasi
in fedeltà perenne inacidiscono!
4.
Però ti auguro giorni sereni.
La mia tristezza non è gelosia.
È il fauno malinconico che vede
partire ninfe verso la stazione
che per tunnel di plexiglas le porta
alla caserma del tinello buono.
5.
Al Gerbido con l’auto di tuo padre
fare l’amore al vuoto suburbano
per riempirlo di noi. Era importante.
Dove ti porta l’altro? A Tenerife
o al bar delle Colonne dov’è pieno
di stronzi e non c’è niente da riempire?
6.
E se l’auto non c’era, a Porta Nuova
l’ultimo treno per Villastellone
partiva a mezzanotte meno un quarto
e il tempo ci bastava per giocare
con l’arco luminoso della notte.
7.
Inutile tentare di recuperare.
Ma la fine dell’amore
ha bisogno di un poco di rituale
come la fine della vita, un laico
saluto con valore apotropaico.
8.
Neanche più una sera in pizzeria.
Come cigola il carro che allontana
vita da vita, che strazio di ruote
a sfangare nei solchi.
9.
Basta. Non ci riprovo più. È patetico.
Insomma, è storia andata. Chiuso. Stop.
Se ci vediamo lunedì mattina
alle undici in corso Raffaello
angolo via Giuria?
Altri libri, e altro
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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venerdì 19 ottobre 2007, 1.48.01 | molinaro
Stasera sono stato di nuovo alla libreria Massena, c’era la
presentazione di un libro di Paolo Bonesso, scrittore torinese: Le
felicità nascoste. Mentre aspettavo che cominciasse la
presentazione, ho visto su uno scaffale la traduzione italiana del
libro dell’uruguaiano Mario Benedetti La tregua (da non
confondersi con quella del nostro Primo Levi, non c’entra nulla).
Non sapevo che fosse uscita una traduzione italiana, vedo che è del settembre 2006.
Io l’avevo letto qualche anno prima in spagnolo, me lo aveva prestato Federica. L’ho
comprata, stasera, questa traduzione. Non perché mi servisse: ho nel cuore il testo
spagnolo (non sono un grande ispanista, ma con calma, e magari con un vocabolario
da consultare ogni tanto, un libro in spagnolo lo leggo fluentemente). L’ho comprata
pensando a Federica. Faccio le cose per strani insensati motivi. È un libro bello e
crudele, forse come la ragazza che me lo aveva prestato. Il finale mi aveva fatto
piangere (lo dico senza alcun pudore!): non lo svelo, casomai qualcuno volesse
leggere il libro (Mario Benedetti, La tregua, traduzione di Francesco Saba Sardi,
Edizioni Nottetempo, Roma 2006, pp. 256, euro 12). Par buono anche il libro di
Paolo Bonesso, e ho comprato pure quello (andrò in rovina); l’autore in libreria ha
letto alcuni brani, fra cui quello che trascrivo qui sotto, e che in qualche modo si
collega, si collega alla Tregua di Benedetti, si collega a Federica sparita nel nulla, si
collega ai discorsi sul distacco, insomma si collega. Si collega. Non è male, come
scrittura, anche se qua e là c’è qualche luogo comune tipo «il profumo della sua
camicia indaco, le sue labbra che sapevano di sesamo, le sue ciglia tremanti sulla
mia guancia» oppure «se fosse pioggia o lacrime ciò che avevamo sopra e intorno
agli occhi» (Rain and tears are the same, but in the sun you’ve got to play the game,
cantava il bambino di Afrodite nel maggio del 1968, Parigi bruciava e io ballavo con
le prime ragazzine timide che non sapevo come prendere – anche adesso non so
bene come prenderle, è una vita che vado per tentativi così, ogni tanto ci azzecco,
ma non imparo mai come, credo che succeda per caso).
Sì, c’è qualche luogo comune (se voi me li trovate giustamente nella Chiara io poi li
trovo giustamente dappertutto, garde à vous, so essere una vera merda! ma
scherzo, dai!) e c'è qualche stonatura di sintassi, però ci sono pure emozioni vivaci,
sì, qualcuna persino vera, e gradevoli atmosfere, nelle prime pagine che ho letto
stasera. Se volete anche questo libro, noi qui non siamo avari di segnalazioni (e
senza niente in cambio, mai): Paolo Bonesso, Le felicità nascoste, Edizioni di
LucidaMente (www.lucidamente.com), inEdition editrice, Bologna 2007, pp. 210, euro
14. Intanto ecco il brano qui di seguito (è a pag. 65).
Estela prese qualche giorno di vacanza e venne con me alla Reserva Esteros del Iberà. Non osavo
chiederle perché era tornata indietro, senza luce, con il fanalino penzolante e mi avesse chiesto
perché ero tanto triste.
Le risposi che, forse, era per il suo stesso motivo. Si limitò a ribattere, seccamente: «Non credo».
Poi scese nel silenzio e, in quel momento, Estela assomigliò come una goccia d’acqua
all’Argentina: stessa bellezza, stessa disperazione, stessi occhi da infinito addio, stesse barche che
andavano e tornavano, stesso mare, stesse carezze di vento, stessa meravigliosa aria di perdizione
e di santità. Estela era uguale al suo paese e non avrebbe mai potuto abbandonarlo.
Trascorremmo quattro giorni su una barca, in mezzo al pantano, fra caimani, lontre e scimmie.
Estela sorrideva e nei suoi occhi chiari si raccoglievano altre nubi, nuove tempeste.
Non riuscii a sapere niente di lei, se non che le piacevano le sere d’estate e le rose. Per quattro
giorni fummo ciò che è la corrente per il condor, ciò che è il deserto per le creature che in esso
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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abitano, un bacio per chi ha bisogno di un bacio.
Le domandai se potevo rimanere a Corrientes ancora un po’: l’avrei aspettata all’uscita dal lavoro
e saremmo andati a cena a La Cueva del Pescador, il suo ristorante preferito. Probabilmente, con
questa richiesta, scatenai i suoi ricordi e si rabbuiò. Quando finisce un amore, tutto è un campo
minato: qualunque parola, foglia che cade, profumo d’incenso, città, ricetta di pesce, romanzo o
canzone, solleva memorie vivissime e brucianti.
Mi disse che me ne sarei dovuto andare subito, che era stato un errore tornare indietro con la
bicicletta. L’abbraccio con cui mi cinse prima di entrare nel mio passato non sono riuscito a
dimenticarlo. In esso c’erano tutte le rovine che sono contenute in un distacco. Ricordo il
profumo della sua camicia indaco, le sue labbra che sapevano di sesamo, le sue ciglia tremanti
sulla mia guancia e i suoi pensieri che non sapevano dove andare, che non riconoscevano se fosse
pioggia o lacrime ciò che avevamo sopra e intorno agli occhi, che non riuscivano a distinguere se
quell’addio fosse giusto o sbagliato, ma soltanto deciso.
Poche ore dopo ero diretto a Buenos Aires. Avevo anticipato il rientro. Attraversai la città, la mia
città preferita, a occhi chiusi, e giunsi in aeroporto.
Quando salii sull’aereo sapevo che quella era l’ultima volta che vedevo la mia terra, la mia amata
terra d’Argentina. Era l’ultima volta: troppi ricordi, memorie di dolore, struggimenti, amori
appena sbocciati e già morti, figli mai nati, rimasti dentro la Pampa e nel sole.
Ho continuato ad amare quella terra come se sulla stessa avessi combattuto una guerra e perso
tutte le battaglie, anche se dall’addio di Estela non ci sono ritornato mai più.
Pressioni e dispersioni
venerdì 19 ottobre 2007, 14.10.08 | molinaro
Mi sono comprato il coso per misurarmi da me la pressione arteriosa, visto che il medico mi
ha detto di tenerla sotto controllo. Adesso, cinque minuti fa, è 132-89. Spero che non sia un
reato dirlo qui nel blog, perché nel libretto delle istruzioni c’è scritto fra l’altro di
conservare l’apparecchio «in luoghi a cui non abbiano accesso persone che non sono in
grado di esprimere il proprio consenso». La privacy sta diventando un fenomeno isterico, un
segno dell’isolamento della persona nella nostra società. Forse la privacy fa salire la
pressione.
Saranno più di due settimane che non vedo né sento Claudia. Avrà altro da fare, avrà molti impegni, o per sue ragioni
psicologiche non vorrà sentirmi. Al telefono non risponde, ora non la chiamo più perché non sono un rompicoglioni.
O avrà qualche risentimento per qualcosa? Tempo fa mi aveva accusato di una cosa che non ho mai fatto, non una
cosa importante, ma comunque non l’ho mai fatta, sono innocente, vostro onore. Vorrei vederla una sera, almeno. Ci
siamo visti quasi tutti i giorni per un anno e certo, certo, non poteva durare così, però l’improvviso brusco silenzio mi
addolora. In una relazione d’amicizia. Diceva che ero il suo migliore amico. Forse non lo sono più. O forse è normale
un silenzio di qualche settimana, forse sono io troppo ansioso.
Forse c’è qualcosa di sbagliato in me. Persone vicinissime, in rapporti di forte amicizia o d’amore, mi scompaiono
così da un giorno all’altro, troncano dal mattino alla sera oppure semplicemente smettono di rispondermi, si
dissolvono nel nulla. A me sembra una cosa terribile, peggio che prendere un pugno o uno schiaffo o una coltellata,
ma forse sono solo io a percepire la cosa in questo modo, e invece per loro è normalissimo. Tutto regolare.
Certo che quando Claudia era agitata o triste io schizzavo fuori di casa e andavo da lei, ogni volta che ha avuto
bisogno di ascolto o di conforto, non le ho mai detto «non posso». Un pomeriggio per esempio mi ha chiamato
mentre stavo andando in un’azienda per un lavoro importante. Ho telefonato all’azienda inventandomi che avevo
avuto un incidente e non potevo raggiungerli, e sono andato da lei. Altre volte mi ha tenuto sveglio fino all’alba e io
all’alba poi dovevo lavorare ed ero uno straccio, altro che pressione arteriosa: ma ero felice che lo facesse! Mi sa che
sono io che sbaglio. Gli altri dicono molto spesso «non posso», «ho da fare», «sentiamoci più tardi» o «domani» o
«la prossima settimana». Io, agli amici e alle fidanzate, quasi mai. Praticamente mai. Sono io che sono sbagliato.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Bisogna farsi desiderare. Bisogna essere un po’ stronzi, diciamola tutta. Ma mentre lo scrivo non ci credo. Non può
essere così.
Conservare l’apparecchio «in luoghi a cui non abbiano accesso persone che non sono in grado di esprimere il proprio
consenso». Privacy, privacy! Perché, nell’era della comunicazione, aneliamo sbavanti al suo esatto opposto,
l’isolamento, i fatti miei sono solo miei e guai a chi si avvicina. E quando uno non mi serve più, vada per la sua
strada che io vado per la mia.
Forse devo uscire dall’adolescenza e scoprire che è così, è proprio così. Ma no, è troppo una merda. Scusatemi, allora
resto nell’adolescenza, dove comunque mi sono sempre preso tutte le mie responsabilità in modo assai maturo.
Cazzo.
Nel racconto Stand by me di uno Stephen King ancora giovane, c’è uno che a un certo punto dice qualcosa così (cito
a memoria, non ho il libro, me l’aveva prestato Cesare e dopo averlo letto gliel’ho restituito, naturalmente): «Gli
amici ti tirano a fondo, ti fanno annegare con loro, devi scrollarteli di dosso se vuoi fare la tua strada».
Cazzate. A vent’anni ho rinunciato all’Università di Firenze per non allontanarmi da una ragazza che neppure mi
cagava. Lo rifarei. La strada che ti fa buttar via le persone è la strada della competizione, dell'esclusione, della
sopraffazione, delle lotte a coltello per il successo, alla fine è la strada del capitalismo, del liberismo, di questa
trionfante economia di giungla. Non per nulla King è statunitense (ed è diventato poi autore di best seller). Andateci
voi su quella strada se vi piace. Io prendo un altro sentiero, che attraversa semplici paesi e qualche amore rubato ogni
tanto.
Ho rimisurato la pressione (bisogna pure giocare con un giocattolo nuovo) adesso, finito di scrivere, ed è 148-94. Per
forza, se mi fate incazzare!
In paga metto qui sotto una poesia dedicata a Claudia. Buona giornata a tutti.
[nell’immagine, il cielo dalla mia finestra stamattina poco prima delle otto: è bello, no?]
GLI STRACCETTI
Chi è che non vorrebbe toglierteli
gli straccetti di cui ti sei vestita
stasera – lo farei anch’io qui adesso
nella luce di miele di questo caffè
– lo farei volentieri anche se
sono ben preso da un’altra maestosa
ragazza azzurra, da una bianca mandorla
acerba, da una bruna montanara
e da altre donne superbe e festose
di svariati colori e svariati profumi
– quegli straccetti te li toglierei
senza pensare ad altro, in solo omaggio
alla gioia, alla vita, alla fuggente
felicità – ma soprattutto a noi,
a noi qui ora, qui adesso, qui a bere
una tisana d’erbe, in questa sera che non è
mai stata prima e non sarà mai più.
Sogni da buttare
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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domenica 21 ottobre 2007, 1.36.38 | molinaro
Vigilia del battesimo del nipotino. Ma stanotte leggo e scrivo di sogni. Penso che i sogni
non sono quella cosa che certa gente pensa che siano. I sogni sono una molla dentro, una
tensione, un motore. Che a volte gira a vuoto, ma non vuole girare a vuoto, non è il suo
destino quello di girare a vuoto: è solo una disgrazia che a volte gli succede. E allora ho
scritto questa cosa, ispirata un po’ dai versi che ho messo in epigrafe. Ma adesso vado a
dormire davvero perché domani mattina cerimonia, e mi dovrò mettere la camicia e la
giacca, l’unica che ho ma dovrebbe andar bene.
SOGNI DA BUTTARE
Se ho sonno
è perché mi hai tenuto sveglio
tutta la notte
a scriverti una lettera
che come tante
non ti ho spedito.
Perché lo so, non avevi voglia di riceverla.
E allora mi fai scrivere
pensare e comporre sogni
da buttare.
Francesco Molinaro
Un sogno è un sogno e dicono: «Beati
i sognatori, quegli acchiappanuvole,
hanno sempre di che pagarsi, inventano
un mondo tutto loro». Chi dice così
è un po’ invidioso e un po’ ironico, forse
non sa sognare o non vuole. E si prende
la stoccata ciranesca di Guccini:
io sono solo un misero cadetto di Guascogna
però non la sopporto la gente che non sogna.
Sì ma secondo me c’è un malinteso.
Non è così di nuvole, non è
di rose e fiori questo bel sognare,
non è da poetucoli svenevoli.
Cazzo, chiariamo!
Il sogno è una cosa molto seria,
molto importante, che quando ti prende
ti mette spalle al muro e ti costringe
a vivere le cose più reali
con la forza del sogno, una forza tremenda
che cambia il mondo e cambia te, una voglia
che ti fa teso come corda tesa,
non puoi star fermo, sei pronto a scattare
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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come una bestia selvatica, corri
fino all’ultimo fiato. Citerei
un’altra canzone di un più grande
artista genovese che mi pare
inquadri meglio la cosa: Sognai
talmente forte che mi uscì il sangue dal naso.
(Sono i notai che arrivano a cent’anni
tranquilli e ben pasciuti,
raramente i poeti.)
Rapporti d'ansia
lunedì 22 ottobre 2007, 13.09.08 | molinaro
Con tutto il lavoro che ho da fare oggi, già non dovrei neppure
scrivere questo, dovrei lavorare e basta. Eppure, eppure. Non si
può mettere la vita in un ripostiglio, come robaccia, e correre
solo su e giù per le scale mobili del lavoro. O forse si può ma è
un delitto. Così credo. Così mi pare.
Ho addosso una specie di ansia. Legata a tante cose (anche al lavoro stesso, sì,
anche al tempo che scorre, all’età, ad altre cose), ma oggi legata soprattutto ai
rapporti umani.
Venerdì scorso un’amica mi ha criticato per un commento troppo sbrigativo sul
suo blog, e poi ha aggiunto che deve elaborare un discorso sul valore del tempo
dedicato agli amici, in un’ottica di rispetto e dignità. E io già sono in ansia, temo
di avere sbagliato, sì ho fatto un commento sbrigativo ma è che lei me l’aveva
chiesto e forse io invece non mi veniva niente da dire e ho voluto commentare lo
stesso perché lei me lo aveva chiesto, era una roba su una città in cui anch’io
sono stato. E avevo fretta, e forse dovevo aspettare un altro momento, o dire che
non avevo nulla da dire, ma aspettare poi magari passa troppo tempo, ho voluto
fare così per fare, perché me lo aveva chiesto, quando mi chiedono le cose cerco
di farle subito, non so se è lo stesso motivo per cui uscivo a imbucare le lettere
per Diletta alle due di notte, no forse no, non lo so, e poi in quel caso lo faceva
anche lei, eravamo pari. L’ansia dell’impegno quella ce l’ho, lo so; come lavoro
vorrei tanti piccoli lavori che cominciano il mattino e finiscono in giornata,
compiuti, che non stai la notte che dopo devi ancora finire, magari per mesi,
magari è per quello che faccio il poeta e non il romanziere, magari è per quello
anche altre cose. Se mi chiedi una cosa io comincio a farla nel minuto in cui me
la chiedi, se no entro in ansia. Il 99% delle volte va così, l’1% è che proprio
oggettivamente non posso. Ah, Dio mio.
Mi rendo conto che quella del commento sul blog può essere una cazzata, non
perderò, spero, un’amicizia ultradecennale per un commento sbrigativo, eppure
l’ansia ce l’ho.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Sarà che a volte mi sembra di avere perso rapporti umani per ancor meno, ossia
per nessun motivo (nessun motivo a me noto, s’intende).
L’ansia la dà qualsiasi rapporto umano a cui tieni, un po’ è naturale, anzi credo
che sia un termometro dell’importanza del rapporto. Clara mi scrive che non sa
se ha senso un rapporto con uno come me con tutti i miei fantasmi e mi viene
l’ansia. Un’ora dopo mi scrive che mi vuole bene e mi passa l’ansia. E così via.
Sfido che ho la tachicardia. È perché non vorrei mai perderla. Clara, non la
tachicardia.
E le scomparse esistono, non dico la morte, quella è un altro discorso, dico le
scomparse in vita. Federica l’ho quasi metabolizzata, Elisa forse anche, ogni
tanto ne parlo perché comunque le cicatrici restano per sempre però credo di
averle metabolizzate anche se ovviamente spero che mi telefonino fra un minuto
ma quello è ovvio che io lo speri (o no? io spero sempre tutto). Però Claudia?
Claudia mi sta facendo soffrire in un modo che forse non prevedevo neppure, mi
manca da morire, dopo un anno a vedersi e/o sentirsi quasi tutti i giorni adesso
un muro di silenzio. Tre settimane, non è che sia un secolo, ma è il modo che mi
ferisce. Non una parola. Se telefono non risponde. Ovvio che adesso non
telefono neanche più, uno si sente un rompipalle. Può avere mille impegni, ma
una parola... Perché fa così? Non è successo nulla che giustifichi una rottura.
Magari domani mi telefona e mi dice: «Ma perché te la sei presa? Avevo molto
da fare, non avevo tempo. Non è successo nulla». Magari invece non mi telefona
mai più. Come Federica. Ho un’ansia addosso. Che cosa c’è di così sbagliato in
me?
Poi la domanda diventa: sono fatto sbagliato perché le persone mi scompaiono,
o le persone scompaiono a tutti e sono fatto sbagliato perché patisco che le
persone mi scompaiano?
Una mi rimprovera per un commento affrettato, in pratica credo che mi
rimproveri distrazione e poco tempo dedicato. Credo, non lo so, me lo dirà,
penso che me lo dirà. Un’altra invece, a cui ho dedicato attenzione totale (se mi
chiamasse in questo istante andrei da lei e in culo ogni lavoro urgentissimo,
uscirei senza neanche spegnere il computer), mi ricambia con un improvviso
silenzio. Lo chiamerei silenzio assordante se non fosse ormai diventato un luogo
comune, per colpa di certi giornalisti incapaci che quando ci si inventa
un’espressione nuova poi la usano settecento milioni di volte a sproposito e la
fan diventare vuota come una pubblicità commerciale. Più propriamente lo
chiamo silenzio crudele. E sarò sbagliato io, e mi sarà presto spiegato, dal
saggio di turno, che ha ragione lei, e che io non capisco un cazzo; ma io lo sento
crudele e avrò almeno il diritto di dirlo, come lo sento. Senza pretese. Lo dico.
Va bene che non esistono rapporti equilibrati, va bene che la disponibilità è
variabile (a me viceversa – viceversa? – l’altra amica rimprovera appunto poca
disponibilità quantomeno a commentare un blog, credo), ma anche nei periodi di
«stanca», un minimo, una parola. Io non mi ricordo di avere mai inflitto a
nessuno la tortura di un silenzio così. Se sbaglio, se ricordo sbagliato, la persona
a cui l’ho inflitto me lo faccia notare. Ma non credo proprio.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Che poi anche nel caso del commento sbrigativo sul blog dell’altra amica gioca
l’ansia di comunque fare, di comunque rispondere. Mi chiedi un commento e te
lo faccio anche se non mi viene. Forse, patendo così tanto il silenzio, patendo
così tanto la non risposta altrui, mi ripugna fare io la stessa cosa, e invece in
quel caso avrei dovuto: non mi viene niente da dire su quell’argomento del tuo
blog, taccio. Magari spiegandolo, perché il silenzio assoluto, il muro vuoto, la
barriera incomprensibile, quella mai, no, mai, neanche a un criminale,
figuriamoci a un amico.
Sono ansioso e sbagliato. Comunque Claudia potresti darmi un colpo di
telefono, porca puttana (è un’interiezione, non è al vocativo). Quell’esame l’hai
fatto? Ma la laurea triennale la prendi a novembre o no? Ma come va con quel
nuovo tipo? Ma come stai? Ma non pensi mai che uno che ti vuole bene a non
saper più nulla di te sta male? Ma sono io così anormale? La mia vita senza te è
minestra senza sale (questa è una citazione molto dotta –eh!– che solo tu puoi
capire), si vede che io per te invece sono stato un giocattolo da buttare via. E lo
dico e me ne frego se sono patetico, so essere patetico e persino ridicolo quando
ci vuole. Perché sì, a volte ci vuole: lo stile obbligato uccide. Noblesse tue.
Cazzo!
Un epitalamio (grosso modo)
martedì 23 ottobre 2007, 14.48.01 | molinaro
Insomma, epitalamio. L’epitalamio dovrebbe essere una
composizione bene elaborata, con versi regolarissimi
(distici elegiaci? un esametro e un pentametro? tutti ben
messi i dattili e i trochei? mah, non ricordo più bene la
metrica antica), e questa invece è una cosa buttata giù
alla svelta, di getto, senza pensarci. Ma forse c’è un
senso. I miei auguri in ogni caso sono sinceri, adesso sì.
EPITALAMIO
(per un matrimonio che si celebra ai primi di novembre)
Sono contento che adesso ti risposi
con uno che ti ama e ti rispetta.
Anch’io t’ho rispettata a modo mio
– ma è stato un modo forse troppo mio –
e amata non lo so, mancava sempre
qualche cosa all’amore, ci è mancato
fin dall’inizio e per vent’anni e due figli
abbiamo fatto senza – e sì, sì, in fondo
è stata anche quella un’impresa, diciamo:
un’impresa minore, di quelle che nei libri
le scrivono in piccolo e all’esame non le chiedono.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Nei primi tempi c’era del buono.
Ricordo che sul Gargano facevamo l’amore
anche tre volte al giorno.
Però la sera io bevevo lo stesso
e mi sognavo le ragazze di Mattinata,
sette brune e una bionda.
C’era del buono ma era già malato
con quel sempre troppo vino sopra il tavolo,
con il mio rifugiarmi nel minuto d’ombra
fra ora e ora, con le idee ritirate
e mai discusse, miscredente che leggevo
con bella voce l’epistola in Valsesia
per la gioia dei bravi montanari
– no, bravi no, ora non esageriamo.
Ce n’è anche di stronzi la sua parte.
C’era del buono ma forse era possibile solo
avendo messo l’anima da parte
e posto in campo una viceanima docile,
adattabile a prezzo di fughe
più o meno disperate,
più o meno tollerate.
Per vent’anni non ho sentito musica
che mi piacesse. Ho scoperto Guccini
dopo averti lasciata. Da un lato
è stato divertente, dopo: mi sembrava tutto nuovo
ed era di vent’anni prima solo che
io non c’ero mai stato in quei vent’anni.
Devo ancora capire che cazzo è successo
nel «fatidico 1977» di cui parlano pure adesso
su riviste e giornali. Io non ricordo
nulla di particolare in quell’anno. Proprio nulla.
Ero entrato in un tuo mondo separato
fatto di camicette romene e musica d’organo
e passeggiate e far la spesa al PAM.
Non ricordo nient’altro. Non ti faccio
nessuna colpa di questo, ero io
che non ero capace di alzare la testa.
E andava bene così, per vent’anni
è andata bene così. Bene si fa per dire.
Mi sono sentito ogni giorno in difetto,
questo è quanto. Non ero io la domenica al parco
a sentire alla radio la partita.
Era qualcuno che io fingevo d’essere,
un marito (quasi) normale. Forse me la studiavo
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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addirittura, quella normalità.
Con quali risultati, è da discutere.
Infatti dopo non l’ho più sentita,
la partita alla radio.
Bisognava pur fare qualcosa.
Anche tu sapevi! Ricordo che mi dicesti
che temevi che un giorno mi sarei innamorato
davvero di qualcuna.
Sembra quasi un discorso dell’assurdo.
Molte vite lo sono.
Mi dispiace le volte che t’ho fatta piangere
(ricordo tutto molto bene, non credere),
una volta persino uno schiaffo
(ma dato piano, con valore simbolico,
quasi a implorarti di farla finita con me,
che io non ne avevo il coraggio)
e gli oggetti distrutti, quel candelabro d’argento,
orribile dono di nozze di non so chi,
che feci a pezzi e tu volevi ricomporre:
ma erano troppo diverse le vite
che volevamo ricomporre, troppo diverse.
Diverse anche se poi non avevamo idea
di come fossero, di come le volessimo.
Però diverse, sicuramente diverse.
Ricordo le delusioni, le insufficienze
d’uno scenario messo su alla bell’e meglio
e recitato senza grande convinzione:
credevamo che la vita fosse quella,
che non potesse dare molto di più.
Questo ci accomunava. Era ben poco.
C’era sì tenerezza, c’era gioco a volte,
ma non complicità, quella mai: restavamo guardinghi,
sempre in difesa: perché il vero tesoro
era celato e non era condiviso.
Celato anche a noi stessi.
Ho sempre voluto far l’amore con altre;
è stato quello il mio più grande desiderio
pure nell’anno in cui ci siamo sposati!
Quando ho smesso di bere ho cominciato
poi persino a riuscirci. Ma non credo che questo
sia stato una mancanza di rispetto
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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verso di te. Stavo solo scoprendo
qualcosa che avrei dovuto scoprire
comunque: amare ed essere amato io davvero,
non la parte monca di me che avevo messo
in scena fin da piccolo, credo
per paura o viltà.
Doveva succedere. Ma non credo
di averti mancato di rispetto. T’ho fatta
soffrire, questo sì, ma rispettata
ti ho sempre rispettata, a modo mio
– se anche è stato un modo troppo mio.
È perché non andava il modo mio
in tutte le tue cose, che tutto è finito
quando ho imparato – molto tardi – a vivere
senza più svicolare: a modo mio.
Che è la cosa giusta da fare per tutti, suppongo.
Ricordo tuttavia momenti teneri,
un cammeo preso a Firenze, il gioco
di muovere le dita dei piedi,
i tre giornali che tu mi compravi
quando giacevo a letto il giorno dopo la sbronza.
So che nemmeno questa poesia è granché.
Non sono mai riuscito a fare granché per te.
Sono contento che adesso ti risposi
con uno che ti ama e ti rispetta.
(Io resto scapolo, credo che sia meglio.)
(Però non si sa mai, magari trovo
una pazza furiosa, da vivere insieme
liberamente! No, non credo che esista.)
Avec le temps
mercoledì 24 ottobre 2007, 23.31.32 | molinaro
Oggi ho scritto diverse inconcludenti e anche lagnose stronzate. Poi per fortuna ho avuto la buona
ispirazione di cancellare tutto. E preferisco mettere qui soltanto questa bella tristissima canzone di Léo
Ferré. Domani è un altro giorno.
Per lei che cresce
venerdì 26 ottobre 2007, 9.47.31 | molinaro
Continua a piovere con un certo impegno stamattina su Torino.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Devo uscire, passare in un’azienda e alla Posta. Meglio, così
non sto tutto il tempo a lavorare al computer, come è successo ieri dall’alba a
mezzanotte. Devo anche mangiare un po’ più decentemente: ieri ho pranzato
con un chebab e cenato con una scatoletta di tonno e una bustina di grissini. No,
non ho usato i grissini per tagliare il tonno, anche perché quello del discount si
sfascia da solo appena aperta la scatoletta. Fra tonno e grissini ho scritto anche
questa piccola poesia. Ma ora adelante, sotto con il lavoro. In qualche autogrill
qualche giovane cameriera starà forse specchiando alla soda fountain la sua
faccia da bambina, per qualche piazza starà correndo una lepre pazza. Io sto con
le mie vecchie bozze da correggere.
PER LEI CHE CRESCE
La niña del bello rostro
sigue cogiendo aceituna
con el brazo gris del viento
ceñido por la cintura.
Federico García Lorca
Adesso impari quasi ad atteggiarti,
ad avere uno stile, a costruire
le frasi, i modi giusti per l’intreccio.
Fai bene, è necessario. Però è quando
te ne dimentichi e scrivi alla svelta
una riga sul foglio come viene
che sento nella gola grigia battere
la consapevolezza puntigliosa
dell’abbraccio di vento che ci sposa.
Sciopero dei treni
domenica 28 ottobre 2007, 0.58.01 | molinaro
Si prepara una domenica a Milano: la presentazione di Clara e un
pranzo fra amici. Ma c’è sciopero dei treni piemontesi e ci tocca
andare con la Panda. Che sfiga. Proprio adesso dovevano
scioperare e proprio in Piemonte! Certo avranno le loro ragioni. Ma
io, in paga, metto qui una poesia, presa dal mio libro, con l’arrivo
di un treno a Milano. A pag. 401 de La parola rinvenuta. Ecco!
FRA VENTI MINUTI
Fra venti minuti arriveremo a Milano.
Forse meno, sfilano le luci rade di Rho.
La ragazza si dipinge le unghie di verde chiaro,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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verde smeraldo, blu turchese, azzurro,
e lascia il mignolo rosa, non dipinto.
L’uomo ritira il walkman e il telefono.
Un’altra donna toglie delle foto
dalla busta gialla e bianca del laboratorio
e le mostra a un’amica che si affaccia
alla spalliera del sedile, dietro.
Fra un quarto d’ora saremo a Milano.
L’anziana un poco secca si mette la sciarpa
e l’odore della città s’infila nel vagone.
L'amore ha vent'anni
martedì 30 ottobre 2007, 14.37.57 | molinaro
Oggi ho scritto una breve poesia, ispirata da una discussione (se
discussione si può chiamare) che si è dipanata sulla Posta del
fegato. Discorsi più o meno vani sulle età dell’amore, sugli squilibri
nei rapporti, cose del genere, per carità magari anche sensate, ma
in definitiva (secondo me) inutili. Ho pensato, in un lampo, che
l’amore ha vent’anni. Questo non significa che non ci siano
meravigliose amanti (e meravigliosi amanti) di cinquant’anni e più. Certo che no. Ma
l’amore, lui, proprio lui in persona, ha vent’anni, da sempre e per sempre.
Nell’antichità veniva raffigurato giovane, e così in tutti i secoli, e Romeo e Giulietta
non sono certo cinquantenni, come neppure Paolo e Francesca. E Vittorio Sereni, in
una delle poesie più grandi di tutto il Novecento non solo italiano (secondo me), Mille
miglia, scrive in chiusura: Ma nulla senza amore è l’aria pura / l’amore è nulla senza
la gioventù. E per Guccini nella famosa Locomotiva gli eroi (e quindi gli amanti, che
sono sempre eroi – e viceversa!) sono tutti giovani e belli. È così naturale! Così
evidente! Questo non deve deprimerci, dico soprattutto noi che abbiamo già una
certa età, no, non deve deprimerci. È la vita, è tutto regolare, è tutto come è. Ma
negare che l’amore abbia vent’anni, come si fa? Buona giornata a tutti, di tutte le età.
L’AMORE HA VENT'ANNI
L'amore ha sempre vent'anni. Noi no:
noi ci disfà l'alterna indifferenza
delle stagioni, noi ci prende il grigio
del cielo e dei capelli – ma restiamo
innamorati del ventenne amore
e ne teniamo un poco in una tasca
ben custodito, da poter guardarlo
di tanto in tanto per saperci ancora
vivi, perché la verità è che
la vita senza amore non esiste
e l'amore, per sempre, ha vent'anni.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Ho visto vecchi piangere d'amore
martedì 30 ottobre 2007, 17.48.15 | molinaro
Un po’ c’entra e un po’ non c’entra, con la poesia del messaggio precedente. Non ha
importanza che c’entri o non c’entri. Mi è venuta così, in un pomeriggio grigio pensando
che forse ora faccio una pausa dal lavoro ed esco a mangiare un panino. In casa ho quattro
cachi e uno yogurt, ma forse esco a mangiare un panino. Ha aperto un nuovo
chebabivendolo nel primo tratto di via San Donato, vicino al bar che fa ancora cappuccino e
brioscia e un euro e cinquanta totale, magari lo provo. Intanto questa qui sotto è la poesia.
HO VISTO VECCHI PIANGERE D’AMORE
L’amore che hai vissuto
non è tempo perduto
l’amore che hai sognato
è tempo anticipato
Clara Vajthò
Io sento solo freddo. Abbiamo giocato
a fare i grandi e poi lo siamo diventati.
Chiara Borghi
Ho visto vecchi piangere
nel semibuio d’un monolocale
o nel salotto d’un ospizio o anche
nell’indifferenza affettuosa
d’una famiglia.
Ho visto ragazzini piangere
nell’angolo d’un cortile
cinti dal braccio d’ombra d’un’assenza
traditi da un amico o lasciati
da una ragazza.
La differenza è
un tempo avanti tutto ancora
da vivere e una forza nelle gambe
– o invece gambe stanche
e tempo ormai scaduto.
Ma il ragazzino in lacrime non pensa
alla vita davanti – pensa solo
a chi gli manca – il vecchio non pensa
alla morte vicina – pensa solo
a qualcuno lontano.
Quando non c’è più abbraccio la ferita
sanguina uguale a quindici o a cent’anni
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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un abbandono è un abbandono sempre
ciò che si perde rimane perduto
ho visto vecchi piangere d’amore.
Senza titolo
mercoledì 31 ottobre 2007, 15.51.23 | molinaro
NOMPOESIA DI VARIE COSE FATUE
Che poi la Petarda mi dice che
potevo anche non andare a capo
perché si legge bene tutta di seguito
e quindi è prosa, ma a me
gira di andare a capo.
Cioè pensavo all’innamoramento e amore
– cosa nuova, eh? –
e subito allora penso Alberoni
ma Alberoni penso Lido
e Lido penso Clara
così ci allontaniamo subito da quel libro
di Alberoni Francesco
che secondo me è abbastanza pessimo.
Che poi l’Alberoni del libro
mi ricorda Gargiulo
o Gargiullo
o Margiullo
o qualcosa del genere, adesso non mi viene.
Ecco pensavo: se non sono innamorato
non riesco a fare un cazzo
parlo anche di lavoro
e questo mi provoca guai
una volta uno me l’ha proprio detto:
«Se fai quella faccia
non mi vien voglia
di darti il lavoro».
Era un lavoro che faceva cagare
come il 99,9% dei lavori
ma ne avevo bisogno
avrei dovuto stamparmi
un bel sorriso entusiasta sul muso
ma non ci riesco, non ci riesco mai.
E pensavo: ma quello lì nel caso del lavoro
è innamoramento o amore?
Io a naso direi innamoramento
perché se non sono entusiasta
proprio entusiasta al culmine
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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roba da innamoramento
non riesco a far niente di buono. È un casino.
Va ben che a volte non ce n’è bisogno,
basta produrre una roba così, passabile.
Però poi magari ti fanno il culo.
Il mondo del lavoro è bastardo bastardissimo.
Fra uomo e donna
se non c’è l’innamoramento è grigia.
Quell’amico della Val Bormida
dice che m’innamoro delle immagini
più che delle persone, ma io contesto:
dentro le immagini ci sono le persone
e ogni persona, come la vedi, è un’immagine.
E poi mi va di studiare le persone
guardarle bene
sono capace di andare a una cena
dove non sono neanche tanto a mio agio
solo per guardare una
anche fidanzata con un altro che è lì con lei
sì per guardarla
perché va bene, immagine, sì,
ma l’immagine dev’essere reale,
non frutto dei miei voli di fantasia.
Insomma, insomma, insomma.
Certo l’entusiasmo è tutto:
anche nel mio periodo alcolico
che fu una brutta faccenda
nelle (rare) giornate in cui avevo
qualcosa che m’entusiasmava davvero
manco ci pensavo a bere
infatti ho smesso quando mi sono innamorato
(perché innamoramento è uguale a entusiasmo,
su questo non ci piove)
poi l’amore è passato
ma ormai avevo smesso
e certe cose tragiche per fortuna
quando uno ha smesso ha smesso.
L’immagine, certo, conta una luce, un gesto,
e forse in un anno di...
di non so che con una giovane amica
questo ha generato non dico malintesi
ma differenti interpretazioni
lei mi offriva frutta del suo giardino
e se restava un pezzo solo
lo spezzava coi denti e mi offriva la metà
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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e mentre parlavamo le massaggiavo la schiena
o le carezzavo una coscia
o l’aiutavo a mettersi un orecchino
e a volte lei mi telefonava
mentre era al cesso e sentivo la pipì
e qualche sera siamo stati in collina
con uno sfolgorare di città ai nostri piedi
e un profumo di fiori da svenire
e il cielo con la sua brava luna
e tutto questo
ma forse soprattutto il pezzetto di frutta
spezzato coi denti e offerto con le dita
alle mie labbra, per me
vale più di cento scopate
(quello non l’abbiamo mai fatto, dico scopare)
e allora è chiaro che adesso mi manca
come la più fidanzata delle fidanzate
e allora forse ha ragione
adesso a eclissarsi
anche se insomma secondo me
se ne poteva parlare.
Ma sì ma sì che l’entusiasmo è tutto
e l’innamoramento fa sognare, questo
non lo nego, ma sono sogni molto concreti
– i poeti sono uomini concreti, ho scritto
in una poesia ispirata da una di cui
ero certamente molto innamorato –
poi a me l’innamoramento mica passa
così facilmente
mi dura un sacco di tempo
la maggior parte anzi degli innamoramenti
della mia vita non mi sono mai passati
li ho ancora adesso
forse è per questo che non li distinguo
dall’amore, oh, quell’Alberoni,
che sì Alberoni penso Lido e quindi Clara
ma poi andando più indietro nel tempo
agli Alberoni di preciso stava Francesca
che nel 1970 il Vispo e io
siamo stati a casa sua per quindici giorni
e ci siamo visti tutta la Mostra del Cinema
e suo zio ci pagava tutti i biglietti
e a mezzanotte nella grande casa
ci offriva da bere e chiacchierava con noi,
e ragazzi cazzo era importante anche lo zio
perché è vero che nel 1970
non avevo una ragazza
ma non avevo neppure un adulto che parlasse
erano un sacco le cose che non avevo
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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anche se cercavo lo stesso di entusiasmarmi
a varie cose come per esempio
la rivoluzione e spaccare un po’ tutto.
Insomma, così. Il Vispo poi è morto,
credo perché non è riuscito a entusiasmarsi.
Ma che cazzo stavo dicendo? Ah sì,
l’innamoramento, che se dicono che deve evolversi
in amore perché da solo non dura,
mah, dovessi dire io personalmente
ho visto finire più amori che innamoramenti.
Ma sarà che vedo le cose a modo mio,
magari non è che faccio testo,
anzi di sicuro non faccio testo.
Io se m’innamoro secco adesso mi sa che mi sposo,
se trovo una che mi vuole io la sposo anche.
Se la amo non so se la sposo,
amarsi va bene anche convivere o vedersi così,
ma se m’innamoro e lei ci sta a sposarmi
io la sposo: sono in un momento così, sposabile.
Un po’ rischioso forse, non so se per me
o per l’eventuale candidata;
al momento il problema non si pone,
non ho avuto disponibilità al matrimonio
da parte di donne che mi ci sono innamorato.
Eh beh vorrei vedere. Non sono un gran partito
né un gran tornato (sì, questa è una battuta
che fa cagare, ma dato che lo è un po’ tutta
la poesia, questa poesia, a far cagare,
ce la lascio, che si abbina bene
come gli oggetti in casa di quell’amica
quella della frutta del suo giardino dico:
ha la manìa del fare pandàn).
Bah, poi mi sa che m’è passato l’entusiasmo
di scrivere questa stronzata.
Dunque smetto.
Però decido di inventare una nuova parola
per definire queste leggiadre composizioni:
la non poesia, però scritto tutto attaccato
che diventa nompoesia,
e perché perché perché,
perché la n prima della p diventa m,
lo sapete benissimo, non rompete i coglioni.
Le regole fonetiche bisogna rispettarle.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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[nell'immagine, una mia fotopoesia, faccio anche quelle cose lì]
[perché nessuno mai in vita mia mi ha pagato per fare qualcosa che mi piacesse? il lavoro è così, deve
non piacere, è la sua legge]
Primo novembre
giovedì 1 novembre 2007, 8.00.25 | molinaro
Novembre. Giornata piena di lavoro come tutte in questo periodo.
Ma voglio mettere qui una poesia di un bel po’ di anni fa, dedicata
a un primo novembre a Vercelli. E alla solitudine, credo. Dovrebbe
essere del 1986, anno più anno meno. Pubblicata prima nel libro Il
gioco che vale la candela, del 1988, poi in La parola rinvenuta,
dell’anno scorso, a pag. 176. Buon novembre a tutti. Mi sembra
bene festeggiare i capidimese, e non solo i capidanno.
PRIMO NOVEMBRE
Il pomeriggio d’Ognissanti a Vercelli
le case sono il posto più triste.
Si sente il ronzio di un piccolo aereo,
deietta paracadutisti in un cielo grigio
che non lascia alzare nemmeno lo scampanio
delle chiese per le messe vespertine
dove un poco di gente per annoiarsi va.
Ed è davvero la festa dei morti,
o forse della Morte: qui il buio fa paura
scendendo piano nelle stanze vuote,
così vuote che nemmeno se un bimbo parla
le può riempire, queste case inutili.
Qui le persone sono un accessorio
o un soprammobile. Il cimitero è una discarica.
L’occhio non ha riposo, si brucia
come falena sulla prima luce,
corre a cercare il fumo delle stoppie,
la vecchia nebbia che l’aveva illuso.
Qui non c’è stato niente, mai niente, mai niente;
guai se il fumo e la nebbia si dissolvono.
È la festa dei morti, quelli veri
che la terra discioglie e che non risorgeranno.
[nell'immagine, ricordo di un viaggio a trovare Federica, con offerta speciale Le notti di Trenitalia,
viaggiando di notte seduti, solo 15 euro da Torino a Roma]
Quattro poesie al volo stamattina. Mi correggo: cinque
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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giovedì 1 novembre 2007, 12.28.45 | molinaro
Stamattina mi sono venute quattro piccole poesie. Sono ispirate da quattro donne diverse e
lo so, lo so, che questa è una pessima strategia. Non dovrei metterle qui insieme! Ma al
diavolo le strategie, al diavolo le tattiche – sono tutte falsificazioni. Sia come sia. Non ci
metto le dediche, così non facciamo casini. Oltre tutto, se mettessi la dedica con la sola
iniziale del nome, servirebbe ben poco a distinguere: tre su quattro cominciano con la stessa
lettera! Confusione! Va ben, dai, fra un abbraccio e una mancanza, continua la danza... Anzi
mi sta venendo una quinta poesia, appunto, su abbraccio e mancanza e danza, vedete, vengono così, mica si fa
apposta, due parole ronzano nell’orecchio e patatràc; l’ultima la metto per prima.
LA DANZA
Fra un abbraccio e la sua mancanza
c’è un tempo così breve, così breve,
che quasi già la senti, la mancanza,
mentre stai nell’abbraccio: sì però
già speri un altro abbraccio, ancora uno:
così la vita, puttana ballerina
di bassifondi che non dà puntelli,
se la trovi la trovi, certo in qualche
localaccio del porto: ti prende ti lascia:
con te o senza, continua la danza.
BUTTERÒ LE CASSETTE
Butterò le cassette con la musica
che ascoltavamo in macchina io e te.
Non voglio riascoltarle io da solo
o con un’altra. Vedi com’è strano:
non è mai stata una storia d’amore
– noi l’abbiamo chiamata un’amicizia,
parola vasta – fosse quel che fosse,
adesso è una vertigine d’assenza.
FISARMONICA DI STRADA
Questa mattina è ripassato l’uomo
con la fisarmonica, accompagnato
da una ragazza bionda
che mi ha salutato quando mi sono sporto
dal balcone a vedere e ascoltare.
Saluta tutti quelli che s’affacciano,
naturalmente, ma questo nulla toglie
al saluto, così fresco e gentile
nel grigio impallidito del novembre.
Ho pensato a te, a come hai confezionato,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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l’altro giorno, le monete da lanciare.
Non sono bravo nel confezionare:
io le ho messe semplicemente dentro
una busta di cellophane di fazzolettini di carta
(ce n’erano ancora tre, li ho tolti e li ho appoggiati
sullo scaffale dove c’è di tutto, hai presente,
e ho messo le monete e ho chiuso
con il lembo adesivo) – e ho lanciato,
badando di non beccare qualcuno in testa.
Ma non c’era molta gente per strada stamattina.
Anche la vicina di pianerottolo
si è sporta e ha gettato qualcosa, e anche
una ragazza dalla casa di fronte,
da un alloggio che mi sembra di studenti.
Quindi va tutto abbastanza bene e io
ti voglio bene anche oggi ora che
mi rimetto al lavoro sui testi da correggere.
LA BAMBINA IN TE
La vedo bene la bambina in te,
la vedo certe volte proprio bene,
quando fai il muso perché sul tuo blog
non ci va mai nessuno tranne me
e raramente il tuo ragazzo, oppure
stringi le spalle e fai l’indifferente
se lui non ti risponde, o quando dici
che sei riuscita a vendere tre libri,
o quando stai con una compagnia
che non ti fila e sei indispettita
ma non lo fai capire. Certe volte
s’affaccia proprio agli occhi la bambina
e t’illumina tutta. E non importa
se la nascondi, le dici stai brava
e fai la grande e la saggia: lei c’è,
lei per fortuna non ti lascia mai.
QUESTI BACI VIA SMS
Questi baci via sms
non sono mai a sufficienza
ma è meglio che star senza
almeno dicono che ci siamo ancora
almeno richiamano i baci quelli veri
sulla panchina vicino alla stazione
o in riva al piccolo lago che tu sai
o meglio ancora a casa mia sul letto
dove tolto l’ingombro dei vestiti
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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i baci sono buoni e tutto il resto
questi baci via sms
sono qualcosa però i baci veri
cerchiamo di ridarceli un po’ presto.
Fuori i poveri!
venerdì 2 novembre 2007, 13.03.07 | molinaro
Dal «Corriere della sera» di oggi:
rrrrrrrrr
Il dispositivo è attivato già da ieri: questa mattina cominceranno le procedure di
espulsione. Il decreto legge del governo sarà reso operativo subito, come ha
stabilito il capo della polizia Antonio Manganelli che ha allertato questure e prefetture sul monitoraggio dei
romeni e dei rom presenti nel nostro paese. Sono migliaia quelli che rischiano di dover lasciare l'Italia
entro qualche giorno. Perché, come sottolinea lo stesso prefetto, “l'elemento determinante sarà la
pericolosità sociale degli individui che verrà stabilita non solo esaminando i precedenti penali di
ognuno, ma anche il tenore di vita e dunque la capacità di sostentamento che fornisce la percentuale
di rischio per la commissione di eventuali reati”.
rrrrrrrrrrrr
Traduzione: adesso abbiamo il potere di cacciar via tutti quelli che non hanno soldi. Uhm. La mia capacità
di sostentamento è sempre al limite, con il lavoro precario e malpagato... Mi cacceranno? Ah già, ma sono
cittadino italiano, dove possono cacciarmi? Mah, non si sa mai. Non si sa mai. [Immagino che mafiosi e
magnaccia non saranno cacciati: quelli si sostentano benissimo!]
Quarto discorso di Calipso
sabato 3 novembre 2007, 16.44.58 | molinaro
Ora non stiamo a ripetere ogni volta tutto lo spiegone. Per capire i discorsi di Calipso,
andate a vedere i primi tre, nei messaggi n. 114, 115 e 133. Questo qui sotto è,
naturalmente, il quarto, di un dialogo che continua.
QUARTO DISCORSO DI CALIPSO
Dici che non mi porti sulla nave
perché volgare è la ciurma: una donna
della mia classe non può sopportarla.
Ma che scusa puerile! Accanto a te
sarei lieta: chi è lieto non s’angustia
nel sopportare: di certo saprei
ridere d’una mandria d’ubriachi
che rutta e peta divorando pesce.
Dici che non prometti fedeltà:
non la chiedo. Desidero viaggiare
con te. Non voglio legarti le mani,
né legare le mie. Sono libera.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Studierò le tue stelle, per seguirti:
forse già le conosco più di te.
Ulisse, il tormentoso lungo viaggio
ha confuso i tuoi sogni con le ombre
della notte e i fantasmi: non sai più
che cosa è vero, non sai più che cosa
credere, ti nascondi sotto il manto
d’un’illusione. La mia strada invece
è chiara: a mostrarmela è l’amore,
un dio che non si sbaglia. Tu non vuoi
prestare orecchio al suono della voce
che senti in te: eppure parla forte,
bene distinta dalle tue chimere:
è voce nuova, mai udita prima.
Se non mi vuoi sulla nave non posso
costringerti – e se anche lo potessi
non lo farei: l’amore è libertà.
Non c’è bisogno d’accampare scuse
di compagni volgari o dell’azzardo
del rude viaggio: pensi che una ninfa
abbia timore del mare o degli uomini?
Mi sono innamorata e so chi sei
perché ti vedo meglio di te stesso.
Osserva il sole basso all’orizzonte:
sembra colmare di fuoco la terra
e il cielo. Ma fra un’ora sarà buio,
sarà del fuoco ricordo e rimpianto.
Breve è la corsa della vita, uomo:
quando l’amore ti passa vicino
conóscilo e sii pronto ad afferrarlo.
Stirpe d'artisti?
lunedì 5 novembre 2007, 12.15.28 | molinaro
Stirpe d’artisti. Chissà. Non so. Credo che ogni individuo sia una persona a sé stante, nuova.
Però è vero che nella mia famiglia un ramo d’arte e follìa (le due cose raramente vanno
disgiunte) c’è, almeno dal lato materno. Il padre di mia madre suonava il pianoforte a un
buon livello, suo fratello faceva l’inventore, e pare abbia inventato l’euritmoforo, che
sarebbe il padre di tutti gli stabilizzatori di corrente, da quello che si metteva una volta sotto
il televisore fino alle moderne «unità di continuità» (UPS). Gli diedero un diplomino e gli
rubarono l’idea, naturalmente. Ecco, l’arte non so, ma farsi fregare, nella mia famiglia, quello sì, da sempre. Il
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 193 di 404
bisnonno con i lavori nelle risaie era riuscito a mettere insieme un gruzzolo, ma lo versò in una banca che
prontamente fallì, e perse tutto. All’epoca non esistevano quelle robe interbancarie che adesso dovrebbero (forse)
tutelare in casi del genere. Credo che nella mia famiglia nessuno abbia mai capito come funzionano le cose nel
mondo del lavoro e degli affari. E questo pur avendo lavorato duramente (almeno alcuni). Io stesso lavoro molto ma
non ho la minima idea di come funzioni il mondo del lavoro. A volte ho la sensazione che dovrei conoscere delle
cose, o delle persone, o dei meccanismi; invece lavoro ma non conosco nulla, non ricordo le persone delle aziende,
non so mai bene che cosa sto facendo. Comunque lo faccio, il lavoro, e finora in qualche modo sono sopravvissuto
nella misteriosa giungla economica in cui nulla mi è domestico né chiaro. E va bene. Forse mi è già andata bene.
Tornando all’arte di famiglia, mia madre dipinge. Non è una maestra dell’arte, ma è una buona disegnatrice e sa usare
i colori, fa quadri perlopiù realistico-fotografici, a volte onirici, di un onirico un po’ freddo, controllato. Che poi
l’arte moderna, e lo dico tranquillamente non essendo vincolato da nessun interesse o conventicola (qualche
vantaggio c’è, a essere un tagliato fuori!), è al 99,9% un bluff. Per esempio: si prende un giocattolo di plastica,
prodotto industriale, lo si mette al centro di una stanza bianca, si fa dire qualcosa a un critico prezzolato dal sistema,
si chiama il tutto «installazione», si dà un titolo (che ne so, Oltre la roggia, oppure Il sogno di Agnese: è
assolutamente lo stesso) e lo si vende per un milione di dollari. Chi vende merda per un milione di dollari è
ovviamente uno schiavo del potere, ma si presenta spesso come «innovativo» e «indipendente». Siamo qui tutti ad
aspettare il bambino che griderà all’arte moderna: «Il re è nudo!», ma temo che ormai anche i bambini siano
embedded. Ci hanno fregati. Tornando alla modesta arte di mia madre, probabilmente anche i suoi quadri potrebbero
essere studiati e ci si potrebbero leggere dentro un sacco di cose, volendo. Ne metto uno, il più recente che ha dipinto,
finito un mese fa, nell’immagine di questo messaggio. Rappresenta i tavolini all’aperto di un bar di Torino, il Pastis
in piazza Emanuele Filiberto (...se il titolare del Pastis è in ascolto e vuole comprare il quadro, per 2000 euro è suo.
Facciamo 1800. Beh, ci provo anch’io, no? Qui i soldi mancano!). Ecco, per esempio il cuore rosso, molto rosso
(guardate come spicca) messo fra i capelli della ragazza a destra ha un suo senso ben preciso. Forse l’ha perso la
ragazza al centro, quella con le gambe accavallate che mettono un sacco di voglia: le è volato via e si è impigliato nei
capelli dell’altra. E si potrebbe fare una bella pagina di indagine psico-iconografica sul senso del cuore volato via, sul
collegamento fra le due donne, sulla femminilità in genere, sui trapianti di cuore e sui viaggi spaziali. E il tipo a
sinistra? È pensieroso e furbo nello stesso tempo. Rappresenta forse il trentenne rampante e cinico, pronto a tuffarsi
nella giostra della post new economy? Probabile! Ma se fosse invece uno sfigato travestito? E qui tre pagine
sull’ambiguità del tratto disegnato. E la ruota della bicicletta? Forse simboleggia un anelito ecologico, oppure è da
collegarsi al mito del vigore della giovinezza? E il fatto che le sedie siano verdi? E il paletto in primo piano a destra è
un simbolo fallico? Ha, sulla punta, del rosso simile a quello del cuore, ed ecco pronto tutto il discorso fra sesso e
sentimenti, altre due pagine almeno. Basta chiacchierarci su un po’, trovare un critico prezzolato dal regime
mondiale, e poi anche questo quadro di mia madre lo si può vendere per un milione di dollari, come la merda in
mezzo alla stanza bianca. Solo che mia madre, nella saggezza dei suoi 77 anni suonati, direbbe: «Tutte cazzate, ho
solo dipinto quello che c’era lì» (si esprime sempre in modo colorito). E così rovinerebbe tutto. Eh, bisogna saperci
fare, per essere artisti milionari. Soprattutto (in cauda venenum) è molto importante non essere artisti, ma faccendieri.
Le due cose insieme non vanno quasi mai. Loro fanno i soldi ma ci odiano perché noi siamo più felici.
I frutti delle rose
mercoledì 7 novembre 2007, 15.24.41 | molinaro
C’è un bel sole limpido chiaro, e una poesia così al volo, sui frutti delle
rose, e poi davvero scendo giù a mangiare dal cinese che in frigo non
m’è rimasto niente. Tanto fino alle tre dovrebbe essere aperto. Buon
pomeriggio.
I FRUTTI DELLE ROSE
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Le rose all’angolo di corso Duca e corso Einaudi
sono appassite però han fatto il loro frutto,
quella peretta colorata rosso ruggine
che in italiano non so come si chiama;
in piemontese è gratacùl, in romeno credo măceşi
ma in nessun’altra lingua lo so.
Da molto tempo non scendevo dal tram
a questo incrocio, penso più di un mese.
Solitamente scendevo qui per andare da lei;
oggi soltanto per consegnare una lettera.
C’è un bellissimo sole. Devo farmi
aprire il portone da qualcuno per raggiungere
le buche della posta. Suono il primo
campanello in basso a sinistra. Non risponde
nessuno. Suono il primo in basso a destra.
Nessuno. Allora il secondo dal basso
a destra. Risponde un anziano, dico «Scusi
dovrei consegnare una lettera in buca».
«Eh? Come?» risponde. «Dovrei consegnare
una lettera in buca», ripeto più forte.
Non so se ha capito – ma apre il portone.
Meno male. Infilo la lettera in buca,
la lascio cadere dentro lentamente,
penso «è inutile» ma la lascio cadere
lo stesso nella buca, lentamente.
Riattraverso l’aiuola delle rose.
È bello che a Torino agli incroci dei corsi
mettano rose rosse, e secondo me è bello
pure lasciarle appassire d’autunno,
lasciare che mostrino il frutto – chissà
com’è il nome italiano – anche se
qualche buon cittadino del quartiere
immagino dica che andrebbero potate
prima, che così fanno disordine.
I buoni cittadini del quartiere
si fottano. Ripassa il tram, ritorno
a casa mia, c’è ancora un bellissimo sole
e ho fame, guardo in frigo cosa c’è,
se no scendo a mangiare un piatto di pasta
dal cinese qui sotto, che sono simpatici
e danno un buon pranzo completo a cinque euro.
Lavorare o raccogliere foglie
giovedì 8 novembre 2007, 9.19.27 | molinaro
Un bel mattino sereno, vorrei uscire a correre nei prati, vorrei fare l’amore, vorrei colorare
dei fogli, vorrei camminare per la città a guardare le persone, vorrei scrivere lettere ad
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 195 di 404
amiche, vorrei raccogliere foglie secche al parco, invece mi accingo al lavoro. Sarà sensato
tutto ciò? Magari è da questo che nascono le stragi inspiegabili, come rispondevo a Chiara qui (commento al
messaggio intitolato De[motiva]). Ma cerchiamo di mediare, barcamenarci, adattare la realtà e noi stessi a una vita
possibile. Però nel mondo c’è qualcosa che non va! Buona giornata a tutti.
Ah, una cosa: stasera alla libreria Massena, in via Massena 28 a Torino, verso le nove e mezzo presento un libro di
Luisa Rinaldi, Come l’acqua che scorre (A&B Editrice, Acireale-Roma 2006). È un’autobiografia soprattutto
artistica e mentale (lei è pittrice oltre che scrittrice) dove si parla anche dell’esperienza negativa e traumatizzante in
una setta religiosa. Se passate di lì...
Forte e chiaro
venerdì 9 novembre 2007, 13.10.04 | molinaro
Stamattina su Torino soffia un vento forte e chiaro, e neppure freddo: c’è una luce
d’autunnale primavera, c’è tutto un vortice di cose leggere, e qui al quarto piano vibrano i
vetri e ronza la tettoia del terrazzo. E mi è venuta questa poesia. Buona giornata, ragazze e
ragazzi. Non buttiamole via le giornate, non buttiamole via.
FORTE E CHIARO
Il vento soffia forte e chiaro
stamattina su Torino, forte e chiaro
come un discorso fra amici: pulisce
il blu del cielo e scuote le finestre.
Così se qualche amico si nasconde
dietro discorsi oscuri, se un’amica
incerta fra l’amore e l’amicizia
sceglie il nulla – e se il nulla s’insinua
fra le povere nostre cose umane
non diamo colpe al vento: il vento soffia
chiaro e forte: lui sa cosa dice
e cosa vuole: pulisce il blu del cielo
e scuote le finestre.
Il vento scuote tutte le finestre,
non sceglie questa sì e questa no.
È che noi, allarmati dalla luce,
spesso tiriamo giù le tapparelle
perdendoci lagnosi dentro il piccolo
stupido buio della nostra stanza.
Quei bambini che giocano
venerdì 9 novembre 2007, 23.15.30 | molinaro
Un mio amico mi ribadiva pochi giorni fa di non amare la poesia di Vittorio Sereni. I gusti
sono gusti, ma ci sono due poesie almeno di Sereni che per me sono capolavori. Una è Mille
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 196 di 404
miglia, di cui forse ho già parlato in questo blog (non ne sono sicuro: forse). L’altra è Quei
bambini che giocano. È una poesia che parla del tradimento: il tradimento della storia, il tradimento del futuro, il
tradimento della vita, il tradimento di un’amicizia o di un amore. Il tradimento fa male. Il tradimento non è (secondo
me) quando in una cosiddetta coppia uno dei due va a letto con un altro. Quella è una baggianata: almeno, a me non
importa nulla se la mia amica, fidanzata, compagna o moglie fa l’amore con altri, non credo all’amore embedded,
credo solo all’amore libero. Ma questo non mi mette al riparo dal tradimento, perché il tradimento è ben altro. Il
tradimento è quando un’amicizia detta e creduta eterna viene spezzata come un ramo secco. È quando un amore che
ti ha illuso si rivela finto. È quando ti hanno fatto credere che – e invece. Il tradimento è rabbia e dolore, è un colpo di
frusta sui muscoli delle gambe: dopo camminerai ancora, perché il sentiero continua. Ma camminerai meno bene,
meno spedito, meno ottimista, meno sicuro, con meno desiderio e meno entusiasmo. Sì. Poi passa. Tutto passa. Ma
intanto.
Quei bambini che giocano
un giorno perdoneranno
se presto ci togliamo di mezzo.
Perdoneranno. Un giorno.
Ma la distorsione del tempo
il corso della vita deviato su false piste
l'emorragia dei giorni
dal varco del corrotto intendimento:
questo no, non lo perdoneranno.
Non si perdona a una donna un amore bugiardo,
l'ameno paesaggio d'acque e foglie
che si squarcia svelando
radici putrefatte, melma nera.
"D'amore non esistono peccati",
s'infuriava un poeta ai tardi anni,
"esistono soltanto peccati contro l'amore".
E questi no, non li perdoneranno.
Vittorio Sereni
(da Gli strumenti umani, Milano 1965)
Hombre al borde de un ataque de nervios
domenica 11 novembre 2007, 10.42.15 | molinaro
Una ha dormito qui da me, però sulla brandina in cucina. Una si è arrabbiata perché non ho
risposto al suo sms di buona notte ieri sera (probabilmente è arrivato molto più tardi di
quando l’ha spedito, succede, non fidatevi dei sms). Una mi sollecita perché le scriva delle
cose, e basta. Una dopo un anno di «amicizia amorosa» assolutamente splendida mi ha
buttato nella pattumiera da un giorno all’altro. Una dopo anni d’amore si è dissolta nel
nulla. Una dopo promesse d’amore mi ha respinto stizzita. Ieri sera stavo a sentire Guccini e
mi veniva da piangere, poi mi son rotto il cazzo e ho cercato, al posto di Guccini, una canzone che è un’assoluta
cagata, di un certo Adán «Chalino» Sánchez, messicano, improponibile. Però il profondissimo testo (ehm) rispecchia
il mio stato d’animo. Ma solo per un minuto, poi passa. Perché poi ci ricasco e preferisco morir por amor che morir
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 197 di 404
sin amor. Tanto se muere comunque. E allora! Buona «estate di san Martino» a tutti.
ME CANSÉ DE MORIR POR TU AMOR
me cansé de seguirte los pasos
de servir de tu ángel guardian
me cansé de entregartelo todo
me cansé de amar por amar
me cansé de robarte un te quiero
de vivir de tu amor limosnero
me cansé de morir por tu amor
de sentir decepción sin un te quiero
me cansé de querer por querer
a una estatua de sal a una estatua de hielo
me cansé de morir por tu amor
Della bicicletta e dell'inutilità del prevedere
domenica 11 novembre 2007, 14.44.13 | molinaro
Massì, va! Amore, sogno, vita. La mia bicicletta è proprio un rottame, devo decidermi a
toglierla dal cortile se no mi sa che cominceranno a protestare per il «decoro». Magari la
porto in periferia e la abbandono, forse qualcuno la adotta (anche se è veramente scassata).
Non guardatemi così male, non è un cane! Le biciclette non soffrono (forse). E poi così le
do una possibilità: se la consegnassi agli appositi servizi della raccolta rifiuti differenziata,
la farebbero a pezzi subito. Invece abbandonandola in periferia magari qualcuno, più
ingegnoso e meccanico di me, riesce a recuperarla a un qualche funzionamento. Poi in primavera me ne prendo una
nuova, se ci riesco. Certo che un po’ anche a una bicicletta ci si può affezionare. Ho portato due ragazze ancora
abbastanza recentemente (insomma, cinque o sei anni fa) sulla canna di quella bici. Che è una cosa che non fa quasi
più nessuno. Una volta si usava molto. Ma insomma, una bicicletta è solo una bicicletta. Tutto passa.
L’impermanenza!
Ho sempre avuto paura della vecchiaia. Ci ho pensato poco fa osservando una vegliarda scheletrica su una sedia a
rotelle. Sì, lo so che ogni età ha qualcosa di buono, che a ogni cosa ci si abitua, che tutto è relativo. Però la vecchiaia
non mi entusiasma granché lo stesso. Non ho soluzioni per la vecchiaia. E l’ho sempre saputo, lo sapevo già a
vent’anni, che non ero il tipo da avere soluzioni per la vecchiaia, e che ci avrei patito forse più che altri. Amo troppo
la giovinezza. Non so che farci. Lo so.
Non sono sprovveduto come sembro. Ci sono un sacco di cose che so benissimo, e che so benissimo anche da tanto
tempo. Il problema è che, con uno scatto ulteriore di saggezza che diventa antisaggezza, so anche che saperle non mi
serve a un cazzo. Figuriamoci (per fare un esempio a caso) se non lo sapevo che la meravigliosa quotidiana vicinanza
con una fanciulla che so io non poteva durare. Lo sapevo benissimo. È già durata tanto (quello che speravo è che
finisse in modo meno brusco, salvando dell’amicizia, ma tant’è, e poi chissà, questo lo spero ancora, in fondo, diamo
tempo, già, tempo, sempre lui, il tempo). Ecco: ma il fatto di saperlo benissimo da prima, rende l’evento meno
doloroso? Secondo me no, neanche un cicinìn. Lo lascia doloroso uguale. Quindi è una sapienza perfettamente
inutile, se non dannosa.
Per la vecchiaia è lo stesso, per la morte pure, e così per altre cose ancora: prevederle è inutile. Ci sono faccende che
prevedere è utile: per esempio se prevedi che un cornicione stia crollando, magari ti sposti e ti salvi. Ma se il
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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cornicione che crolla è la fine di un amore o è la vecchiaia o è la morte, non c’è proprio nulla da fare: dove cazzo ti
sposti? Te lo becchi lo stesso sul cranio, previsto o imprevisto è uguale.
Comunque oggi a Torino c’è il sole; di che tempo farà domani non me ne frega niente; ho sempre odiato le previsioni
meteorologiche. Una volta almeno erano quasi tutte sbagliate; ma adesso, con quelle minchie di satelliti che
inquinano la stratosfera, ci azzeccano pure, ed è un fastidio.
xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx
[l'immagine è tratta da un simpatico sito naturista - ho fatto per quattro o cinque anni le vacanze in luoghi naturisti e
non è stato niente male]
Quinto discorso di Calipso
martedì 13 novembre 2007, 1.30.32 | molinaro
Questa volta, sfidando le ire della Sezione Campi Elisi della SIAE, penso
occorra citare almeno qualche verso della parte di Ulisse. Ulisse ha detto
fra l’altro: «A me pare tu voglia seguirmi più per il viaggio / che per
l’amore. / Il tuo non è amore. / La tua è disperazione per una vita / che
ti sei tenuta stretta ma che ora ti è sfuggita». È un tema forte per gli
uomini, questo. Lo sarà anche per le ninfe? Sentiamo che cosa ha
risposto Calipso. Le puntate precedenti sono nei messaggi n. 114, 115, 133 e 154.
QUINTO DISCORSO DI CALIPSO
Mi vedi dunque vecchia. Certo è l’occhio
che t’inganna, per qualche sortilegio:
il corpo delle ninfe non invecchia.
Forse un dio t’ha concesso di vedere
figurato nel corpo il tedio antico
dell’anima? Il tedio non risparmia
uomini, satiri, naiadi, dei:
forse è per noia che anche Zeus va a caccia
di fanciulle mortali da trombare.
Ma per vincere il tedio mille modi
avrei, Ulisse – se volessi un viaggio
avventuroso, partirei da sola:
credi che non potrei? Sono capace
di andare ovunque, nelle pure selve
come nei porti odorosi di piscio,
popolati di troie e malfattori.
Il mio tedio, se c’è, non è diverso
dal tuo – perché noi siamo tutti uguali
in questo, dall’Olimpo fino all’ultima
bettola di Corinto o Mitilene.
La differenza che non vuoi capire
è che ti amo. Se tu vuoi viaggiare
viaggio con te – se preferisci stare
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 199 di 404
in una breve striscia di montagna,
resto con te. Già conosco abbastanza
il mistero del mondo: so che un piccolo
paese me contiene tanto quanto
l’immenso impero di Mesopotamia.
Tu cerchi l’arte, la τέχνη, la casa,
la domestica pax, la sposa, i lari:
e intanto navighi e navighi. Ma
è l’amore – il suo guizzo – che ci fa
trovar noi stessi. Se non m’ami vai,
vattene solo per il tuo cammino,
non cercare più scuse e non negare
l’amore mio. Noi vivremo le vite
che il destino darà – rimpiangeremo
questa gioia sprecata, ma faremo
come tutti: dimenticheremo.
Trash blog
martedì 13 novembre 2007, 23.49.22 | molinaro
Ho sempre odiato quei programmi televisivi dove la gente va a sputtanare i propri
sentimenti, i reality show credo che si chiamino, il trash, o qualcosa del genere. Non ne ho
visti molti, anzi per intero non ne ho visto nessuno, ma i pezzetti colti qua e là nelle varie
case telemunite che mi è capitato di frequentare (io come è noto non ho il televisore) mi
sono bastati.
Vedo però che qualcosa di simile può accadere anche sui blog; benché a un livello
leggermente più dignitoso, perché comunque più personale e sentito, e meno spettacolarizzato. Tempo fa c’era stata
una tipa che era venuta qui sul mio blog a insultare di brutto una mia amata amica. Adesso, in questi giorni, c’è una
certa Pandora che, sul blog di Chiara, copre di insulti me, Chiara stessa e altre persone. Alcuni epiteti simpatici che
mi ha rivolto: bavoso, viscido, senza coglioni, perdente, stronzo, nato morto, coglione, ridicolo, meschino, frustrato.
Ma il problema non è questo. L’insulto è un gesto non verbale, persino quando è scritto. Se anche usa parole dotate di
un significato, glielo toglie, riducendosi sempre a una specie di rutto o scoreggia. Lo sanno bene i guitti, che usano
insulti e rutti e scoregge allo stesso modo, da Plauto in qua.
La cosa che rattrista è che talvolta, prima che si sprofondi nell’ingiuria, ci sono idee, concetti che potrebbero essere
discussi: la stessa Pandora (che invito a insultarmi qui e non sul blog dell’innocente Chiara) l’altro giorno mi aveva
rivolto messaggi taglienti sì ma «su cui si poteva parlare». Solo che la mia pacata risposta ha provocato il naufragio
nella melma dell’insulto. E allora vuol dire che non era vero che Pandora voleva parlare, discutere. Peccato, perché
quando non insulta riesce a esprimersi con una certa efficacia di linguaggio, e anche a centrare talune questioni
importanti. Ma poi improvvisamente è dominata da una volontà di offendere che non so da dove scaturisca.
Comunque, se il mondo è bello perché è vario, anche il piccolo mondo virtuale del blog forse è bello perché è vario.
Quella dell’insulto è una varietà malinconica, perché chiude la comunicazione, e ogni comunicazione chiusa è
un’occasione perduta. Ma esiste, e ne prendiamo atto.
[nell’immagine: quando avevo un anno di età, le ragazze a Torino erano così - dunque non venite a dirmi che il
mondo non è migliorato - è migliorato parecchio, per fortuna]
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Carlo Molinaro
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Desiderio semplice
mercoledì 14 novembre 2007, 18.26.08 | molinaro
Gli scontri, pettegolezzi, qua e là insulti, che ruotano spesso intorno a
una delle cose più belle del mondo, mi hanno ispirato una piccola,
piccolissima poesia, proprio piccola e semplice, fatta per dire come è
piccola e semplice, eppure grande e meravigliosa, la cosa bella intorno
alla quale purtroppo ci siamo abituati da sempre a sollevare tanto
torbido, forse per paura della vita, forse per paura di noi stessi. Non è la
critica rivolta all’umanità impura da parte del purissimo poeta, per carità! Tutt’altro! Nel
torbido ci sono anch’io, è così radicato che a toglierlo tutto non riuscirò mai, però almeno ci
provo, provo a illimpidirmi, come, quando e quanto posso. So – da qualche anno so – che è
fatica spesa bene.
DESIDERIO SEMPLICE
Vorrei semplicemente
il mio sguardo nel tuo sguardo
un sorriso
la mia mano nella tua mano
le mie labbra sulle tue labbra
la mia lingua nella tua bocca
la mia anima nella tua anima
il mio liṅgaṃ nel tuo yoni
la tua anima nella mia anima
la tua lingua nella mia bocca
le tue labbra sulle mie labbra
la tua mano nella mia mano
un sorriso
il tuo sguardo nel mio sguardo
semplicemente vorrei.
Un libro di 200 pagine
giovedì 15 novembre 2007, 13.39.13 | molinaro
Un libro di 200 pagine è quello che si ricava con i messaggi (solo i messaggi, non i commenti) di questo
blog dalla sua origine (il 4 giugno scorso) fino a ieri, 14 novembre: cinque mesi e dieci giorni. Chi volesse
lo trova in formato pdf qui. Tranquilli, non ho intenzione di fare davvero un libro. Penso solo, e
semplicemente, che non sono uno che è nato per investire le sue energie in qualcosa di redditizio. Sono
uno che la dà gratis, sempre. Eh? La poesia, dico! E varie cose simili! Ma va bene, dai, ho il necessario
per mangiare anche oggi, poi si vedrà.
Passo e chiudo
venerdì 16 novembre 2007, 9.25.06 | molinaro
Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole,
e la luce del giorno si divide la piazza
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa,
e neppure la notte ti lascia da solo:
gli altri sognan sé stessi e tu sogni di loro.
Fabrizio De Andrè
Nel 1992 Monica mi telefonava spesso, anche di mattina, aveva problemi disperanti,
mi telefonava in ufficio. Io dicevo ai miei capi che dovevo uscire e uscivo e andavo
da lei. Tutti permessi non retribuiti, sia chiaro: mai rubato un centesimo, mai
inventata una malattia o simili. Però dopo qualche mese così mi trasferirono in un
reparto più pesante, il classico trasferimento punitivo. Era il minimo che potesse
accadere. Non me ne importò nulla, pensavo a Monica. Anche oggi ripensandoci non
me ne importa proprio nulla di quelle cose di lavoro del 1992.
Stanotte ho dormito pochissimo e male. Ieri ho perso l’intera giornata o quasi e oggi
con il lavoro sono nella merda. Ieri ho avuto la testa presa da... una che mi ha detto
di non citarla più qui (una che anche per lei, nel 2007, ho saltato riunioni di lavoro,
peggiorando la mia reputazione presso un’azienda importante, per correre incontro ai
suoi problemi, alla sua solitudine). Ma non solo lei ha occupato la mia giornata ieri.
Ho pensato anche a un’occasione di poesia di domenica, da preparare, alle persone
che vi sono legate. Mi è stato chiesto di modificare qualcosa in una presentazione,
ho pensato «adesso non posso, non ho tempo» e invece ho visto le mie dita sulla
tastiera farlo subito. Perché ci tengo, perché amo la persona a cui la presentazione si
riferisce, e amo anche le altre persone che vi partecipano, amici. Ieri notte li ho
sognati. Vivo in funzione di...
Ecco, ieri mattina, altre due ore perse, ho portato la Panda dal gommista perché la
ruota anteriore sinistra si sgonfiava prima delle altre e tutte le ruote erano da
equilibrare. Fatto e risolto con 25 euro, gommista onesto. Si dirà: e questo che
c’entra? Beh, quel problema la Panda ce l’aveva da qualche mese, ma ieri mattina
ho pensato che domenica ne ho bisogno per andare a Savona alla presentazione
di..., e non vorrei che mi lasciasse per strada. Fosse stato un viaggio per lavoro o per
presentare un mio libro, le gomme della Panda aspettavano ancora mesi, mi sa,
finché magari mi lasciavano per strada davvero.
Le cose più importanti della mia vita non riguardano me: ecco la frase che mi è
improvvisamente affiorata. Non riguardano me e riguardano persone a cui importa
relativamente. Loro mi chiamano e io scatto, non è che mi sforzo, mi viene naturale,
e ci perdo lavori, reputazioni, soldi. Io li chiamo e loro han da fare: ho da lavorare, ho
un impegno, ho sonno. Com’è che io non ho mai da lavorare, non ho mai un
impegno, non ho mai sonno? E non mi riferisco soltanto – come so che qualcuno già
starà pensando – a giovani fanciulle per le quali perdo le bave, per usare un’elegante
espressione di pandora, la commentatrice insultante dell’altro blog. Ammetto che
quella è la componente spesso prevalente, ma succede anche con gli «amici», o
anche con un’anziana signora che mi ha chiesto un mattino di cercarle i programmi
di due sconosciuti musicisti su internet e io due ore lì e glieli ho trovati, anche se
avevo moltissimo da lavorare, come avrebbe detto chiunque altro scusandosi con un
ora non posso.
Fra le cose che ho pensato stanotte invece di dormire (sonno, io? e quando mai), c’è
una frase che mi ha scritto ieri l’amica Petarda (i nickname si possono dire, sì?), nel
corso di una discussione sui rapporti con una persona: ci fai pure una pessima figura
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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tu, di quello attaccato tipo patella che è proprio - per una donna - quanto di meno
desiderabile. Già. Io sono stato felice nei mesi in cui quella persona mi cercava tutti i
giorni, insomma potrei dire mi stava attaccata come una patella, io le persone che
amo le porterei sempre in tasca, al lavoro, ovunque (e mentalmente, ahimè, temo
che lo faccio). Nel periodo in cui con A. ci si sentiva tutti i giorni, se una sera non la
sentivo ero già in ansia, pensavo a disgrazie, incidenti, ospedali, malori. Si vede che
non mi stufo facilmente delle persone. Avrò qualche antenato patella, nell’evoluzione
darwiniana chissà mai. Ma, proprio come avviene in politica con l’islam sulla
democrazia, non vale il principio di reciprocità, non è applicabile. Dovrei imparare
talvolta a farmi desiderare, anche se mi viene difficilissimo.
Probabilmente nessuna delle persone su cui ho perso una nottata di pensieri ha
pensato a me stanotte. Si applica l’ultimo verso della canzone di De Andrè che ho
messo in epigrafe. E non è neppur quello: a me, sinceramente, essere lo scemo del
villaggio non dà nessun fastidio, così come non mi darebbe nessuna soddisfazione
esserne il sindaco. Mi accorgo che è proprio vero che fra un bacio di una che mi
piace e il premio Nobel per la letteratura sceglierei il bacio, che so davvero che un
bacio dà più gioia dei soldi e della gloria – figuriamoci della carriera e del lavoro e
della reputazione! Ma la verità è che non ci crede nessuno, sono l’unico forse, e
quelli che dicevano una volta di pensarla come me celiavano (cfr. poesia a pag. 137
del libro che in fondo pochi hanno comprato, già che molti «amici poeti del bel
mondo letterario torinese» lo vogliono solo in regalo, mentre io i loro li compro e
spesso due o tre copie, da regalare, però adesso smetto, stop).
C’è uno squilibrio che alla fine non produce felicità. Devo cominciare a capirlo, non
ho più quattordici anni (da quarant’anni non li ho più). E poi non è neppur quello,
anche a quattordici anni, e pure prima, mi facevo un culo così per arrivare a un
appuntamento e all’appuntamento non c’era nessuno, gli era arrivato un altro
impegno. Già a sei anni, ricordo... Ma no, basta con i ricordi, fanculo.
Ho da lavorare tantissimo oggi e anche domani e domenica se no mi tirano un culo
così e perdo altri soldi e altra reputazione; poi domenica sera la presentazione a
Savona. Sono molto impegnato, ho da fare, sono stanco stravolto, adesso stacco
tutto, mi isolo e penso agli impegni miei che servono a me. Eh, basta! Per che cosa e
per chi devo farmi inculare sul lavoro e perdere soldi e reputazione professionale?
Ci sentiamo lunedì.
Forse.
Se ho tempo.
E se ho voglia.
Funziona così, no?
Forse comincio a capirlo.
Ho i miei tempi lenti, a capire le cose.
Ma poi ci arrivo.
Attenti che ci arrivo.
Rosas y tiempo
lunedì 19 novembre 2007, 4.40.46 | molinaro
José Juventino Policarpo Rosas Cadenas (1868-1894), messicano, è l’autore del celebre
valzer Sobre las olas, meglio conosciuto come Über den Wellen (in ogni caso: «Sopra le
onde») forse perché lo sfigato autore ne vendette i diritti per 45 pesos a certi tedeschi, e
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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l’opera fu a lungo attribuita a un qualche Strauss, boia faus, boia faus. Morì molto giovane.
Il tempo ristabilì poi la verità. Ma quanto tempo ci vuole, certe volte! Mi auguro che il buon Rosas abbia almeno
fatto l’amore con qualche chica simpatica, migliore delle impettite Fräulein austriache che ascoltavano a Vienna i
valzer di Strauss, che talvolta non erano poi neppure di Strauss.
La presentazione di Chiara ieri a Savona
lunedì 19 novembre 2007, 12.22.34 | molinaro
Ieri sera a Savona al Raindogs la presentazione del libro di Chiara Borghi Il tempo è
scaduto (Edizioni Joker, Novi Ligure 2007) è andata piuttosto bene! Ci siamo messi sul
«palco» in quattro: Cesare, Mac, io e naturalmente l'autrice, Chiara. Abbiamo dato alla cosa
la forma di un'intervista ai personaggi del racconto, intrecciata con nostre impressioni
personali e domande. Il discorso si è molto ampliato: partendo dalla psicologia del
protagonista (un uomo che rinuncia a vivere e ad amare per paura della precaria
imprevedibile imperfezione della vita e dell'amore, e preferisce ripararsi nell'assoluto narcisistico della morte - questa
almeno la mia lettura - altri hanno dato interpretazioni leggermente diverse) si è passati attraverso le altre figure
presenti nella storia fino ad arrivare al valore simbolico che l'intreccio assume in riferimento alla situazione del
nostro tempo storico, degli anni che stiamo vivendo ora, qui, in questo inizio del XXI secolo.
È stata una simpatica chiacchierata fra amici, con un'ottima intesa sia fra noi quattro sia con il «pubblico» in sala: alla
fine, è questa la cosa più importante. La faccenda è stata ripresa anche da una tivù locale di cui non ricordo il nome.
Insomma, una bella serata e per me una bella trasferta in quel di Savona. All'andata, nel tardo pomeriggio, ho scattato
dall'autostrada con il telefonino (fermo in un'area di servizio, intendiamoci!) una foto al tramonto del sole dietro il
Monviso - la vedete nell'immagine. Al ritorno, nella notte, ho cantato - c'è chi lo fa sotto la doccia e chi lo fa quando
viaggia in auto da solo. Adesso la marea del lavoro incombe minacciosa, ma tant'è: buona settimana a tutti. Il tempo
scadrà quando vorrà; fino a quell'ora incognita, però, viviamo.
[Il libro di Chiara, se lo volete (e vogliàtelo, su!), lo trovate nelle librerie fiduciarie, naturalmente insistendo se vi
dicono che non possono (con i piccoli fanno quasi sempre così); oppure chiedete all'autrice, o a me.]
(al centro Chiara, a destra Mac, a sinistra io - e si vede anche una mano di Cesare che mi passa un foglio)
Nompoesia della vita mimetica
martedì 20 novembre 2007, 16.44.48 | molinaro
Mi è venuta così dopo pranzo (pranzo si fa per dire: una scatoletta
di tonno e una pera), l’ho scritta in mezz’ora, è certamente una
nompoesia (per la definizione di nompoesia si veda il messaggio
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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n. 150, dove appunto una nompoesia, nell’ultima sua strofa, si
autodefinisce). Nel frattempo il cielo si è rannuvolato, il pomeriggio avanza, e si
lavora.
NOMPOESIA DELLA VITA MIMETICA
Non far vedere, non farglielo vedere
che piangi – non farti vedere
mentre ridi, sta’ attento! – non dire
a nessuno un segreto – non lasciare
che lo sguardo tradisca l’emozione.
Questa è la cosa che m’hanno insegnato
da piccolo. Non soltanto da piccolo:
mi è stata ribadita tante volte,
mi viene ribadita ancora adesso.
Mio padre l’applicava: non saprei
dire una volta in cui si sia commosso.
Mia madre, a modo suo, pure lei
applicava e teorizzava con rigore
questo stoicismo: ricordo un rimprovero
aspro per un lamento che mi uscì
dal dentista, una volta: era un dentista
all’antica, diceva che l’anestesia
fa male alle radici e non l’usava.
Che del dolore mai nulla traspaia:
questa è la dignità del vero uomo.
Del dolore o d’ogni altra intimità.
Può darsi che abbia un senso tutto questo:
in natura è così: per sopravvivere
la preda deve ingannare il predatore,
e il predatore, per mangiare, a sua volta
deve ingannare la preda. Mimetizzarsi,
non farsi vedere: la strategia di sopravvivenza
è questa, per la preda e il predatore.
Chi meglio si nasconde vince e vive.
Io francamente non mi ci trovai
fin da subito, non ero capace:
e perciò scelsi una strada che mi parve
più sicura: per non rischiare proprio
di tradire emozioni
scelsi di non averne. E per non ridere
di nascosto, che sembrava un brutto inganno,
smisi di ridere: soluzione finale.
Con il piangere ebbi più difficoltà
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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ma infine ci riuscii. Così ero tranquillo:
a vent’anni non ridevo, non piangevo
e non provavo nessuna emozione.
È meglio non rischiare, è meglio non rischiare!
Il modo migliore per non far vedere una cosa
è non averla. Così non ci si sbaglia.
Ma con il volgere del tempo mi parve
che qualcosa non andasse proprio benissimo.
Ora, intendiamoci, non è che io sia
per l’esibizione del dolore. Sono piemontese
e quelli del Sud che ululano i lutti
mi danno molto fastidio, lo ammetto
(e scusate se è politicamente scorretto).
D’altronde loro nascondono altre cose:
strillano sulle bare ma cosa pensano di te
non lo fanno capire.
Certo però che tenere tutto dentro
è pesante e non credo sia foriero
di tempi di pace e di fraternità.
Insomma, a un certo punto, guardate,
non per mettere in piazza i fatti miei,
ma io sui quaranta mi son rimesso a piangere
anche davanti a un po’ di gente. E poi
mi sono messo a ridere. Alla fine
mi sono emozionato e me ne sono fregato
che si vedesse o no. E dopo un certo tempo
mi sono addirittura innamorato.
E sono stato meglio.
Ora, non è che qui c’è l’happy end
o una morale: la storia continua
ed è complessa, non si può dire tutto,
né manifestare tutto a tutti,
ci sono casi estremi, può succedere
persino di dover nascondere l’amore
a chi si ama. Però non è la regola!
Ecco, insomma, sì, emendando la regola
che mi fu impartita mezzo secolo fa,
azzarderei che di norma le emozioni
e i dolori e gli amori e tutto il resto
possano essere liberamente vissuti
al cospetto di tutti, senza irrigidire
il viso in una maschera; e solo in casi
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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particolari, di eccezione, occorra
nascondersi. Non voglio ammaestrare
nessuno, fate un po’ come vi pare,
però mi sembra che si viva meglio
se non c’è da nascondersi.
Oltretutto questa sensibile variazione
rispetto alle strategie animali segnerebbe
un punto in più nell’evoluzione
specifica dell’uomo, una differenza
dalla bestiola che le tocca essere verde
come la foglia per non essere mangiata.
Noi avremmo raggiunto il diritto di essere
di tutti i colori – senza divorarci.
E mi parrebbe una cosa importante,
più che la macchina a vapore e più
che la ruota e non vorrei esagerare
ma forse addirittura anche di più
che la mano con il pollice opponibile.
Poi non so. Io comunque adesso rido
e piango e m’emoziono e m’innamoro
e in linea di massima se qualcuno
se ne accorge me ne sbatto i coglioni.
L'uomo con il cappotto grigio
giovedì 22 novembre 2007, 0.57.23 | molinaro
Dopo la cena a casa di mia madre – che fra risotto e radicchio mi rimprovera di non
guadagnare abbastanza denaro, alla mia età – cammino verso la stazione di Vercelli sotto
una pioggia gelida e affilata, quasi invisibile. Mi fermo al chiosco della piazza a prendere un
orzo in tazza grande. È un rito della partenza serale: la ragazza al banco, bruna e tozza,
sguardo antico, lo sa e me lo serve senza che io lo chieda. Non succede più di una volta alla
settimana – ma basta anche meno per creare un’abitudine o una complicità.
Entro nell’atrio della stazione, che serve anche da sala d’attesa (la vecchia sala d’attesa con il tavolo grande di legno
e cuoio e le sedie robuste quadrate è stata eliminata già da molti anni, forse decenni). Arrivando da fuori,
l’impressione è di tepore confortevole. Il tabellone luminoso, verde su nero, dice che il treno per Torino ha trenta
minuti di ritardo. Non mi stupisco. Timbro il biglietto e mi siedo su uno dei sedili d’alluminio – credo, o un metallo
simile, o una lega – uniti insieme in tre o quattro file.
Tolgo dalla borsa un libro, Questo è il mio corpo, di Sindiwe Magona. All’andata ho letto il primo capitolo, attacco il
secondo. Leggo sette, otto, dieci pagine. Parla di cinque amiche per la pelle, che abitano a Guguletu, in Sudafrica.
Una di loro sta morendo. La storia m’avvolge, mi stringe, poi mi lascia allargare il pensiero: le amiche nella
township, le famiglie africane povere, solidali, crudeli, la mia famiglia non povera, non solidale, non crudele, la terra
persa, il fosco, le luci, la pioggia, l’acqua ora torbida ora limpida, e così l’amicizia, la sera, il breve viaggio, qualcosa
di sfilacciato fra il buio e la città, la traccia che intuisco ma non so vedere, il muro del tempo, il fastidio.
Sento montarmi un pianto agli occhi, ma non proprio da piangere con le lacrime: solo quell’umido lucido che resta lì,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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da non passarci il dito o il fazzoletto, che tanto poi si riassorbe da sé. Non è una cosa che ci bado molto. Appoggio il
libro sulle cosce, butto il capo leggermente all’indietro e guardo il niente, sto da solo.
Nel niente passa un uomo con un cappotto grigio. Ha anche un cappello e una sciarpa. Di corporatura robusta e di
media statura, mi sembra un uomo più anziano di me, o forse ha la mia età. Mi accorgo che mi vede e si volta verso
me. Mi guarda. Non mi muovo. Non faccio gesti né di domanda né di risposta, lo lascio guardare e lo guardo. Sembra
preoccupato e allarmato, apprensivo, ha la faccia di chi vorrebbe fare qualcosa ma non sa che cosa. È evidente che
non sto male, non c’è nessuna emergenza. Mi guarda perché ho gli occhi lucidi e sono fermo sul sedile di una sala
d’attesa di stazione con il capo leggermente reclinato all’indietro e ho una borsa accanto e un libro sulle cosce. Forse
andava di corsa ma mi ha visto e s’è dovuto fermare. È stupito di essersi fermato a guardarmi. Non sa perché l’ha
fatto. Io sono stupito che lui mi guardi. Ma non provo alcun disagio, anzi mi prende un senso di dolcezza, di
consolazione. Si è fermato e mi guarda.
Per liberarlo, allora, mi muovo, armeggio con la borsa, apro una cerniera, ripongo il libro. Tutto torna
improvvisamente normale, alcune persone attraversano la sala, l’uomo con il cappotto grigio ha ancora un’esitazione
e poi va per la sua strada, esce per la porta a vetri che dà sulla piazza. Mi alzo e mi dirigo verso il lato opposto, verso
i binari e il sottopassaggio. Ormai la mezz’ora di ritardo è passata e infatti annunciano il regionale numero 2030, sul
binario due.
[nell’immagine, la piazza della stazione di Vercelli stasera sotto la pioggia sottile]
Preparazione del reading di venerdì 30 novembre
sabato 24 novembre 2007, 1.25.00 | molinaro
Sto cominciando a preparare il reading di venerdì 30 novembre alla libreria
Massena. Insomma, reading, sarà una semplice lettura di poesie, ma spero che
vada bene. Beppe ha preparato il cartoncino per la serata. Ha scelto lui i versi da
mettere sul cartoncino e anche la foto, fra una decina di foto che gli avevo dato. Ne
ha scelta una che scattai lo scorso capodanno a Zoagli (GE), a due poeti che
guardano il mare. Non ho chiesto loro il permesso di usarla, ma d'altronde la foto
l'ho scattata io e loro non è che siano poi tanto identificabili, tranne forse per chi li conosce molto ma molto
bene! Fu un bel capodanno a Zoagli, eravamo una dozzina nella casa sul mare. Mi piacerebbe pure
rifarlo, forse non saremmo esattamente le stesse persone, c'è chi s'allontana e chi s'avvicina, il volgere
degli anni è questa cosa qua. Si vedrà. Intanto pensiamo alla lettura del 30 qui a Torino.
La colazione
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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sabato 24 novembre 2007, 20.36.29 | molinaro
Stamattina preparando la colazione ho avuto
un’improvvisa visione violenta della complessità della vita.
Alcune cose sembrano semplici solo perché siamo abituati
e non ci pensiamo. La colazione. Intanto ci vogliono un
sacco di oggetti: la caffettiera, il pentolino per il latte, la
bottiglia del latte, il barattolo del caffè, il fornello, i
fiammiferi, il lavandino, il rubinetto, l’acqua. E sicuramente ne sto
dimenticando alcuni. Poi, molti di questi oggetti non sono semplici, ma
composti. La caffettiera è fatta del coso di sotto, in cui va messa l’acqua,
del coso di mezzo, in cui va messo il caffè (con il cucchiaino: ecco un
oggetto che avevo dimenticato prima, il cucchiaino), e del coso di sopra,
in cui erutterà il caffè caldo. La bottiglia del latte è composta di tre
elementi: bottiglia, tappo e latte. Il barattolo del caffè è composto anche
lui di tre elementi: barattolo, coperchio e caffè. Il fornello poi è fatto di
quel coso rotondo da cui esce la fiamma, di quel coso a fil di ferro su cui si
appoggia il pentolino, di quella piastra bianca sotto e delle manopole
davanti, e anche della gomma che va nel muro e della chiavetta, che io
chiudo sempre, che se non mi ricordo di averla chiusa ed esco, mi tocca
risalire quattro piani a piedi per controllare.
Il numero di gesti e ragionamenti complicati necessari per fare la
colazione è immenso. Ci vuole anche il detersivo, o prima o dopo. Di solito
prima, perché caffettiera e pentolino sono rimasti sporchi nel lavandino
dal giorno precedente. E la tazza! Dimenticavo la tazza! E i biscotti, che a
loro volta sono composti da: scatola di cartone, coso di cellophane che ne
avvolge otto e bisogna lacerarlo con i denti, e biscotti propriamente detti.
E il tovagliolino, da staccare dal rotolo di tovagliolini.
Ma non è finita qui: c’è la pattumiera, composta da pattumiera vera e
propria e sacchetto della pattumiera, contro il quale bisogna battere, toc
toc toc, il coso di mezzo della caffettiera per liberarlo del caffè di ieri che è
diventato un mattoncino. Se la pattumiera è piena bisogna anche togliere
il sacchetto e metterlo contro la porta per poi portarlo giù, e sostituirlo
con uno nuovo. Se sono finiti, bisogna usarne uno di emergenza del
supermercato. E poi ricomprarli. Dio mio impazzisco. È troppo complicato
prepararmi la colazione, se ci penso, è praticamente impossibile.
Per fortuna riesco a fare quasi tutte le cose senza pensarci, perché se
appena ci penso non riesco a fare più niente, mi scoraggio e sono già
esausto per il solo pensiero.
[nell’immagine, le mie due caffettiere]
Ancóra dell'amore
domenica 25 novembre 2007, 0.29.39 | molinaro
Tematica decisamente non nuova, sempre lui, l’amore; d’altronde è
centrale nella vita e per la vita, che volete mai farci; e così, in questo
sabato sera solitario, in casa con il raffreddore e la pioggia che batte
sulla tettoia del terrazzo, mi è venuta questa poesia qui.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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ANCORA DELL’AMORE
Un giorno capiremo: è ciò che è.
Se combacia non serve appesantirlo
di punti di sutura: resta unito
da sé e dove vuole, in tutti gli orli
lisci o scabrosi a cui s’attacca, resta
sigillato e sicuro, irremovibile:
forse lo capiremo. Un giorno, forse.
Le bugie feriscono più del tradimento
– scrive una giovane autrice a vent’anni:
ma l’errore è distinguere. Sono le bugie
il tradimento, non c’è tradimento
senza bugie. E non esistono le bugie d’amore:
solo esistono bugie di non amore:
forse lo capiremo. Un giorno, forse.
Non è un abbraccio altrui né un bacio dato
su molte bocche a sporcare un amore:
a sporcare l’amore è solamente
il non amore, è l’oscura mancanza
che incattivisce e intorbida, è l’assenza
che genera fantasmi scellerati:
forse lo capiremo. Un giorno, forse.
Trasformare l’amore in amore
– scrive un’autrice sullo stesso tema:
a poco a poco si fa qualche luce
sulla questione. L’amore è ciò che è
ma deve diventarlo. Credo che
le donne lo sapranno. Noi ragazzi
forse lo capiremo. Un giorno, forse.
[le due citazioni in corsivo sono rispettivamente da Chiara Borghi, Drake's heaven, Edizioni Joker, Novi
Ligure 2001, p.48, e da Clara Vajthò, Per te, poesia inedita, 2007]
[nell'immagine, Eroscapitelli, composizione mia fotopoetica, 2007]
Mezzanotte, raffreddore, sfacciataggine e mancanza di senso del ridicolo
martedì 27 novembre 2007, 0.59.31 | molinaro
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 210 di 404
Può succedere che si vada verso mezzanotte, si abbia il raffreddore e un po' di mal di gola, e venga
all'improvviso la voglia di dire una canzone, magari una canzone di Guccini. Dirla, con la propria voce, già
di natura stonata, e perdipiù raffreddata. E uno è solo in casa, e fuori è notte, e uno lo fa. E con totale
sfacciataggine e mancanza di senso del ridicolo la mette qui. Canzone di Guccini detta/cantata con voce
stonata e raffreddata. Perché, insomma, non è che dobbiamo sempre fare solo le cose sensate e
giustificate e buone e ammodino. Ecco qui Vorrei con la mia voce. Oh, ma siete mica obbligati...
Il cielo grigio al terrazzo è una scusa
martedì 27 novembre 2007, 12.04.38 | molinaro
Sto lavorando, sto provando a lavorare, ci sto riuscendo,
poi smetto, riprendo, è un mattino di novembre, fuori
dalla finestra c’è il terrazzo e sopra il terrazzo il cielo è
grigio, ma tutto questo non c’entra, è una scusa, e allora
ci ho fatto una poesia, ma adesso sotto con il lavoro, che
se no resto indietro, troppo indietro.
LA SCUSA
Il cielo grigio al terrazzo è una scusa:
siamo a fine novembre, quale cielo
pretenderesti? La malinconia
non è questo sfilarsi di stagioni
dalla matassa della vita: è
perderle nella svoglia d’un lavoro,
sentire muta l’anima che ieri
cantava, non sapere se domani
potrà cantare ancora e soprattutto
perché non canta oggi: dubitare
della canzone stessa.
È impallidito
l’intonaco dei giorni. Non è stato
il tempo a consumarlo, ma l’assenza:
è tinta delicata, è arricciatura
da mantenere e ritoccare spesso
con spatola e pennello. Ciò che dura
non è perché sia forte o resistente:
è perché c’è una mano che amorosa
ripara, aggiusta, ricolora, inventa:
disegna ghirigori sulle crepe
per farne un gioco, una scoperta nuova:
un arabesco da sgranarci gli occhi.
Il cielo grigio al terrazzo è una scusa.
Ma duecentomila euro sono una cifra «modesta»?
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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mercoledì 28 novembre 2007, 10.26.43 | molinaro
Facendo il lavoro di rassegna stampa per Fieri, stamattina, trovo un articolo sui mutui
immobiliari, dove si dice che ci sono difficoltà per i mutui «modesti», cioè quelli sotto i
200.000 euro. Insomma, una casa da 200.000 euro sarebbe una casa modesta, economica.
Cazzo! L’alloggio dove abitavo in affitto (pagavo 300 mila lire al mese) nel 2000, cioè sette
anni fa, fu venduto, appunto nel 2000, per 65 milioni di lire (e perciò fui sfrattato: il nuovo
proprietario voleva giustamente abitarci), ossia 33.500 euro. Camera, cucina abitabile,
piccolo ingresso e piccolo bagno, zona abbastanza centrale (a 200 metri da piazza Statuto, per chi conosce Torino),
pianterreno, ma su via tranquilla. Un alloggio piccolo e modesto, sì, ma buono, costava dunque nel 2000 poco più di
trentamila euro, a Torino. Ora, non è passato un secolo, sono passati solo sette anni. Vogliono dirmi che adesso ce ne
vogliono duecentomila, di euro, per un alloggio «modesto»? O non ci comprendiamo sul significato di «modesto», o i
prezzi, in sette anni, sono saliti di sette volte. Mi sembra un po’ forte. Qualcuno mi spiega? Il caffè al bar qui del
quartiere nel 2000 costava 1500 lire (equivalenti a 77 centesimi) e adesso costa 80 centesimi: è salito solo di 3
centesimi (meno del 4 per cento). Con le case è andata ben peggio, parrebbe. O com’è?
Che poesia volete che vi legga?
mercoledì 28 novembre 2007, 12.46.45 | molinaro
La lettura di poesie è ormai qui, venerdì sera, alla libreria Massena. Voglio fare un
giochino. Ci sono certi programmi radiofonici in cui gli ascoltatori «chiedono» le
canzoni. Ecco, se qualcuno vuole, mi «chieda» di leggere una determinata poesia
venerdì sera. Si può scegliere fra tutte quelle del libro (chi ce l'ha) e fra tutte quelle
che ho messo in questo blog, dalle sue origini fino a oggi. Fate la vostra scelta in
forma di commento a questo messaggio! (Vabbè, se poi nessuno lo fa non mi
offendo, d'altronde i tempi sono pure stretti!)
Due poesie, l'altro ieri e ieri (e stasera la Massena!)
venerdì 30 novembre 2007, 8.16.38 | molinaro
L’altro ieri sera ho scritto una breve poesia di due versi. Ieri pomeriggio invece, su un treno
per Milano, stavo leggendo Conrad, e ho trovato una frase che mi è piaciuta e che sento
molto mia, e l’ho spedita al blog via sms (sta fra i commenti del messaggio precedente). Poi
mi sono mezzo assopito qualche minuto. Poi mi sono svegliato e ho scritto una poesia su
quel che ho provato quando mi sono mezzo assopito. Adesso è mattino e mi metto al lavoro.
Stasera c’è la lettura di poesie alla libreria Massena. Qui sotto metto le due poesie scritte
l’altro ieri in casa e ieri in treno.
UNA STUPIDAGGINE CHE DIRANNO
Diranno: «È stato facile sognare
per lui, innamorato dell’amore».
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Torino, 28 novembre 2007
PER UNA DEFINIZIONE SEMPLICE DELL’ANIMA
Quando sul treno mi assopisco a metà
lasciando che il paesaggio si confonda con il sogno
sento nei miei polmoni un soffio eterno immutabile
che appartiene a me e appartiene alla terra
senza che le due cose si distinguano
il fluire della campagna al finestrino
è dentro di me ed è fuori di me
sono dentro di lui e sono fuori di lui
lo vedo e ne sono visto
vedere ed essere visto è la medesima azione
il soffio nei miei polmoni ha lo stesso odore
di quando ho respirato per la prima volta
e certo aveva quello stesso odore
anche prima che io respirassi e lo avrà
anche dopo il mio ultimo respiro
e prima e dopo e durante i respiri di tutti
gli uomini gli animali le piante e gli altri esseri
tutto è qui tutto è ovunque
non c’è nessuna mancanza né discontinuità
quando sul treno mi assopisco a metà
lasciando che il paesaggio si confonda con il sogno
sono immortale come tutto è immortale
sono infinito come tutto è infinito
eppure tutto sta dentro lo sguardo
che è mio e non è mio e sono io e non io
questo lo so con la più semplice sicurezza
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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quando sul treno mi assopisco a metà.
Santhià-Rho, 29 novembre 2007
La mia lettura alla Massena venerdì scorso
lunedì 3 dicembre 2007, 1.47.16 | molinaro
La mia lettura alla Libreria Massena 28 non è stata affollatissima
ma emotivamente intensa. C'erano una quindicina di amici. Per la
prima volta in vita mia ho letto integralmente in pubblico i Quaranta
frammenti per Monica – è stato faticoso ma ce l'ho fatta e sono
contento di esserci riuscito. Dopo, la serata si è sciolta, è andata
come in discesa. Ho letto per ottanta minuti, che è davvero molto,
ma gli ascoltatori mi sembravano ben presi, e tutta la faccenda credo abbia
funzionato. Ho letto poesie dal libro La parola rinvenuta e poesie inedite, anche
recentissime. Era da molto che non facevo una lettura mia di poesie (alla libreria
Massena ero stato recentemente, sì, ma a presentare altri autori, anzi autrici: Clara
Vajthò, Luisa Rinaldi e Chiara Borghi) e mi ci sono ritrovato a mio agio. La poesia ha
bisogno, almeno ogni tanto, della voce, e non solo della scrittura su carta (o su
video). Forse Beppe metterà sul sito della Libreria Massena il film della serata, e
allora certamente ve lo segnalerò. Una delle amiche presenti mi ha scritto una
poesia, una poesia dedicata alla mia lettura di poesie, scritta dopo l'ascolto, una cosa
singolare e soprattutto una cosa bella, e ve la metto qui sotto.
LA LETTURA
Tu leggi
ed io mi accorgo
per davvero
di come e del perché
sei come sei
sei senza pelle
ed ogni tuo pensiero
diventa quella pelle
che non hai
pelle che cambia e resta
nel mistero
d’essere veramente
ciò che sei.
Clara Vajthò
Video integrale della lettura di poesie alla Massena!
martedì 4 dicembre 2007, 23.32.35 | molinaro
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Non siete venuti a sentirmi alla libreria Massena? Eh, avete fatto male. Però potete almeno vedere e
ascoltare il video integrale della serata. Un vero lungometraggio!
Che cos'hai in tutti i posti?
giovedì 6 dicembre 2007, 23.47.43 | molinaro
Oggi mi è venuta una poesia cattivella, sarà che ho il raffreddore,
mal di testa, è da un bel po’ che sono acciaccato, quest’autunno
non sono proprio in forma, speriamo che passi, stasera ho male al
naso e pure a un occhio, e vado a dormire, se riesco, ma prima ho
scritto questa poesia cattivella, immaginando un innamorato
disilluso (una tristezza tipica, un classico evergreen) che si rivolge
a «lei» in un modo un po’ brusco, che a volte vien fuori così, brusco. È una poesia di
fantasia, s’intende, una di quelle invenzioni letterarie che saltano fuori in certe sere
quando si ha un po’ di febbre, prendo due aspirine e mi caccio sotto le coperte,
basta. Ah, disilluso è diverso da deluso. Ma io non dovrei star sempre a spiegare
tutto, non dovrei.
CHE COS’HAI IN TUTTI I POSTI?
Ma che cos’hai nella testa, nel cuore,
sotto la pelle, nel pensiero, nelle viscere,
insomma che cos’hai in tutti i posti, come fai
a lasciarmi da solo così, porca puttana
(è un’interiezione, non un vocativo; però quasi quasi...)
dopo che abbiamo condiviso le cose più importanti
che si possono condividere nella vita
e che non sono – lo sai anche tu – case o progetti
o costruzioni varie e non è nemmeno scopare
– davvero, non è nemmeno quello –
ma sono i piccoli miracoli quotidiani,
indovinare come stiamo, scaldarci sul letto,
avere l’idea giusta, ridere e poi farci seri,
indagare uno scurirsi dello sguardo,
desiderare sapere e farsi sapere e toccare
e farsi toccare dove è dolce e dove è amaro
ed esserci, esserci nel momento che serve,
capire quello che diciamo, rispondere
quel che va bene, con cura, con attenzione,
fino in fondo, e mai le cazzate a caso
che certe volte dicono i cosiddetti conoscenti,
i familiari e persino gli amanti.
Ma vacca troia (è un’interiezione di stizza; però
quasi quasi...) hai idea di quanto mi manchi?
Ho creduto che fosse possibile tutto,
ho creduto che il sogno sposasse la realtà,
un tuo trillo di telefono era il punto luce
nella caligine d’una giornata, quando pensavo
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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«spero di vederla stasera» succedeva quasi sempre
che ti vedevo davvero, non eri un sogno,
non eri una mia vana fantasia – e invece sì,
bagascia ladra (sempre un’interiezione, ma...)
adesso mi fai pensare che eri solo
una mia fottutissima fantasia – e allora se una
che abbraccio tutti i giorni per un anno poi è
una fottuta fantasia, io non riesco
a credere più a nulla, sono diventato vecchio,
vecchio e malato, pieno di accidenti,
e non ci credo più, e chi non crede più
è vecchio, prima invece ero giovane ma tu
che cos’hai nella testa, nel cuore,
sotto la pelle, nel pensiero, nelle viscere,
insomma che cos’hai in tutti i posti?
La temperatura del caffellatte
venerdì 7 dicembre 2007, 10.40.26 | molinaro
Non ho mai sopportato di bere roba troppo calda o troppo fredda: la roba calda mi ustiona e
quella fredda, oltre a non dissetarmi, mi resta sullo stomaco. Quindi preferisco caffellatte
appena tiepido e acqua «fuori frigo», anche in piena estate. Se possibile. Non sempre è
possibile. Ci si adatta. Certo se ho molta sete e c’è disponibile solo acqua che è quasi
ghiaccio, mi tengo la sete, perché per me dissetarmi significa almeno mezzo litro, e mezzo
litro di quasi ghiaccio è letale. Infatti ogni tanto qualcuno schiatta, per motivi così,
soprattutto d’estate al mare.
Da bambino mi davano sempre il caffellatte troppo caldo, oserei dire bollente – ma è un mio punto di vista, so che c’è
chi ingurgita tranquillamente liquidi che sembrano usciti da un altoforno.
Io lo dicevo, non è che non lo dicessi: «È caldo!».
Ricevevo una serie di risposte variabili, nessuna delle quali però faceva sperare, per il futuro, in un caffellatte più a
misura d’uomo (o a misura di bambino, o a misura mia: ero io che lo dovevo bere).
«Un po’ caldo fa bene allo stomaco».
«Non è caldo, la scodella era fredda, appena sciacquata!»
«Devi berlo calduccio per cominciare bene la giornata».
«Non è caldo, il caffè era freddo!»
Su quest’ultima risposta elucubravo mentalmente che un 10% di caffè, per quanto freddo perché lo preparavano la
sera prima, non poteva abbassare di molto la temperatura di un 90% di latte che scendeva dal pentolino fumante, già
con quella tipica schiumetta da bollitura, quindi caldissimo. Però questo non lo dissi mai, perché ero timido ma anche
in un certo senso presuntuoso: pensavo che gli adulti non capissero la termodinamica, o che comunque non mi
avrebbero dato retta su una questione così complessa.
In sostanza a nessuno mai venne in mente di concedermi un caffellatte un po’ meno caldo. Non sarebbe stato
difficile: bastava scaldarlo di meno, oppure aggiungere, dopo, nella scodella un po’ di latte freddo dal frigo. Non
comportava maggiori spese, né maggior fatica, né sprechi energetici o problemi ecologici. Ma la questione era
un’altra: era che il mio volerlo meno caldo era un «capriccio».
Poi io aspettavo a berlo, ovviamente, perché davvero mi faceva tanto male alla lingua, alla gola e all’esofago, così
caldo, e allora:
«Ma sei ancora lì? Fai tardi a scuola! Muòviti! Pelandrone!»
La cosa mi avviliva molto. Ora non esageriamo, era solo caffellatte, certo, ma la faccenda è rappresentativa di una
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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serie di esperienze che mi indussero, per lunga pezza (così lunga che in parte – ma solo in parte – dura ancora oggi),
a smettere di far presenti, in ogni e qualsiasi modo, agli altri le mie esigenze, preferenze e gusti di ogni e qualsiasi
tipo. Tanto, era inutile.
Chissà se anche oggi ci sono adulti che viziano i ragazzini con un’infinità di cose inutili, giocattoli e puttanate varie,
e però li ustionano con il latte bollente, una tortura da inquisizione.
Cioè, riassumendo: non li ascoltano.
Adesso il caffellatte me lo faccio da me e quindi il problema non si pone. Se dorme da me un amico o una ragazza, il
mattino le chiedo come lo vuole (e se lo vuole: qualcuna prende solo il caffè); se mi dice che le piace ben caldo,
verso dal pentolino il latte nella mia tazza a un certo momento, quando va bene per me, e poi lascio scaldare ancora
quello per lei, finché le va bene. A me, che pure sono un imbranato, non sembra così difficile dare il caffellatte alla
temperatura giusta (giusta per loro!) alle persone che stanno con me.
E tante altre cose. Si fa quel che si può. Almeno ci si prova. Si dovrebbe. In fondo. Ci si prova.
[nell'immagine, particolare dell'etichetta di un'acqua minerale che fa sempre ridere le mie amiche di Genova e di
Savona; la mussa va presa senza alcun dubbio a temperatura naturale, credo che su questo siano tutti d'accordo]
Sesto discorso di Calipso
sabato 8 dicembre 2007, 0.26.08 | molinaro
Dopo lunga meditazione, un Ulisse che è sembrato un po’ più
possibilista ha risposto a Calipso dicendole fra l’altro (citiamo
ancora, sfidando le solite ire della solita Sezione Campi Elisi della
SIAE): «A Itaca c’è il mio destino, tu non ci sei. / Ma prima che
questo si compia c’è l’avventura. / Ci sei tu. / Se è vero quel che
dici / seguimi fino alla fine del mio viaggio». Le puntate precedenti
sono nei messaggi n. 114, 115, 133, 154 e 162. Come reagirà ora Calipso? Sembra
che Ulisse le vieti assolutamente il ruolo di possibile sposa (c’è sempre quella
Penelope!), ma le offra invece l’avventura: la parte della compagna di periglioso
viaggio, e, diremmo, di amante. Amante di marinaio. Certe donnine che so io
rifiuterebbero sdegnate, ma Calipso è una ninfa. Soprattutto, è innamorata.
Ascoltiamola.
SESTO DISCORSO DI CALIPSO
E dunque sì, viviamo questo viaggio
insieme: non importa se alla fine
dentro la casa che vuoi ritrovare
ci sarà un’altra. Io sono una ninfa:
la mia casa è ogni luogo, non dovrò
entrare fra le tue mura domestiche.
Sono felice se mi puoi amare!
È questo ciò che conta, nulla d’altro.
Ti farò versi d’amore gioioso,
inventerò canzoni con l’odore
della tue pelle ruvida di mare,
l’addolcirò con la mia pelle chiara.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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E negli abbracci e nel darci piacere
mescolerò qualcosa che non sai:
la risposta al tuo grido, la risposta
che hai cercato in un canto di sirene
come in un lampo di spade o nel sogno
di quiete d’una casa – e non la trovi.
Io so dove trovarla. Non è a Troia
né per mare né a Itaca: è in te.
Ma c’è bisogno d’un amore forte
che t’illumini dentro perché tu
possa vederla. Io ti saprò dare
questa luce: io sono innamorata.
Ma basta, abbiamo perso troppo tempo!
Urge un intimo amplesso! O come dicono
i tuoi rozzi compagni, una scopata!
So essere sfacciata! Non importano
le parole per dirlo, importa farlo
senza sprecare gioia e vita. Andiamo!
Un premio a Roma
sabato 8 dicembre 2007, 0.51.41 | molinaro
Lunedì 10 dicembre, se mi passa la sinusite, ma spero proprio di sì, vado a Roma a ricevere
un premio per il libro La parola rinvenuta. Sono fra i primi tre ma solo al momento della
premiazione diranno se primo, secondo o terzo. Io mi considero terzo, è più che sufficiente!
Si tratta del premio Laurentum. La premiazione è alle 16 all’Ara Pacis in via di Ripetta 190.
Se qualcuno passa di lì, ci si può vedere. O se qualcuno vuole offrirmi ospitalità per la notte
successiva! Sapete come siamo noi poeti vagabondi e squattrinati. Se no torno a Torino
subito dopo, con un treno notturno, fa lo stesso!
Guizzan pesci tra i tuoi due fiori
sabato 8 dicembre 2007, 11.25.26 | molinaro
Una mia amica dà un’interpretazione anche «anatomica» della canzone delle colombe e del
fiore di Guccini. Dice che le rondini della prima strofa sono gli occhi e le due colombe della
terza strofa sono le tette, mentre la rosa della quarta strofa è la fica. Ma la seconda strofa?
Potrebbe essere la bocca: Guccini (o comunque l’«io» della canzone) dice che non sarà mai
stanco di bere tutto il suo miele, e che «guizzan pesci tra i tuoi due fiori» – il pesce potrebbe
essere la lingua fra le labbra.
A me la canzone aveva dato sì un’impressione di sensualità delicata, ma non mi era venuta l’idea di questo
simbolismo sul corpo. La quinta strofa poi è riassuntiva, conclusiva e propositiva: «Amore, colomba, fiore, amore
fragile e forte, / sfrontatezza e pudore, compagna di gioia e sorte, / sapore amaro e dolcezza, con l'arcobaleno fra le
dita, / vorrei perdermi nel tuo respiro, vorrei offrirti questa mia vita».
Si può percepire o non percepire il simbolismo sul corpo, ma forse è proprio vero che le più grandi canzoni (e poesie)
d’amore sono quelle che fanno del corpo un’anima e dell’anima un corpo, annullando la separazione fra lo spirito e la
carne. È questa la disperata grandezza e l’incommensurabile meraviglia dell’amore fra donna e uomo, la gioia infinita
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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dell’unità di tutto. E la vena di malinconia che sempre s’insinua, che s’insinua fin dall’inizio anche se cerchiamo di
ignorarla, è il tempo che passa e consuma.
Quando il corpo si consuma, quando la vita declina, l’amore, che non conosce vecchiaia, perde uno dei suoi due
appoggi e deve saltellare su una gamba sola, quella dello spirito. E alla fine di tutto, dove andrà l’amore, che mai e
poi mai riesco a pensare mortale? Non ci è dato saperlo. Prendiamo questo giorno, oggi, finché ci sono colombe,
fiori, miele, rose, pesci guizzanti e rondini. Rondini bianche e nere che anche mute dicono tanto. Non è nelle parole il
rimedio.
LA STRAGE DI TORINO
sabato 8 dicembre 2007, 16.58.41 | molinaro
La mia scelta abituale è di non mettere in questo blog fatti di cronaca, eventi politici, attualità. Non perché quelle
cose non mi interessino, ovviamente, ma perché hanno già i loro spazi, sia a livello di notizia che di commento. Ci
sono persone più competenti di me a parlarne; non voglio disperdermi in un presuntuoso blog «tuttologo». Ma oggi
devo fare un’eccezione.
In una fabbrica che dista poco da casa mia, qui a Torino, sono morti quattro operai. Quattro nel momento in cui
scrivo, e speriamo sia la cifra definitiva, perché altri sono in gravi condizioni. La fabbrica è un’acciaieria, una
ferriera. Si chiamava proprio così, Ferriera, poi è diventata Teksid Acciai, poi è stata travolta dalla crisi, adesso tira
avanti sotto la gestione di un supersfruttatore tedesco dal nome che ricorda cose sinistre di guerre passate, Thyssen,
Krupp... Un supersfruttatore che vuole spremerla fino all’ultima goccia per poi, naturalmente, chiuderla: chiudere e
licenziare è l’unica cosa che sanno fare bene, i grandi geni dell'imprenditoria mondiale.
E in questa stretta finale dello sfruttamento il lavoro diventa ancora più inumano. Lo straordinario praticamente
obbligatorio porta la giornata a dodici ore di inferno. Le misure di sicurezza? E chi ci bada alle misure di sicurezza,
bisogna lavorare, produrre, crepare. E prima o poi succede, è successo altre volte, adesso fa notizia perché è più
grave, è una strage. Quattro ragazzi sono morti. Ragazzi italiani, piemontesi – fossero stati extracomunitari non
cambiava nulla, certo, ma è per far sapere che esistono ragazzi italiani che fanno gli operai sfruttati, e muoiono. (No,
è solo perché a volte sento dire che i ragazzi italiani non hanno voglia di lavorare, e allora.)
E allora questa notizia, questa tragedia, la voglio scrivere anche qui, nel mio blog. La scrivo con tristezza, perché so
che, dopo le parole di circostanza, dopo lo sciopero che lunedì fermerà Torino, non succederà nulla, come al solito.
Non succederà nulla perché non può succedere nulla: quello che accade è intrinseco al sistema, a questa new economy
che ci ha riportati indietro nel tempo, ha cancellato i diritti, e ha trasformato il lavoro in roba da pagare al minimo
prezzo possibile. E chi se ne frega se ogni tanto qualche ragazzo brucia nelle fiamme di quell’inferno. È la
produzione, bellezza!
L'oro in bocca di Alice
domenica 9 dicembre 2007, 13.14.52 | molinaro
È un periodo di «amiche che pubblicano libri». Clara, Chiara, Alice, Grazia (doveva farlo
anche Giulia poi ha cambiato idea – peccato perché le sue poesie sono belle). Quelli di
Clara e Chiara sono già usciti e ne abbiamo parlato. Quello di Grazia uscirà più avanti. Esce
adesso quello di Alice. Alice è una ragazza decisa e in gamba, che conosco da quando aveva
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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quindici anni (adesso ne ha venticinque, quindi la conosco da dieci anni: eh, come passa il
tempo!). Nata a Genova, Alice Suella ha già abitato in mille posti e fatto mille lavori. Un peperino, insomma. Una
volta mi ha portato a un concerto e ha voluto che ci piazzassimo proprio davanti alle casse: dopo tre giorni avevo
ancora una centrale elettrica a ronzarmi nelle orecchie! La prossima volta ci mettiamo un po’ più a distanza, ok, Ali?
Ha un suo blog, e adesso pubblica il suo primo romanzo, che si intitola L’oro in bocca. Non l’ho ancora letto nella
stesura definitiva (avevo letto stesure precedenti) e quindi preferisco non farne per ora una «recensione». Alice mi ha
detto stamattina che mi manda al più presto un po’ di copie. Ma già da quello che ho letto nelle stesure preliminari,
mi sembra un libro che avrà da dire e da comunicare. E quindi cominciamo ad aspettarlo!
Sessanta masturbazioni di Grazia
domenica 9 dicembre 2007, 14.49.45 | molinaro
Dicevo un attimo fa, nel messaggio precedente, che il libro di Grazia sarebbe uscito più
avanti. Invece mi dice Grazia che è uscito proprio adesso. Curioso come le cose arrivino
tutte insieme! Ed è così già pronto, e lo possiamo leggere (lo leggerò nei prossimi giorni,
appena ne avrò copia)
Sessanta masturbazioni per Bianca
di Grazia Buono, edizioni Il Dito e la Luna. Si trova in libreria o sul sito
dell'editore. Anche di questo libro ho letto una stesura preliminare, e trovo che sia una storia d’amore piuttosto forte e
particolare. Grazia è una ragazza speciale (in verità io conosco quasi solo ragazze speciali, eh!). Nel mio libro La
parola rinvenuta c’è qualche poesia dedicata a lei. E adesso tocca a lei raccontare un amore. Grazia è splendida nel
vivere, e penso che lo sia anche nello scrivere. Tutte belle novità. Naturalmente tornerò su questo libro (come su
quello di Alice) quando ne avrò in mano un esemplare stampato, bella carta da leggere con piacere.
[nell'immagine, l'autrice]
Senza titolo
domenica 9 dicembre 2007, 21.10.06 | molinaro
Dopo che uno deve stare tre giorni filati in casa per via della
sinusite che si trascina da quindici giorni e ci voleva stare tre giorni
in casa per farla passare, e infatti è molto migliorata, succede che
scrive poesie sugli oggetti della casa, sui mobili! Tutto è possibile.
Ho scritto una poesia sul mio letto. No, non nel senso che l’ho
scritta da stravaccato, è proprio «dedicata al» mio letto. Che
vedete anche nell’immagine, nella situazione in cui si trovava oggi pomeriggio.
IL MIO LETTO
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Non è un letto di radica di noce
intarsiato e bombato e alto
come quello che aveva mio bisnonno
nel ramo più ricco della famiglia;
non è nemmeno di quei letti sfiziosi
o alternativi (naturistici, ecologici!)
che vendono adesso, o di quei letti strani
disegnati da qualche stilista.
È un letto dell’Ikea, di legno leggero,
uno dei più economici letti doppi,
un semplice quadrato con le doghe
e da una parte la testiera: ci sta
il materasso giusto giusto, incastrato.
Non ha una storia antica, ha sette anni,
gli anni da quando abito in questa casa.
L’ho portato qui e me lo sono montato
con le chiavette e i bulloncini e i legnetti
e mi sembra un buon letto.
Quattro anni fa una doga s’è spezzata
in circostanze che non andremo a descrivere
nel dettaglio, ma funziona lo stesso.
Stando coricati si vede alla finestra
il campanile giallo e azzurro di Santa Zita,
e le finestre di tre mansardine
della casa di fronte. Non abbasso mai le tapparelle.
È stato intensamente popolato (e questo per un letto
è il pregio più importante): ci ho fatto l’amore
con una decina di donne e ragazze,
mentre con una ci ho «solo» dormito.
L’ho offerto anche a due coppie d’amici
– in quel caso sono andato io a dormire
di là sulla brandina. Il letto grande è per l’amore
– benché si possa pure in un lettino
o sul tappeto o per terra o dovunque.
Qualche volta ci sono stato male, ma
per fortuna di rado; tante volte ci ho dormito
bene da solo, tranquillo, sognando.
A me sembra davvero un bellissimo letto.
Perché la qualità di un oggetto
più che nell’arte e nella finitura
è nella vita che ci vivi, in quanti
bei ricordi ritrovi quando annusi
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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le coperte e lenzuola.
Non è un letto di radica di noce,
è un bellissimo letto dell’Ikea.
Il teatro Alcyone
martedì 11 dicembre 2007, 19.53.24 | molinaro
Mi è venuto in mente in questi giorni, non so perché, il vecchio teatro Alcyone di corso
Regina Margherita angolo Porta Palazzo, qui a Torino. Lo chiusero più o meno quando mi
laureai, quindi intorno al 1977. Trent’anni fa. Ci facevano lo spogliarello, o strip tease.
Quella cosa lì, non altro: una cosa semplice, non eros show live hard porno super star e
iperboliche grosse obese simili scemenze. Palco di legno e sedie da cinema. Spettacolo tutte
le sere e qualche pomeriggio. Prezzo equivalente a quello di due film in prima visione,
qualcosa come sarebbe oggi quindici euro, via.
Lo spettacolo aveva una struttura alquanto fissa. Era diviso in due tempi (o, essendo in fondo sempre teatro, meglio
diremo due atti). Ogni atto si svolgeva così: due spogliarelli, il numero di un giocoliere o prestigiatore o mago o
saltimbanco, altri due spogliarelli. Quindi in totale ci lavoravano due saltimbanchi, otto ragazze spogliarelliste e un
presentatore, più un paio di tecnici, la maschera e la cassiera. Quindici persone impegnate per ogni spettacolo.
Considerato il prezzo d’ingresso relativamente modesto e il numero di spettatori che raramente arrivava a cinquanta
(ma la media sarà stata trenta; erano soprattutto operai Fiat, lo percepivo dai discorsi, impiegati e studenti), si capisce
subito che nell’economia di oggi sarebbe impensabile. Eppure invece lo facevano. Guadagnavano certamente poco,
ma lo facevano. Dal dopoguerra, credo, fino alla fine degli anni Settanta, il teatro Alcyone ha funzionato.
Io l’ho frequentato alcune volte ai tempi dell’università, quindi nei suoi tempi ultimi. Dirò francamente che lo
spettacolo mi piaceva. Cominciamo dai giocolieri prestigiatori maghi saltimbanchi: facevano cosine da piazza,
elementari, ma dignitose e poetiche. Magari semplicemente giochi con le clavette o le palle, oppure trucchi con le
scatole, i tavolini, le carte da gioco; o un po’ di ginnastica contorsiva. Roba che adesso tutti guarderebbero con
sussiegoso disdegno, tranne se fosse in televisione, dove passano cose anche ben più sciatte e stupide, basta che ci
sia un po’ di fragore pubblicitario intorno!
Lì non c’era nessun fragore pubblicitario. Veniamo alle otto ragazze. Non erano sempre le stesse, ma alcune
restavano a esibirsi a lungo, le rivedevo dopo mesi. Erano rigorosamente otto: se una sera capitava che fossero solo
sette, parte del pubblico mormorava, poco ci mancava che chiedessero la restituzione di un ottavo del prezzo del
biglietto. E pensare che adesso in certi posti fanno pagare cifre astronomiche per l’esibizione di una o due ragazze al
massimo. Però le chiamano pornostar, che si capisce subito che è molto più costoso.
Lì non c’era il porno, c’era lo spogliarello. Alcune ragazze avevano semplici costumi di scena, presi nella tradizione
dello strip tease, insomma un po’ di piume e sciarpe rosse di raso, magari un reggiseno di lustrini, il reggicalze, un
tocco di Crazy Horse o Moulin Rouge del tempo che fu. Ma molte non avevano neppure quelli: entravano in scena
con una maglietta e una gonna, un golfino, senza calze, e spogliandosi mostravano biancheria intima da bancarella al
mercato. Ma, che partissero con un sommario costume di scena oppure vestite come appena uscite di casa o
dall’ufficio o dal negozio, tutte danzavano un po’, chi meglio e chi peggio, e restavano nude, completamente nude, in
quattro o cinque mosse.
Qualcuna, una volta nuda, scendeva in platea e si sedeva in braccio a qualche spettatore a caso. No, nessuno infilava
banconote da nessuna parte. Era compreso nel prezzo e la scelta andava a simpatia. Si fermavano dieci secondi, se lo
spettatore era meno timido tocchicchiava un po’ qua e là, almeno le tette, e se invece era più timido si limitava a
restare immobile ed estasiato. E bon.
Il massimo del porno lo faceva qualcuna che, sporgendosi dal parco a cosce larghe, si toccava la patata, aprendo un
po’ la fessura con le dita. Andava tutto così, regolarmente. Ogni tanto c’era qualche ragazza più strana, come una
ballerina classica che entrava con il tutù e ballava discretamente, prima di spogliarsi anche lei. C’era una, si chiamava
Lisa mi pare, che quando scendeva in platea provava anche a parlare con il privilegiato su cui si sedeva: e mai
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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nessuno che osasse rispondere una sillaba.
Ora ripeto: a me piaceva. Era così semplice e naturale! Le ragazze erano perlopiù carine, graziose: la ragazza della
porta accanto, sì, però quella più bellina del condominio, diciamo – mediamente. Credo che molte fossero davvero
studentesse, commesse, ragazze del vicino mercato, giovani casalinghe, o in attesa di prima occupazione (dicitura
che ebbi anch’io per qualche mese sulla carta d’identità, dopo la laurea: si chiamavano così i disoccupati mai stati
occupati, non so se si usa ancora).
Fra gli habitués c’era chi mormorava che alcune delle ragazze si facessero trovare, dopo lo spettacolo, al bar accanto
all’ingresso, disponibili per essere accompagnate in un albergo a ore della zona (che credo ci sia ancora, l’albergo: ci
ho portato tre o quattro morose negli anni Novanta). Non so se fosse vero, non ho elementi per dirlo; ma,
quand’anche, rimaneva pure quella una cosa pulita, almeno nella mia personale Weltanschauung.
Ragazze che si spogliavano danzando (e perlopiù con grazia o almeno con impegno, e un po’ di sorriso) per
guadagnare una cifra certamente molto piccola; e forse alcune di loro guadagnavano dopo lo spettacolo una cifra un
po’ maggiore con una trombata in albergo. Era una cosa che stava nella vita normale, senza enfasi, senza quel gonfiotronfio-esagerato che accompagna quasi tutte le cose oggi.
Ragazze oneste: guadagnavano per quel che facevano. Non andavano a strisciare come adesso dietro politici o
faccendieri o presunti uomini di spettacolo o agenti procacciatori di chissacché o pseudocoreografi falliti o
professionisti di false promesse, non mendicavano a cosce spalancate una particina in tivù, magari pronte a offendersi
se glielo si fa notare...
Erano come i giocolieri, e infatti stavano bene insieme nello spettacolo, spogliarelliste e giocolieri. Il presentatore le
chiamava artiste – come i giocolieri – e aveva ragione: artiste, sì, come chi suona la fisarmonica sotto i portici, come
chi fa teatro di strada, come chi scrive poesie e le mette su un blog. Mica roba da rivoltare il mondo, ma artiste.
E sono scomparse, le spogliarelliste di quel tipo, così come sono scomparsi i giocolieri e i saltimbanchi dai teatri. I
giocolieri poi hanno recuperato, più recentemente, uno spazio nelle vie e nelle pubbliche piazze. Le spogliarelliste
(«quelle» spogliarelliste semplici) non hanno potuto: la gente avrebbe da ridire – già hanno da ridire sui saltimbanchi
e sui musicisti – e poi, cazzo, fa freddo! E così si sono estinte. Peccato. Io mi fidanzerei con una ragazza del teatro
Alcyone, e non le direi mai di smettere! Con una che striscia dietro i produttori e i faccendieri no, non mi fidanzerei.
Non vorrei rischiare di trovarmeli per casa.
Le vere ragioni del blog
mercoledì 12 dicembre 2007, 11.37.42 | molinaro
Palazzeschi scriveva: «E lasciatemi divertire!». Uno dei gridi più
disperati della poesia di tutti i tempi, anche se pochi lo capiscono.
E allora anche me, a volte, sì, lasciatemi divertire, come in questa
piccola strofa-scherzetto che mi è venuta stamattina, su una
musica di Guccini. Così, proprio come semplice giochetto, fra un
lavoro e l’altro. Buona giornata!
SCHERZETTO SULLE VERE RAGIONI DEL BLOG
(da canticchiare sull’aria di Vorrei di Guccini)
Vorrei che i lettori del blog tutti commentassero
le mie cazzate presenti e anche le passate,
vorrei che infine pure mi telefonassero
e facessimo per la città lunghe passeggiate.
Vorrei che tutte le ragazze già mi baciassero
soltanto per avere letto una mia poesia,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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vorrei che le più graziose poi me la dessero
col gusto di fare insieme qualche follia.
Vorrei che ogni nickname diventasse un viso
su cui trovare sguardi da ricordare,
e che fosse la community un ben preciso
bar dove stare a bere e a chiacchierare.
E lo vorrei
perché son solo coi casini miei
ed il computer non è mica lei
e io...
La poesia scelta a Roma
venerdì 14 dicembre 2007, 19.57.51 | molinaro
Alla cerimonia di premiazione di quel Premio Laurentum, dove sono arrivato secondo,
lunedì scorso, hanno scelto di leggere una mia poesia, e fra le 592 pagine del libro
«premiato» hanno scelto quella di pag. 295, una poesia scritta verso la metà degli anni
Novanta. Ve la propongo qui sotto. Non credo che avrei scelto questa, se fosse toccato
decidere a me, ma va benissimo così. A Roma ho rivisto Maria Luisa Spaziani, l’ormai
anziana ma sempre vivace poetessa con cui ho spesso dialogato. Torinese, vive a Roma fin
da quando era giovane, e la considero una delle poetesse importanti del Novecento, oltre che una simpatica signora.
SENZA TETTO
============
La mia casa è dove qualcuno mi ama
o almeno dove nessuno mi sorveglia
e nessuno mi spia. La mia casa
è tante case per un tempo, è l’argine
di un fiume, è una camera d’albergo
a ore, l’alloggetto di un’amica, la sala
di una biblioteca, una musica, un prato
o l’arcata di un ponte. La mia casa
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 224 di 404
è tutto ciò che soffro penso esulto
nel mio sangue e nell’aria. Chi ama questo
può abitare con me perché può amarmi
perché può essere amato da me.
La mia casa è dove qualcuno mi ama,
dove nessuno mi sorveglia o spia.
Poetry slam a Milano
sabato 15 dicembre 2007, 14.31.27 | molinaro
Venerdì 21 dicembre partecipo a un poetry slam a Milano, con molti bravi poeti e
artisti (mancheranno le artiste del tipo dell'Alcyone, quelle del messaggio n. 190,
ma non si può avere tutto dalla vita - peccato). Chi volesse venirci, trova la
presentazione della serata qui e il volantino qui, con tutte le indicazioni necessarie.
A che serve l'asse?
sabato 15 dicembre 2007, 17.01.58 | molinaro
Non quello cartesiano, non quello che si mette sulle impalcature, e neppure quello RomaBerlino. No, dico, l’asse del cesso: a che cosa serve? Ho avuto l’ennesimo rimprovero
sull’eterna questione che potremmo definire la querelle de l’homme qui pisse. Gli schizzi,
l’asse da alzare, abbassare, aprire, chiudere. Le prime discussioni risalgono a mezzo secolo
fa, con mia madre, e poi ce ne sono sempre state, senza interruzioni.
Oltre tutto nella questione intervengono pure problemi filologico-semantici, perché ho
notato che c’è chi con asse intende quella corona circolare di legno o plastica che scende a coincidere con la forma
della tazza di porcellana, e chi invece intende quella sorta di coperchio che, abbassato, rende il cesso inutile a ogni e
qualsiasi uso. E c’è anche chi intende indifferentemente le due cose. Dunque noi nel presente articolo per capirci
chiameremo corona l’asse a corona circolare, e coperchio l’asse che fa appunto da coperchio.
Parto da una premessa: io non uso mai né corona né coperchio. Il cesso di casa mia si trova sempre (tranne nel caso
vi sia stato transito di ospiti di sesso femminile) nella posizione in cui l’ho fotografato ora col telefonino (vedi
immagine). Quando devo defecare, non sopporto il caldiccio della plastica o del legno, preferisco il contatto diretto
chiappa-porcellana, e inoltre mi piace avere più spazio (la corona lo restringe). Si consideri che se un uomo, mentre
seduto defeca, incidentalmente orina anche (benché io tenda a fare le due cose in momenti separati), qualora non
abbia un buono spazio di tazza davanti, inevitabilmente piscia per terra.
Il coperchio poi non so proprio chi l’abbia escogitato. Una volta che hai tirato l’acqua (e correttamente usato lo
spazzolone), il cesso è pulito e non odora (grazie alla geniale invenzione del «collo d’oca» dove l’acqua fa da tappotampone, onde la definizione albionica di water closet, quasi «chiuso con l’acqua»: fu inventato da un orologiaio di
Londra, Alexander Cummings, nel 1775), e dunque perché coprirlo? Spesso odora assai di più il lavandino (specie se
non lavo i piatti per alcuni giorni), eppure mica ci metto il coperchio.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Quindi penso che nell’eterna querelle fra uomo e donna si potrebbe arrivare a un armistizio nei termini seguenti.
È assolutamente giusto che la donna esiga e pretenda che l’uomo, dopo la sua minzione in posizione eretta (eseguita
previo sollevamento della corona, naturalmente), pulisca con la carta igienica gli schizzi, ovunque essi si trovino
(tazza di porcellana, faccia inferiore dell’asse alzato, vaschetta, muro, eventuali oggetti viciniori, pavimento).
Non è invece giusto che la donna pretenda l’abbassamento di corona e coperchio. Si tratta semplicemente di due usi
diversi. Così come la donna dopo l’uso lascia l’asse abbassato, e nessun uomo pretende che ella lo lasci invece alzato
affinché sia già pronto all’impiego maschile (l’uomo se lo può alzare da sé), analogamente l’uomo deve poterlo
lasciare alzato.
Ma in fondo va bene, di qualcosa bisogna pur discutere, e non sempre si discute solo dei massimi sistemi
dell’universo. Sorridiamo. Mi sono spesso domandato come fossero i cessi dell’Olimpo, e se Giunone s’incazzasse
con Giove per come pisciava. Probabilmente sì.
D’altronde però Giunone era cattivissima, infuriata perenne, spesso faceva del male alle morose di Giove e per
questo motivo è la dea che ho sempre odiato di più: una dea gelosa non merita di essere dea, in my humble opinion.
[Ah! Pensandoci meglio, i coperchi dei cessi, però quelli di una volta, di legno massiccio robusto e di buono
spessore, a qualcosa potevano servire: per esempio a sedercisi sopra per fare un pediluvio in una catinella. Ma quelli
moderni no; e mi ricordo una terribile esperienza, a casa di un amico, mi ero seduto proprio così e... crac! Gli ho
sfondato il coperchio del cesso. Brutta faccenda.]
Identità e differenza
domenica 16 dicembre 2007, 0.29.57 | molinaro
Ieri con un’amica facevo un discorso sulle caratteristiche delle
persone e sulle situazioni della vita, e mi hanno colpito alcune
affermazioni, che vorrò poi approfondire personalmente con lei
(come è naturale) ma che intanto mi sono spunto di riflessione per
un discorso più generale qui. L’amica diceva che, pur con le nostre
diversità, siamo in fondo tutti un po’ uguali; e valutava come
«insane» alcune situazioni, come per esempio quella della donna che accetta con
benevolenza le «altre donne» dell’uomo con cui sta, assumendosi un ruolo, diceva
l’amica, quasi di «guardiana dell’harem». Ovviamente le due cose sono collegate:
per giudicare «insana» una situazione bisogna rifarsi a un fondo di «uguaglianza» su
cui misurare tale insanità.
Qui non mi interessa però parlare dell’esempio particolare, non voglio fare un
discorso sulle donne «non gelose», se siano veramente non gelose o recitino una
parte (e lo stesso per gli uomini), e cose così, sempre in bilico sulla letterina a donna
Letizia. Personalmente mi sento genuinamente non geloso, misuro l’amore su quello
che una persona dà a me e non su quello che dà ad altri, mi sembra di funzionare
così e basta. Se poi qualcuno lo ritiene profondamente impossibile, è suo diritto
avere questa opinione, ma io non posso che confermare il mio modo di sentire.
Pensando a una ragazza che mi piace molto, giorni fa percepivo che ormai saprei
anche diventare monogamo di una donna poligama («fedele a un’infedele», per
usare l’insensata terminologia tradizionale): non avrei più neppur bisogno di una
reciprocità per accettare i suoi amori: è così limpidamente naturale amare chi si ama,
indipendentemente da tutto, che quasi mi stupisco che a volte ci si ricamino dei
problemi intorno. Ma, come dicevo, è di un’altra cosa che voglio parlare, quindi fine
dell’inciso sull’esempio particolare.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Voglio parlare della somiglianza e differenza fra le persone, e quindi della possibilità
o meno di definire persone (o situazioni di persone) come «insane». Intanto cosa
significa «insano»? ha qualcosa a che vedere con «anomalo» o «anormale»? È un
problema complesso e non parto da un preconcetto, sto riflettendo, in questo
solitario sabato sera, dopo essere stato alla libreria Massena a sentire un pezzetto di
lettura di Guido Catalano e aver cenato al Pigaron, il mitico ristorante da otto euro.
Che le persone abbiano, nella psiche, un fondo comune direi che è scontato, ma
bisogna vedere «quanto». Stando alla mia esperienza di vita e alle mie conoscenze,
pochissimo. Faccio una similitudine, per spiegarmi. Un monociclo di quelli che usano
gli acrobati al circo e un treno ad alta velocità della linea Milano-Roma funzionano
basandosi su un principio assolutamente identico: c’è un corpo di forma circolare
(uno o più), appiattito, detto comunemente «ruota», che eseguendo un movimento di
rotazione sul suo centro, e aderendo per attrito a un corpo di forma piatta allungata
(detto secondo i casi «pista», «strada», «rotaia»), produce la propulsione (ossia un
moto lineare direzionato) di sé medesimo e di altre parti a esso collegate (il telaio del
monociclo, la struttura del treno). Il principio meccanico è identico.
Eppure, non si negherà che il monociclo di un acrobata del circo e il treno ad alta
velocità Milano-Roma siano alquanto diversi. Ecco: secondo me ciò che hanno in
comune tutte le persone è al massimo quello che hanno in comune il monociclo e il
Milano-Roma. Ma ho la sensazione, così d’istinto, che sia anche di meno.
Io vedo questa infinita varietà, e altri non la vedono, e già l’avevo intuito tempo fa in
discorsi maschili apparentemente da osteria ma non privi di un loro senso, ossia
quando qualcuno disse: «Ma Carlo, dopo venti ragazze, per dire, non sei annoiato?
Non sono alla fine tutte uguali, le donne, sempre la stessa storia che si ripete?».
Anche allora mi stupii, perché fra quelle venti ragazze, e quelle venti storie, non ne
trovo due che si assomiglino più di quanto un monociclo assomigli a un Eurostar
Milano-Roma.
Forse ho uno sguardo (degli occhi e della mente) calibrato a cogliere più le differenze
che le identità, e questo spiegherebbe il mio essere poco fisionomista, la fatica che
faccio a riconoscere persone che ho visto solo poche volte a distanza di anni: «Ma
Carlo, non mi riconosci?» – «Ora che mi parli e ti spieghi forse sì, però tu ti sei
tagliato i capelli e ti sei vestito in un modo diverso dal tuo solito e forse sei
invecchiato di quindici anni, e io di primo impatto ho visto tutte queste diversità, e ho
pensato che non potevi essere tu». S’intende che queste cose non le dico, però è
così che mi accade.
L’accento sull’uguaglianza mi allarma. «Funzioniamo tutti in un modo un po’ simile»
mi sembra il presupposto per creare emarginazione, incomprensione; o una
scorciatoia per rinunciare a capire. Si arriva presto a dire: «Tu non puoi essere come
appari, stai recitando una parte o sei malato, perché noi [noi tutti gli esseri umani]
non funzioniamo così, dunque non può essere che tu sia come sei».
Questa considerazione mi ha sempre tenuto lontano da psicologi e psicanalisti di
professione, perché mi pare inevitabile che essi partano da presupposti, quasi da
protocolli (come ormai fanno quasi tutti i medici delle altre discipline, del resto), o
quantomeno dalla loro formazione (per forza!) che però, a mio avviso, non è che
un’opinione, per autorevole che sia, e quindi una pura ipotesi (solo i religiosi – di
vario tipo – credono in modo automatico all’autorevolezza come fonte di verità,
l’auctoritas, e io religioso non sono).
Ovviamente posso sbagliarmi, e la parte comune di funzionamento fra tutti gli esseri
umani può essere più rilevante di quanto a me appaia. In fondo la mia stessa
similitudine si presta alla doppia lettura: ciò che hanno in comune il monociclo e il
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Carlo Molinaro
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Torino-Roma è poco visibile ma è comunque importante: senza quel principio
«uguale» non si muoverebbero né l’uno né l’altro.
Però spesso girando per la città e il mondo, fra persone che conosco bene e persone
che solo sfioro per strada, ho la sensazione di «assomigliare» pochissimo, e di
«appartenere» ancor meno. È pure probabile che il concetto di appartenenza non mi
appartenga (sì, è una frasina a effetto, mi è scappata, scusate) e che questa sia una
caratteristica mia da cui discende tutto il resto. Eppure mi sento legatissimo alle
persone che amo, e sanguino a ogni distacco. Le rare volte che mi sento
«somigliante» mi commuovo e spesso m’innamoro – forse è manifestato dalla poesia
che metto qui sotto, una poesia di tanti anni fa, faceva parte della silloge inedita con
cui vinsi il premio Montale nel 1985, ora ovviamente è edita, pluri-edita.
Ma, al di là di queste considerazioni più personali, la cosa su cui vorrei dialogare è il
bilancio di uguaglianza/diversità fra le persone. C’è chi vede quantomeno le masse
tutte uguali. Sì, magari viste da lontano. Ma appena ti avvicini, che infinito
caleidoscopio di differenze! Stasera al Pigaron mentre cenavo ho captato dai tavoli
accanto discorsi diversissimi dall’altra volta e dall’altra volta ancora. Fra l’altro un
mese fa sempre al Pigaron avevo sentito un dialogo fra tre operai (un elettrico, un
edile e un decoratore: la gente si racconta tanto, in mezz’ora di pasto, e io ascolto!),
magari non bravi nel ben parlare l’italiano, ma che esprimevano una teoria e analisi
sull’economia e sull’integrazione (una visione equilibratissima dell’immigrazione) così
chiara ed efficace che li avrei nominati ministri lì sul campo, al posto di quei quattro
coglioni del governo. Forse visti da lontano, nel brusio, erano tre uomini della strada,
tre operai che «probabilmente dicono le solite cazzate». Sì, finché non ti metti ad
ascoltare.
Questo ovviamente vale anche a rovescio, non sto dipingendo il quadro di
un’umanità idilliaca. Ascoltando da vicino scopri anche un sacco di cattiverie e
merdoserie. Però, anche lì, a me sembrano tutte un po' diverse.
Io vedo differenza, tanta differenza. Può darsi che le donne che sanno amare gli altri
amori dei loro uomini (per tornare all’esempio particolare) siano poche, e ancora di
meno gli uomini che sanno amare gli altri amori delle loro donne. Però ci sono,
semplicemente, esistono, e a me non sembra né strano né «insano». D’altronde
anche di Einstein, di Saffo, di Gandhi, di Pasolini, di Dante non è che ne nascano a
ogni momento, però nascono. Ma in effetti è frequente che vengano definiti «insani»
anche loro. Forse è solo un modo di dire.
Però ogni discorso che porta o può portare a una lode della norma o della normalità
o «sanità» m’inquieta, appena lo sento mi par di avere un laccio a stringermi le mani!
Vabbè, avevo voglia di dire queste cose, le ho dette, e buona notte!
PARABOLA
L’anima mia è un quadro che dipinsi
ad occhi chiusi in un tempo che non so,
e il soffio della terra ne ha fissato
piano piano i colori.
Il bimbo tenne il braccio
ripiegato sul volto, perché i bimbi
hanno paura. Ma l’uomo, più forte,
osò aprire le mani e guardare.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Allora quasi nulla che domestico
mi fosse io vidi. Solamente, a volte,
un suono un volo un arco una fanciulla
trovo che già conobbi
alla mia tela, forse
quando ancora ero altrove.
E disperatamente m’innamoro:
come l’esiliato quando legge
all’improvviso nel porto straniero
dove cammina pensoso fra gli odori
un nome di sua lingua su una prora.
(scritta nel 1984 o giù di lì)
Tirocolè
martedì 18 dicembre 2007, 0.14.40 | molinaro
Oggi mi sento incomunicabile. Non comprendo e non esprimo. Ma
essendo comunque poeta, ho scritto lo stesso una poesia. Una
poesia che non comprende e non esprime. Una poesia
incomprensibile e inesprimibile. In parole povere, una cazzata.
Ecco qua.
TIROCOLÈ
Il corteo
è corto, lì.
Or lecito
cetriolo.
Licet oro,
torco lei.
Colorite
troie col
reticolo.
Oltre ciò,
l’erotico
lieto cor.
Tirocolè!
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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[Nell’immagine, il poeta titolare del presente blog, sia pure vagamente affranto dopo un lungo viaggio
dal capoluogo subalpino fino alla capitale d’Italia, regge sulle ginocchia, all’interno di un pube (così in
romanesco; ingl. pub) del semicentro, zona Tiburtina, un peso dolce e non sgradito: una sua buona
amica, l’immagine delicata e graziosa della quale, a causa di una spietata legge detta «delle
privazíe» (ingl. privacy), s’è dovuta occultare dietro un’improbabile scesa di celesti nubi dalle sfere
angeliche, o dal soffitto del pube, o qualcosa così.]
L'ascolto
martedì 18 dicembre 2007, 13.15.18 | molinaro
L’ascolto, l’interessarsi. L’attenzione. Pensieri in forma sparsa. Perché
una trattazione organica non mi viene. Ultimamente sono stato criticato
da almeno tre persone sulla mia incapacità ad ascoltare. Tre persone (tre
persone amiche s’intende) sono tante e quindi c’è da meditare.
Qualcosa mi sfugge. A me sembra di ascoltare attentamente. Però
sembra a me. Se a tre persone (persone amiche) non sembra, c’è da
meditare.
Che io sia un tipo distratto va bene, questo lo so. Stamattina sto lavando per la terza volta lo
stesso bucato. Il motivo? L’altro ieri e ieri mattina ho messo la lavatrice, ma quando ha finito
me ne sono dimenticato completamente, e il bucato è rimasto dentro a intristire. Se sta 24
ore chiuso bagnato nella lavatrice è meglio dargli un’altra passata, credo. Non so se me l’ha
detto qualche massaia o se è un’idea che mi sono fatto io. Stamattina mi sono ricordato che
il bucato era ancora lì e gli ho dato la terza passata. Ma non è detto che sia la volta buona.
La lavatrice ha finito, mi pare, non la sento più ronzare di là, ma adesso non ho voglia di
smettere di scrivere e quando avrò finito di scrivere non sono in grado di garantire a me
stesso che mi ricorderò del bucato, perché sarà fra un po’ di minuti e forse non ci penserò
più, e domani dovrò fare il quarto lavaggio della stessa biancheria, quando all’improvviso mi
ricorderò.
Non ascolto le lavatrici (e non m’importa di loro: non sono esseri viventi) ma le persone mi
sembra di ascoltarle. Mi sembra di essere attento. Però c’è evidentemente qualcosa che non
va.
Le tre persone sono donne, ma questo forse non è significativo, perché di amici uomini ne ho
pochissimi, e lontani. Quindi è statisticamente normale che siano donne.
Non so. Ognuno ha il suo linguaggio, i suoi presupposti, i suoi modi e la sua storia personale,
e a volte non capisco qualcosa che mi viene detto (e non sempre c’è il tempo e la possibilità
e l’opportunità di approfondire subito, domandare, spiegare meglio). Ma non capire è diverso
da non ascoltare. A volte rielaboro mentalmente per giorni interi una frase che mi è stata
detta cercando di comprenderla in tutte le sue sfaccettature – e magari invece mi allontano
dal senso originario, perché sono condizionato dalla mia fantasia – ma che farci? L’unico
rimedio è parlare di nuovo e spiegare meglio. Quando è possibile.
Una delle tre donne suddette mi parla molto di rado e brevemente, lasciandomi poi per giorni
a elaborare e fantasticare sulle sue parole (dato che la amo, fantasticare è inevitabile). In
questo caso il rischio di allontanarsi dal senso reale è alto. Ma l’ascolto mi sembra fortissimo
– solo che deve basarsi su frammenti, è come ricostruire un papiro egizio mezzo cancellato,
le lacune si colmano in modo arbitrario, si fanno un sacco di errori, ma... come fare
diversamente? Eppure anche lei, benché solo una volta e forse in riferimento a una cosa
specifica, mi ha detto: non mi ascolti.
Un’altra mi parla spesso, approfondiamo, e la sua critica di non ascolto è più riferita ad altri
rapporti, non è un non ascolti me ma un non ascolti loro. Resta il fatto che a me non sembra,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 230 di 404
non riesco a visualizzarlo. Tuttavia ne discutiamo, e questo è bene.
Con la terza parlo abbastanza frequentemente e a lungo, e quando non capisco quasi sempre
le chiedo di spiegare meglio, eppure anche lei mi ha detto che non la ascolto. Con lei in
particolare mi accorgo che ci sono terminologie, percorsi diversi, visioni contrastanti del
mondo che rendono la comunicazione laboriosa (ma appassionante!) e implicano dei
frequenti non capire, che però, ripeto, sono diversi dai non ascoltare.
Non nego che in un’ora di conversazione ci possa essere quel minuto in cui la mente vola via
e mi fa perdere qualche parola. Questo accade. Ma in genere si può reintegrare dal contesto.
Oppure direttamente lo dico: scusa, mi ero distratto un attimo, puoi ripetere?
Ora, l’ascolto non è solo una cosa verbale, è chiaro. C’è l’ascolto dei gesti, degli
atteggiamenti, dei modi. Un po’ più complesso, perché se non si è arrivati a un’intimità
profonda il rischio di fraintendere è ancora più alto che nell’ascolto verbale. Ma è bello e
necessario.
E poi c’è l’attenzione, l’attenzione alle cose dell’altro (che è una forma di ascolto, prima, e di
amore, poi – o contemporaneamente). Qui la faccenda è ancora più complicata perché mi
sono accorto che ci sono atteggiamenti molto diversi. A me sembra di mettere al centro la
persona. Ma magari non è vero, magari sbaglio. Se vado alla presentazione del libro di un
amico, compro il libro anche se è lontanissimo dai miei interessi (magari parla di pesca
subacquea!) o anche se penso che non valga granché, perché è il libro di un amico e in ogni
modo mi parla di lui. Se poi mi viene in mente che ho un altro amico a cui quel libro
potrebbe interessare, ne compro due copie, o tre. Mi sembra il minimo della solidarietà. Ma
moltissimi non la vedono in questo modo.
Odio guardare le diapositive delle vacanze. Ma se accanto a me c’è una ragazza che amo, e
mentre guardo le diapositive sento nella stanza il suo odore, allora amo guardare le
diapositive delle vacanze! Odio girare per i centri commerciali, ma se è con chi-so-io, come è
accaduto varie volte quest’estate, allora è la cosa più bella del mondo. Non è che mi sforzo:
diventa davvero la cosa più bella del mondo.
Cenare con un amico in un posto dove si mangia merda mi è cosa gradita, cenare con un
estraneo antipatico in un posto dove si mangia da dio mi è insopportabile. Chiaro che se si
può cenare con l’amico in un posto dove il cibo è decente è ancora meglio, ma insomma
l’esempio serve a stabilire delle chiare priorità.
Però sto divagando, la questione era l’ascolto, e non l’importanza che gli altri hanno nella
mia vita. Sono due cose in qualche modo collegate ma non sono la stessa cosa.
E però non sono arrivato a chiarire granché. Devo meditare ancora. Se tre persone amiche
mi hanno detto che non le ascolto ci deve essere del vero, e ci devo «lavorare sopra», come
dicono, credo, gli psicologi o psicanalisti nel loro gergo bislacco.
Adesso stendo il bucato. Me ne sono ricordato, me ne sono ricordato!
A chi tocca la galera
mercoledì 19 dicembre 2007, 15.22.28 | molinaro
Mi va di riportare ciò che la giornalista Flavia Amabile dice nel suo forum su La Stampa.
In Italia la giustizia colpisce quasi solo i deboli e gli stranieri. Nel «delitto della
metropolitana di Roma» ha giocato molto la fatalità. Fra l’altro la vittima era
tossicodipendente e quasi certamente ha iniziato lei, magari in crisi, la lite (a una romena
clandestina non converrebbe mai esporsi anche in un semplice battibecco in metropolitana:
sa che già solo essere fermata e identificata per lei è un guaio). È giusto e non cinico dire
che la vittima era tossicodipendente, non attenua la pietà umana per la sua morte, ma è rilevante per la giustizia –
anche perché la morte, secondo alcuni, potrebbe essere stata provocata non solo dal colpo di ombrello ma
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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dall’anestesia in ospedale, a cui è stata sottoposta senza che i medici sapessero che aveva nel sangue sostanze
stupefacenti (e la somma stupefacenti più anestesia può essere letale). Sedici anni inflitti alla colpevole del colpo
d’ombrello sono uno sproposito e lo si deduce anche dai confronti che la giornalista fa. Li trovate qui sotto. Sono
contento che lo scriva anche un giornale moderato come La Stampa: la giustizia in Italia è debole con i forti e forte
con i deboli. Questo è un fatto.
Doina Matei è stata condannata a sedici anni per aver ucciso Vanessa Russo con la punta di un
ombrello. Sedici anni perché il giudice le ha creduto: non voleva uccidere, altrimenti sarebbero stati
almeno venti di anni di carcere. Sedici anni perché quindici è la pena prevista dal codice, e uno in più
per aver ucciso per 'futili motivi'. Nessuna attenuante. Sedici anni, dunque, è la sentenza di primo
grado, poi in appello si vedrà. Sono molti? Sono pochi? È una pena esemplare, o un facile accanirsi
contro una giovane straniera e per di più marchiata dall'infamia di trovarsi in Italia a lavorare come
prostituta? Questo blog già subito dopo l'omicidio aveva provato ad avere un approccio diverso
rispetto alla vicenda.
Ma osserviamo come si è comportata la giustizia italiana in altri omicidi perché ognuno possa
dare una risposta a queste domande.
Vi ricorderete di Marta Russo, la studentessa di Giurisprudenza uccisa in un viale dell'Università
La Sapienza di Roma, uno dei casi più controversi della cronaca nera italiana. Nel dicembre del 2003
la Corte di Cassazione ha condannato in via definitiva Giovanni Scattone a cinque anni e quattro mesi
di reclusione per omicidio colposo, e il suo collega e amico Salvatore Ferraro, a quattro anni e due
mesi.
Più interessante ancora il confronto con la vicenda di Salvatore Mannino. Nell'ottobre del
2004 aveva massacrato di botte e ucciso un impiegato che gli aveva graffiato involontariamente l’auto
durante una manovra di posteggio. È stato condannato a sei anni di reclusione per omicidio
preterintenzionale.
Oppure mi viene in mente il caso di Marco Ahmetovic, 22 anni. Lo scorso aprile mentre
guidava un furgone completamente ubriaco travolgeva e uccideva cinque ragazzi. È stato condannato a
6 anni e 6 mesi.
Ora andiamo a vedere che cosa dice l'indagine più recente sulla certezza della pena in
Italia. L'ha realizzata l'Eures nel 2003. Dai dati risulta che in Italia la legge viene applicata sì, ma
sempre con estrema cautela e molta bontà. Per l'omicidio preterintenzionale la media è di 8,8 anni e il
codice ne prevede almeno 10. A Doina Matei è stato inflitto il doppio della condanna media. Chi è che
finisce davvero in carcere? Secondo l'indagine ci finisce chi sequestra una persona, chi è colpevole di
omicidio volontario, oppure estorsione, produzione e spaccio di stupefacenti, rapina, istigazione e
sfruttamento della prostituzione, e poi molte altre cose ma non l'omicidio preterintenzionale. Il caso di
Doina è in linea con la media nazionale soltanto per un aspetto: ormai in Italia a rischiare il carcere
sono soprattutto gli stranieri, dal 1994 al 2000 la loro incidenza rispetto al totale dei condannati è
passata dal 10,8% al 19,1% e nel 2000 gli stranieri erano già il 28,8% dei detenuti. Insomma, se sei
straniero e commetti 'reati di bassa manovalanza', dallo spaccio al furto, è molto più facile andare in
carcere. Sapete chi non ci finisce quasi mai, secondo l'indagine? Il manager italiano condannato per
bancarotta, quello che manda per aria la sua azienda e le persone che ci lavorano.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Peppino e le differenze
mercoledì 19 dicembre 2007, 23.21.53 | molinaro
Stasera ho cenato da Peppino, buon ristorante con menù a otto
euro e cinquanta centesimi (un primo a scelta, un secondo a
scelta, un contorno a scelta, acqua o vino, coperto incluso), che mi
sentirei di consigliare a chiunque, ambiente fine e molto pulito e
ottima cucina. Tutte le amiche e gli amici che ci ho portato si sono
trovati molto bene. Io mi trovo bene anche al Pigaron (che per otto
euro netti dà primo, secondo, contorno, frutta o dolce e acqua o vino, coperto
incluso), ma su questo vado più cauto, perché ha una cucina più «spessa» e un
ambiente più popolar-noncurato: ci si sono trovate bene Antonella, Claudia e Clara,
ma Francesco e Malvina no, quindi non so, dipende.
Nell’immaginetta del messaggio sono riprodotte comunque tutte le indicazioni per
trovarli, a Torino: a sinistra una ricevuta fiscale del Pigaron, a destra un biglietto da
visita con mappa di Peppino (cliccare per ingrandire, ovviamente). Non ho
percentuali per queste segnalazioni, sono disinteressate. Quando trovo qualcosa di
buono mi piace condividerlo con gli altri: un ristorante, un paesaggio, un ufficio
postale simpatico, una notizia curiosa, il segreto di una stazioncina, un pensiero, una
poesia, a volte persino una donna. So che c’è chi ha un atteggiamento
diametralmente opposto, c’è chi nasconde le cose belle che trova come fanno i cani
con l’osso; ma il mondo è così, vario.
Su questa varietà so meditando. Ci sono gesti che prendono valenze diversissime
nelle ottiche e nelle concezioni di persone diverse. Magari un atteggiamento che per
me è d’amore, per un altro è di perdita di dignità o d’orgoglio; un atto che per me è
d’amicizia, per un altro è di paternalismo o d’esercizio di potere; un discorso che per
me è spietato, per un altro è appena giusto e corretto; un taglio che per me è
crudele, è considerato da altri una buona soluzione; un ambiente che io trovo
sofisticato, per un altro è sobrio; un percorso per me entusiasmante, per un altro è
noioso; una storia che per me è fantasmagorica, per un altro è la solita vecchia
storia.
Lo so che sto semplicemente esemplificando una cosa ovvia: la differenza fra le
persone. Ma più che sulla differenza, è sulle conseguenze della differenza che sto
meditando. In che modo la qualità e quantità delle differenze può influenzare un
amore o un’amicizia, favorendola o, all’opposto, sfavorendola se non addirittura
impedendola? C’è una soglia di affinità minima necessaria per dialogare? Pensavo a
una cosa successa anche qui sul blog: il messaggio n. 190, che era poi solo una
descrizione d’ambiente, ha avuto (grazie anche alla «coraggiosa» esternazione della
simpatica Marina – adesso mi pare che una roba così la chiamino outing, un’altra
parola per noi assolutamente inutile, di cui nessuno, ma proprio nessuno sentiva il
minimo bisogno, e che i mezzi di comunicazione di massa, schiavi della parte
peggiore del mondo anglofono, vanno imponendo) un bel numero di commenti, con
posizioni anche fortemente contrastanti. Mi domandavo, un po’ sullo scherzoso: ma
si può dialogare con uno che ti dice si’ na mignotta?
Forse sì, io propenderei per il sì, cercare di dialogare sempre. Qui poi esce un altro
discorso, quello degli stili verbali e non solo verbali. A Roma e a Napoli, ma anche a
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Carlo Molinaro
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Firenze, io piemontese di voce moderata devo fare uno sforzo per ricordarmi che no,
non mi stanno aggredendo, è solo il loro modo di esprimersi, di parlare. Un po’ mi
sono abituato. Ma a vent’anni in Toscana soffrivo parecchio, mi sentivo
perennemente preso per il culo, non ero abituato a quel continuo mordere che per
loro è la normalità. Poi si viaggia, si capisce, si interiorizza, si traduce, ci si adegua.
Per me non è stato facile, ancora oggi se sento parlare dei napoletani la mia prima
sensazione è che mandino a cagare tutto il mondo. Il tono, qualcosa, non so. Poi
elaboro, ma la prima sensazione è quella.
Insomma, non è facile con le differenze. Se poi la gente viene ancora da più lontano,
ci vuole entusiasmo, buon animo e volontà per capirsi. E spesso a questo
giustamente ci applichiamo: ci applichiamo a capire gli africani, gli arabi, gli slavi.
Cioè, non proprio tutti noi lo facciamo, ma molti di noi (spero) lo fanno. Ed è bene, è
l’unica via per la pace, la comprensione e l’integrazione. Però, e qui concludo la mia
meditazione, dobbiamo ricordarci di farlo anche con l’amico, l’amico pure più simile a
noi, quando esprime una differenza, magari fastidiosa. Perché tutti, anche
concittadini, anche vicini per formazione, anche affini sotto tanti aspetti, anche amici
da anni, ogni tanto ci scontriamo su una differenza. Ed è lì che non bisogna
incastrarsi, è lì che bisogna capire, sciogliere, andare avanti. Così mi pare, almeno.
Altrimenti ci si disperde e alla fine ognuno resta solo.
Della solitudine
giovedì 20 dicembre 2007, 16.35.51 | molinaro
Di poesia mi sono interessato fin da molto presto, e già a quindici anni mi procuravo libri e
libretti fra i più improbabili. Ricordo un fascicoletto di poesie (forse era una piccola
antologia) in cui c’era un componimento di uno che si firmava con lo pseudonimo di
Prinzhofer. L’ho cercato, recentemente, nell’unico modo in cui ormai pare si facciano le
ricerche, e cioè su internet, ma non è venuto fuori nulla. Erano anni lontani (poteva essere il
1968, anno più anno meno), e si vede che Prinzhofer non ha avuto un seguito, e non è
arrivato all’era di internet. Se qualcuno ne avesse notizia (o lui stesso: credo fosse un giovane, magari è ancora
vivo!), mi faccia sapere. Le sue poesie, per quel che me ne resta nella memoria, non erano eccezionali, ma ce n’era
una che aveva, verso la fine, alcuni versi che mi fecero piangere, e che mi sono rimasti dentro. Li cito a memoria, a
lontana memoria, quindi certamente non erano proprio uguali a come ve li scrivo. Però quasi. Eccoli:
nell’androne grigio
il vecchio pensionato
guarda per la centesima volta se c’è posta
ma non c’è posta
non ci sarà mai posta
Non sono versi sublimi, mi sa; però mi fecero piangere. Io allora (non adesso: allora, a quindici anni) mi vidi in quel
vecchio che guardava se c’era posta, e la posta non c’era, nessuno gli scriveva. Non credo che sia per reazione a
quella poesia se dopo sono diventato un vero grafomane, intessendo centinaia di corrispondenze epistolari. Ho avuto
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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un momento di estrema felicità intorno ai quaranta-quarantacinque anni, quando mi arrivavano sei o sette lettere al
giorno (e io trovavo il tempo di rispondere a tutte – questo è uno dei motivi forse della mia non carriera lavorativa,
ma chi se ne frega!); la felicità era corroborata anche, occorre dirlo, dal fatto che con cinque o sei delle mittenti
facevo l’amore, e con altre cinque o sei speravo di farlo, insomma era un momento di grande vivacità, di entusiasmo,
di relazioni scintillanti. Di cui le lettere (su bella carta, in genere, scritte a penna, con disegni, arabeschi, giochi,
fotografie, oggettini, piumette, foglie secche, fiori schiacciati, insomma tutto quel che ci vuole) erano simbolo,
contorno e cornice, oltre che memoria (le conservo ancora tutte).
Adesso sono passati altri dieci anni e le lettere hanno avuto un crollo verticale, è tanto se me ne arrivano tre o quattro
al mese. Per il resto, bollette e pubblicità. Sì, la colpa è in parte anche di questo cazzo di internet, la posta elettronica,
che non dà certo la stessa soddisfazione, e anzi, con i suoi tempi troppo rapidi, quasi nevrotizzanti, è spesso fonte di
malintesi. Ma non è solo quello. Anche il numero delle donne con cui faccio l’amore (e di quelle con cui spero – ma
spero poco – di farlo) è drasticamente sceso. Certo, non devo comunque lamentarmi. Ho due relazioni amorose belle,
e due principali innamoramenti non ricambiati (e ho il privilegio di poterlo scrivere persino qui, perché non c’è nulla
di nascosto, ognuna sa delle altre, io di bugie nella mia vita non ne voglio mai più). Ma non è neppure questo il
punto. Queste erano solo delle premesse.
Se dopo quarant’anni mi sono tornati in mente i versi di Prinzhofer e sono tornato a commuovermi su quei versi, una
ragione ci sarà. Sì, la figura del vecchio solitario pensionato è più vicina cronologicamente, adesso. Ma non è
neppure quello il punto, neppure quello.
La solitudine. Qualcosa che uno ha dentro, a 14 come a 54 anni, uguale.
Io a volte faccio un po’ il duro. Me ne accorgo. Faccio il duro per vari motivi. Perché detesto il comportamento
opposto, il pietoso appello. Perché temo le reazioni moralistiche (scapestrato! mille donne, alla fine è ovvio che resti
da solo! a la ramera y al juglar a la vejez les viene el mal! [questo è un antipatico proverbio spagnolo che si può
tradurre all’incirca così: «la puttana e il poeta la pagano da vecchi» – sarà un motivo in più della mia fortissima
solidarietà con le puttane?]). Perché ho fastidio degli psicologi dilettanti che mi spiegano tutti i motivi e tutto quello
che dovrei fare. E poi anche per un po’ di virile orgoglio, si capisce.
Faccio un po’ il duro anche perché mi rendo conto che alcuni cinquantaquattrenni sentendo un loro coetaneo che ha
da piangere pur avendo due amori e due innamoramenti, sarebbero tentati di imbracciare un fucile e sparargli. Che
vuoi di più dalla vita, maledetto? Io sono trent’anni che trombo solo quel carciofo di mia moglie, che già un anno
dopo il matrimonio non mi piaceva più!
Qui mettiamoci un sorriso. Eccolo: :-) Usiamo l’emoticon. Ma poi andiamo avanti.
Perché, duro o non duro, lamentarsi o non lamentarsi, la solitudine esiste, è un mostriciattolo che gira dentro, e può
farti piangere a 15 come a 54 anni sugli stessi versi (e per di più versicoli di oscuro autore). Oggi la sento mordere
forte, eppure stasera forse vedrò un’amica e domani una donna amata che mi ama e anche un bel po’ di amici (al
poetry slam a Milano).
Confessare «mi sento solo» è più dura che confessare di avere fatto per un po’ la puttana, come la simpatica Marina
ha osato esternare proprio su questo blog pochi giorni fa. Almeno, per me è più dura. Mettere nudo il corpo in un
locale, e farselo pure toccare un po’ dagli avventori, scandalizzerà qualche imbecille, ma è niente a confronto di
mettere nuda l’anima, esponendola al «toccare» degli altri. Io già sono abituato a farlo attraverso le poesie – ed è
qualcosa. Ma in un discorso diretto no, non sono abituato. Nel discorso diretto mi viene da fare un po’ il duro.
Negare.
Perché la poesia, come diceva credo Camillo Sbarbaro, se è una bella poesia contiene, insieme alla confessione,
l’assoluzione. Confesso una cosa orribile, ma leggete che bella poesia: sono assolto. La cosa orribile ha prodotto una
gemma. Voi guardate la gemma.
Il discorso diretto no. Il discorso diretto resta lì con la sua bruttura, irrisolta. Ci si allontana. Dagli altri e da sé stessi.
Forse poi ci si ritrova. O fors / nu nu ne nu rencontreron jamè / paschè la vì / tu sè / l’è tuta pien de solitude (Guido
Catalano, La solitude, in Motosega, Edizioni SEEd, Torino 2007, pp. 18-19).
Ho attaccato questo discorso sulla solitudine ma non so dove voglio arrivare. È normale che io non lo sappia. Un
discorso non serve a niente se sai già dove vuoi arrivare. È non sapendolo che puoi incidentalmente trovare qualcosa.
Ma non è detto. Non è detto che trovi qualcosa. Forse la solitudine ha un temporaneo rimedio (quello definitivo non
esiste, ne sono ragionevolmente certo) solo nelle poesie. E nei baci. Ma avevo voglia di cominciare il discorso. E l’ho
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Carlo Molinaro
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cominciato. Buone cose a voi.
Poesie ne scriverò finché me ne verranno. Baci, finché qualcuna me ne darà. E poi, sipario. Come è naturale. Tocca a
tutti, mica solo a me.
E mi rimetto a fare il duro.
L'uomo che perdeva gli slam per amore
sabato 22 dicembre 2007, 11.49.49 | molinaro
Ieri sera a Milano il poetry slam (vedi messaggio n. 193) è andato
bene, una serata piacevole in un centro sociale che, ho scoperto,
è nella casa che una volta era il mitico Derby di Milano, il locale
dove negli anni Sessanta cantavano Gaber e Jannacci, credo, e
gli altri del giro, che facevano le migliori canzoni di quel periodo
storico. Ero in buona compagnia e ce la siamo passata bene. E
poi alla fine ha vinto l’amico Guido Catalano che lo merita e inoltre fa piacere quando
vince perché lui nella gara ci si butta proprio con l’anima, come fosse un lanciatore di
giavellotto alle Olimpiadi. Io di mio mi sono piazzato malissimo, ma non importa
perché è un gioco, e poi va bene così.
La poesia che mi è venuta stamattina non c’entra mica niente, non è detto che sia
autobiografica, adesso non dovete mica pensare che tutte le mie poesie sono
autobiografiche, voglio dire: se anche lo fossero, non è che devo sempre farlo
sapere. Il velo dell'arte! C'è il velo dell'arte! Che cosa sono, adesso, io, un palazzo di
vetro? Come quello del Sole 24 Ore, proprio davanti a quel centro sociale, che è
trasparente e non si potrebbe neanche fare un pompino sotto una scrivania che ti
vedono da via Monterosa? Eh! Questa qui parla di un uomo strano, uno che ho
conosciuto proprio agli slam, e che perdeva quasi sempre per lo stesso motivo. Buon
sabato!
L’UOMO CHE PERDEVA GLI SLAM PER AMORE
Sapeva benissimo che per vincere gli slam
o almeno piazzarsi decentemente
ci vogliono quelle poesie che un po’ danno un pugno
e un po’ fanno ridere con le battute a sorpresa:
la gente ride e ridono anche
i cinque giurati sorteggiati
e poi danno 8, 9, 8, 7, 9 e si sta su in classifica.
Lui ne aveva di queste poesie,
non tantissime, non erano la sua specialità principale
però ne aveva diciamo una decina:
poteva alternare quelle e piazzarsi non male
nei poetry slam.
Ma non ci riusciva. Pensava stavolta lo faccio,
poi invece finiva sempre che leggeva una poesia
ispirata da lei, da quella ragazza là,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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quella di cui si era innamorato
una sera in un centro sociale in una città di mare.
E quelle poesie lì a volte un po’ prendono ma di rado:
se succede che sorteggiano una giuria innamorosa
puoi arrivare a 7, 7, 8, 7, 7
cioè ti piazzi verso metà classifica
ma molto spesso va anche peggio
e prendi 6, 6, 5, 7, 6
proprio in fondo, zona retrocessione:
un po’ perché la poesia è inadatta
un po’ perché l’amore è inadatto:
l’amore quando è vero è un impegno troppo grande
per le chiacchiere e il fumo di una sera di slam.
(L’amore, detto per inciso, non è roba da donna Letizia:
l’amore è più che parlare del Chiapas
e del Che e del subcomandante Marcos
anche perché l’amore lo vivi dalla mattina alla sera e di notte
sulla tua pelle in strada e in cucina e pure in bagno
mentre il subcomandante è una teoria lontana.)
L’uomo che perdeva gli slam per amore
era un po’ uomo
un po’ poeta
un po’ innamorato
non era mai per intero una di queste tre cose
non gli riuscivano tutte le cose per intero alla perfezione
era fatto così con tutti i suoi limiti
però quella che gli riusciva meglio
quella che gli veniva più naturale
era l’innamorato.
Era anche, delle tre, quella che
non gli consigliavano mai: gli dicevano
sii uomo, non stare così dietro a quella lì
oppure
sii poeta, scegli per la tua arte e non per quella lì
ma a lui veniva di fare l’innamorato
più che altro era innamorato e faceva così.
L’uomo che perdeva gli slam per amore
poi non glielo diceva neanche a quella ragazza
perché anche la ragazza la pensava come gli altri
e gli avrebbe detto sei un coglione
e inoltre smettila di corteggiarmi che sono fidanzata
ma lui non smetteva
non smetteva di corteggiarla
non smetteva di leggere le poesie scritte per lei:
l’uomo che perdeva gli slam per amore
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Carlo Molinaro
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aveva in mente un’altra cosa
una cosa che sanno solo gli innamorati
e che non staremo a trascrivere qui.
Regali di Natale
domenica 23 dicembre 2007, 15.34.21 | molinaro
Ho ricevuto auguri di Natale via mail, a cui non ho ancora risposto. Risponderò. Magari
stasera. Un solo bigliettino d’auguri di carta, per posta, e viene dalla Finlandia, dalla mia
superstite pen friend Virpi K. – che ormai ha una figlia molto più anziana di com’era lei
quando cominciammo a scriverci.
Il Natale non lo sento per niente; ma non è questo il problema. Già da adolescente non lo
sentivo, e forse persino da bambino mi suonava un po’ falso: aspettavo i regali, basta. O
neppure quello. Ricordo che per molti anni chiesi in regalo sempre nuovi pezzi per il trenino elettrico che tenevo
perennemente montato in cantina. Un vagone, un locomotore, altri binari, il modello di una stazioncina, cose così.
Pensandoci oggi, non so se ero davvero così affezionato al trenino elettrico, o se non fosse piuttosto che, alla
domanda cosa vuoi in regalo?, non sapevo che cosa rispondere, e dicevo qualcosa così per abitudine, e ripiegare sul
trenino era una soluzione di comodo.
A distanza di tanti anni mi sa che la situazione non è cambiata. Anche adesso non so che cosa rispondere. A volte mi
sembra che sia tutto uguale. O meglio, è cambiato il fatto che vedo con più chiarezza le cose. Ma vederle con più
chiarezza non vuol dire che siano poi tanto diverse. Che cosa voglio per regalo, a Natale o in qualsiasi altro
momento? Con alcune persone la risposta ce l’avrei ma so che è impossibile e allora taccio.
– Che cosa vuoi per Natale?
– Che stiamo insieme, giriamo per la città e compriamo un orecchino da un euro su una bancarella, e poi andiamo a
casa tua e mangiamo una pasta e ce la contiamo un po’ su.
– Non posso, ho mille cose da fare, sono impegnatissima.
– Allora niente, fa niente. Magari un vagoncino del trenino.
– Che cosa vuoi per Natale?
– Che mi scrivi lunghe lettere su fogli di carta.
– Non lo faccio ormai più. Non ho tempo. E forse non so più nemmeno che cosa scrivere.
– Allora niente, fa niente. Magari un vagoncino del trenino.
– Che cosa vuoi per Natale?
– Che mi abbracci e mi dai un bacio.
– La cosa si presterebbe a equivoci. Non potrei regalarti una cravatta?
– Allora niente, fa niente. Magari un vagoncino del trenino.
– Che cosa vuoi per Natale?
– Che fai l’amore con me.
– No, sono fidanzata e poi sinceramente il tuo fisico non è che mi attizza tanto.
– Allora niente, fa niente. Magari un vagoncino del trenino.
– Che cosa vuoi per Natale?
– Che mi parli con sincerità e poi mi ascolti, e poi mi parli e poi ancora mi ascolti.
– Non posso darti tutta la mia sincerità, sarebbe troppo fra te e me.
– Allora niente, fa niente. Magari un vagoncino del trenino.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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– Che cosa vuoi per Natale?
– Che molli quello con cui stai e mi sposi.
– Ma sei matto? Devi essere proprio uscito di testa.
– Allora niente, fa niente. Magari un vagoncino del trenino.
– Che cosa vuoi per Natale?
– Che parliamo con dolcezza e senza contrasti e che tu mi accetti per quello che sono.
– Il contrasto c’è sempre e non si può accettare tutto: è un regalo impossibile.
– Allora niente, fa niente. Magari un vagoncino del trenino.
– Che cosa vuoi per Natale?
– Che mi fai un pompino come quella volta che sei venuta a trovarmi tre anni fa.
– Ma sei matto? Quella è una cosa che è successa allora, mica resto sempre disponibile! Ho pure il ragazzo!
– Allora niente, fa niente. Magari un vagoncino del trenino.
– Che cosa vuoi per Natale?
– Che tu e io e gli altri amici, tutti, stiamo insieme anche dopo la festa: prendiamo una casa grande?
– Guarda che le comuni sono fallite già nel Sessantotto: chiedi qualcosa di serio e fattibile.
– Allora niente, fa niente. Magari un vagoncino del trenino.
– Che cosa vuoi per Natale?
– Una copia delle foto in cui sei nuda che ti ha scattato quel nostro amico anni fa. E questa mi sembra proprio una
richiesta minimalista, un ripiego, ma è meglio che niente.
– Minimalista? Te le sogni! Se vuoi, ti regalo un libro di Stephen King.
– Allora niente, fa niente. Magari un vagoncino del trenino.
– Che cosa vuoi per Natale?
– Che ci guardiamo fissi fissi negli occhi e poi urliamo più forte che possiamo.
– Non facciamo scene, dai. Non ti servirebbe una tovaglia per la cucina?
– Allora niente, fa niente. Magari un vagoncino del trenino.
Con qualche (evidente) variante dovuta all’età, assomigliano alle cose che avrei voluto davvero in regalo da bambino,
ma non potevo chiederle allora e non posso chiederle ora. È la stessa cosa. E poi il Natale non ha senso perché le cose
non si chiedono, ecco tutto, non si chiedono.
Per fortuna c’è qualcuno che a volte le cose che desidero davvero me le dà senza
che io le chieda, e questa è una grande fortuna. Dunque bando alle geremiadi.
Però il Natale resta una cosa senza senso, sì, e per favore nessuno mi domandi
cosa vuoi in regalo?, che se no mi ingarbuglio: o resto zitto o do risposte che
possono essere imbarazzanti. [io a voi non domanderò, vi darò quel che saprò
darvi]
Comunque: buon Natale!
Un paio di poesie
domenica 23 dicembre 2007, 23.30.11 | molinaro
Ecco un paio di poesie. La prima, Il profumo di te nelle lenzuola, l’ho scritta oggi, adesso.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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La seconda, I poeti sono uomini concreti, è quella con cui ho partecipato, senza grande
successo, al poetry slam a Milano l’altro ieri. Quest’ultima è una poesia ad assetto variabile. Non ha una stesura
definitiva, quella che trovate qui sotto è solo una delle infinite varianti. L’ho inventata e detta la prima volta a
Savona, a una lettura collettiva al Raindogs. L’ho ridetta diversa qualche mese dopo a Torino, e l’altro ieri a Milano
l’ho reinventata ancora diversa, abbastanza simile (ma certo non perfettamente uguale: si va a memoria) a come la
leggete qui. È una poesia che è come formata da un nucleo di plasma poetico che si materializza ogni volta in parole
un po’ diverse. È la dimostrazione che la poesia non è fatta di parole: le parole ne sono solo la traduzione. No, vabbè,
piscio più corto: è semplicemente una poesia che mi piace dire ogni volta un po’ diversa, come mi viene. I poeti sono
uomini concreti.
IL PROFUMO DI TE NELLE LENZUOLA
Adesso che sei partita,
dopo che t’ho accompagnata alla stazione
mi sono ributtato sul letto sfatto:
ho sentito il profumo di te nelle lenzuola,
che mi ha dato piacere e nostalgia.
In periodi di maggiore abbondanza
si mescolavano profumi di due ragazze
– certe volte anche tre – nelle lenzuola
(no, non le cambio tutti i momenti, ebbene no)
ma adesso è un periodo che
nel mio letto ti ci infili solo tu.
Un motivo per cui ti amo
è che tu non ti compiaci di questo
anzi ti dispiace che nel mio letto
non ci venga più quella di quest’estate
e non ci venga mai quell’altra che vorrei.
Un motivo per cui ti dispiace
è che sai che sarei più contento
con due o tre profumi mischiati nelle lenzuola
e inoltre sai
che quando sono più contento amo meglio:
amo meglio anche te quindi va bene.
Un motivo per cui ti amo
però è che in fondo non c’entra
neanche quello, è perché
non c’è nessun motivo vero:
il motivo è che non c’è nessun motivo,
è come è e basta,
con traffico o senza traffico nelle lenzuola,
è come è e basta:
è il piacere che si mescola alla nostalgia
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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come in tutti gli amori del mondo:
e anche tu ti diverti a farmi inquietare
con certe domande alla stazione
all’ultimo momento
tu come tutte le ragazze del mondo
ti piace tenermi un po’ sulle spine
per vedere com’è.
Adesso che sei partita,
ma spero che poi torni,
mi vengono in mente lo stesso tante cose
da dirti: le metto da parte anche se
certo non potrò ricordarmele tutte:
meglio così se no sai che tiritera
quando ci ritroviamo, quando invece
è meglio poi baciarci e rinnovare
il profumo di te nelle lenzuola.
I POETI SONO UOMINI CONCRETI
(versione del 21 dicembre 2007, inventata a Milano)
La dedica è sempre a C. B.
[Epigrafe:]
J’suis ni l’oeillet ni la verveine
Je ne suis que la mauvais’ graine
[canticchiato sulla musica della canzone originale di Léo Ferré]
I poeti sono uomini concreti
non crediate:
se parlano del corpo di una donna
dal corpo della donna la luce riverbera
nella coppa del mare e dalla coppa del mare
nella vasca del cielo e dalla vasca del cielo
di nuovo sulla donna: così
ogni discorso particolare diventa universale
e ogni discorso universale s’incarna
in un corpo particolare.
I poeti fanno sul serio:
se fanno sul serio possono perdere tutto:
quelli che non fanno sul serio hanno già perso tutto
– se mai l’hanno avuto – perché sono dei coglioni.
I poeti sono uomini concreti
non crediate:
sanno che una poesia non può ribaltare la scena del mondo
sanno che una poesia non può ribaltare una donna su un letto
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Carlo Molinaro
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– questo li fa imbestialire come bisce ma
non si arrendono mai.
Tu guarda io stasera
io stasera per te gioco tutte le mie carte
gioco per te io stasera proprio tutte le mie carte
non tengo da parte nemmeno un due di picche
per te stasera gioco tutto il mio fiato
non tengo da parte neppure un respiro
non tengo da parte neppure un respiro e me ne frego
J’suis ni l’oeillet ni la verveine
Je ne suis que la mauvais’ graine
[sempre canticchiato sulla musica della canzone originale di Léo Ferré]
Ah, una cosa:
se avete dei bambini state attenti a quel che dite
ai bambini: a me da bambino hanno fatto credere
che ero stonato e per di più
che non mi si poteva amare. Sappiate che
non era vero, non era vero un cazzo.
Il bisogno di essere amati
lunedì 24 dicembre 2007, 20.15.59 | molinaro
Un’amica mi scrive: «Anch’io mi comporto come una ventenne che ha
bisogno di essere rassicurata, di sentirsi dire che è amata, e mi sento
scema». Il concetto non è nuovo, è qualcosa che ho già sentito: la
crescita, l’indipendenza forse, questioni così. Ma all’improvviso mi
sembra un concetto vuoto, sbagliato. Mi viene da ribattere con foga: ma
siamo sicuri che con l’età questo debba passare? forse impariamo a farci
fronte meglio, però, di base, perché mai anche a cent’anni uno non dovrebbe più sentire il
bisogno di essere rassicurato, di sentirsi dire che è amato? chi è che ha tirato fuori questa
strana ipotesi per cui crescendo uno non dovrebbe più avere bisogno di rassicurazione? e se
fosse un’ipotesi tremendamente sbagliata? un inganno addirittura? e se forse solo lo
anestetizziamo, quel bisogno naturale di ogni essere a qualunque età? Ho un terribile
bisogno di essere rassicurato, di sentirmi amato, ma non ho la minima idea di come fare per
«smettere», e non so neppure se ha senso... Ho imparato a fare dei lavori, ho imparato
(forse) a vedere meglio dentro me stesso e dentro gli altri, ho imparato ad arrangiarmi in
tante circostanze della vita, ho approfondito sensazioni e sentimenti, ho trovato verità più
consistenti, nel cammino della mia esistenza: credo di essere cresciuto almeno un po’, sì,
credo di sì. Ma in tutto quello che ho imparato, non trovo nulla che sia utilizzabile per non
sentire più il bisogno di essere rassicurato, di essere amato. A me non sembra che esistano
ragionevoli strumenti per ottenere quel risultato. Forse essere amati è come respirare:
campassimo pure duecento anni, mica impariamo a fare a meno di respirare. Ci sono cose di
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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cui non si impara affatto a fare a meno, non c’è niente di strano in questo. E sarebbe poi
davvero utile raggiungere quell’indipendenza dall’amore degli altri, quella specie di atarassia,
di fiera imperturbabilità? Un’atarassia che assomiglia alla morte nella solitudine, come
esprime bene Chiara Borghi in una frase del suo libro che in certi punti è molto più profondo
di quel che sembra: «Si raggiunge l’atarassia, non quella di Epicuro, né quella di Seneca,
l’atarassia intesa come metodo per estraniarsi fino alla morte cerebrale, concretizzando il
rifiuto, il silenzio, il vuoto. Lì si incomincia a imparare a vivere dentro sé stessi, soli» (Il
tempo è scaduto, pag. 12). E viceversa non è solo l’amore, vissuto e sognato, a farci vivere,
come scrive Clara Vajthò nella poesia intitolata appunto Amore? «L’amore che hai vissuto /
non è tempo perduto / l’amore che hai sognato / è tempo anticipato» (Poesiole
doppiosensuali, pag. 45). O non sarà che confondiamo lo sgomento del vuoto con il naturale
bisogno d’amore? E crediamo di liberarci dal vuoto liberandoci dal bisogno di essere amati?
Scrive Alice Suella: «I vuoti non si colmano con l’amore. I vuoti sono lì, in attesa del primo
momento buio» (L’oro in bocca, pag. 136). E allora non è meglio tenere in noi, con più
equilibrio possibile, ancorché precario, il desiderio di rassicurazione, il desiderio di essere
amati, e non estremizzare le cose? Scrive Grazia Buono: «Per amarsi di più si commettono
errori, per la paura di perdere l’altra si perde davvero. È una messa in discussione continua,
l’eterna domanda: “Ti amo anche oggi?”. E se la risposta è “no”, la caduta è
rapida» (Sessanta masturbazioni per Bianca, la pag. non la so perché non ho ancora in mano
la stampa definitiva del libro). E io che partendo da una riflessione sono arrivato a citare
quattro libri non di Heidegger o Goethe o Kant o Shakespeare ma di quattro amiche che
conosco e ho abbracciato, l’ho fatto per amore o per il bisogno di essere amato e rassicurato,
o per nessuno di questi motivi?
Ma cazzo, dimenticavo! È la notte di Natale! A Natale ci amiamo tutti. Lo dice Gesù bambino.
Il problema non esiste. Amore, amore! Buon Natale.
La mezzanotte santa
martedì 25 dicembre 2007, 1.00.18 | molinaro
Una delle pochissime poesie natalizie che mi piacciono almeno un pochino è
questa di Guido Gozzano che vi metto qui sotto. Bene. È la notte di Natale, sono in
casa da solo, dopo aver mangiato una pizza al ristorante cinese. Il silenzio è
disturbato solo dalla ventola del computer e dal mio ticchettare sulla tastiera. Ma
oggi a mezzogiorno ho pranzato con figli, genero e nipoti (da nonno) e domani
pranzerò con madre, sorella, cognato e nipoti (da zio). Quindi le tradizioni familiari
non vengono meno.
Stasera sarei stato volentieri con qualcuno, meglio con qualcuna, è una cosa poco natalizia forse ma fa lo
stesso. D'altronde in serata mi sono arrivati solo tre sms di auguri e provengono da due donne con cui
faccio l'amore e da una con cui vorrei farlo (e il fatto che anche questa terza mi abbia mandato il sms,
nella mia fantasia galoppante, è già di buon auspicio, magari poi vorrà fare anche l'altra cosa che le altre
due fanno, ma freno la mia fantasia galoppante, va bene, va bene). Però vuol dire che il nesso c'è: chi fa
l'amore ama, di solito (almeno nella mia vita è andata così, rapporti "freddi" non ne ho quasi avuti), e
amare è una cosa molto natalizia, alla fine è tutto insieme, tutta una cosa, l'amore, l'amore di Dio o quello
che è, l'amore umano, l'amore fra donne e uomini, è tutta una sola bellissima cosa, sì. Anche regali in
forma d'oggetto li ho avuti, in questi ultimi tempi, solo dalle tre donne suddette e dai miei figli (mia madre
mi ha regalato dei soldi e ben vengano, ma è un'altra cosa). Sì, c'è un nesso, c'è un nesso fra tutte queste
cose. Mia figlia mi ha regalato un calendario e un cesto di roba mangereccia, mio figlio una sciarpa bella
calda. Le tre donne mi hanno regalato un diario (già scritto, e mai letto da nessun altro: il regalo più
intimo), un quadernetto molto bello e un modellino di tram. E io sono contento di tutto ciò. Sono contento
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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di avere dei figli, sono contento che qualche donna mi voglia bene, non c'è una cosa più importante di
un'altra, ci sono amori quando ci sono. Nessun amore è scontato: anche i figli non necessariamente
amano il padre. I miei sì. Sono un uomo fortunato. E anche se tutto scivola via nel vortice del tempo, sono
un uomo fortunato lo stesso, perché di fermare il vortice del tempo quello no, non potevo pretenderlo. Ed è
quasi mezzanotte e voglio mandare a tutti voi, a chiunque legga, il messaggio proprio a mezzanotte,
perché ce ne saranno pochi, dato che credo che quasi tutti, per fortuna, abbiano altro da fare, alla
mezzanotte di Natale, piuttosto che mandare messaggi sul blog. Ma quest'anno va così e sono contento,
sono contento anche di voi che leggete il blog, sono contento di tutte le persone che si dedicano un poco
di attenzione e di benevolenza. Allora... Tre, due, uno... Buon Natale!
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LA MEZZANOTTE SANTA
(melologo popolare)
- Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell'osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.
Il campanile scocca
lentamente le sei.
- Avete un po' di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po' di posto per me e per Giuseppe?
- Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe.
Il campanile scocca
lentamente le sette.
- Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
- Tutto l'albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell'osteria più sotto.
Il campanile scocca
lentamente le otto.
- O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
- S'attende la cometa. Tutto l'albergo ho pieno
d'astronomi e di dotti, qui giunti d'ogni dove.
Il campanile scocca
lentamente le nove.
- Ostessa dei Tre Merli, pietà d'una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
- Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...
Il campanile scocca
lentamente le dieci.
- Oste di Cesarea... - Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L'albergo è tutto pieno di cavalieri e dame:
non amo la miscela dell'alta e bassa gente.
Il campanile scocca
le undici lentamente.
La neve! - ecco una stalla! - Avrà posto per due?
- Che freddo! - Siamo a sosta - Ma quanta neve, quanta!
Un po' ci scalderanno quell'asino e quel bue...
Maria già trascolora, divinamente affranta...
Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.
È nato!
Alleluja! Alleluja!
È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d'un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!
Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill'anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Per quattro mill'anni s'attese
quest'ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!
Risplende d'un astro divino
La notte che già fu sì buia.
È nato il Sovrano Bambino.
È nato!
Alleluja! Alleluja!
(Guido Gozzano)
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Il mare, tornare, la lotteria, i cessi, il cliché
sabato 29 dicembre 2007, 20.46.04 | molinaro
Il mare e poi tornare. Stamattina sono tornato dal mare. Tre giorni al mare, bel tempo, bei
tramonti sul mare. Il pensiero del tramonto. Quel sole rosso che si immerge pian piano ma
veloce, ne resta metà, poi un pezzo, poi una briciola, la briciola si spegne e un altro giorno è
andato via. E la collana dei giorni non è infinita e quanto tempo si spreca in cazzate. Ma
bando alle malinconie. All’autogrill la ragazza mi chiede: vuoi un biglietto della lotteria?
Lo deve chiedere a tutti, lo so, le hanno precettate così, e se non lo fanno rischiano. Sono
costrette a essere petulanti e importune, direi quasi costrette a essere stupide, a proporre una cosa stupida. Sono
costrette a inghiottire migliaia di no, di no grazie se va bene, spesso con sguardi un po’ stupiti tipo «ma che cazzo
vuoi? che lotteria? che me frega?». A me sembra una grave violenza. Costringere, con il ricatto del lavoro
dipendente, una persona a dire una cazzata, a fare la figura di qualcosa che lei non è, a me sembra una grave violenza.
Poi lo so cosa direte, che io guardo le ragazze degli autogrill e intanto hanno ucciso Benazir Bhutto e dilaga ben altra
violenza nel mondo. Ben altra, sì, non lo nego. Ma si comincia anche da qui. Costringere la ragazza dell’autogrill a
proporre una stronzata, costringerla nell’imbarazzo (su quattro – quella di stamattina è la quarta – una non ce l’ha
fatta a non scusarsi, mi ha sussurrato: sai noi dobbiamo proporlo...), costringerla a non essere sé stessa. È l’inizio di
un percorso (lungo, per carità!) che arriva fino al kamikaze, convinto dal potere a non essere più persona ma ordigno
di morte.
Il potere. Nello stesso autogrill ci sono i cessi, abbastanza decenti. Dentro c’è un cartello grosso che dice: questi cessi
sono offerti gratis dalla gentilezza della Tamoil, abbiàteli cari e non cagate dappertutto. Non sono le parole esatte
ma il senso è quello. Pisciare non è un diritto ma una concessione della gentilezza di una schifosa multinazionale del
petrolio, quelle che distruggono il pianeta. Tutto è subordinato al profitto, anche la pipì. Infatti nelle stazioni
ferroviarie, dove non c’è la Tamoil a sponsorizzare perché lì non si vende benzina, i cessi o non ci sono o sono pieni
di merda o sono a pagamento. E chiudono alle dieci di sera perché quei loschi che girano le stazioni di notte devono
pisciarsi addosso, così imparano. Viva viva la Tamoil che ci permette di fare pipì. Gratis.
Autogrill autogrill autogrill. Mi torna in mente quella canzone di Guccini che ho già analizzato e dissezionato una
volta, credo. Adesso penso a dove dice: per non gettarle in faccia qualche inutile cliché / picchiettavo un indù in latta
di una scatola di té...Qui non è che ci siano problemi particolari, solo è che a volte le canzoni proprio non capisco
cosa vogliono dire, ma non nel profondo, lì è normale, proprio anche solo in superficie, a volte non capisco, c’è una
frase così, che scivola via, non ci pensi, ma quando ci pensi non capisci. Ossia: in che modo picchiettare un indù in
latta è un antidoto al gettarle in faccia qualche inutile cliché? Cosa c’entra? Ho pensato che il picchiettamento volesse
indicare un fare indifferente, ma non è che un fare indifferente sia antidoto al cliché. Chi lo sa. Qualcuno sa perché
picchiettando un indù in latta si evita di gettare in faccia un cliché? Non è una critica a Guccini in particolare, non è
poi neppure una critica, a nessuno, è solo la constatazione che in giro è pieno dappertutto di frasi che passano così,
scivolano tranquille, lisce, musicali, vanno bene, ma poi se inavvertitamente ci pensi, non sai proprio che cazzo
vogliano dire. Forse io sono strano perché nelle mie poesie non voglio mai mettere frasi così. Io voglio che si capisca.
Poi se non si capisce va bene lo stesso, fa parte del gioco, ma io scrivo con l'intenzione di farmi capire. Parola per
parola. Fin troppo. Probabilmente sbaglio, il mistero affascina e io non faccio mai il misterioso. Che pirla.
Buonasera!
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[nella non eccelsa immagine, il titolare del blog, notoriamente nonno, sulla Mole Antonelliana con in braccio i due
nipotini, figli di sua figlia]
La bella estate
domenica 30 dicembre 2007, 1.53.15 | molinaro
La bella estate è il titolo di un non allegrissimo libro di Cesare Pavese. Ma qui c’entra poco.
La bella estate è la mia. Con quattro storie d’amore. Nell’estate e un po’ in tutto l’anno.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 246 di 404
Questo 2007 che finisce. Che ha avuto tutte le sue altre cose: il lavoro (da schifo: tanta
fatica e guadagni ridicoli), la famiglia (mi è nato il secondo nipotino), la letteratura (ho scritto tanto e ho fatto qualche
bella lettura di poesie e altre cose), l’amicizia (approfondita con almeno due persone).
Ma se a tutt’oggi non perdo il pelo, figuriamoci il vizio, e se penso al 2007 penso a quattro storie d’amore.
Simultanee, s’intende. E profondamente vere, più vere di prima (sarò un po’ maturato!).
Ora chiariamo subito una cosa. La definizione “quattro storie d’amore” è assolutamente, fortemente e
consapevolmente egocentrica. Per me lo sono, profondamente, e quindi ho il diritto di chiamarle così, sottolineando,
per correttezza, il per me.
Due di queste storie vengono chiamate storie d’amore anche dalle due donne protagoniste: storie d’amore ricambiato.
Dove quindi accadono quelle cose che accadono in questi casi: i baci e fare l’amore e tutto. Sembrerebbero le due
storie più normali. In realtà di normale hanno pochissimo, per fortuna. O così pare.
La terza è una storia dove secondo me è accaduto molto, anche intimamente, ma ho idea che secondo lei no: è la
dimostrazione che parole, gesti, carezze, abbracci, vicinanze, effusioni, tenerezze e commozioni possono essere
vissute in modo diverso: l’atto è il medesimo, ma uno lo vede come storia d’amore, l’altra come amicizia, magari
affettuosa ma semplice amicizia. O così pare.
Nella quarta di fisico non è accaduto nulla: c’è stato un crescendo di confidenza di altro tipo. Emozioni forti che mi
hanno fatto scrivere molte poesie. Ma anche questa lei non la chiamerebbe mai storia d’amore, forse non la
chiamerebbe in nessun modo, forse ama un altro e forse no, con me ha qualcosa ma l’amore no. O così pare.
Io di mio mi permetto di chiamarle tutte e quattro storie d’amore perché loro sono quattro donne meravigliose e io le
amo e dentro me c’è una storia in cui loro camminano. Penso di non far male a nessuno chiamandole così. Beh,
dicevamo che due sono d’accordo anche loro. Ma pure alle altre due non faccio di certo male. Succede, nella vita, di
essere protagonisti di una storia senza neanche saperlo.
Che un amore sia ricambiato è molto importante e dà molta felicità. Quindi le due storie ricambiate hanno una realtà
di gioia in più rispetto alle due non ricambiate. Eppure, non so che farci, se guardo il 2007 ci vedo quattro storie
d’amore.
Chi scorresse questo blog dall’inizio (già più di 200 messaggi, sono un vero grafomane) troverebbe facilmente le
poesie per tutte e quattro. Non equamente ripartite, no, la poesia non ha giustizia distributiva, viene quando e come
viene. Mica solo nell’amore per una donna, anche in tutto il resto. Quando nacque mia figlia Lucia scrissi poesie,
quando nacque mio figlio Francesco no. Momenti diversi. Francesco non mi vuol male per questo, capisce benissimo.
Non ho mai scritto una poesia per mia madre, e mia madre lo trova perfettamente normale. Eh insomma, non è mica
come regalare fiori o cioccolatini, la poesia viene quando e come viene.
Cantare, ho cantato per tutte e quattro le “mie” ragazze di quest’anno. Non metaforicamente. Tutte e quattro mi
hanno dato momenti di entusiasmo in cui ho cantato e ho anche ballato, magari da solo in un angolo. I salti di gioia li
faccio davvero – cerco di non farmi vedere, ma mi viene: saltello, non riesco a star fermo quando sono contento.
E con loro e per loro ho limonato nelle calli, corso su e giù per i ponti, scritto sulle panchine, rivoltolato nei prati,
macinato chilometri in treno e in auto, letto poesie nudi, sdraiati nei fiori, girati i sabati notte sentendo il liscio nella
Panda, abbracciati nelle lenzuola, pomiciato in piazza grande, guardati i campanili, tuffato nel torrente, mangiata la
porchetta cruda, trovati spazi, lette confidenze, corso da un lago a un mare, sfidato il tempo, i nemici, le avversità e
persino il ridicolo. E sono stato in ansia, in speranza, in trepidazione, in attesa, e dopo un abbraccio mi sono sentito
volare, e dopo una parola cattiva mi sono sentito morire, e se questo vuol dire non avere libertà di cuore, allora non
ce l’ho, e va bene così. Abbasso la libertà.
Quello che so è che se si potesse, per assurdo, mettere l’orologio indietro di un anno, mi ci ricaccerei, in queste storie,
in tutte e quattro. Poi sono un ottimista malinconico, godo delle storie ricambiate e spero sempre che quelle non
ricambiate lo diventino. Quando stasera a cena ho raccontato a mio figlio che cosa spererei per la notte di
Capodanno, lui ha sorriso e mi ha detto: «Papà, io sono due o tre anni che ho smesso di sperare cose così assurde; ma
se tu le speri ancora fai bene». Mio figlio ha vent’anni giusti. A Capodanno loro, mio figlio e amici, vanno al mare in
dodici, assortiti benissimo, sei ragazzi e sei ragazze, e non prestabiliti in coppia. Quelle belle feste dove può
succedere di tutto, e glielo auguro di cuore.
Io mi sa che dovrò contentarmi di brindare col mio solito succo di frutta guardando amori d’altri, non ci sarà nessuna
delle quattro né una possibile quinta, ma se c’è un po’ di allegria, sarà buon anno, come dice il venditore
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 247 di 404
d’almanacchi. Salvo imprevisti festeggerò a Genova, e lì c’è sempre il mare, quel mare luccicante che è insieme
vicinanza e distanza, avventura e nostalgia, viaggio e ritorno, saluto e attesa, e onde, onde, onde su onde: è il mare.
Che ha dentro un po’ tutti gli amori.
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[nell'immagine, la brina stamattina in Lomellina]
Luana
lunedì 31 dicembre 2007, 9.35.52 | molinaro
Eccoci al 31 dicembre. Avevo pensato di concludere l’anno con un
messaggio augurale tipo presidente della Repubblica, o papa, ma poi non
mi è sembrato il caso. Tanto, gli anni passano, e quello che mi auguro e
vi auguro per il 2008 è abbastanza ovvio: le migliori cose per tutti. E
allora, anche per uscire dal clima zuccheroso delle festività, l'anno lo
concludo con una recensione particolarmente intellettuale. Recensisco il
terzo e ultimo albo che raccoglie le avventure di Luana, apparse mensilmente sul
Vernacoliere per anni, e ora terminate. Come recita la quarta di copertina: «Il rampollo di
una famiglia potentissima e l’umile tata che lo accudisce. Il cacciatore e la preda. Il mistero
insondabile e l’avida ricerca. Il genio diabolico e l’incrollabile candore. Erotismo e violenza,
vincitori e vinti, conflitti di classe, Ricchi e Poveri, New Trolls e chi più ne ha più ne metta».
Una pagina a caso del libro la potete vedere qui (spero non sia reato riprodurre un’intera
pagina, anzi casomai gli faccio pubblicità, e poi il Vernacoliere dovrebbe stare coerentemente
dalla parte della libertà di riproduzione).
La lunga saga ha per protagonisti Maicol, una specie di bambino, in realtà un orrendo
nanerottolo obeso e butterato, figlio di una ricca, potente e loschissima famiglia, e Luana, la
bambinaia a cui viene perennemente affidato, una simpatica e procace fanciulla. Lo scopo
della vita di Maicol è vedere che cosa c’è sotto le mutandine di Luana. Maicol è un afficato
(come una volta l’amico Aurelito ha definito me nel suo blog ora scomparso), ma non
conosce l’oggetto del suo desiderio, non sa neppure come è fatto. A questa infantile
ignoranza è però associata una formidabile violenza, con tutto il cinismo del potente e il
disprezzo verso il debole e verso la donna: Maicol vuol vedere la fica di Luana, ma non
considera mai la ragazza come persona, e anzi la odia e la considera un essere insignificante
e spregevole. Il nocciolo della storia inventata da Daniele Caluri sta, secondo me, proprio in
questa mistura di cattiveria ingenua del bambino e cattiveria del potere adulto (un potere
che potrebbe anche uccidere Luana con la massima noncuranza).
Probabilmente molta della violenza del mondo nasce da questo: potenti adulti (ma
emotivamente infanti, analfabeti dei sentimenti) che cercano, con odio, un piacere semplice
a loro eternamente vietato. Incapaci d’amore, fanno la guerra per compensazione. Questo
vale per Bush e Bin Laden e per i dirigenti delle multinazionali, per i funzionari dello
sfruttamento e per gli amministratori delegati, ma vale anche per il bulletto di periferia e per
l’impiegato livoroso. A tutti i livelli, insomma, è un cattivo rapporto con sé stessi e con i
propri desideri (qui bene rappresentati dalla fica di Luana) a generare violenza e distruzione.
Sull’altro versante c’è Luana, e non sono d’accordo con la prefazione di Michele Medda dove
dice: «Luana è una preda che non attira le nostre simpatie. Volendo proprio essere
indulgenti, Luana è completamente decerebrata. Non sfugge alla libidine di Maicol per
astuzia, ma solo grazie alla fortuna». Io trovo invece che Luana sia una ragazza normale,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 248 di 404
certo non un’intellettuale (ma perché dovrebbe esserlo? non si infiltra già, appunto, una
supponenza di un potere, nella tua prefazione, Michele Medda?) né una filosofa, ma una
persona dotata di una sua vita indipendente che traspare fra le righe: quando non fa la
bambinaia al mostriciattolo, lavora alla sbarra in un locale (lo rivela a pag. 9, seconda
striscia, per chi avesse il libro), ha le sue amiche, i suoi ragazzi, i suoi giochi. Non mi pare
decerebrata ma piuttosto deprivata da una vita povera, deserta (il lato opposto del deserto
di Maicol): l’impressione è che, messa fra persone intelligenti e sensibili, rivelerebbe di sé
assai meglio; ma queste persone intorno a lei non ci sono. Quindi attira le nostre, o almeno
le mie, simpatie. Simpatie che al limite, sia pure con più difficoltà, potrebbe attirare anche
Maicol, se visto nel suo aspetto di bambino mostrificato da un destino al quale probabilmente
non avrebbe mai potuto sottrarsi. Insomma, lei e lui nelle grinfie del fato, come in una
tragedia greca, a rappresentare le due facce di una società malata.
In sostanza, ci troviamo di fronte a un fumetto di satira sociale e psicologica di un certo
livello, e perciò vi consiglio la lettura di questo albo, e anche dei due volumi precedenti. E
buon anno a tutti.
Daniele Caluri, Luana la bebisìtter – Gran finale, collana “I grandi autori de il Vernacoliere”,
prefazione di Michele Medda, supplemento al mensile il Vernacoliere n. 904 dell’ottobre
2007, Città di Castello 2007, pp. 64, euro 10,00. L’autore ha un sito e un blog. Il libro è in
vendita presso il Vernacoliere.
La sera del primo di gennaio
martedì 1 gennaio 2008, 20.57.42 | molinaro
Ecco, è già la sera del primo di gennaio. La sera del primo di gennaio mi
sembra sempre una sera buia. Sarà il contrasto con i fuochi e le
luminarie della notte precedente. Però, di fatto, le finestre delle
mansardine qui di fronte sono davvero tutte spente. Succede di rado.
Saranno tutti via. Io sono rientrato a Torino poche ore fa dopo la festa
della notte di Capodanno a casa di un’amica dalle parti di Campomorone,
dietro Genova. Eravamo in sette, cinque maschietti e due femminucce. Cibo, cazzeggio,
chitarre, fisarmonica, vino (gli altri: si sa che io sono astemio), discorsi, giochi. L’amica è
una buona padrona di casa, ha fatto un’ottima pasta e prima che si andasse a letto, nel
cuore della notte, ha lavato tutti i piatti e le pentole e il lavandino eccetera.
Poi mi sono svegliato verso le otto e ho fatto una foto al cielo [vedi immagine] – gli altri
hanno ronfato fino alle due del pomeriggio. Succede sempre così a Capodanno, io mi sveglio
presto lo stesso e mi alzo e sto lì da solo. Ho girato intorno alla casa. Ho scritto una lettera a
un'altra amica, la prima lettera di carta dell'anno, che ha la sua importanza. E poi sono
andato giù a Genova a vedere il mare da vicino. E poi sono tornato a Torino. E adesso è già
la sera del primo gennaio. E domani è un giorno feriale e tutto riprende o continua. E allora
ancora, ad anno avviato, auguri.
E per Capodanno facciamo trentamila
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 249 di 404
martedì 1 gennaio 2008, 21.31.38 | molinaro
Non che la cosa abbia poi importanza, ma è una coincidenza: per Capodanno il
blog tocca le trentamila visite. E allora auguri anche al... blog. Per così dire. Ma io,
e scusate se sono noioso, spero sempre in visite non solo virtuali: spero che anche
attraverso questo mezzo elettronico nascano vicinanze reali.
Superlavoro, poca neve, io stupido, qualche censura
giovedì 3 gennaio 2008, 8.44.51 | molinaro
Primo vero giorno di lavoro del 2008. Strafogante: ho quattro lavori tutti urgentissimi, tutti
da consegnare al più presto. E tutti che richiedono concentrazione e applicazione, non cose
facili. In più la ventola del computer non funziona bene e devo farla cambiare, spero me lo
facciano molto, molto alla svelta. È scesa un po’ di neve a imbiancare i tetti, poca roba,
quella neve urbana che diventa poi subito fango, ma almeno un po’ di chiaro sui tetti lo
mette. Il pensiero con cui mi sono svegliato stamattina, fastidiosamente, è una poesia
d’amore dedicata a un altro che ho letto ieri sera, e mi do dello stupido, perché dovrei pensare alle poesie d’amore
dedicate a me (che ci sono e sono più belle), ai baci che mi vengono dati e non a quelli che mi vengono negati. Infatti
mi do dello stupido, e lo faccio così, senza attenuanti: Carlo, sei uno stupido. E allora pensiamo al lavoro, appunto,
basta con tutte queste divagazioni. In questi giorni mi dovrò dedicare di meno anche al blog. Troppo lavoro davvero.
Nota a margine: i «grandi fratelli» che sorvegliano Digiland hanno «cancellato» una ragazza che ogni tanto faceva (e
spero farà ancora, in anonimo o con altri nick) commenti qui. Si tratta di kiara_tv – presumo una Chiara di Treviso. Il
suo blog http://blog.libero.it/chiarochiara è ancora visibile, in questo momento, ma, dato che lei è stata cancellata e
non può più scriverci dentro né modificarlo, si estinguerà – o forse lo elimineranno al volo: se non lo trovate più non
stupitevi. Questa società ha una morale schizofrenica. E mentre c’è al mondo un sacco di lavoro urgente e utile da
fare, c’è pure chi è pagato per cancellare i profili delle «ragazzine che te la danno», per dirlo con i versi di una
vecchia bella canzone milanese, Porta Romana. Non me la prendo con chi lavora a Digiland (trimestrali precari?
pagati da schifo? ormai è così dappertutto! coraggio!), perché probabilmente applica regole imposte dall’alto. Ma mi
preoccupa chi impone queste regole. Questo «alto» bigotto. Questa censura. Ma adesso basta, adesso torno al lavoro,
per citare un’altra canzone – del grande De Andrè. Buona giornata e ancora buon anno!
[nell’immagine: io al mare esattamente dieci anni fa, nel 1998]
Il tranquillo serpente della normalità
giovedì 3 gennaio 2008, 16.40.50 | molinaro
Lavorare. Vado avanti a lavorare ma ho i brividi, un freddo nelle ossa, forse un attacco
d’influenza o forse qualcosa d’anima o le due cose insieme. Ho un po’ di febbre, le mani
gelide, vado avanti a lavorare qui da solo. Ma in qualche minuto fra una cosa e l’altra scrivo
una poesia tremolante, che ha cominciato a formarsi ieri su un treno leggendo un racconto
di un’amica (dal quale è tratta la frase in epigrafe) e poi si è completata adagio oggi, finché
in un attimo si è fatta scrivere, come può anche succedere, a volte succede così. Però a
gennaio non mi vengono grandi poesie, c'è troppo inverno e amo la primavera.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 250 di 404
IL SERPENTE
Ho paura e ho paura d’averne perché nel nostro caso, amore, aver paura
vuol dire ripensarci, ritornare alla normalità anche quando non ci
appartiene.
Chiara Borghi
Sembra che il mostro venga da lontano,
quello che ci si para sul confine
impedendoci il viaggio o sprofondandoci
nel naufragare. Accusiamo gli avversi
numi o destini o il fato stesso, Dio
o chi per lui, o i nemici mortali
che ci fanno la guerra. Soccombiamo
al tempo ed al dolore. Il mostro sale
sì dagli abissi – ma non dagli abissi
del mare: è dentro l’anima l’abisso
dove s’annida e cresce inesorabile
il mostro, come un angelo custode
non invitato né gradito, un freddo
complice che da sempre ci conosce.
È cattivo, ma non ci lascia mai.
È brutto, ma è la nostra compagnia.
Perciò non lo scacciamo eppure forse
potremmo: il nostro tempo limitato
usarlo per cercare una migliore
prossimità, una storia differente.
Ma c’è il rischio di rimanere persi
con la disperazione che trabocca
e più nessun consorzio in cui cercare
d’incrociare uno sguardo. Noi cediamo
al compromesso, adattiamo la rotta
a esigenze non nostre, addirittura
preferiamo annegare che rischiare
d’essere soli in un deserto vuoto.
Sembra che il mostro venga da lontano:
non è così: ci tiene per la mano
ammiccando: lo sai che tanto è inutile,
rasségnati, rimani qui con me:
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 251 di 404
il mio fiato non t’abbandonerà.
A volte ci scostiamo qualche passo,
tentiamo una sortita ma ci prende
il terrore: che forse abbia ragione
il mostro, che non c’è viaggio diverso
dal suo: non sfuggiremo alle sirene
della ridicola normalità.
[nell’immagine, l’ingresso dell’Humpty Dumpty a Genova la mattina di Capodanno: ci ho fatto una bella lettura
di poesie una volta]
Una mia lettera dentro un libro stampato da un'amica
giovedì 3 gennaio 2008, 22.07.44 | molinaro
Il libro di Grazia è proprio uscito, adesso. Ne ho una copia fra le mani. Ve ne
parlavo qui. E ve lo consiglio. È proprio un bel libro. Una storia d'amore potente. E
ora ve ne propongo due pagine, scelte non proprio a caso. Sono due pagine in cui
lei cita, uguale uguale, una lettera che le scrissi nel 1994. È curioso ritrovare una
propria lettera in un libro, tanti anni dopo. A qualcuno potrebbe dare fastidio (la
solita privacy). A me no, affatto. È una lettera da cui si capisce che certe cose che
penso adesso le pensavo già allora, con qualche minima variazione poi maturata. [Forse crea un po' di
imbarazzo l'invio pilifero finale, ma tutto sommato ci stava, c'era la confidenza per cui ci stava. E
comunque ero più... giovane, adesso mi sa che quell'allegato non ce lo metterei più, nella busta, però non
lo rinnego per quel tempo. Cambiare non implica rinnegare.] Si sono fatte varie cose nei vari periodi della
vita. Il mio matrimonio era agli sgoccioli, mi ero preso una casella postale per ricevere più tranquillamente
le lettere delle «amiche», ma lo avevo fatto dopo che i buoi erano scappati, cioè dopo che per mesi a casa
mia erano arrivate lettere con cuoricini, baci stampati con il rossetto, disegnini e scritte romantiche, da
cinque o sei mittenti. Non ero affatto bravo a nascondermi. Non sono bravo neppure adesso. Ma poi,
soprattutto, forse volevo che il matrimonio finisse, e infatti di lì a poco finì. La storia di amicizia con Grazia
invece continua ancora, in mille modi diversi. E brava Grazia!
Quattro giorni del 2008
venerdì 4 gennaio 2008, 19.19.01 | molinaro
Viene la sera del quattro gennaio e dopo una giornata d’intenso lavoro
ho scritto questa specie di cosa (una nompoesia forse) per ricapitolare i
primi quattro giorni dell’anno. Caratterizzati da una bella dose di freddo,
da un certo carico di lavoro, ma anche da una buona porzione d’amore,
che è la cosa più importante.
QUATTRO GIORNI
Dopo la festa della notte di Capodanno
nella casa sulle alture di Campomorone
dov’è riscaldata a malapena la cucina
vado a dormire con indosso tre magliette
la camicia pesante e tre maglioni
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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sotto tre coperte e con la cuffia in testa
ma mi entra lo stesso il freddo dappertutto
così non è che dormo proprio
sto lì tre ore rannicchiato in posizione fetale
come quelli che annegano nei mari freddi
poi mi alzo e scendo giù in cucina
tanto evidentemente è già mattina
ma nel frattempo non è più caldo neppure lì
così sui tre maglioni mi metto il giaccone
e mi faccio un caffè e poi mi siedo al tavolo
a scrivere una lettera a un’amica
che oggi se le poste funzionano
l’avrà pure ricevuta e poi esco in cortile
che tanto il freddo è lo stesso dentro o fuori
non so che farci sono freddoloso
sono sempre stato freddoloso
preferisco l’estate e i posti dove fa caldo
poi a una cert’ora si alza il più mattiniero
degli altri – quello che suona la fisarmonica –
e allora parliamo un po’ e gli dico che io vado
e di salutarmi lui tutti gli altri
che mi sa che dormiranno fino al pomeriggio
io invece devo andare e prendo la Panda
e vado e scendo prima fino al mare
al porto di Genova dove imbuco la lettera
e poi prendo l’autostrada per Torino
e arrivo a casa e mi riposo e mi riscaldo
ci vogliono ore per togliermi il freddo di dosso
e faccio un po’ di lavoro poi vado a dormire
che la mattina dopo riparto con il treno
e faccio un trecento e passa chilometri
fino a una stazione dove mi aspetta un’amica
(non quella a cui ho scritto la lettera)
mi viene a prendere con la sua auto
prima mangiamo in un buon ristorante
poi andiamo fuori città a cercare un posto tranquillo
c’infrattiamo in una boscaglia non proprio una foresta
e facciamo le nostre effusioni dentro l’auto
perché non è che possiamo permetterci un albergo
e poi non sapremmo neanche dove cercarlo
da quelle parti e poi comunque l’amore in macchina
qualche volta ci sta pure bene
e dopo andiamo in un bar e lei prende un cappuccino
e io un frappè e lei è molto bella in quel momento
che si fa notte e riprendo il treno per Torino
e arrivo a Porta Susa e vado a casa
accendo il computer e scopro che l’amica
(quella della lettera) ha messo sul suo blog una poesia
scritta giusto mentre io le scrivevo la lettera
però non è una poesia per me
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 253 di 404
e pazienza non sempre tutto quadra
il mattino dopo mi sveglio con la febbre
che credo sia per tutto quel freddo che ho preso
ma mi metto lo stesso a lavorare
perché c’è un casino da lavorare
c’è un’autrice in ansia per l’editing del suo libro
c’è una cronologia universale
c’è la rassegna stampa sull’immigrazione
c’è un romanzo da accorciare
mi prende quasi una disperazione
esco a comprarmi le arance e l’aspirina
e trovo nella posta una lettera in una busta rossa
di un’amica (non quella a cui ho scritto
la mattina di Capodanno né quella
delle effusioni in auto ma un’altra diversa)
ed è una vera lettera d’amore
proprio una lettera d’amore di quelle
che se ne ricevono poche nella vita
perché non è poi così facile che una lettera
sia davvero d’amore così come non è facile
fare canzoni d’amore per esempio Guccini
ne ha fatte solo due secondo me
Vorrei e La canzone delle colombe e del fiore
non ne ha fatte altre che siano propriamente
d’amore quindi vedete che non è facile
e neanche le lettere è facile
quindi sono già molto meno disperato
dopo quella lettera e lavoro ancora
fino a tardi e poi telefono a un’amica
(non quella a cui ho scritto la mattina
di Capodanno né quella delle effusioni
in auto né quella della lettera in busta rossa
ma un’altra diversa) che è in vena di parlare
e così mi metto tranquillo
lei mi consiglia di farmi una tisana calda
e allora mi faccio una tisana calda
e non dite che potevo arrivarci da solo
perché la tisana calda suggerita da un’amica
è molto più benefica di quella che ci arrivi da solo
e poi mi arriva un sms di un’amica
(lo so che vi aspettavate una quinta amica
e invece no in questo caso è la stessa
delle effusioni in auto) che mi consiglia
di spalmarmi sui piedi la crema di timo
che mi ha regalato lei stessa mesi prima
e me la spalmo (vale lo stesso discorso
della tisana) e insomma alla fine
mi metto a letto e mi addormento bene
e questo accade ieri sera e stamattina
sono ancora un po’ intronato ma poi va già meglio
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 254 di 404
oggi sto tutto il giorno in casa a lavorare
tranne una breve uscita per una commissione
poi smetto di lavorare per scrivere
questa cosa che sto scrivendo e sono le sei
e magari esco ancora un attimo che così
vedo anche se c’è posta nella buca
benché per la forte riduzione dell’uso
di carta e penna sia quasi impensabile
ricevere due lettere in due giorni di fila
una volta sì me ne arrivavano tante
ma adesso non stiamo a rimpiangere tipo
una volta qui era tutta campagna
in fondo pure adesso qui è tutta campagna
in un certo senso e non va così male
e questo è il diario in versi molto liberi
dei miei primi quattro giorni del 2008
casomai qualcuno non l’avesse capito.
Un 2007 di libri d'amiche e amici
venerdì 4 gennaio 2008, 22.33.27 | molinaro
Stavo pensando che il 2007 è stato proprio un anno di libri di amiche e amici. Ci sono le
quattro amiche di cui già vi ho molto parlato in questo blog, con i loro quattro libri
diversamente belli (Chiara Borghi, Grazia Buono, Alice Suella, Clara Vajthò) a cui sono
stato più o meno «vicino» con qualche consiglio, correzione, prefazione, postfazione,
editing e cose così. Ma poi ci sono stati altri amici che hanno pubblicato, come Tiziano
Fratus con Bacio le tue cicatrici, Luigi Bolognini con La squadra spezzata o Francesca Tini
Brunozzi con Frau. E altri che certo dimentico perché non mi ricordo mai tutte le cose insieme! E poi c’è Guido
Catalano che va avanti a far libri (è uscito adesso Motosega) e altri supporti multimediali, come il dvd The cuccurella
show, che segue il cd Sbronzi all’alba senza sigarette, da cui «cito» questo ironico brano. Chiara l’ho presentata a
Torino e, in collaborazione con altri, a Savona; Clara a Torino; spero di organizzare presentazioni anche per Grazia e
Alice. Questa attività accanto a libri altrui è un po’ una novità per me, e la trovo una cosa bella, un interscambio
fertile, un’occasione in più di vicinanza. Sì: se il 2006 era stato l’anno dell’uscita del mio librone di poesie La parola
rinvenuta, il 2007 è stato l’anno dei libri delle amiche. E il 2008? Speriamo che il 2008 porti di tutto un po’: poesia e
attività socio-poetico-letterarie – e naturalmente vita e amore, perché la poesia senza l’amore è un guscio vuoto.
P.S. Giulia V., ragazza della casa azzurra, che hai poi rinunciato a pubblicare le tue poesie, sappi che secondo me
valgono la pubblicazione. E se da un lato sono fiero di averle qui in casa mia in copia unica, scritte da te a penna sul
quaderno per me, dall'altro penso che sarebbe bello offrirle al mondo, o a quei pochi lettori capaci di apprezzarle. E
una almeno la voglio trascrivere qui sotto.
REGALO
Tu che hai paura
dell'età tua che avanza
accogli il mio giovane amore:
non è ancora tempo d'invecchiare.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 255 di 404
Dissétati,
ubriàcati della mia vita
finché abbonda
e mi piace regalarla.
E prenditi tutto,
non lasciarmi neanche un briciolo d'anima.
Giulia V.
Trovate la poetessa
sabato 5 gennaio 2008, 10.05.49 | molinaro
La mia affermazione, contenuta nella risposta a un commento al messaggio precedente, che
«un po’ di anni fa pensavo che la poesia non appartenesse alla donna», ha provocato la
reazione di un’amica, che si è stupita che io pensassi «una cosa così stupida». Le ho risposto
dicendole che il mio non era un preconcetto astratto, ma un rilevamento empirico, «sul
campo». A trent’anni, non avevo mai letto una poesia, scritta da una donna, che mi fosse
piaciuta. E quando una cosa non l’hai mai trovata, puoi anche essere indotto a pensare che
non esista.
Naturalmente, ci sono tutte le ragioni storiche. Fino a un passato abbastanza recente, alle donne era espressamente
vietato, o sostanzialmente impedito, l’accesso all’arte. Nella fioritura poetica del Due-Trecento, e più avanti nel
Rinascimento, e poi ancora nell’Ottocento, non ci sono poetesse, ma non ci sono neppure prosatrici, pittrici, scultrici,
architette e tantomeno musiciste (le musiciste e cantanti, dall’antichità grecoromana senza soluzione di continuità
fino all’Ottocento – Giuditta Pasta, María Malibrán o giù di lì – erano considerate essenzialmente soltanto puttane).
Mi stupivo tuttavia di non trovare almeno qualche eccezione. L’arte a volte nasce nelle condizioni più disagiate, nelle
situazioni più impossibili. Ma poetesse non ne trovavo. Sì, c’è Saffo, nell’antichità, ma è una figura quasi mitologica,
e perdipiù... saffica, forse non a caso.
Potevo trovare qualche figura simpatica, come nel Cinquecento le veneziane Gaspara Stampa e Veronica Franco, ma
nulla che mi emozionasse veramente. D’altronde davvero fino a pochi anni fa l’unica strada che aveva una donna per
avvicinarsi all’arte era «dichiararsi puttana» (Veronica Franco lo dice con ironia: «E ’l mio cantare e ’l mio scriver in
carte / s’oblia da chi mi prova in quella guisa / ch’a suoi seguaci Venere comparte»: ossia, possono piacere i miei
versi, ma trombarmi piace di più – e trombarla costava 50 scudi, mentre le poesie le offriva gratis – come sempre!).
Lo schema probabilmente era: ti dedichi all’arte ergo non ti dedichi alla famiglia ergo non sei una timorata moglie e
madre ergo sei una troia. Oppure: puoi fare dell’arte se questo serve a perfezionarti come strumento di piacere per il
maschio (alla prostituta greca di Corinto veniva insegnata la musica, alla geisha era concesso studiare diverse arti
purché utili a deliziare l’uomo a cui si accompagnava).
La condizione femminile rispetto alla poesia e all’arte in genere era quindi difficilissima, totalmente subordinata, e
questo spiega, presumo, la quasi totale mancanza di artiste per secoli, anzi forse per un paio di millenni. E ancora
quand’ero ragazzino io mi sa che chi diceva artiste pensava soltanto a quelle dell’Alcyone (cfr. messaggio n. 190).
Però, ripeto, mi stupivo di non trovare almeno qualche eccezione, neppure in tempi più recenti, e allora ero indotto a
pensare appunto «che la poesia non appartenesse alla donna». In realtà, gli strascichi di una condizione storica
millenaria non si ribaltano dall’oggi al domani, e quindi è naturale che anche il Novecento scarseggi di poetesse. In
più, alcune che venivano (e vengono) citate come grandi poetesse dell’Otto-Novecento a me non piacevano (e non
piacciono) proprio (per esempio, detesto Emily Dickinson).
Forse la prima generazione in cui le donne fanno poesia come gli uomini è all’incirca la mia, o poco prima. Ci sono
la Achmatova e la Szymborska. E certamente altre. In Italia non so: c’è forse la Merini, forse la Spaziani... Vorrei
anzi lanciare un appello-dibattito, quello che c’è nel titolo di questo messaggio: trovate la poetessa. Secondo voi, nel
Novecento e oggi, in Italia e altrove, chi sono le grandi poetesse? Quelle i cui versi vi hanno cambiato la vita (che è il
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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minimo che richiedo a un artista per definirlo grande)? Proviamo a segnalare qualche nome. Magari ce ne sono che
non ho mai conosciuto (la poesia è ancora oggi difficile da esplorare, molti autori li ho trovati per fortunati casi) e
così... mi fate anche un favore! Buona giornata!
L'uomo che per conservare disperdeva
domenica 6 gennaio 2008, 13.59.23 | molinaro
Era un uomo disordinato. Non aveva un cassetto per una cosa e un cassetto per
un’altra. A casa sua nessuna cosa aveva un posto fisso. Per esempio dopo
colazione lavava il pentolino del latte e poi pensava: adesso lo metto al suo posto –
ma immediatamente si accorgeva che in casa non esisteva il «posto del pentolino
del latte», e allora lo metteva in un posto qualsiasi. Nell’armadio tutta la roba era
accumulata, e per trovare un paio di mutande buttava all’aria maglioni, magliette,
fazzoletti (usava ancora quelli di stoffa, non gli piacevano i fazzolettini di carta), cinture, camicie, calzini,
giacche, pantaloni, federe di cuscini. Ma non era un grosso problema perché non possedeva poi tante
cose, e in un tempo ragionevole di solito le mutande emergevano.
Con i libri era la stessa cosa: se gli veniva in mente un libro, per trovarlo doveva scorrere prima tutti gli
scaffali, poi tutti i mucchi sul pavimento, poi guardare sotto il divano, e poi pensare che forse l’aveva
prestato e non glielo avevano più restituito. Ma intanto, nella ricerca, quasi sicuramente trovava un altro
libro interessante, e leggeva quello, e dunque neppure qui c’era un grosso problema.
Alle lettere d’amore (le lettere e le cose affini: foglietti, quadernetti scritti per lui, biglietti, oggettini mandati
nelle buste) era affezionato di più, e cercava di mantenerle più sotto controllo. Nell’ultimo anno aveva
cercato di mettere in un cestino quelle di C., di C. e di C. (il destino non lo aiutava a fare ordine: tre donne
con la stessa iniziale) e quelle di R. – ma poi si era accorto che sì, nel cestino ce n’erano molte, ma non
tutte. Altre erano sparse qua e là, perché lui mentre le leggeva sognava, e poi trasognato le appoggiava
dove capitava, e restavano lì. A casa sua un oggetto poteva rimanere appoggiato su un tavolo, o per terra
in un angolo, senza nessun motivo ragionevole, per giorni, mesi e anche anni. Insomma, non si può
pensare a tutto.
Gli anni passavano e lui si era convinto, non a torto, di essere un pessimo conservatore di cose. E poi
pensava che non avrebbe potuto conservare nemmeno sé stesso, perché invecchiava e poi sarebbe
morto, e allora a che scopo conservare le cose per sé? Era così giunto alla conclusione che il modo
migliore per conservare è disperdere. Non fanno così anche i pioppi con i loro semi? Si presume che i
semi siano la cosa più cara per un pioppo, eppure il pioppo lascia che il vento li porti via, li porti
lontanissimo. Non fa nulla per conservarli presso di sé.
Per vivere faceva mestieri precari, ma era anche un poeta, e quando scriveva una poesia o un racconto,
lo mandava immediatamente in giro. «In giro» gli sembrava l’unico luogo relativamente sicuro in cui
riporlo. Pensava: una cosa sparsa per il mondo ha più possibilità di durata che una cosa chiusa in un mio
cassetto. Se avesse trovato in cantina (diciamo così per assurdo) un quadro mai visto di Monet, il più bel
quadro di Monet, che l’autore aveva nascosto appena dipinto perché era troppo bello e aveva paura di
abbagliare il mondo, non l’avrebbe trattenuto in casa neanche un giorno, sarebbe corso a portarlo in un
museo, un museo fidato, luminoso e aperto al pubblico. Non era geloso. Per lui, tutte le cose belle
sarebbero dovute essere visibili a tutti, perché non è che puoi decidere tu prima chi le apprezza e chi no.
Odiava i posti chiusi, le società segrete e l’esoterismo, quelli che ci tenevano a far buio anziché far luce.
Il mondo è già tutto un mistero di suo: che ci siano uomini che fanno i misteriosi è una caricatura ridicola,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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pensava. L’esoterismo è come uno che ha la caghetta e mangia marmellata di prugne.
In realtà, lui avrebbe disperso per il mondo tutte le cose belle che possedeva, sia perché gli pareva il
modo migliore per conservarle, sia perché il mondo potesse vederle. Sapeva che in ogni caso si trattava di
una conservazione relativa: anche il quadro conservato al Louvre ed esposto a tutti, prima o poi andrà
distrutto. Per un incidente, per il logorìo, per un terremoto o, più probabilmente, per l’arrivo di un’altra
civiltà avversaria che lo considera brutto, osceno, peccaminoso. Migliaia di meravigliose opere
dell’antichità pagana furono distrutte nei primi secoli del cristianesimo, e oggi un buon islamico integrale
non esiterebbe a dar fuoco alla Primavera del Botticelli, dato che è nuda, e al Cenacolo di Leonardo, dato
che è cristiano. Gira così.
Ma, giri come giri, dispersa in mille case una poesia può durare di più che chiusa in un cassetto solo.
Perché poi la volesse far durare, non lo sapeva neppure lui. Puro istinto di conservazione, probabilmente,
lo stesso che fa sì che ogni animale cerchi di vivere finché può, fino all’ultimo soffio.
Questo principio di disperdere per conservare lo avrebbe applicato anche alle lettere d’amore, quelle belle,
alle foto delle fidanzate, anche in déshabillé, e insomma un po’ a tutto: gli veniva spontaneo. Ma quasi
sempre riusciva a trattenersi perché sapeva che gli altri non erano tanto d’accordo, c’era la riservatezza, la
discrezione, tutte quelle cose lì che a lui, che era un tipo un po’ strano, suonavano già un po’ esoteriche,
già un po’ da prugne sulla caghetta. Quindi si tratteneva, però in sostanza era fatto così: ci sono uomini
che se hanno una bella fidanzata le dicono esci coperta da un velo perché solo io devo vedere la tua
bellezza, e uomini (pochi) che invece le dicono esci nuda così il mondo è più bello e in un mondo più bello
c’è più felicità. Lui era del secondo tipo. Fermo restando che la fidanzata deve poi poter uscire come
cazzo le pare, senza ascoltare consigli dagli uomini.
Insomma però era un uomo molto disordinato, certo. Si metteva a scrivere e si dimenticava di mangiare.
Usciva per comprare il riso e non si ricordava che era domenica e così restava senza. Si metteva a fare
un lavoro e poi pensava centomila altre cose e così a mezzanotte era ancora lì che non aveva finito. Un
grandissimo casinista.
Pensandoci, era persino strano che ogni tanto qualcuna riuscisse a volergli un po’ di bene. Lui ogni tanto
rifletteva su questo e si diceva: sono un uomo disordinato ma in fondo sono un uomo fortunato.
E appoggiava il pentolino del latte sul primo angolino di casa libero orizzontale che trovava, magari su una
pila di libri, e guardava fuori dalla finestra il campanile illuminato dal sole, e si sentiva diventare vecchio
come tutti quanti, e sentiva le cose tritarsi nella betoniera del tempo, ma quello era il mondo, sempre, e
alzava le spalle e diceva, alla francese: c’est la vie. Poi scriveva un raccontino e subito lo metteva nel
blog. E per oggi niente riso, ma ci sono dei fusilli. Da qualche parte.
J'ai douté des détails, jamais du don des nues.
Non solo sull'infanzia
martedì 8 gennaio 2008, 12.13.18 | molinaro
No, non me l’hanno ancora aggiustato il computer, forse domani. Ho tirato fuori
un vecchio portatile che funziona abbastanza male, ha la tastiera inglese (quindi
le accentate bisogna farle con i codici), ha un monitor che ci vuole la lente
d’ingrandimento, ma in qualche modo riesce a connettersi. Lavorare con questo
è un po’ dura, ma spero per domani di riavere il mio. Spero! Con il servizio di
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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assistenza dei computer non si sa mai, purtroppo: il tecnico c’è, non c’è, torna
dopo... Nonostante tutte queste traversìe, ho scritto una poesia, che forse è una poesia sull’infanzia, o
forse no. Buona giornata.
IL TERRACANTIEREMOTOCARROLUCE
No, vede, in questa sera diversa, ulteriore,
lo sento, sa, come è inutile raccontare:
eppure non c’è altro da fare,
devo scrivere il tema, professoressa:
sono rimasto un momento questo pomeriggio
mezzo assopito sul letto e ho sognato di essere
nella strada su cui fuggiva il motocarro
arrugginito e a destra c’era la voragine
del cantiere e a sinistra l’asfalto, e in mezzo
un ciglio rado d’erba, qualche fiore minimo
e l’odore che lasciava il motocarro
aspro, di ferro e carburante bruciato
e l’erba, e tutto insieme
era da esplorare e respirare
(non c’era differenza fra esplorare e respirare):
anche allora la sera cominciava dalla terra
scoperta della buca che si faceva umida
e scura e rasa dalla luce scarsa
sulle scabrosità che si alzavano come pustole:
tutto era insieme, non è che fosse
umida e poi scura e poi rasa dalla luce,
era qualcosa che è questo insieme indivisibile,
professoressa, è per questo che nei temi
non uso gli aggettivi, lei mi rimprovera,
ma gli aggettivi sono talmente generici:
umida e scura e rasa ma veramente
non era nessuna di queste cose, no,
era quello che sentivo nella bocca passando,
so benissimo com’era:
tornavo a casa agitato e i miei «cosa hai fatto?»
e io «niente» e passavo per un bambino scorbutico
ma non era per cattiveria era perché
non c’erano le parole per dirlo
e non ci sono neanche adesso, signora,
e soprattutto gli aggettivi no,
gli aggettivi sono troppo fuorvianti,
terra umida lei chissà cosa pensa:
magari i campi ubertosi o l’irrigazione:
no vede quella terra era dura compatta,
come dire, l’umido ce lo metteva la sera
con lo scuro o forse, sa, ce lo mettevo io,
perché altri testimoni avrebbero riferito
diversamente, avrebbero detto
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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«guarda che bella sera d’estate c’è venuta»
oppure «che quartiere di merda con tutti i lavori di scavo»,
ma quel ciglio con poca erba e qualche minimo fiore
fra quell’asfalto sgranato, sa, quello grezzo
e la terra, aveva un odore che i fiori
erano la stessa cosa del motocarro,
petali di benzina, erba arrugginita,
ma non lo dico in senso negativo:
vede com’è difficile professoressa,
era meraviglioso che tutto stesse insieme,
le giuro era un profumo meraviglioso
quello che filava dietro il motocarro,
qualche radice che spuntava dal taglio
dello scavo del cantiere e il calore
del giorno restava, ma era freddo e la luce
c’era ma diventava scura, vede quanti aggettivi
non funzionano, anche gli altri dettagli,
rumori di ruote e di campane
e più in là l’orizzonte era tutto macchiato
di fumo dei camion, lei non ha idea
di quanto sia bello quell’arancio pallido col nero
del fumo e la terra che sosteneva il motocarro
e me, le mie scarpe, tutto aveva un odore congruente:
ma vede che mi disperdo, sarà contenta che ho usato
più aggettivi però io no, sa, a ogni respiro
mi sembrava di avere già perso il filo
come se un attimo prima ci fosse qualcosa
a cui non ero stato attento abbastanza, ma almeno
restava quella luce-odore-scuro chiaro,
vede, io sapevo perfettamente che cosa teneva uniti
l’erba e il motocarro e la fila delle case
con lo scavo del cantiere e il fumo dei camion:
guardi che respiravo benissimo, non creda,
poi dopo a casa certe volte mi prendeva la paura
di morire ma questo è già un altro discorso:
avevo sette anni e sapevo com’era
il terracantieremotocarroluce,
era un paradiso perduto mi creda,
queste erano le mie passeggiate verso sera
quando avevo sette anni le prime volte che mi lasciavano
andare in giro da solo:
strisciavo il dito su certi muri che sembravano grattugie
per farmi sanguinare, per lasciarci del mio:
perché volevo essere terracantieremotocarroluce
e invece ne venivo allontanato,
pian piano ne venivo allontanato
e sono qui, adesso, però nell’angolo del terrazzo
dico adesso 45 anni dopo in un altra città
c’è una pianta in un vaso e il muro scrostato
con la luce radente della sera fa un poco di odore
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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simile, un poco simile, sa, dicono l’infanzia,
cosa vuole mai, io la cerco in un angolo umido:
quell’odore, sa, che tutto sta insieme,
il motocarro, il cantiere, l’erba scarsa, la radice
tagliata, io non posso sapere se lei sa,
respiro uguale, guardi respiro bene,
poi a casa certe volte mi prende la paura
di morire, vede che non cambia niente
a sette anni o adesso è lo stesso
o no, non è lo stesso ma vede non c’è una parola
che prenda insieme quello che si sente,
sono solo pezzetti e non è mica detto
che messi in fila dicano la cosa,
le parole sono tutte così generiche:
io non saprò mai dirle, signora professoressa,
com’è il terracantieremotocarroluce
e come posso ritrovarlo stasera sul terrazzo:
figuriamoci se posso dirle che cos’è l’infanzia,
figuriamoci se posso dirle che cosa è adesso.
Il grigio e il nero
mercoledì 9 gennaio 2008, 1.23.59 | molinaro
C’è quest’altra poesia, pensata all’imbrunire, e poi scritta fra la
stazione e il treno, e poi trascritta qui, e poi vado a dormire.
Speriamo che domani mi aggiustino il computer, che con questo
baracchino qui è un casino. Ho impostato in software la tastiera
italiana ma i tasti hardware sono ovviamente sempre quelli della
tastiera inglese: quindi digito a memoria. Come i grandi pianisti!
IL GRIGIO E IL NERO
alla donna Camèl
Scende il grigio dal cielo al campanile
ai tetti al cornicione alla terrazza
alla finestra al tavolo alla mano
appoggiata sul tavolo. Ne vedo
fili di rughe dalle nocche al dorso.
Ma grandi macchie ancora no. Una gàrrula
checca della Valsesia - gli strizzavano
l’occhio quando passava - in una festa
di nozze disse che diventi vecchio
quando appaiono al dorso della mano
le macchie color vino marsalato.
Il padre dello sposo era annoiato.
Ma parlavo del grigio: le mie mani
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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prendono il grigio come tutto il resto
in questa sera. Il grigio è un modo soffice,
quasi indolore di finire il giorno.
Grigio, più grigio, manco te ne accorgi
ed è già notte. Quando invece insistono
quei rossi e aranci e azzurri e bianchi e rosa
che accendono gli spigoli, che sembra
ritornare la luce dietro gli angoli,
che non ti stancheresti di guardare,
fare la notte è un mestiere difficile:
come portare a casa un ragazzino
sul più bello del gioco per i prati
mentre i compagni lo chiamano ancora.
Col grigio è più tranquillo, non si nota
quasi che devi andare, che è finita.
A me però non serve: vedo il grigio
sui coppi spenti del tetto di fronte,
sulla mia mano la rete di rughe:
ma penso reti appese dietro il molo
con l’odore del pesce e della mussa
e mani fresche d’acqua, voci, strilli
e montare la spuma e all’orizzonte
colori ancóra, colori, colori:
coraggiosi colori a battagliare.
Lasciate il grigio a essiccare sui coppi:
datemi il nero senza anestesia
quando non troverò più i miei colori.
Un racconto erotico-olfattivo di vent'anni fa
giovedì 10 gennaio 2008, 10.54.40 | molinaro
Usciamo un po' dal diario quotidiano: oggi voglio mettere qui un racconto scritto
vent'anni fa, e non autobiografico. La vicenda è di pura invenzione, anche se
ispirata dalla figura reale di una ragazzina che, all'epoca, mi accendeva il sangue
solo a vederla, e la vedevo spesso dato che abitava nel portone accanto al mio. Ne
sentivo, o credevo di sentirne, l'odore a venti metri di distanza. Stavo nel quartiere
torinese di San Salvario, che non era ancora diventato famoso come fucina
multietnica - stava appena cominciando a fermentare. Ragazzina reale come figura, quindi, ma racconto
completamente inventato. Oggi forse lo scriverei diverso, lo ritoccherei, ma non ho nessuna intenzione di
metterci più le mani, e quindi ve lo tenete com'è. Buona giornata!
Odor d'Eliana
«Il vento soffiava moderato ma sensibile, nella piazza semideserta, da me verso di lei. Sì, lei era
sottovento, vicina all’angolo del bar, a una quindicina di metri da me che la guardavo, appoggiato allo
spigolo dell’edicola già chiusa. Nemmeno un animale selvatico, dunque, avrebbe potuto percepire l’odore
di Eliana. Eppure che cos’era, se non un odore, quello che mi eccitava le narici? E non c’era nessun
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Carlo Molinaro
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dubbio, veniva da lei. La sera di luglio addolciva la città e attenuava i rumori. L’odore della pelle di Eliana
entrava in me fortissimo, era un effluvio che sbuffava dall’orlo della sua minigonna, quasi lo vedevo...»
Nuto parlava con fervore, seduto al tavolino del caffè della Prosa, tormentando il bicchiere ormai vuoto.
Anche Sergio, davanti a lui, accarezzava il suo bicchiere coi polpastrelli, lentamente, e lo interruppe:
«Esatto, quasi lo vedevi. Il fenomeno è spiegabile scientificamente: la vista di Eliana ti eccitava, e l’odore
lo producevi tu stesso, era l’odore della tua pelle che si scaldava. Però», aggiunse, preoccupato di essere
stato troppo pedante, «in fondo era comunque Eliana a provocarlo, e quindi possiamo dire che era un suo
odore, sì».
Nuto si strinse nelle spalle, lasciò il bicchiere e appoggiò le dita sul tavolo, come per fermarlo. «Ero ormai
preso, capisci, questo è il fatto. Avevo fiutato un’esca alla quale non potevo più sfuggire, e al cui amo
d’altronde neppure potevo mordere, perché si teneva a quella distanza da me che favorisce il desiderio,
ma nega l’appagamento».
«Più che a un amo», replicò Sergio con un sospiro solidale, «paragonerei Eliana a una rete: non prendeva
un pesce per volta, ma anzi ne tirava su in grandi quantità, se non sbaglio».
«Non sbagli, no; e questo mi faceva bruciare di voglia ancor più tesa e violenta. Ciò che negava a me, lo
concedeva invece a moltissimi. E quando ebbe chiaro che io la desideravo, cominciò anche a stuzzicarmi
e a deridermi in modo sottile. Non tentò mai di rendermi ridicolo davanti alla gente, questo no; però non
perdeva occasione per attizzare la mia passione».
«Già ti è andata bene», esclamò Sergio convinto. «Una puttanella sedicenne, corteggiata da un uomo
sposato di quarant’anni, può sputtanarlo per quartieri e città, e può anche cacciarlo in un mare di guai».
Nuto alzò gli occhi a guardare il cielo che da rosazzurro stava diventando blumarino. «No, Eliana questo
non l’ha mai fatto né a me né ad altri. A differenza di altre ragazze, che giocano con freddezza a farsi
desiderare, e rimangono aride e spente, Eliana finiva a mescolare sé stessa nei fuochi che accendeva,
s’inumidiva degli stessi sudori degli uomini che ansavano per lei. Perciò, pur motteggiando e scherzando e
deridendo, da ragazzina, aveva in sé come un rispetto profondo per la passione, per la voglia, per gli
amplessi. Aveva insomma, sia pure inconsciamente, per il sesso quel rispetto che tutti riusciamo ad avere
soltanto per le cose che condividiamo veramente, per le cose che conosciamo dentro di noi: mentre per
tutte le altre cose, per le cose esterne, al massimo il rispetto lo fingiamo, per correttezza».
«Verissimo», ribatté Sergio, «e forse proprio per questo ti ha affascinato tanto, a differenza di altre
ragazze che avevi intorno e che pure non erano meno belle né meno fresche di lei. Eliana, puttanella
sincera, che non si tiene in disparte dai fuochi che accende. Però a te si negava. Quale può essere il
motivo? Non l’età, perché so che ha girato nei letti di cinquantenni e oltre. Non il tuo matrimonio, perché di
uomini sposati se ne è fatti a decine. Non il fisico, perché sei un bell’uomo e dimostri dieci anni di meno di
quelli che hai. E allora? Perché ti ha fatto penare tre anni, concedendosi alla fine solo per una via molto,
mi dicevi, traversa e perversa?».
«E, soprattutto, quando i suoi sedici anni erano ormai diventati diciannove, e il sesso per lei stava
diventando anche un mestiere», soggiunse Nuto inspirando forte e poi lasciando uscire lentamente l’aria
dai polmoni.
«Questo ti ha tolto gran parte del piacere, immagino».
«Diciamo che non ho mai avuto quella ragazzina, la ragazzina che mi mandava il suo odore controvento
da un angolo all’altro della piazza. Il piacere che Eliana mi ha dato tre anni dopo è stato intenso, direi
intensissimo; se non fosse, appunto, per il paragone con ciò che poteva essere tre anni prima».
Il cameriere si avvicinò al tavolo e Sergio ordinò altri due bicchieri di succo fresco d’albicocca. Si mise più
comodo sulla poltroncina e disse:
«Capisco, certo. Raccontami qualche episodio dell’Eliana sedicenne».
Nuto socchiuse gli occhi, come per riflettere o per scegliere l’episodio da raccontare, e cominciò: «Una
sera sento il suo odore prima ancora di svoltare l’angolo, poi la vedo davanti all’androne di casa sua, che
era ed è una vecchia casa di ringhiera, col portone sempre aperto perché se tentassero di chiuderlo
probabilmente crollerebbe. È lì con un ragazzo, uno che ho già visto altre volte con lei. Eliana ha la solita
minigonna: portava minigonne cortissime anche in pieno inverno, sembrava che non avesse mai freddo.
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Carlo Molinaro
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Dunque, rallento il passo per guardarla, lei mi vede, se ne accorge. Allora abbraccia il ragazzo e lo spinge
appena dentro l’androne, si accovaccia davanti a lui e gli slaccia i pantaloni».
«Accidenti, gli ha fatto un pompino praticamente in strada?».
«Sì. E non solo: accovacciandosi a cosce larghe, fa in modo di girarsi verso di me, e di farmi scorgere che
non ha le mutandine, sotto la gonna che si rimbocca fin sulla pancia. Il ragazzo è un po’ sorpreso, ma
neanche troppo, perché la conosce bene: si appoggia al muro, stiracchiandosi, e la lascia fare. Eliana ci si
impegna, se lo fa scivolare in bocca fino alle palle e ci gira intorno con la lingua. Io sono lì inchiodato che
non posso andare via. Sai qual era in quel momento la mia preoccupazione principale?».
«Quale?».
«Che non arrivasse qualcuno, dal marciapiede o da dentro la casa, a disturbarli».
«O a disturbare te, piuttosto!».
«Forse. Ma la sensazione era di timore per loro. Io in fondo ero solo un passante, c’erano cinque o sei
metri fra loro e me».
«E poi?».
«Lui le è venuto in bocca, abbastanza in fretta, mi è parso, anche se non saprei dire quanti minuti fossero
passati. Lei si è rialzata in piedi e si è pulita la bocca con la manica della giacchetta di panno che aveva
indosso».
«Che maialina!».
«Maialina sì. E anche irriverente e talvolta blasfema. Una sera stava seduta con un ragazzo, un altro, sui
gradini della chiesa del quartiere. Anche quella volta ho sentito il suo odore prima ancora di vederla, sai?
Si avvinghiava al ragazzo, lo baciava. Mentre io passavo, si è alzata in piedi, è andata ad accovacciarsi
contro il portone della chiesa e ci ha fatto pipì. Il ragazzo, pensa, si è spaventato, le ha gridato “ma sei
scema” e se ne è andato di corsa».
«Posso immaginarlo», replicò Sergio. «I ragazzi sono sbruffoni, volgari, sboccati, però si terrorizzano
davanti a molti tabù. E tu che cosa hai fatto?».
«Sono rimasto a guardare. Lei si è girata, ha alzato le spalle, è venuta verso di me, mi è passata accanto.
Allora le ho detto “sei bellissima”; lei ha fatto schioccare la lingua e ha tirato diritto. In quel momento il suo
odore mi ha preso talmente che mi sono sentito cadere, sono rimasto in piedi per miracolo. Diverse ore
dopo, me lo sentivo ancora addosso».
Sergio sorseggiò un poco di succo, lentamente, per creare una pausa nel discorso, necessaria a guardare
Nuto francamente negli occhi e dire:
«Non offenderti, ma io non ci credo. Non credo che tu potessi sentire il suo odore prima di vederla, o
prima di sentire la sua voce, o prima comunque di sapere, in qualche modo, che lei era presente. Anche
ammettendo che Eliana abbia un odore molto particolare (certe persone lo hanno), gli odori non viaggiano
controvento, e non si muovono alla velocità della luce, e poi si disperdono e si mescolano. Io credo, ripeto,
che quell’odore tu lo sentissi, sì, ma che venisse da te stesso, che fossi tu a produrlo con il tuo desiderio
quando la vedevi».
Nuto bevve a sua volta, scosse il capo e rispose:
«Immaginavo che questo sarebbe stato il tuo parere, e non voglio discuterlo troppo. Io resto però della mia
idea: l’odore era reale. Posso concederti, al massimo, che il mio naso fosse, come dire, specializzato nel
percepirlo, per una qualche misteriosa corrispondenza di sostanze».
Sergio non insisté, e cambiò argomento:
«Ti avevo chiesto perché, secondo te, Eliana non ti si è concessa, a sedici anni, quando pure andava a
letto con molti. Non mi hai risposto».
Nuto si passò una mano sulla fronte e sulla guancia, lasciò scivolare negli occhi una nuvola sottile di
malinconia o di rimpianto, e disse:
«Ragionandoci su dopo, ho pensato che i motivi siano stati soprattutto due, collegati fra loro. Il primo è
che io ero veramente preso, innamorato di lei, la adoravo. Credo che lei lo percepisse, questo, e ne fosse
in qualche modo spaventata. Gli altri uomini la trattavano più brutalmente da sgualdrina, e la durezza
creava per lei una barriera di sicurezza. Il secondo motivo è che io, proprio perché innamorato, non osavo
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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prenderla con quella forza rude, spavalda, alla quale lei era abituata. È poi anche una regola abbastanza
generale che le ragazze cadano più facilmente nelle braccia di quelli che non le amano, no?».
«Sì, certo», convenne Sergio, «l’amore rende timidi e le ragazze, soprattutto le adolescenti, cedono
meglio alla spavalderia che alla timidezza. Coi ragazzi timidi magari fanno lunghi teneri discorsi, ma coi
ragazzi spavaldi scopano, e dato che per una donna scopare è sempre una cosa importante, abbastanza
importante, ecco che si convincono di amare gli spavaldi, per avvalorare la scopata».
Nuto rise:
«Hai detto bene. Benché Eliana scopasse molto con molti, era pur sempre un’adolescente, e sceglieva i
suoi molti, alla fine, con gli stessi meccanismi con cui altre più morigerate adolescenti scelgono i loro
pochi. La spavalderia affascina, e allo stesso tempo, come dicevo, tiene le distanze di sicurezza nei
sentimenti».
«È una bella storia», commentò Nuto, «la tua con Eliana. Ma ora dovresti raccontarmi di quando, tre anni
dopo, te la sei fatta. Mi avevi detto che è successo per vie... come avevi detto?».
«Traverse e perverse», sorrise Nuto. «Ma forse ho esagerato. Rispetto a ciò che poteva essere tre anni
prima, è stato anzi un banale caso di prostituzione, benché alquanto raffinata. Ma il gioco che ho costruito
con lei dovrà convincerti della realtà del suo odore speciale».
«Ah, con quest’odore! Non so se mi convincerai, lo sai che sono un tipo molto razionale. Ma, fra l’altro,
sapresti descrivermelo, l’odore di Eliana?».
Nuto storse la bocca:
«Descrivere a parole un odore, così come un colore o un sapore, è sempre solo un gioco di
approssimazioni e di similitudini. Posso provarci, ma non è garantito che l’idea che ti farai assomiglierà
all’odore che sentivo io veramente. Era un odore salmastro, portuale, ma con molta vita vegetale, anche;
mettici dell’erba, oltre al pesce e al mare, e poi ancora qualcosa di più metropolitano, gli angoli trasformati
in pisciatoi, però tutto in una tonalità molto azzurra, e con mille altri ingredienti ancora».
«Va bene. Forse è un po’ semplicemente l’odore di una ragazzotta che fra le cosce si lava di rado - non
offenderti se dico questo, è solo un’impressione».
Nuto rise:
«Figùrati se mi offendo. Di Eliana sono abituato a sentir parlare malissimo, come puoi immaginare».
«Raccontami piuttosto com’è andato l’adempimento, alla fine, del tuo desiderio. Ne sono ormai molto
curioso».
«Oh, la partenza, ti dicevo, è banale: l’ho trovata in un bordello. Cioè, in una lussuosa casa di massaggiestetica la cui tenutaria è amica della polizia, ovviamente. Ci sono andato per sentire qualche odore
nuovo, in un periodo di stanchezza e di problemi, avevo appena lasciato mia moglie, sai. E invece ho
sentito il suo, di odore, ben conosciuto, nella stanza dove la ruffiana mi ha fatto entrare, e c’era lei, Eliana,
ad aspettare il cliente».
«Eliana adesso fa il mestiere?».
«Dice di prendere due o tre appuntamenti alla settimana, per mantenersi agli studi. Nonostante tutto è
arrivata all’università, la ragazzina; dopo qualche bocciatura ci è arrivata. Poi balla sui cubi, posa per i
fotoamatori, si spoglia nei locali notturni, insomma mette a profitto in vari modi la sua straordinaria
capacità di seduzione».
«Allora, semplicemente, l’hai pagata e te la sei scopata».
«Era ciò che naturalmente avrei potuto fare. Invece dedicai l’ora con lei in camera, che pure mi era costata
una bella cifra, alla conversazione. Le dissi quanto m’avesse affascinato tre anni prima; aggiungendo,
ovviamente, che mi piaceva ancora tantissimo. E le parlai, finalmente, del suo odore. Lei fece l’offesa,
esclamò “ma come, allora puzzo?”, rise, mi diede del pazzo. Intanto, io lo sentivo fortissimo,
inconfondibile, il suo odore, benché lei si fosse lavata e deodorata a puntino, se non altro per ordine
perentorio della ruffiana, che ci teneva al livello della sua casa. E le proposi un gioco, pur sapendo che ci
avrei speso metà dei miei risparmi».
«Accidenti! Che gioco sarà mai stato, così dispendioso?».
«Ci mettemmo d’accordo con la tenutaria, che per un pomeriggio convocasse, pagandole quello che
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Carlo Molinaro
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volevano, tutte le ragazze che poteva convocare: tutte le frequentatrici più o meno abituali della casa, più
altre ancora che conosceva nei suoi diversi giri. Si sarebbero messe in fila nel salone, sdraiate sui tappeti,
nude, in perfetto silenzio, immobili, lavate e deodorate a loro piacimento. Prima, io sarei stato
perfettamente bendato al centro del salone. E avrei avuto in mano tre stelline adesive dorate di carta, di
quelle per ornare i vetri alle feste. Seguendo solo l’odore, senza toccare nulla, sarei dovuto andare ad
appiccicare la prima stellina sul corpo di una ragazza, appiccicare e via, senza palpare. Poi le ragazze si
sarebbero rimescolate, sempre con me bendato al centro del salone. E io sarei andato ad appiccicare la
seconda stellina. E così per la terza. Con la tenutaria a controllare la regolarità, come un arbitro. Solo a
quel punto, dopo appiccicata la terza stellina, mi sarei tolto la benda. E avrei vinto il gioco io se e solo se
tutte e tre le stelline si fossero trovate sul corpo di Eliana».
«Un gioco di virtuosismo erotico olfattivo! Avrebbe successo in un circo, se al circo si potessero fare giochi
erotici. Ma che cosa c’era in palio?».
«Se avessi vinto io, avrei potuto fare l’amore con Eliana tutte le volte che volevo per un anno, gratis, o
meglio, pagando solo la quota per la ruffiana, e neanche un soldo a Eliana. Se avessi perso, avrei pagato
a Eliana l’equivalente di cento prestazioni, senza usufruire di nessuna, senza toccarla mai più - e nota che
non l’avevo mai toccata, fino a quel momento, ancora».
Sergio annuì:
«Sei riuscito a caricare di significato quella che poteva essere ormai solo una banale scopata con una
puttana. Hai voluto in qualche modo recuperare l’importanza che Eliana aveva avuto per te. È
comprensibile. Hai trovato un modo ingegnoso per farlo. Poi, se avessi perso, ti saresti fottuto anche l’altra
metà dei risparmi, eh! Un bel rischio. Sì, proprio quello che volevi per debanalizzare la cosa, infatti».
«A volte il tuo psicologizzare tutto mi irrita», replicò Nuto, «ma lo accetto perché tu sei fatto così. La
ruffiana protestò che il gioco era pericoloso, che far venire tutte quelle ragazze insieme poteva attirare
troppo l’attenzione, ma insomma, la pagai bene e naturalmente accettò. Non si trattava di un gioco
rumoroso, del resto, anzi, tutto doveva avvenire in silenzio, dato che solo l’odore, non la voce o altro,
doveva guidarmi verso Eliana».
«Ed Eliana, lei, fu d’accordo sul gioco?».
«Eliana accettò immediatamente. Aveva conservato il suo spirito di sfida e d’avventura, anche se non
faceva più pipì sulle porte delle chiese, e probabilmente nemmeno pompini negli androni».
«Dunque la partita si giocò davvero».
«Si giocò. La ruffiana trovò diciotto ragazze disponibili. Eliana si mise d’accordo con loro, ovviamente, per
rendermi il compito impossibile. Profumi balzani, deodoranti per tutte, una confusione d’olfatto. Fu anzi
così abile e maliziosa da incaricare una delle altre, una sua amica, di non mettersi nessun profumo e di
non lavarsi per due giorni prima, pensando di trarmi in inganno e di spedirmi verso quella».
«Diabolica! Ma da come sorridi, capisco già che fu tutto inutile contro il potere del tuo naso».
Nuto infatti sorrideva disteso:
«Contro il potere del mio naso, forse; o contro l’assoluta unicità e potenza dell’odore di Eliana. Infatti vinsi,
sì. Ma non fu neppure facile, perché l’atmosfera del salone era diventata un frullato irrespirabile di odori
artificiali violenti. Però quell’odore li attraversava, era come un filo che partiva dalle cosce di Eliana e
arrivava al mio naso, superando i mille disturbi della altre stupide puzze. Quando attaccai sulla sua pelle la
terza stellina, Eliana esclamò un “minchia, ma com’è possibile?” che mi annunciò la vittoria prima ancora
che mi togliessi la benda dagli occhi. Ti dirò: anche la ruffiana e le altre ragazze rimasero molto
impressionate!».
«Lo credo», replicò Sergio, e poi aggiunse pensieroso e vagamente ammirato: «A volte una forte passione
sembra vanificare persino le leggi di natura, rendendo possibili le cose impossibili».
«Non farla poi tanto grossa», scherzò Nuto, «alla fine si tratta solo del riconoscimento dell’odore di una
fica, no? Non ho mica sballato la gravitazione universale o qualche principio della termodinamica!».
«Certo, però è già abbastanza straordinario».
«Insomma».
«E il premio, un anno di scopate, l’hai incassato?».
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Carlo Molinaro
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Nuto sorrise di nuovo, più soddisfatto e più malizioso:
«Ho incassato molto di più».
«Come?».
«Eliana adesso sta con me, abbiamo preso casa insieme. Oh, in tutta libertà, intendiamoci: lei continua a
gestire a suo modo la sua vita, la sera va sempre a spogliarsi nei locali, e va anche alla casa
d’appuntamenti, perché non vuole che io la mantenga: si sentirebbe prigioniera. Però abitiamo insieme, e
il motivo che l’ha indotta ad abitare con me è che mi ama o, se preferisci, è innamorata di me».
Sergio era davvero sorpreso:
«Accidenti, questo non l’avrei detto davvero. Innamorata di te. Dopo tutte le sue esperienze, e dopo che ti
aveva respinto quand’eri innamorato tu».
Nuto allargò le braccia respirando forte:
«Tutti i timidi appassionati corteggiamenti erano inutili e sarebbero stati inutili per sempre, ma la
performance di riconoscere il suo odore al buio fra venti altre l’ha sedotta, l’ha sedotta di colpo. C’è
rimasta presa. E così adesso io quell’odore me lo sono messo in casa, posso goderne ogni giorno».
«Non voglio dire una cosa cattiva», ridacchiò Sergio, «ma temo che adesso te ne stuferai!».
Nuto si strinse nelle spalle, ancora tutto contento, alzandosi per andare alla cassa del bar a pagare i
succhi:
«Può darsi. Ma per ora ne godo appieno. E poi lo scrivono persino le rivistine rosa, che la coppia funziona
se il naso è d’accordo, no?».
I due amici si allontanarono insieme. Era ormai scesa la sera, tutta carica di aromi.
(Torino, 1987)
Anni, fiocchetti, uffici, giovinezze e altro ancora
venerdì 11 gennaio 2008, 1.00.31 | molinaro
Restiamo su cose scritte un po’ di tempo fa. Il mio amico Guido Catalano ha dedicato una
poesia ai fiocchetti delle mutandine delle ragazze (Fiocchetti, in I cani hanno sempre
ragione, Edizioni SEEd, Torino 20073, pag. 33; la prima edizione è del 2000). Ventisei anni
fa, l’11 gennaio 1982, io dedicai una poesia alle persone che lavoravano con me in ufficio,
nell’ufficio che era la redazione del Grande Dizionario della Lingua Italiana della UTET.
Alle persone, ma soprattutto al loro abbigliamento. O, se vogliamo, alle persone attraverso il
loro abbigliamento. Nel primo libro in cui fu stampata la poesia c’era anche la data, per confermare che era proprio
precisamente il ritratto dell’ufficio in quel giorno lì, l’11 gennaio 1982, e non in un altro giorno. Il titolo della poesia
è il numero telefonico interno dell’ufficio, all’epoca. E l’ultimo verso constata con malinconia che erano già cinque
anni che lavoravo lì dentro. Fiocchetti ne vedevo pochi. Avrei voluto vederne molti di più. Ne ho poi visti, in certi
periodi. Talvolta ne vedo ancora. Sono meravigliosi i fiocchetti delle mutandine (e anche dei reggiseni, via) delle
ragazze, Guido ha ragione. Sono meravigliose le ragazze. Poi il tempo passa e bisognerebbe adeguarsi. Non è facile.
Quando scrissi questa poesia, quando lavoravo già da cinque anni dentro l’austero palazzone della UTET (che è
«morto», detto per inciso, pochi giorni fa, sotto Natale: la UTET – quel che ne resta – l’hanno trasferita in un mostro
di periferia, secondo i dettami della new economy, tenere i lavoratori lontano dal centro, che non ne rovinino
l’estetica, metterli vicino alle discariche, tanto è tutta roba che si butta), delle due ragazze a cui ho dedicato più poesie
adesso, nel 2007, una aveva quattro mesi e l’altra non era ancora nemmeno stata concepita. La seconda qualche
fiocchetto me l’ha mostrato, ma solo così; la prima niente. Poi ci sono altre storie, altre cose, altra vita, altri
fiocchetti. Sono contento di storie con donne più grandicelle, certo che lo sono. Lo sono pure molto. Ma non a caso
Guido Catalano i fiocchetti li mette alle mutandine delle ragazze, non delle donne. I fiocchetti sono la giovinezza,
della quale disamorarsi è impossibile. Giustamente. Il che non impedisce d’innamorarsi anche d’altro. E d’altre.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 267 di 404
INTERNO 282
Letizia ha un maglioncino giallo chiaro,
con una catenina che sorregge
non so che pietra, un qualchecosa rosso,
e una gonna marrone e gli stivali:
si vede un pezzettino delle gambe
con calze chiare. Giusi è in rossogrigio:
completino di maglia grigio topo
con l’orlo rosso sopra, sotto e ai polsi.
Silvia ha la maglia rossa e i pantaloni
verdi infilati negli stivaletti;
Liana la camicetta rosso vivo,
gonna scozzese sulle calze rosse,
e le scarpette nere. Nero è pure
il golf di Gabriella: con la gonna
marrone scuro, l’esito è un po’ cupo.
Invece Donatella è tutta in bianco,
con un discreto moderato spacco
sulle calze brunite senza riga.
Rosa ha un vestito a fiori trapuntato
e calze bianche da crocerossina;
Laura una catenina con un ciondolo
sul vestito bordó; Tiziana i gìn
e la camicia bianca sbottonata
sul petto dove pende una crocetta
di legno. Un’ulteriore osservazione
rivela gli orecchini a Donatella:
cerchietti d’oro di discreto gusto.
E Liana ha un braccialetto con dei cosi
verdastri, che somiglia alla collana
di Gabriella. Niente di speciale,
insomma, oggi in campo femminile:
è spettinata Laura, e poi dovrebbe
farsi uno sciampo. Pioviggina, fuori,
e la collina è coperta di grigio.
Grigie sono le giacche dei colleghi,
tranne Ulisse con un maglione blu
e Luca che ce l’ha d’un verde chiaro.
La giacca di Cravero è quasi uguale
a quella mia, e questo dà fastidio
(mica succede soltanto alle donne).
Sui davanzali le piante nei vasi
hanno un aspetto desolato e mogio.
Il fumo dà bruciore agli occhi e al naso,
e poi ho anche sonno: questa notte
non è che ho dormito tanto bene.
Guardo i capelli a Liana: si può dire
che sono, infine, l’oggetto migliore,
biondicci lunghi morbidi ondulati.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 268 di 404
L’occhiata al giornale l’ho data: l’Asti
è sempre primo con la Pro Vercelli
che ha vinto ad Alba; la Polonia poi
prende un piega poco promettente;
detenuto ferito a San Vittore,
la Susanna Ronconi latitante
che in ogni modo è un bel pezzo di tosa;
e poi c’è il piano per l’economia.
Adesso cerco di capire il senso
d’una frase di Varchi, Benedetto,
che mi serve per far la voce otto:
«più tristo che non è un famiglio d’otto».
Dovrò schiaffarla fra le locuzioni,
guardo se c’è qualcosa sulla Crusca.
E dopo otto dovrò fare ottobre,
ottocentista, ottocoralli, ottone;
e intanto il tempo passa e se ne va,
e sono cinque anni che sto qua.
11 gennaio 1982
(da Il chiostro di agorà, Genesi Editrice, Torino 1982, pp. 31-33; poi ripubblicata in La parola rinvenuta, Genesi
Editrice, Torino 2006, pp. 65-66)
Treni, poesie, amore e così via
lunedì 14 gennaio 2008, 0.48.33 | molinaro
Al trial slam di Trieste mi sono piazzato secondo, dietro l'ottima
Clara Vajthò, con la poesia che trovate proprio qui in questo
blog nel messaggio n. 218: scritta dunque appena tre giorni
prima della gara. Mi piace presentare cose nuove, con tutti i
rischi che ciò comporta. Ma il terracantieremotocarroluce ha
avuto buona accoglienza.
[Nella serata successiva, quella con i big giuliani e sloveni, mi dicono che sono
arrivato quarto, mancando di una posizione la terna dei superfinalisti, nella quale
ha poi vinto Christian Sinicco.]
Clara ha letto, fra le altre cose, una poesia d’amore che io trovo bellissima; e mi
permetto di trascriverla qui: Quando c’era lei. È una delle più belle poesie
d’amore che io abbia mai sentito. E chi mi conosce sa che io, famigerato
moderato uomo del «sì insomma abbastanza», non mi sbilancio frequentemente.
Poi più sotto, tanto per non volare troppo alto, vi metto una filastrocca che ho
scritto oggi in treno, Le cozze delle più bonite mozze. Mi sono fatto tutto lo
Svevo, che è il nome d’arte dell’Intercity 626, da capolinea a capolinea. Più
emozionante di un coast to coast negli Stati Uniti d’America, ne sono certo. E se
voi non ci credete, vi sbagliate, ecco tutto! E c’era pure sciopero, ma lui è
arrivato in perfetto orario.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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QUANDO C’ERA LEI
Quando c’era lei
e mi dicevi che ci andavi
al cinema, a cena, a passeggiare
e a volte ero gelosa
ma non di lei, no
del suo stare tanto con te
quando c’era lei,
dicevo,
era bello amarti
perché c’avevi sempre
come qualcosa dentro
che cantava
quando c’era lei
e io sapevo che non eri solo
anche la notte, a volte
ero contenta, sì
ero contenta di lei
del suo stare tanto con te
quando c’era lei
se socchiudevo gli occhi
vi potevo vedere
ma non ascoltavo le vostre parole
sorridevo soltanto
se la facevi ridere.
Clara Vajthò
LE COZZE DELLE PIÙ BONITE MOZZE
le cozze delle più bonite mozze
le mozzerelle delle navicelle
che nel deserto non ce n’è nessuna
o nel deserto sì c’è qualche duna
namportecchì ma pureché sialì
as coxas das mais mais bonitas moças
le naveselle di periferia
sono soppresse con l’acciaieria
ne resta solamente qualcheduna
int’il deserto di periferia
luttas obreras obrerá as coxas
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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se troverà aún bonitas moças
uma faló et una falleció
tu falle ciò e non falterá falar
une faute une fois une faute alors moins grave
les aubergines y les betteraves
muscoli marinari sottoripa
muslos deschìs para la clara tarde
almita linda y corazón che arde
[chiavar con te sarebbe un’esperienza
radiosa: et aspro e forte è starne senza]
le cozze delle più bonite mozze
le cozze apriche delle beatrici
cozze beate delle mozze apriche
a ricambiare dàtteri con fiche
dàttero títtero dàttene conto
le cozze delle più bonite mozze
le mozzerelle senza le carrozze
convoleranno meco a giuste nozze
[cardellino colombo o passerotto
lo metterò nel nido che hai lì sotto]
venga gennaio e getti al rovo il saio
Brescia-Milano, 13 gennaio 2008
[nell'immagine: il tuffo di una mia splendida amica triestina]
Il barista di via San Donato
mercoledì 16 gennaio 2008, 15.11.46 | molinaro
Le due meno venti del pomeriggio del sedici gennaio, fra poco
vado dal dentista. Piove ancora ma è uscito un raggio di sole;
quando piove con il sole si dice che le streghe filano – così mi
hanno raccontato. Il grigio del cielo si è spezzato e i tetti
luccicano: li osservo qui dalla mia finestra al quarto piano, alto
quanto basta per scavalcare appena la casa di fronte e vedere il
campanile di Santa Zita.
Il barista di via San Donato probabilmente è morto. No, diciamo che sicuramente
è morto, anche se nessuno, naturalmente, me ne ha dato un annuncio ufficiale.
Dev’essere successo fra Natale e Capodanno. Andavo spesso lì a fare colazione
perché costava meno, un euro e cinquanta cappuccino e cornetto. Quando ci
sono entrato la prima volta in questo gennaio lui non c’era e si capiva che era
accaduto qualcosa. Poi due o tre giorni dopo ho sentito il figlio che ne parlava al
passato. Il figlio è strano, ha sempre una faccia così inespressiva. Adesso il bar
lo gestisce lui con un aiutante nuovo che è arrivato. La colazione non costa più
un euro e cinquanta ma due euro che è il prezzo degli altri bar della zona, quindi
non andrò più lì perché non c’è più nessun motivo per farlo.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Il barista che dico non era lì da tantissimi anni. Forse quattro, non so. Prima di
lui il bar era gestito da una coppia anziana, mi ricordo lei, bruna e bassotta, liscia
e vispa per la sua età.
Il barista che dico era napoletano o di quelle parti. Non era vecchissimo, aveva
poco più di sessant’anni; non scoppiava di salute, aveva i suoi acciacchi, ma tutti
i giorni era lì al bancone. Era ironico, con una malinconia bonaria, vagamente alla
Troisi; faceva i suoi commenti sulla vita e sul mondo ma sempre con molta
discrezione. Ad aiutarlo da un anno in qua c’era una donna romena sui
quarant’anni, con la quale scambiavo qualche battuta in romeno appunto. Anche
in un altro bar di via San Donato, gestito da un signore anziano simpatico con i
capelli bianchi lunghi e il codino e la pelata, da un po’ di tempo c’è un’aiutante
romena. C’è anche una gatta nera un po’ spelacchiata. In questo secondo bar a
volte prendo un cappuccino, non frequentemente, ma dato che comunque in
dieci anni ci ho preso sempre solo cappuccini, quando entro mi preparano un
cappuccino senza che io dica nulla. Adesso mi sono abituato così e non oserei
mai prendere qualcosa d’altro, è il bar del cappuccino, se voglio un caffè vado da
un’altra parte. Ma non divaghiamo.
Il barista che è morto è morto abbastanza all’improvviso, perché sì è vero che
non scoppiava di salute, ma la vigilia di Natale, o se non era la vigilia era
l’antivigilia, stava tranquillamente al bancone.
Non so il suo nome e tantomeno il suo cognome. Non sono di quelli che dopo due
o tre volte in un bar captano tutti i nomi. A me non riesce. A dire il vero non so
nemmeno come si chiami il bar. L’insegna verde luminosa dice solo BAR. È
accanto a un fotografo che sviluppa i rullini e fa le stampe a un prezzo
conveniente. Nel bar c’è un davanti con il bancone, qualche tavolino e due
macchinette mangiasoldi (ormai le mettono dappertutto, è il casinò dei poveri,
dove puoi rovinarti a cinquanta centesimi per volta), e poi un dietro con un
biliardo. Tutto un po’ vecchio e un po’ normale.
Ora questo barista napoletano che è morto mi manca ogni tanto, ma così, non è
che ci penso troppo, non è che lo conoscevo d’amicizia, di confidenza. Però è
andato, così, è andato. Forse i baristi che invecchiano mi colpiscono un po’, in
fondo l’incipit dei Quaranta frammenti dice «Il barista di via Valperga è anziano».
All’epoca abitavo vicino a via Valperga. Adesso abito vicino a via San Donato e il
barista di via San Donato è morto.
Uno dei baristi, perché in quei due primi isolati di strada, da piazza Statuto in
qua, ci sono aspetta che conto, uno, due, tre, quattro, cinque, sei bar mi pare, e
poi un chebabivendolo, una pizzeria, una focacceria e un ristorante cinese, e poi
gli altri negozi naturalmente, fra cui un fruttivendolo la cui figlia è amica, l’ho
scoperto l’altro ieri, della «lei» della poesia di Clara nel precedente messaggio n.
222. Il mondo è piccolo. E oltre a essere piccolo, è volatile, si perde, va. Però è
anche grande. E poi è anche bello, certe volte è proprio bello, no? Basta, sono
già le due e cinque, vado dal dentista.
1977, gennaio
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 272 di 404
giovedì 17 gennaio 2008, 12.01.56 | molinaro
«Le leggi sono dettate dai mercanti, la politica è subordinata
all’economia. Non si bada all’interesse collettivo. Siamo al Medioevo».
Stamattina questo titolo non è sul Manifesto ma sul Sole 24 Ore, che
devo leggere per il lavoro di rassegna stampa. Strano mondo, eh?
Anniversario. Il 17 gennaio 1977 fu il mio primo giorno di lavoro alla
Utet, Unione Tipografico-Editrice Torinese. Ci ho lavorato ininterrottamente, come
dipendente, da allora fino al 1° agosto 2003 (curiosamente, il giorno del mio cinquantesimo
compleanno). Però da esterno lavoro molto per loro ancora adesso. Mi hanno dato una
medaglia e un diploma, ma poco d’altro.
Un anno strano. Mio padre era morto da pochi mesi, immaturamente (51 anni - stamattina
ho visto su un portone del mio isolato l'annuncio funebre della signora Francesca P., di anni
107, più del doppio!) e improvvisamente. Ero agitato e forse impaurito dalle diversità e dalle
inadeguatezze che percepivo in me. Mi prese, credo (non è che fosse una cosa proprio
conscia), un anelito di normalizzazione. Mi tuffai sul primo lavoro che trovai, e ci rimasi. Mi
tuffai sull’unica ragazza che riusciva a stare con me, e la sposai. A 24 anni ero «sistemato».
Ma non nel modo giusto, mi sa. Però probabilmente non ero in grado di fare altro, allora. È
andata così, e non stiamo a lamentarci, qualche lato buono c’è stato.
Ero troppo timido, ingarbugliato e inconcludente per cercare un lavoro che mi piacesse e mi
entusiasmasse. Divenni un topo di quell’ufficio grigio, per oltre un quarto di secolo.
Ero troppo incasinato e imbranato per capire se amavo veramente, per cercare (e
soprattutto per trovare) una ragazza i cui baci facessero suonare le campane. Ne avrei
trovate alcune ma molto, molto tempo dopo.
D’altronde, per un’altra curiosa coincidenza, tre delle ragazze con cui poi avrei fatto l’amore
molto bene si trovavano, il giorno che cominciai a lavorare alla Utet, in un luogo dove
sarebbe stato davvero difficile corteggiarle: la pancia della loro mamma. Altre erano all’asilo
nido, altre non erano ancora neppure state concepite. C’era da aspettare! E anche le uniche
due mie amate che nel 1977 erano già ragazze, le ho conosciute tanti anni dopo.
[Che poi in verità la mia ex moglie, la madre dei miei figli, in qualche modo l'ho amata: nel
modo in cui riuscivo allora: che era poco, era inadeguato, ma era il massimo che sapevo
dare allora, ecco tutto.]
Poi il mondo è sempre lo stesso e ancora oggi una mia amica (di quelle che nel 1977 non
erano state concepite) si domanda come si riconosce il vero amore, e io le rispondo. E
stamattina, dopo giorni di pioggia, su Torino c’è un sole limpido. In fondo a via San Donato si
vedono le montagne. Ho scattato poco fa una foto col telefonino, quando sono uscito
appunto a comprare alcuni giornali per il lavoro di rassegna stampa. È l’immagine di questo
messaggio, ma non si vede granché. Cieli e montagne stanno stretti nelle fotografie, come
l'amore sta stretto nelle definizioni.
Mi rimetto al lavoro, ho finito la rassegna stampa e passo a una Cronologia universale che
devo risistemare. Buona giornata.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 273 di 404
La recalcitrante consapevolezza
venerdì 18 gennaio 2008, 0.04.29 | molinaro
Il titolo è preso da un sms di un’amica, che mi parla stasera di una mia
«recalcitrante consapevolezza», di cui coglie sprazzi in progresso, nel capire
tipicamente l’impossibilità di certi miei amori e la vacuità di certe mie fantasie.
L’espressione «recalcitrante consapevolezza» mi ha colpito e mi è piaciuta, esprime
molto, e mi ha scatenato tutta una serie di pensieri.
Direi che l’umanità è piena di recalcitranti consapevolezze. La principale credo sia quella della nostra
animalità e mortalità. Dopo Darwin, ma in fondo anche prima, lo capisce anche l’ultimo dei deficienti che
siamo animali che hanno a poco a poco evoluto un’autocoscienza (cioè si sono accorti di vivere – pare che
gli altri animali vivano senza accorgersene, beati loro – e quindi di morire), restando però inesorabilmente
animali. La vita di una zanzara e quella di un uomo hanno la stessa chimica, carbonio idrogeno ossigeno, e
gli stessi programmi di funzionamento (il DNA è più uguale che diverso, fra un uomo e una zanzara). Nel
fluire del tempo una chimica ci fa nascere e una chimica ci dissolve. Come le zanzare, non esistiamo prima
di nascere e non esistiamo dopo morti. Questa cosa è di assoluta evidenza, non c’è il minimo indizio
ragionevole di qualcosa di diverso. Trascendenze, aldilà, vite oltre la morte, eternità, paradisi vari e altra
metafisica paccottiglia sono soltanto fantasmi, fantasie, favole, farneticazioni (comincia tutto per fa-,
curioso). Ma a questa consapevolezza recalcitriamo. Io per primo recalcitro eccome, anzi non la accetto
per niente. Non potrei vivere senza fantasticare un oltre, un’eternità, un senso ultimo, un perpetuarsi di
me stesso e di tutto. E quindi me lo fantastico, eccome se me lo fantastico. Ciò non è in contraddizione
con il fatto che detesto le religioni: le religioni servono a trasformare in strumento di potere e
sopraffazione questo semplice onesto fantasticare, questo (per me) necessario recalcitrare a una
consapevolezza tanto evidente quanto inaccettabile. Insomma, credo fermamente, con fede incrollabile, in
un dio di cui dichiaro l’inesistenza. Non potrei vivere senza questa fede, ripeto.
So che c’è invece chi ci riesce, ci sono certi atei hard core che quasi si compiacciono di accettare il nulla
dopo la morte dell’individuo (e quindi anche il nulla dopo la morte della specie, il nulla dopo la fine di una
civiltà o di un pianeta o di un sistema solare: insomma il nulla e basta). Non ho idea di come facciano.
Diciamo che mi sento lontano da loro come mi sento lontano dai religiosi: li trovo entrambi aggressivi: gli
uni vorrebbero uccidere il mio personale fantasticato dio, gli altri vorrebbero strumentalizzarlo, spiegarmi
com’è e come non è. Le percepisco come due violenze opposte o parallele, quindi mando affanculo sia gli
atei che i religiosi. Lasciatemi recalcitrare a modo mio alla consapevolezza evidentissima di essere una
zanzara, di essere un insensato chimico nulla. È evidente che lo sono ma non potrò mai convincermene. Io
ho un senso e sono immortale, tutto ha un senso e nulla finisce. Amen.
Poi ci sono altre recalcitranti consapevolezze minori. Come quando una persona che ami ti fa del male e lo
vedi benissimo però non lo vedi affatto, perché recalcitri a quella consapevolezza. O come, per dire una
cazzata leggerina, quando un tifoso di calcio vede benissimo che è rigore per gli avversari, ma invece non
lo vede affatto, e grida «arbitro venduto», perché recalcitra alla consapevolezza evidente che è proprio
rigore per gli altri, eccome se lo è. Tutte cose molto naturali.
Su alcune consapevolezze si possono fare passi avanti, diventare meno recalcitranti, e forse migliorare la
propria esistenza, creando lo spazio per progressi ulteriori di comprensione. Su altre forse no. Dipende se
vedi o no una luce oltre la consapevolezza. Se non la vedi, chi te lo fa fare di acquisire una consapevolezza
che ti farà solo star male? Recalcitrare allora è una difesa immunitaria.
Per gli amori impossibili non so. La loro impossibilità è spesso evidente, anche se mai evidente come
l’animalità, la mortalità e la finitezza dell’uomo. Sul fatto che siamo solo animali non c’è nessun dubbio
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 274 di 404
(anche se io lo nego con la massima forza: non è vero che siamo solo animali: è vero sì: ma non è vero
no: insomma non lo ammetterò mai). In un amore impossibile, invece, uno si immagina sempre uno
spiraglio concreto. Sì, è vero, lei non mi caga neanche di striscio. Sì, è vero, è persino infastidita dal mio
farle la corte. Sì, è vero, mi manda affanculo. Sì, è vero, sta con un altro. Sì, è vero, magari se lo sposa.
Però, però, magari domattina, proprio domattina 18 gennaio 2008, si sveglia con una repentina
folgorazione, come Saulo sulla via di Damasco, s’illumina d’immenso, spalanca le braccia commossa e
mormora: «Improvvisamente capisco. Non sapevo cosa provavo veramente. Ora a un tratto me ne rendo
conto. Sono perdutamente innamorata di Carlo». E corre a lanciarsi fra le mie braccia, felice.
Sì, va bene, va bene, le possibilità sono all’incirca quelle dell’esistenza di dio, cioè nessuna. Però. Uno
recalcitra.
Ma forse sì, davanti a certe impossibilità è meglio non recalcitrare, acquisire la consapevolezza (non mi
caga neanche di striscio), perché questo può liberare spazio ad altre cose, anche ad altri amori (magari un
po’ più possibili e reali). Godere meglio di quel che c’è, lasciar da parte quel che non c’è. Sì, poi dal dire al
fare... Ma, insomma, la vita è piena di recalcitranti consapevolezze, ecco. Come al solito non c’è una
ricetta, su qualcuna si recalcitrerà sempre, perché è la consapevolezza di qualcosa di ontologicamente
inaccettabile; su qualcun’altra si può smettere di recalcitrare. E consapevolizzarsi. E vivere meglio.
Dipende. Credo. Forse. Boh.
Vorrei darti uno schiaffo sul muso
venerdì 18 gennaio 2008, 19.36.12 | molinaro
Le cose della vita e dell’amore hanno tanti aspetti, a volte strani e
contrastanti. Ripensavo alla «recalcitrante consapevolezza» del
messaggio precedente, e ho immaginato una situazione, del tutto
astratta e inventata, letteraria, in cui lui percepisce (recalcitrando)
come quasi di essere un po’ usato da lei, ma d’altronde se l’è
voluta, e allora scrive una poesia di questo tipo. Che è pur sempre
una poesia, anche se forse non sembra. Ed è anzi pur sempre, io credo, una poesia
d’amore.
VORREI DARTI UNO SCHIAFFO SUL MUSO
Vorrei darti uno schiaffo sul muso
quando mi rispondi con una mail di otto parole
(contate)
a tutto un discorso di sentimenti sensazioni e amori
a tutto un discorso mio
(tragicamente solo mio)
e nelle otto parole quello che chiedi
è se sto leggendo il tuo racconto
maledetta egoista egocentrica sfruttatrice
e che cazzo, sono al tuo servizio?
ti rendi conto che neanche un grazie?
ma come minchia mi stai trattando?
ma vaffanculo!
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 275 di 404
Poi penso che non posso lamentarmi
mi ci sono cacciato io
appiccicoso come una mosca
disponibile come uno scendiletto
prolisso come un vecchio rincoglionito
a farti tutti ’sti discorsi di sentimenti
senza ammettere che te ne frega un cazzo
tutti i miei corteggiamenti inutili
importuni, noiosi
così alla fine hai lo stesso ragione tu
e lo schiaffo me lo do da solo
– però continuo a pensare che i discorsi
sarebbero anche un po’ una roba tua
e ci perdi qualcosa, ci perdiamo qualcosa
ma basta. E poi
si capisce che sto leggendo il tuo racconto,
è il mio mestiere, no? Fammi prendere fiato...
Ho un casino di lavoro, porcaputtana!
Al limite un grazie ogni tanto potresti...
Così, un sorriso, una parola gentile...
(Ma giuro che se adesso mi mandi una mail
con scritto dentro solo grazie
prendo il treno e vengo fin lì
e ti do uno schiaffo sul muso,
costi quello che costi.)
La felicità nel viaggio
sabato 19 gennaio 2008, 12.30.53 | molinaro
Una piccola poesia scritta questa mattina. Ieri ho rivisto un’amica che non vedevo da
quattro mesi. Sono andato da lei con il tram. È stato un gran bel viaggio. E stamattina ho
pensato ai viaggi. Ai viaggi che danno la felicità. Una corriera fra le risaie. Un treno oltre
Milano. La Panda verso il mare, per il Turchino o per Cadibona. La bicicletta alla Pellerina.
La felicità nel viaggio.
[Nota per la lettura: la prima strofa ha un andamento vario e un po’ aspro, leggila come viene. La
seconda è più musicale e al quartultimo verso viaggio va letto trisillabo, vi-ag-gio, come sarebbe d’altronde corretto
tradizionalmente, dato che deriva dal bisillabo vi-a. Nell’Ottocento l’avrebbero indicato con un segno di dieresi, vïaggio: è
pieno di quei doppi puntini nei libri di poesie di due secoli fa. Adesso non si usa più, lo si lascia al senso del ritmo del lettore.
Giustamente.]
LA FELICITÀ NEL VIAGGIO
Quattro o cinque fermate d’un tram
possono valere un coast to coast,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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un treno per la pianura padana
può valere una transiberiana,
guidare verso un passo d’Appennino
può valere un road safari in Africa:
non conta la lunghezza del viaggio,
non conta che sia bello il paesaggio:
conta con quale amore sei partito,
quale amore hai speranza di trovare.
La maschera del tempo
lunedì 21 gennaio 2008, 17.44.13 | molinaro
Vado a prendere un treno per Milano. E sul piede di
partenza, a un tratto, di corsa, mi è venuta questa poesia.
Si può scrivere una poesia in fretta per non perdere il
treno? Si può. Tutto si può. Ora vado che è tardi.
LA MASCHERA DEL TEMPO
Il pomeriggio s’è rifatto d’oro
dopo la nebbia. Ascolto confidenze
travestite in racconto. Attendo la partenza
e quasi non m’importa verso dove.
Ho visto ciò che c’è dall’altra parte
quando la porta è rimasta socchiusa
per un momento, come quelle porte
d’uffici vietatissimi che s’aprono
e subito si chiudono e tu fuori
aspetti le menzogne che diranno
consegnando la pratica dall’esito
ingiusto e incomprensibile.
Ho visto ma non serve. Ascolto confidenze
mascherate che non riveleranno
il colore del viso. Attendo di partire
e quasi non m’importa verso dove.
Ovunque io vada scoprirò qualcosa
ma solo per un attimo, con questa
confusa precisione che ho negli occhi:
sarò incerto e sarà facile convincermi
che non è vero. Sono troppo timido
e ciò che vedo fa così paura
che conviene richiudere la porta
e predisporre documenti falsi.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Il pomeriggio s’è rifatto d’oro
per imbrunire. Ascolto confidenze
mimetizzate in frasi innocue. Parto
e quasi non m’importa verso dove.
Non siamo andati oltre la patata
mercoledì 23 gennaio 2008, 12.34.11 | molinaro
Fra le tante tragedie della storia, una che mi ha sempre colpito in
particolare è la tremenda carestia che mise in ginocchio l’Irlanda a causa
di una malattia della pianta della patata, che provocò la distruzione della
maggior parte delle colture di tale tubero. Ci furono migliaia di morti e
un’impennata dell’emigrazione verso l’America, tanto che la forte
presenza irlandese negli Stati Uniti è un po’ figlia della patata, o meglio
della sua mancanza.
Mi colpisce vedere il destino di un popolo legato a una sola coltura, la sopravvivenza di una
nazione messa tutta “nello stesso paniere”: cosicché, se scompare quello, è la catastrofe.
Una dipendenza inquietante, che nel caso dell’Irlanda dimostrò tutta la sua pericolosità. Mi
domando: possibile che non avessero un’alternativa alla patata? Evidentemente no, non ce
l’avevano, o almeno non in tempi brevi, in tempi che consentissero di non morire di fame
prima. Deplorevole.
Ma poi mi accorgo che noi oggi abbiamo sviluppato dipendenze esclusive altrettanto
pericolose. Non per un cibo in particolare, ma, peggio ancora, per la fornitura in generale del
necessario per vivere.
Quand’ero bambino se mancava la corrente elettrica non accadeva praticamente nulla. Se
era già buio, mio nonno accendeva una candela. Se era giorno, neppure quello – e credo che
molte volte nessuno se ne accorgesse, che «era andata via la corrente». Cosa che succedeva
abbastanza spesso, peraltro.
Oggi se una città resta senza elettricità anche solo per poche ore «scatta l’emergenza».
Figuriamoci se fosse per alcuni giorni. O per alcuni mesi. O per alcuni anni. Occorrerebbe
rivoluzionare tutto, e non si farebbe in tempo, come per la patata. Ci sarebbero dei morti, e
poi fughe, migrazioni incontrollate. Una tragedia.
Probabilmente non si può fare diversamente, è troppo antieconomico mantenere una corsia
di riserva, una variante «senza elettricità» pronta per l’uso. Però, di fatto, siamo messi come
l’Irlanda con la patata. E non ci pensiamo, come probabilmente non ci pensavano gli irlandesi
quando affidarono quasi tutto il loro sostentamento a quel «nuovo» tubero d’importazione,
presumo più redditizio rispetto alle piante che coltivavano prima (che non so quali fossero, lo
ammetto).
E allora? E allora niente, m’è venuto da scriverlo e l’ho scritto. Se non ci fosse l’elettricità,
resterebbe vergato a penna su un foglio sul mio tavolo. Ma invece l’elettricità c’è e allora ve
lo beccate sul blog. Buona giornata.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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[L'immagine è presa da qui.]
Cade il governo?
giovedì 24 gennaio 2008, 17.20.47 | molinaro
Forse cade il governo, c'è questa specie di canzone che commenta bene
l'accaduto. A me tutto sommato spiace la fine di questo governo (se sarà
confermata), perché non può che essere il preludio a un governo peggiore. E la
"casta" dei politici diventerà ancora più chiusa, e persino i miei figli non vogliono più
andare a votare, e ci sarà sempre più indifferenza, egoismo, qualunquismo. So che
c'è chi non è d'accordo, chi non è d'accordo "da destra" perché preferisce
Berlusconi e chi non è d'accordo "da sinistra" perché pensa che lo sfascio della sinistra ("anche" della
sinistra) porti a nuove potenzialità rivoluzionarie. Rispetto tali idee, ma a me che cada il governo tutto
sommato dispiace. Avrei preferito che potesse attuare il suo programma fino in fondo. Non è il migliore dei
programmi ma è migliore di quello della destra. Qualcosa è accaduto: quest'anno avrò una fiscalità più
leggera, con la mia precaria partita IVA di "contribuente minimo"; la distruzione del mondo dello spettacolo
innescata da Berlusconi è stata tamponata; un 20 per cento in più di lavoro nero è stato smascherato; la
marginalizzazione della scuola pubblica è stata rallentata; le tasse sulle rendite sono state giustamente
aumentate, e altre cosette così. Niente di epocale, ma insomma. L'Italia comunque è un paese
scarsissimo di senso civico, senso dello Stato, senso di appartenenza alla collettività; ognuno si fa i cazzi
propri e forse abbiamo i politici che ci meritiamo. Ecco tutto.
Quando eravamo innocenti?
venerdì 25 gennaio 2008, 16.12.03 | molinaro
Ho trovato appoggiato in un bar Futura, il mensile del master di
giornalismo dell’università di Torino, e mi ha colpito il titolo in prima
pagina: Quando eravamo innocenti. È riferito a una serie di articoli
all’interno che parlano di evoluzioni e involuzioni del mondo del
lavoro e dell’impresa. Un mondo dove, in particolare, non ricordo
che ci sia mai stata innocenza. Ma mi ha colpito il titolo, più in
generale.
Ogni tanto salta fuori quest’idea dell’innocenza perduta, dell’età dell’oro che è
sempre nel passato (non esistono mai testimonianze presenti, qualcuno che dica
«sto vivendo nell’età dell’oro»!), del bel tempo che fu, contrapposto all’oscuro
presente. Dirò francamente che sono discorsi che m’infastidiscono. Ma dove la
vedono quest’innocenza nel passato?
Nel fluire del tempo alcune cose migliorano, alcune peggiorano e altre restano
uguali. Il senato che ieri ha fatto cadere il governo è pieno di cafoni e criminali, ma
negli anni Cinquanta-Sessanta ci sono stati governi orribili (gli operai uccisi dalla
polizia di Tambroni, gli intrallazzi con la mafia, i fascisti riciclati nella DC). Il mondo
del lavoro oggi è frammentato e precario, ma negli anni Sessanta la FIAT era una
caserma e i capireparto qualcosa di simile alla Securitate romena di Ceauşescu. E
tantissima gente, proprio come oggi, si faceva i cazzi propri, cercando solo di non
pagar le tasse e di acquisire privilegi ingiusti. Dove fosse l’innocenza proprio non lo
so. Secondo me non c’è mai stata. Anche in Roma antica c’erano giudici distratti e
senatores che se ne fregavano della res publica.
La sanità pubblica funziona meglio oggi che nel 1960. Le ferrovie hanno avuto
miglioramenti e peggioramenti: oggi ci sono più treni almeno sulle linee importanti,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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anche se sono praticamente scomparsi i servizi nelle stazioni (ma almeno per andare
da Vercelli a Torino c’è un treno regionale ogni ora, mentre quand’ero all’università io
c’era un solo treno possibile il mattino, e veniva da Trieste-Venezia con una carrozza
che arrivava addirittura da Mosca, e noi salivamo all’alba su un treno pieno di gente
addormentata che non voleva farci entrare negli scompartimenti; poi quando c’era la
nebbia era solitamente in ritardo di un’ora e ciao). Le Poste forse funzionavano
meglio nel 1960, ma adesso c’è qualche segno di recupero (vorrei spendere una
parola per l’Ufficio postale di Torino 9, in via Miglietti: sportelli quasi sempre tutti
aperti, personale efficiente, gentile, paziente e collaborativo, tempi di attesa limitati,
ottima organizzazione: quando ci vuole ci vuole, sempre solo lamentarsi non è
giusto!). Insomma, si possono fare tanti paragoni ma io un’età dell’oro nel passato
non la vedo proprio. Nel 1960 c’era meno libertà, l’atmosfera era più fosca, il
conformismo era asperrimo e le ragazze non la davano mai: ma che cazzo di età
dell’oro era?
Anche nelle storie personali, non vedo tutte queste innocenze passate. In ogni
classe sociale ricordo beghe torbide e deprimenti, famiglie dai lunghi coltelli, nei
paesini c’era un’aria irrespirabile di pettegolezzi e rancori, la menzogna e l’ipocrisia
erano la regola. E io stesso mi sento più limpido e libero oggi che trent’anni fa.
Guardo con un certo sospetto Guccini che canta «portavo una coscienza
immacolata», ma forse per lui sarà stato così, ognuno ha la sua storia. La mia non
era affatto immacolata, uscivo macolatissimo anch’io da quel groviglio di vipere che
non era, come qualche duro e puro sostiene, tipico della borghesia, ma di tutta la
società. C’era molta cattiveria. Mi sento più pulito, in coscienza, oggi.
E allora basta con questo Quando eravamo innocenti. Che palle! L’innocenza è una
cosa che si conquista qui e adesso. I bambini non sono innocenti, sono bambini: ci
vuole consapevolezza per essere innocenti. Mi si consenta di autocitarmi, da una
poesia di un po’ di anni fa (a pag. 470 di La parola rinvenuta):
E quanto all’innocenza... L’innocenza
non è l’ingenuità di bimbi ignari
ma l’arduo luminoso benvolere
di chi sa inganni, ferite, viltà.
Forse quel mitico passato è un groppo di sogni, osservato da chi non sogna più.
Forse. Ma io sogno ancora adesso, sogno più di allora. Sogno che farò l’amore con...
e sogno che le prossime elezioni le vincerà una sinistra rinnovata e ripulita. Io di
sognare non smetto proprio, anzi a vent’anni sognavo molto meno. Voi fate un po’
come vi pare. Io dico che l’innocenza non è un punto da cui si parte, ma un punto
verso cui faticosamente si tende. Se lo si vuole. L’innocenza è futuro.
Il quinto canto
venerdì 25 gennaio 2008, 20.39.57 | molinaro
Ci sono versi che a distanza di secoli emozionano ancora
profondamente. Osservate con attenzione Benigni mentre legge il
quinto canto dell’Inferno. A un certo punto, all’inizio dell’episodio di
Paolo e Francesca, è costretto a reimpostare la voce in modo
quasi inappropriato, troppo deciso, per «parare» il pianto. E alla
fine, proprio agli ultimi due versi, quasi cede. E non è un’artificio
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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d’attore per far scena, sono sicuro che non lo è. Guardate gli occhi.
Il quinto canto dell’Inferno è un pezzo particolarmente forte, certo. Se l’inferno
esistesse davvero e fosse fatto come Dante lo descrive, io finirei sicuramente in quel
girone, perché mi annovero, senza ragionevoli dubbi, fra coloro che la ragion
sommettono al talento – anche se in un senso mio, un po’ diverso da quello spiegato
dai commentatori e interpreti danteschi.
D’altronde, è un girone di buona compagnia: oltre a Francesca e Paolo, ci sono
Semiramide, Didone, Elena, Cleopatra, Achille, Paride, Tristano e tanti altri.
Sicuramente ci va anche questa simpatica e graziosa ragazza qui, che mostra
l’autoreggente. Ma pure l'altra che mostra il calzino, vah! E dunque, meglio lì che
altrove.
Inferno, Canto V
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.
Dico che quando l'anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d'inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
dicono e odono, e poi son giù volte.
«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,
«guarda com'entri e di cui tu ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».
E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch'a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid'io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera sì gastiga?».
«La prima di color di cui novelle
tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell'è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.
L'altra è colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch'io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I' cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s'altri nol niega!».
Quali colombe dal disio chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov'è Dido,
a noi venendo per l'aere maligno,
sì forte fu l'affettuoso grido.
«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l'universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand'io intesi quell'anime offense,
china' il viso e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.
Ma s'a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l'uno spirto questo disse,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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l'altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com'io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Scrivere alle sconosciute
sabato 26 gennaio 2008, 13.11.18 | molinaro
Ieri aprendo su YouTube il video di Benigni da inserire nel messaggio, fra i related videos è
comparso quello della ragazza, che ho pure inserito nello stesso messaggio. Che cosa ci
trovi di related il meccanismo di YouTube fra Benigni e la ragazza che mostra
l’autoreggente è misterioso: se il collegamento passa attraverso la lussuria dantesca, è
davvero sofisticato! Poi aprendo il video della ragazza fra i related è apparso quello di una
aspirante velina diciottenne studentessa di Chivasso, e qui forse un po’ più di nesso c’è (ma
poi neanche tanto: una mostra l’autoreggente per gioco in casa – in cucina si direbbe – mentre l’altra tenta la fortuna
su una tivù berlusconiana).
E allora in un soleggiato inconcludente mattino penso che davvero l’amore, il sesso, la bellezza e la passione sono
l’argomento principe da sempre. Non per nulla il quinto canto dell’Inferno dantesco è uno dei più popolari, e non per
nulla il Paradiso di Dante, pur con indubbi lampi d’alta poesia, è infinitamente più noioso dell’Inferno.
E vedere ragazze che mostrano l’autoreggente in cucina o che danzano tentando d’invelinarsi in tivù a noi maschi
piacerà sempre (non sono tanto portato a credere a chi lo nega, benché certo tutto sia possibile). Io però ho un
problema, se così lo si può chiamare. Il problema di non essere un voyeur. Non che non mi piaccia guardare, ho detto
appena tre righe fa che mi piace. Ma, appena «vedo», le mie rotelline cominciano a ingranare trame dirette a
conoscere le fanciulle viste (ovviamente se mi piacciono o m’incuriosiscono in qualche modo). Trame che
normalmente reprimo subito, ma trame serie, concrete, progettuali! Il mio cervello raccoglie automaticamente indizi:
della prima c’è ben poco, in un commento sotto il video c’è scritto che si chiama Lisa (ma il sonoro dice «sei un mito
Cat» – forse Caterina è l’altra, che mostra il calzino). Direi che le possibilità di trovare Lisa (se davvero si chiama
così) sono inconsistenti. Della seconda sappiamo, in sovrimpressione, che si chiama Chiara Calandra ed è di
Chivasso, e qui un punto di partenza ci sarebbe: Chivasso, a 20 chilometri da Torino, non è una metropoli. Tranquilli,
non cercherò questa diciottenne chivassina, non è il caso; ma era per dire che la fantasia di farlo c’è sempre: e in
questo momento sto pensando che scrivendo Chiara Calandra nel blog creo la condizione perché lei trovi me,
eventualmente: non so quanto il blog sia monitorato da Google, ma, ammesso che lo sia, se la Chiara mette il suo
nome e cognome in Google (cosa che certamente ogni tanto farà: lo fanno tutti, e tantopiù una ragazza che aspira a
carriere nello spettacolo), magari le salta fuori questo messaggio in questo blog; e, se lo legge, che cosa penserà?
Mah, se è una ragazza intelligente non penserà nulla di male, credo.
Voi direte: ma anche se, per assurdo, con le mie trame una sconosciuta ragazza vista in televisione o su una rivista o
su YouTube riuscissi a contattarla, poi che ci faccio? Beh, qui entra in gioco l’ottimismo della spes contra spem (lo
stesso per cui penso che le prossime elezioni le vincerà una rinnovata e compatta sinistra che trasformerà l’Italia nel
paese socialmente migliore del mondo, no?): ovviamente penso che ci sarà un colpo di fulmine e succederanno cose
meravigliose!
Poi, ragazzi, normalmente stronco sul nascere le mie fantasie tramanti, ma non sempre. Se vedo una minima
possibilità, io ci provo davvero. E non va sempre male. Vent’anni fa (ma è vero che avevo vent’anni di meno) vidi in
televisione una splendida ragazza. Era un sabato sera, ero a casa dei miei suoceri e mi rompevo i coglioni in modo
inverecondo, guardicchiando la tivù. C’era Fantastico, quella trasmissione presentata da Pippo Baudo che ci fu per
un po’ di anni in quel periodo. Era incentrata su una specie di gara fra giovani artisti debuttanti. Lei era appunto una
giovane artista debuttante e fece una specie di (ovviamente assai casto e ironico) spogliarello. Mi piacque da morire.
Ne memorizzai il nome, e qualche giorno dopo ebbi la fortuna di ritrovarla su una rivista tipo Novella 2000 (sempre
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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di origine suocerale: i suoceri a qualcosa servono) dove c’erano alcune sue foto e si diceva che stava esibendosi al
Bagaglino di Roma. Nome, cognome e un teatro di cui non mi fu difficile trovare l’indirizzo. Tanto bastava per
scriverle una lettera, e gliela scrissi, presso il teatro.
La sventurata rispose. No, via, sventurata no. Ci piacque corrispondere epistolarmente. Poi ci telefonammo anche. E
poi io dovevo andare a Roma per il Premio Montale e ci demmo appuntamento, e lei venne a trovarmi nel mio
albergo. Era un’aspirante attrice ventenne molto carina ma anche molto brava, diplomanda all’accademia, di buona
cultura, appassionata di teatro. Napoletana trapiantata a Roma, una tipa calda e impetuosa, ma molto caparbia e
precisa nel lavoro. La nostra corrispondenza e amicizia durò un bel po’ di anni, ci vedevamo a volte a Roma a volte a
Torino; finché lei si sposò e la persi di vista. Ha fatto una bella carriera. Molto teatro con Luca De Filippo e altri,
esibizioni di cabaret in vari locali, cinema con Klaus Kinsky, Ettore Scola, Nanni Loy, Carlo Vanzina, prima parti
minori poi una parte da protagonista con Pieraccioni, e poi molta televisione, anche un po’ di spazzatura che se
fossimo stati ancora amici glielo avrei detto senza problemi (ma come fai a recitare accanto a Panariello? ma per
favore!), e insomma è diventata abbastanza famosa. Mi spiace che dopo il matrimonio abbia tagliato i ponti. Eh, il
matrimonio!
Poi, solo tre anni fa mandai un libretto di poesie a un’altra ragazza, seconda classificata a Miss Italia. Questa non la
vidi in televisione (avevo ormai abolito il televisore) ma sui giornali, e fui «mosso» anche dal fatto che abitava a un
tiro di schioppo da casa mia. Qui non nacque... molto, però mi rispose con gentilezza, commentando le poesie in
modo sufficientemente accurato per dimostrare di averle lette. E naturalmente mi mandò una sua bella foto con
dedica. Sì, insomma, niente di che, però è stata gentile.
Questo per dire che non sempre è una follia scrivere a una ragazza sconosciuta «vista» da qualche parte. Ci vuole un
po’ di fiducia e di audacia, e poi occorre scrivere delle belle lettere e non delle cazzate, si capisce, e allora qualche
volta... Certo, probabilmente bisogna che siano un po’ debuttanti, concorrenti, aspiranti, insomma note ma non
troppo, e geograficamente non agli antipodi: se scrivi a una superdiva di Holliwood è facile che la tua lettera non le
arrivi nemmeno. Oddìo, io che sono pazzo ho provato a scrivere pure a Winona Ryder (mi fa un baffo a me Matt
Damon, che ci stava insieme), ma sapevo che lì le possibilità erano scarse. In effetti non mi ha risposto. A tutt’oggi.
Insomma, a volte le giovani attrici, reginette di bellezza, aspiranti veline possono anche rispondere alle lettere, e non
da sceme. Nella mia personale esperienza (e mo’ viene la frecciata: in cauda venenum) mi hanno risposto più loro
che certi poeti famosi ma neppure famosissimi, magari anzi famosi un cazzo, che, all’invio di una mia lettera e
magari del mio libro, non mi hanno cagato neanche di striscio. E si fottano, maledette presuntuose primedonne (i
poeti, intendo).
Voce
domenica 27 gennaio 2008, 0.55.17 | molinaro
Stasera sono da solo qui in casa e per farmi compagnia mi sono letto appunto da
solo a voce un po' di poesie mie scritte nel 2007. Perché la voce alla fine è
importante, e se uno è da solo usa la voce anche da solo, e al massimo la mette
qui, così, tanto per condividere. [Chi ha molta fretta può ascoltare questa versione.]
Le palle che rallentano
domenica 27 gennaio 2008, 14.18.34 | molinaro
[Un amico si è permesso di mettere in dubbio che la ragazza con l’autoreggente fosse
davvero fra i related videos di Benigni. Malfidente. Nell’immagine di questo messaggio la
prova, evidenziata da una sottile linea rossa da orecchio a orecchio. Quale sia il nesso
chiedetelo a YouTube, ma fra i related videos di fatto era. Oh!]
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 286 di 404
Questa domenica mattina, ormai non più tanto mattina, sono qui che non faccio pranzo,
tanto stasera ci sarà un’abbondante cena a casa di mia madre a Vercelli per festeggiare il suo settantottesimo
compleanno. Nel cielo nuvole strane, alte, lucenti, si stanno addensando. Ho steso le lenzuola lavate; e sul terrazzo ho
spostato in un punto più soleggiato la marruca o spinacristi (Paliurus spina-christi Mill.), che peraltro la mia fa i
fiorellini rossi mentre dappertutto trovo scritto che dovrebbe averli gialli. Glielo dirò. Sto rivedendo dei testi (tanto
per cambiare), l’aria è un po’ pastosa, la casa è attraversata da una luce pallida. È stupido perdere tempo pensando al
tempo che si sgretola, pensando che anche il nuovissimo anno 2008 ha già quasi sputato via il suo primo mese.
Eppure ogni tanto succede.
Un paio d’anni fa ho scoperto (non ricordo dove l’ho letto) che il moto dei pianeti, Terra ovviamente compresa, sta
rallentando. Che tutto sta rallentando. I dinosauri avevano giornate più rapide delle nostre, la Terra girava più
vorticosa, le maree erano ben più alte perché anche la Luna faceva molto più casino. Insomma è come se un dio
avesse dato un colpo alle biglie (il big bang?) e poi se ne fosse disinteressato, lasciandole lì sul tavolo a rallentare
fino a fermarsi. Viviamo su una biglia che si sta fermando. Ci fermiamo molto prima noi come individui umani
(miliarducci di anni prima), non è qui il problema, ma questo fatto di stare su una palla che rallenta per fermarsi mi fa
un po’ girare (in compenso!) le mie, di palle. Cioè, dà proprio l’idea di un dio che se ne sbatte le palle (sue): ha dato
un colpetto distratto e poi – e poi son cazzi vostri. E in effetti mi sa che proprio così è; ma se ci penso mi deprimo, e
allora meglio che mi rimetta al lavoro, a rivedere i testi. E buona domenica, finché... gira.
[Se ingrandite l'immagine potete notare che il video di Benigni-Dante è stato visto 3989 volte, quello
dell'ignota ragazza 66878 volte. Nessun moto di sdegno, per favore: è naturale, da sempre. Chissà se
Beatrice portava le autoreggenti. No, non le avevano ancora inventate. Comunque su YouTube la cosa
più fastidiosa sono i commenti. Il video della ragazza è gentile, o almeno a me tanto gentile e tanto onesta
pare, ma, sotto, ignoti imbecilli ci scrivono cose come troiona e sborro (oltre a un ipercritico che
puntualizza: in faccia non è niente di che). La volgarità è davvero tutta nella testa di chi guarda. ]
Giocare
lunedì 28 gennaio 2008, 18.53.16 | molinaro
Alla fine mi è venuta voglia anche a me di mettere una cosa su Tu Tubi. Niente amiche con autoreggenti,
e non ho neanche la videocamera, ma insomma, la vista dal terrazzo di casa, presa col telefonino, è pur
sempre qualcosa. Eh, lasciatemi giocare, che sono giornate di lavoro noioso!
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Poesia degli anni Settanta (scritta intorno al 1978, credo)
martedì 29 gennaio 2008, 8.04.59 | molinaro
Prima di uscire di casa per un impegno mattutino, mentre è ancora
buio, penso a questi giorni che si snocciolano così uno dopo
l’altro. Adesso sarebbero i giorni della merla, i più freddi dell’anno
secondo la tradizione, ma non è vero, non fa molto freddo. Anzi.
Mi è venuta in mente, svegliandomi alle cinque, una poesia scritta
prima dei trent’anni, quando ero in parte altr’uom da quel ch’i
sono, e la rileggo e mi domando perché non mi permettevo certe cose, perché non la
pensavo sanamente lussuriosa, quella ragazza là, perché mi rifugiavo nel goccio di
vino, quali tarli di malizioso buonismo avevo in testa, quali blocchi. La poesia, riletta
oggi, mi sembra una specie di compassato e rassegnato vorrei ma non posso e
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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quindi faccio che non volere, un adeguarsi pseudosereno al ruolo di spettatore e
basta. Chissà che cosa mi spingeva così in disparte? Solo timidezza?
Domande sciocche, e adesso devo uscire. Ma voglio mettere qui quella poesia
d’allora. Era molto bella davvero quella ragazza. Aveva due o tre anni più di me,
quindi adesso sarà una signora già più vicina ai sessanta che ai cinquanta, e non
riesco a immaginarla. E la sua bambina, quella che cullava (quintultimo verso), avrà
circa trentacinque anni. E questa poesia, già quando la scrissi, era una poesia dopo,
una poesia dopo che lei si era sposata con qualcuno lì del paese e aveva fatto una
bambina. Il tempo, il tempo.
Ma pensiamo alle cose da fare oggi, sono in ritardo, vado che così per le nove,
massimo nove e un quarto, sono di ritorno a casa.
IL GOCCIO
a Luisa Arata
All’osteria del paesino
non già per il goccio di vino
– che era comunque discreto –
la sera fermavo la moto.
La bimba dal bel portamento
laggiù mi attirava, contento.
Del fresco sembiante bevevo,
ché altro non mi permettevo:
né mai la pensai lussuriosa,
malgrado l’età maliziosa.
Lisetta dietro il banco
versava il mio goccio di bianco.
Come il mio cuore batteva,
quando quel goccio mesceva!
Mentre inghiottivo saliva,
non una sillaba usciva.
Soltanto un’occhiata al turchese
del suo sogguardarmi cortese:
turchese ben più trasparente
del mare vicino lucente.
(Tu mi dovrai perdonare
questo rozzo verseggiare.
Non sono un poeta precoce
e troppo tremava la voce.
Stagioni poi sono passate
lasciando parole immutate.)
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Però come ancora è carina
cullando la sua Valentina!
Che importa se a un altro congiunta?
La semplice sua esistenza
cullava la mia adolescenza.
(da La parola rinvenuta, pag. 52)
Uscire un po' all'ora di pranzo
martedì 29 gennaio 2008, 13.35.31 | molinaro
Dopo Tu Tubi, per ampliare ancora le mie tecnologie, ho voluto provare anche i video di Libero, sempre
solo con il telefonino che altro non ho, e con questa saggia decisione presa pochi minuti fa, che nel video
enuncio e che adesso metto subito in pratica.
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Erba e Autovelox
martedì 29 gennaio 2008, 13.45.00 | molinaro
Leggo sul sito di Repubblica che stamattina alle sei c’era già della gente in coda per
assistere al processo per la strage di Erba. Forse è banale dirlo ma la cosa mi fa un certo
ribrezzo. Che cosa spinge quella gente ad andare a «guardare» un processo dove, oltre tutto,
non c’è neppure la suspence, dato che si è in presenza di due rei confessi e la situazione
sembra molto lineare? (Sì, quei due poi hanno ritrattato, ma in Italia tutti ritrattano, non c’è
mai nessuno che dopo aver detto una cosa la confermi, dai politici più importanti fino
all’ultimo dei balordi: è regola nazionale.)
In vita mia ho assistito in aula solo a due processi e avevo un’ottima ragione per farlo: vi erano imputate due mie
amiche (beh, sì, frequento ragazze vivaci e un po’ sfigate, a volte, no?). Entrambe condannate senza particolari
cerimonie, non essendo parenti né amanti di politici o manager.
Ieri sera a cena con amici si parlava della caduta del governo e delle squallide prospettive della politica italiana. Ma
forse, come ho già detto altre volte, abbiamo quello che ci meritiamo. Forse l’italiano medio è un furbetto egoista,
pronto a ogni stratagemma per evitare un obbligo civile o un onere fiscale o una multa, e per di più, talvolta, è un
voyeur di processi a mostri vari.
Forse non c’entra, ma su Il Sole 24 Ore, che non è il bollettino di un centro anarchico sovversivo, pubblicano intere
paginone con la distribuzione e l’orario di funzionamento degli Autovelox sulle autostrade. A me segnalare la
posizione degli Autovelox sembra favoreggiamento di potenziale comportamento criminoso. A loro evidentemente
no. E a voi forse nemmeno. E allora!
Non la capisco mica tanto, la mia patria.
Un quarto di secolo
mercoledì 30 gennaio 2008, 12.01.40 | molinaro
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 289 di 404
Un quarto di secolo è quello che compie oggi mia figlia Lucia. E
sua figlia fra poco compie quattro anni, e suo figlio un anno. Non
so mai che cosa dire in queste occasioni, ma un messaggio
augurale ce lo voglio mettere, qui. Con la poesia che scrissi per lei
quando nacque. Dunque, venticinque anni fa, appunto. E che
s’intitola, semplicemente, Lucia. Auguri, figlia! Ti voglio bene e
sono contento di te e per te. Sei bella, brava e forte.
LUCIA
Che magnifica mattinata
il giorno che sei arrivata!
Torino ripulita
da un vento di mare
ti stava ad aspettare.
Ho sentito da poche ore
il tuo primo soffiare
mischiato al rifiatare
di Pia, dopo lo sforzo.
Com’è straordinaria
questa cosa normale!
Tutto è come più lustro:
sembra ringiovanito
il vigile in via Alfieri
che respinge con forza
chi vuole posteggiare.
Circolare, circolare!
Non è tempo
da volersi fermare.
(Lo so che caproneggio
con queste rime chiare:
lasciatemelo fare.
Oggi non ho bisogno
d’essere originale.)
È venuta Lucia: dividerà
con noi e l’acqua e il pane.
Si fida: senza indagini o timori
consegna la sua vita nelle mani
degli uomini, che ancora non conosce.
Simile a lei mi voglio abbandonare
almeno un poco
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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sotto questo che penso cielo buono.
(da La parola rinvenuta, pag. 98)
[nell’immagine, ovviamente, Lucia]
Briciole
giovedì 31 gennaio 2008, 0.37.36 | molinaro
Oggi ho pranzato a casa di un’amica e poi da lì ho preso l’autobus per andare a trovare mia
figlia Lucia. Sull’autobus il mio sguardo si è incrociato con quello di una ragazza non bella,
ma carica di una strana misteriosa forza che mi ha immediatamente costretto a guardarla.
L’ho osservata e mi sono accorto che aveva gli occhi lucidi di pianto. Occhi azzurri con una
raggiera di pagliuzze di molti colori diversi. Bionda d’un biondo che solo dopo un po’ ti
accorgi che è biondo. Indossava un cappottino nero a doppio petto, due file di bottoni grandi
di madreperla grigia. Calze con una fantasia grigioscura e stivali neri. Eppure non aveva l’aspetto di una che si veste
di nero – questo è difficile da spiegare. Unghie un po’ lunghe ma non curate ad arte, mani tozze in cui tormentava un
telefonino – però non scriveva né leggeva messaggi, né telefonava. Viso di chi non ha dormito da molto. Malinconica
sì, d’un misto d’amore e rancore, come se si tenesse afferrata a qualcosa con una saldezza riluttante. Come chi vuole
restare e nello stesso tempo andare via. Ci siamo guardati e abbiamo distolto lo sguardo alcune volte, poi ci siamo
concessi di guardarci senza distogliere lo sguardo. L’umido luccicante dei suoi occhi mi ha contagiato, c’è stato un
momento di comunione. Il suo viso aveva qualcosa d’impercettibilmente irregolare, era come sfuocato, sì, era come
se ci fosse una differenza di campo fra lei e il resto della scena. Era a un metro da me ed era lontana molti orizzonti.
Poi è scesa alla sua fermata, io ho continuato il viaggio fino al capolinea, in corso Vittorio.
Ho proseguito a piedi verso la casa di Lucia. Sono entrato a prendere un caffè nella caffetteria Lumière, ho pensato
questa è una caffetteria-pasticceria dove devo portare Clara, perché è un buon posto, una canzone di Paolo Conte in
sottofondo diceva cose pertinenti che però non ricordo più. La cameriera mi ha augurato buona giornata.
Il maglioncino rosa che ho preso per Lucia le è piaciuto molto. È anche merito di Claudia, è lei che girando per
negozi mi ha insegnato a capire che cosa piace a questa e a quella ragazza. L’altro giorno mi ha consigliato una cosa
per Chiara e ha indovinato. È uscito un po’ di sole in via Madama Cristina. Mi sono sentito preso. Mi sono sentito
colmo. I pensieri non mi stavano più in testa. Ho camminato un po’ di più, per ricompormi.
Con Lucia siamo andati alla scuola materna statale (ne esiste ancora qualcuna) a prendere sua figlia e mia nipote,
portando nel passeggino l’altro suo figlio e mio nipote. Lucia oggi ha compiuto venticinque anni. Mi ha detto che
sono stati bellissimi questi venticinque anni, e che se morisse oggi avrebbe vissuto una splendida vita, che già
basterebbe. Meglio viverne però ancora tanti altri, di anni, ha convenuto. Mia figlia e io facciamo spesso discorsi
molto filosofici, fin da quando lei aveva tre anni. C’intendiamo bene.
Sapete, trent’anni fa sarei stato a recriminare per la faccenda della ragazza sull’autobus, sarei stato a far lagne
sull’incomunicabilità, a ripetermi: ma perché non l’ho fermata, ma perché non le ho detto nemmeno una parola.
Oggi, con più pacata e serena disperazione, so che, semplicemente, non è possibile. Non le ho detto nemmeno una
parola perché non c’è nemmeno una parola da dire, perché non ci stanno tutte le vite dentro la vita, perché lo sguardo
e il pensiero sono più vasti del tempo e dello spazio e dunque nelle giornate no, non ci entrano tutte le cose viste e
pensate, tant’è che ormai è notte e io oggi non ho combinato quasi un cazzo.
E scrivo poesie per raccontare briciole, afferro quel poco che resta in mano, il tempo di abbracciarlo con lo sguardo,
il tempo di saperlo o credere di saperlo, e poi lo devo lasciare andare, e spesso mi sento ridicolo come chi volesse
svuotare l’oceano con un cucchiaino. A volte vorrei smettere. Cosa racconto a fare? È un esercizio velleitario, vano,
forse vanesio e impudico, come qualcuno di tanto in tanto mi fa notare. Ma insomma è la cosa che mi viene. È quello
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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che faccio io, è quel poco che riesco a fare. No, non posso smettere. E quindi... E quindi, come dice il Guccini, quindi
tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare: ho tante cose ancora da raccontare, per chi vuole
ascoltare, e a culo tutto il resto. Buona notte!
Elefante e tartaruga
giovedì 31 gennaio 2008, 21.16.47 | molinaro
Oggi in via Garibaldi mi sono fermato un momento ad ascoltare un violinista che metteva
nella strada una bella musica. Dopo un paio di pezzi, che sono melodie che conosco ma di
cui non so né l’autore né il titolo né la nazionalità né l’epoca (mi succede con quasi tutta la
musica), lascio un po’ di monetine nella custodia del violino, appoggiata sul lastricato, e
resto ad ascoltare ancora un altro pezzo. Mi si avvicina un senegalese e mi mette in mano un
elefante e una tartaruga. Le statuine in miniatura di un elefante e di una tartaruga, s’intende.
Probabilmente mi ha abbordato perché ero fermo a sentire musica e avevo dato monetine al violinista: come dire,
piove sempre sul bagnato: chi si ferma e dà, forse non è capace di non dare. Gli ho detto che non avevo quasi più
monete (e neanche banconote), ma, fruga e fruga, dalle tasche sono usciti due euro, e gli sono bastati. Mi ha lasciato
sia l’elefante sia la tartaruga [nell’immagine, li vedete adesso sul mio tavolo].
Secondo me ho fatto un buon affare. Saranno anche made in Taiwan (però non c’è scritto niente), tuttavia è un bel
materiale pesante (una resina, direi) e sono graziosi, di un colore amaranto-granata che mi piace. A un euro l’uno mi
sembrano un buon affare.
Il senegalese mi ha detto che portano fortuna e salute. Ho pensato al perché. Forse perché sono animali longevi. Un
po’ ruvidi e duri ma longevi. Forse per vivere a lungo bisogna essere ruvidi e duri. No, non rimettiamoci a fare di
queste filosofie.
Insomma, ho sentito buona musica (la musica di strada ha un suo modo di essere buona, non serve il virtuosismo di
Paganini), e ho acquisito un elefante e una tartaruga.
E poi avevo ancora un euro in un’altra tasca e vicino a casa, nella pasticceria Cacciapuoti, c’erano le crostatine in
saldo a cinquanta centesimi e ne ho prese due e fra un po’ me le mangio. Un vero scialo, oggi.
Plagio
venerdì 1 febbraio 2008, 16.34.49 | molinaro
Mentre mangiavo il mio chebab di pranzo alla chebaberia (in
questi giorni non sto facendo la migliore delle diete possibili, lo so,
ma è un casino, credetemi è un casino con le cose da fare), c’era
in sottofondo una radio, detta Radio Jukebox, che trasmetteva
un’insipida anonima canzone che però aveva dentro uno stacco
musicale copiato esattamente da una canzone di Branduardi. Non
ricordo quale canzone di Branduardi fosse, ma mi sono accorto che era proprio
identico, preciso. Fa più o meno così. Non esiste ancora un motore di ricerca «a
canticchiamento» (e meno male che non esiste! non esageriamo!), dunque mi terrò
la curiosità su quale canzone è, però certamente è un plagio, evidentissimo. Mi
domando come possano copiare in maniera così sfacciata. Ma forse è una domanda
stupida. Mi rimetto al lavoro, che il mio lavoro non lo posso copiare da nessuna
parte, lo devo proprio produrre io ex novo. Vabbuò. La giornata è uggiosetta, grigia.
Farneticazioni volanti d'un sabato mattina
sabato 2 febbraio 2008, 14.54.17 | molinaro
Sono preoccupato per A., è da quattro giorni che non la trovo al telefono. Per una dozzina
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 292 di 404
d’anni non abbiamo lasciato passare un giorno senza vederci o sentirci, poi la cosa si è
rarefatta e abbiamo anche smesso di fare l’amore (di preciso non so perché), ma quattro giorni che non la trovo mi
preoccupa, lei vive da sola, potrebbe essere successo qualcosa, però lei mi ha detto di non cercare notizie in giro se
non la trovo.
D’altronde F. sono più di due anni che è desaparecida e quando ho insistito nel cercarla mi ha detto, dopo mesi di
silenzio, che non rispetto la sua sensibilità, dopodiché è ripiombata nel silenzio. Non so più dove sia, dove abiti, che
cosa faccia nella vita.
Invece C. e R. hanno risposto stamattina ai miei sms e questo va bene, e le vedrò in settimana, ma ho come un’ansia.
Non dovrei: ieri ho passato una bella serata con un’altra ragazza, C., oggi dovrebbe arrivarmi una lettera di C... E
quest’esigenza di privacy fra l’altro mi fa impazzire: partecipano alla mia vita cinque o sei donne e ragazze (e tre o
quattro uomini) che hanno il nome che comincia con la C, inoltre mettere solo l’iniziale puntata mi sa di giornalaccio,
ma inventare nomi di fantasia è ancora peggio. In America se ti ammazzano da piccola sei baby Jane, non basta che
sei morta, ti danno anche della baby Jane. In Italia usano più varietà di nomi, ma è un fastidio. Leggo cose tipo
Chiara (ovviamente è un nome di fantasia) era stata vista sul luogo del delitto... Ma coglione di un giornalista, se si
chiama Luisa o Edvige o Michela tu come ti permetti di chiamarla Chiara, che è un nome che appartiene ad altre? I
nomi sono importanti! Vabbè, lasciamo perdere.
Sicuramente c’è qualcosa di anomalo in me. Ieri in un commento mandato qui sul blog via sms dalla casa di C. (una
delle C.) parlavo di tivù spazzatura. Ma forse non è così. Mentre ci riposavamo sul letto abbiamo guardato un po’ di
tivù a caso e quello che ho visto mi ha innervosito (è un bene che io non abbia il televisore): prima c’era una ridicola
professoressa che andava in uno stereotipatissimo luogo di battone a cercare appunto una battona, stereotipatissima
anche lei, di cui s’era innamorato un suo stereotipatissimo amico imbranato, tutto molto ridicolo, roba che se
Almodóvar fosse morto si rivolterebbe nella tomba. Poi c’era un ragazzo che smetteva di baciare una tipa per
inseguire sua sorella (sua di lui) che rischiava di posare (neanche nuda, al massimo un po’ in deshabillé) per un
fotografo bravo e famoso (così parrebbe, dal contesto), e lui invece di essere contento va nello studio e la trascina via
(mi ha spiegato poi C. che non sarebbe il fratello ma il fratellastro e sarebbe innamorato di lei, roba vagamente da
tragedia greca, comunque la sostanza non cambia).
Allora ho pensato alla tivù spazzatura ma forse non è vero, è solo che rispecchia il comune sentire della popolazione
media. Come i politici: diciamo politici di merda, ma rispecchiano chi li ha eletti. Qualcuno avrà ben votato per
Mastella e Berlusconi, no? E forse è pieno di fratelli e fidanzati che s’incazzano se la sorella o fidanzata posa [semi]
nuda per un fotografo.
Mi sento alieno. Se insisto a cercare un po’ F. non rassegnandomi alla sua scomparsa (magari lo scomparire violenta
la mia sensibilità – posso averne una anch’io, o no? – a volte sembra di no) allora non rispetto la sua sensibilità (ma
non pensate a molestie, ora: qualche lettera, un sms magari ogni quindici giorni, un paio di tentativi di telefonata in
un anno, e poi ho smesso, con dolore).
Se scrivo una volta i nomi per esteso invece che tutte queste fastidiose A. e F. e C. e R., sono un insensibile che non
rispetta la riservatezza.
Ma un coglione che irrompe in uno studio fotografico per trascinare via la fidanzata o sorella, onde impedirle di «fare
una sciocchezza», forse per il telespettatore medio (per l’italiano medio?) compie un nobile e quasi eroico gesto,
come il cavaliere che la salva dal drago. Secondo me invece compie una violenza, tenendo in sommo spregio la di lei
intelligenza, autonomia e libertà, ma io sono un alieno.
Se sono un alieno allora però lasciatemi dire che su codesto vostro pianeta ne avete di bachi e di torbido in testa!
Comunque sono preoccupato per A., oggi provo a ritelefonarle. Sì, lo so, sono pazzo, tutti si chiudono in una casa
con una donna [e guai se va a posare da un fotografo!], io invece cerco di tenere collegati mille fili leggeri, fili di
comunicazione e amore libero ma presente, non guinzagli che imprigionano involucri di coppie e famiglie foss’anche
nell’assenza del cuore; e magari la mia è un’impresa impossibile, e alla fine colleziono soprattutto mancanze e
nostalgie. Ma chi se ne frega, sono un alieno e noi alieni siamo tosti.
Chissà se M. ha ricevuto quegli esiti che aspettava. Chissà se E. sta bene con il fidanzato e chissà se prima o poi mi
riscrive. Chissà se G. è tornata a rasserenarsi nella casa azzurra. Chissà se F. sta bene in Germania. Che fine avrà
fatto M. in Giappone? Chissà se G. passeggia sul lago con il suo dottore, o ancora si tormenta per B. o si sente sola.
Chissà se oggi il marito di C. la fa star bene. Chissà se C. voleva davvero studiare in quella facoltà. Chissà se C. ama
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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davvero l’agente immobiliare, o pensa ancora a C. oppure potrebbe pensare un giorno a me. Chissà se A. ogni tanto
ricorda i nostri incontri a Porta Susa. Chissà se M. è sempre così agitata in giro per Genova. Perché D. non mi ha mai
più fatto sapere nulla di lei? Perché V. mi guardava male alla laurea di F. e poi è scomparsa anche lei? Perché da un
giorno all’altro S. ha smesso di rispondere alle mie lettere? Potrà succedere che anche C. scompaia così? E anche R.
magari? Perché io in 54 anni non sono mai «scomparso» per nessuna? Alieno, alieno.
Sono vasto, contengo moltitudini; sono le moltitudini che non contengono me. Sì, certo, l’insicurezza e la precarietà
fanno parte della vita, ma tanti qui sembra che lo facciano apposta. Pensate ad amare e a non scomparire, cazzo,
invece di tormentare figlie sorelle e fidanzate che posano per i fotografi o hanno i loro vari amori. Il tempo per
esserci c’è [frase leggermente ambigua: voglio dire che abbiamo il tempo per esserci nelle storie e nelle relazioni].
Magari perdendone di meno davanti alla tivù. Forse è la tivù che preserva le famiglie, togliendo il tempo per altri
pensieri?
E poi, deshabillé o déshabillé? In giro per internet trovo entrambe le forme. Ho pensato che la prima e potrebbe stare
senza accento perché è in sillaba chiusa e quindi non è comunque muta (come in Descartes). Ma la h di habillé mi sa
che non è aspirata, e allora la sillaba potrebbe anche essere considerata aperta, come in désordre. Con il des- iniziale
bisogna un po’ vedere. In genere davanti ad altra consonante cade la s, come in dépêche-toi. Massì, Carlo, spicciati,
non perdere tempo in queste cose. Chissà se i francesi ci tengono ancora agli accenti giusti. Speriamo di sì. C’è già
troppo svacco. Detesto le cose mal curate. Basta, vado a cagare, che mi scappa, e poi faccio pranzo. Buon sabato.
Scontrini
mercoledì 6 febbraio 2008, 17.13.10 | molinaro
Una ripulita al portafogli, che lo devo cambiare, è ormai completamente sfasciato, e saltano
fuori bigliettini e scontrini di varie epoche e varie località [nell’immagine, una piccola
selezione]. Chi ha qualcosa da nascondere fa bene a buttarli via subito: potrebbero rivelare,
chessò, a una moglie itinerari insospettati del marito. Ma per indagini poliziesche sarebbero
inaffidabili: per esempio, a me piace raccattare sul treno biglietti usati abbandonati, purché
puliti e in buono stato: non è che li conservo, li butto via poi dopo, ma li tengo un po’ con
me. In fondo lo scopo di tutti i nostri sforzi, e anche della poesia [vedi quella qui sotto, tratta da La parola rinvenuta,
pagg. 551-552], è perdere le cose un po’ dopo. Quindi trovarmi in tasca un biglietto Cucciago-Milano può non
significare che sono stato a Cucciago, ma solo che ho trovato quel biglietto su un sedile in uno scompartimento del
Milano-Torino. Se ne tenga conto. Ci vuole acutezza e fantasia anche per indagare senza commettere strafalcioni. Di
fatto, non sono mai stato a Cucciago. Chissà com’è. Magari è un bel posto.
Non è facile comunicare. Il guazzabuglio che abbiamo in testa si riflette nel guazzabuglio delle parole e dei gesti.
Decifrare una frase o un testo, decifrare uno sguardo. Non si è mai sicuri. C’è anche chi non si impegna: scopro oggi
sul giornale che il venti per cento dei laureati è sostanzialmente analfabeta e non me ne stupisco: a leggere ciò che
scrivono avrei detto molti di più. Di mio, ho sempre il timore di capire ciò che voglio e non ciò che è, e perciò
raramente mi fido delle mie intuizioni, quasi sempre alterate dalla tramontana sferzante del desiderio. Appartenendo
al novero di coloro che la ragion sommettono al talento (cfr. messaggio n. 232), non posso mai sapere nulla con
certezza di ragione. Questo crea a volte qualche problema, qualche malinteso, ma tant’è. Lasciamo ad altri la
conoscenza oggettiva del soggetto (un ossimoro?). Non sono uno scienziato della psiche. Sono un ordinato poeta del
cosmico caos. O un caotico poeta del cosmo ordinato. Fa lo stesso. È un casino. Ritmo! Olè.
In questo istante, ore 15.52 del 6 febbraio MMVIII post Christum natum, mi telefona Claudia che trilla felice: «L’ho
passato! Ventisette!» – e racconta e racconta dell’esame e del pomeriggio in facoltà, che cosa le hanno chiesto, e poi
chi ha incontrato, e le mancano solo due esami alla laurea triennale, e le parlo con il vivavoce mentre continuo a
scrivere, in diretta, e si è contenti, e fuori c’è il sole che inclina sui tetti, e questi sono fatti, e se io non capisco mai
niente, pazienza.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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CHE COS’È UNA POESIA?
Dopo la serata poetico-musicale all’Humpty Dumpty
a Genova il 23 febbraio 2006
con Davide Ivaldi, Luca Pagani, Cesare Oddera e Francesco Vico
Giulia non ama il miele né altre cose
prodotte dalle api. Titty ha
i capelli a fusilli, il musicista
più alto ha qualcosa di Troisi,
c’è un asse con i chiodi con su scritto
questo è un appendiabiti. Due stanze
di locale occupato con noi tre
che leggiamo poesie. Soffia il vento
in via delle Fontane. Che cos’è
una poesia?
Forse soltanto un modo per non perdere
subito tutto – per perderlo dopo.
Per prolungare l’attimo fuggente:
cose d’amore, prevalentemente.
Ho scatole di lettere in soffitta
nella casa di prima. Dovrei mettermi
d’accordo con chi ancora abita lì
per andare a riprenderle. Però
non trovo il giorno giusto. Ho da vivere
questi amori di adesso. Lo farò
quando sarò più vecchio o forse mai.
Qualcuno un giorno con semplicità
prenderà tutto e lo butterà via.
Cesare e io passiamo per Savona
a lasciare giù Mac, Francesca e Giulia.
Giulia è così linda – allora scrivo
quello che so di lei, che è molto poco:
non ama il miele, e ha un padre fascista.
Quando conosco una ragazza linda
scrivo di lei foss’anche quasi nulla
per non perderla subito, per perderla
un giorno dopo.
Savona non è bella, conveniamone,
a tarda notte un giovedì qualsiasi:
c’è aperto solo un autogrill per prendere
un panino e una pasta. Eppure annoto
anche Savona e l’autogrill, per non
perderli subito.
Cesare lui è bravo a seminare
sguardi e battute e saluti affettuosi
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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in questi posti così impermeabili
all’attenzione, in questi posti dove
la gente passa quasi senza accorgersi.
Così poi sono suoi almeno un minimo
– e lui lo fa, io so che lui lo fa,
per non perderli, non perderli subito.
Siamo strane creature sì lo siamo.
Annoto amori minimi e persino
amori altrui che poco mi riguardano:
dietro Savona ritrovo annotato
fra una via stretta e un brutto caseggiato
il nome di Virginia.
Così già quasi vecchio, vagabondo,
senza lavoro fisso, ho un grande archivio
d’annotazioni inutili, disperso
nei luoghi più improbabili, anche in luoghi
che più neppure esistono.
Qualcuno un giorno con semplicità
prenderà tutto e lo butterà via.
Che cos’è una poesia?
Imperialismo linguistico
giovedì 7 febbraio 2008, 8.15.58 | molinaro
Nell'immagine, la carta intestata dell'Ufficio Filatelico. Ah no, scusate: della
Business Unit Philately. Non se ne può più. Compro i francobolli lì non per
collezionarli ma perché mi piace, quando posso, affrancare le lettere con francobolli
belli (una lettera ben confezionata è sempre un'opera d'arte che rallegra lo spirito),
e comunque hanno lo stesso prezzo di quelli brutti ordinari, dunque è un lusso che
posso permettermi. Ma adesso l'Ufficio Filatelico si chiama Business Unit Philately,
e io non so se mi sento ancora di usufruirne. Non ne posso più dell'invasione dell'inglese. Passi per il
computer (nel mio romanzo lo chiamo sempre «elaboratore elettronico», ma capisco che è una battaglia
persa, almeno in Italia - mentre in Francia lo chiamano benissimo ordinateur, loro non son sempre lì proni
a culo aperto davanti all'invasore - a proposito, il mio romanzo probabilmente sarà ristampato, vi terrò
informati), passi per certi termini che indicano cose nuove sulle quali l'italiano è impreparato (per quanto,
come insegnano appunto i francesi, le parole si possano sempre creare), ma che l'Ufficio Filatelico si
chiami Business Unit Philately (e che la sanità si chiami welfare, e il biglietto ticket, e cazzate del genere)
è insopportabile. Cioè, insopportabile no, dato che lo sopportiamo benissimo, purtroppo, ma schifoso e
ributtante sì. Non ho nulla contro il popolo degli Stati Uniti d'America, che, con tutti i suoi difetti, credo
abbia più senso civico di noi (d'altronde ci vuol poco, noi italiani come senso civico siamo sempre in zona
retrocessione, nella classifica mondiale), ma con questa invasione imperialistica linguistica (a cui gli
svaccati italiani non oppongono alcuna resistenza), l'inglese me lo fanno odiare. Basta, basta, non se ne
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 296 di 404
può più! Business Unit Philately! Andate a cagare! E poi sempre quella parolaccia business, che cosa
c'entra il business con i nobili francobolli dello Stato? La parola business la detesto particolarmente. Il
prossimo che dice business in mia presenza si prende un ceffone, ecco. Una volta si dava un ceffone ai
ragazzini che dicevano cazzo o figa, potrò ben io dare un ceffone a chi dice business, che è assai peggio
del cazzo e soprattutto della figa. Morte all'inglese invasore. Abbasso il business. Viva la figa.
Due poesie oggi
sabato 9 febbraio 2008, 0.34.47 | molinaro
Venerdì sera, giornate limpide che sembra primavera. Oggi ho scritto due poesie e ve le
metto qui. Buon finesettimana! [Che cosa c’entra l’immagine? Beh, sono sempre rotoli di
carta, come quelli sui quali anticamente si scrivevano versi – forse – e poi sono molto utili,
e questi mi sembrano disposti in modo artistico, nel cesso di un simpatico bar.]
LA SERA DI UN GIORNO CON BACI
Dopo certe giornate io
se avessi trent’anni di meno
mi domanderei «che cos’è l’amore»
e starei a cercare di capire,
di mettere ogni cosa al posto giusto.
Ma poiché quei trent’anni son passati
e non ho tanto tempo da perdere,
lascio le cose nei posti sbagliati,
riassaporo i baci del giorno
e ringrazio il destino.
MANUALE PER FARE LE BOLLE DI SAPONE
Per fare una sola bolla grande
devi modulare bene il soffio:
adagio ma non troppo,
alla giusta distanza:
s’impara con un poco d’esperienza.
Per fare numerose bolle piccole
devi soffiare più forte:
allegretto con brio,
ma senza esagerare:
con un po’ d’esercizio si può fare.
La coppia, l'amore, l'impronta, la storia (alcuni appunti)
domenica 10 febbraio 2008, 13.21.07 | molinaro
Provate a immaginare il seguente dialogo fra Tizio e Caio. [Vale anche
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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fra Tizia e Caia, volgendolo al femminile.]
–
–
–
–
–
–
–
–
Sai, non sono molti. Amici veri, amici buoni, credo di averne in tutto tre.
Come? Brutto porco schifoso!
Eh?
Vuol dire che non t’importa nulla di nessuno di loro.
Ma che dici? M’importa di loro, e a loro importa di me; proprio per questo li chiamo amici.
E ciascuno di loro può sopportare che tu ne abbia altri due?
Naturalmente.
Allora vuol dire che anche a loro non importa nulla di te. Siete solo dei maiali.
Un dialogo dell’assurdo, no? Ma provate a sostituire alla parola «amico/a» la parola
«fidanzata/o» (o «morosa/o» o altro termine equivalente), e vedrete che diventa un dialogo
comune, sentito tante volte.
Perché, fra tutte le più nobili relazioni umane, il rapporto uomo-donna è l’unico a essere
afflitto da una sorta di “obbligo percepito” [ma in altre società obbligo, ahimè, anche reale]
all’esclusività binaria, alla coppia intesa come sistema chiuso?
Beh, le ragioni storiche ci sono e sono molte, certo. Il rapporto uomo-donna spesso non è
soltanto [e in certe società non è affatto] un rapporto amoroso-affettivo. È anche [o
soprattutto] un contratto che deve regolare l’attribuzione della prole, le responsabilità al
riguardo di essa, le eredità, le fusioni patrimoniali, gli scambi finanziari, i ruoli, le norme, le
obbedienze, e in sostanza la proprietà – o quantomeno appartenenza – di cose e persone. Se
così non fosse, il matrimonio non esisterebbe e non sarebbe mai esistito: chi mai si sarebbe
sognato di regolare l’amore in un contratto? Infatti, per l’amicizia non avviene e non avrebbe
senso.
Non a caso la parola «matrimonio» è così affine a «patrimonio». Il matrimonio è una
gestione patrimoniale fra le cui variabili entra (viene acquistata) una mater. Ecco tutto,
almeno nelle società con radici patriarcali, cioè la stragrande maggioranza nella storia degli
ultimi due millenni.
Il rapporto uomo-donna è stato finalizzato a questa gestione e organizzazione e soltanto a
essa: ogni altra possibilità è stata demonizzata (il famoso «sesso fuori dal matrimonio», a
tutt’oggi considerato dal cattolicesimo – come dall’islam e dall’ebraismo – un peccato
mortale che condanna inesorabilmente tutti i giovani non sposati e non vergini, oltre che gli
sposati che hanno rapporti con persone diverse dallo sposo/a).
Appare evidente che in tutto questo l’amore non c’entra neanche di striscio. I più avveduti lo
sanno da sempre, del resto, che matrimonio e amore sono due elementi ben distinti, e che la
presenza del secondo nel primo è del tutto incidentale, provvisoria e non necessaria.
Tuttavia, un’impronta così profonda, millenaria e totalitaria, continua a condizionarci – è
quasi ovvio – anche nel momento in cui il rapporto uomo-donna diventa una cosa d’amore
(quindi anarchica e incontrollabile dal potere) e si svincola, in tutto o in parte, dalle suddette
regole contrattuali. E finiamo con il credere che la coppia chiusa, l’esclusività del rapporto
uomo-donna, sia qualcosa di naturale e universale, e non il prodotto di una determinata
gestione sociale-patrimoniale. Ed ecco allora che si può sentir dire che, se hai tre fidanzate,
non t’importa di nessuna di loro. Tre amici invece li puoi avere. Perché? Secondo me, è solo
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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perché l’amicizia non è stata inquadrata per duemila anni in uno schema contrattualepatrimoniale binario. Il rapporto uomo-donna invece sì.
Ora, si può discutere se l’organizzazione contrattuale denominata «coppia» (e poi, in
presenza di prole, «famiglia») sia intrinsecamente necessaria alla società, e in particolare al
generare figli. L’assenza di valide alternative farebbe propendere al sì, è necessaria.
Attenzione però al circolo vizioso: potrebbe essere la stessa millenaria dominante totalitaria
presenza della coppia-famiglia ad avere impedito l’elaborarsi di valide alternative. Il serpente
si morde la coda.
Quello che invece mi pare chiaro è che il rapporto amoroso uomo-donna è del tutto
indipendente da tali strutture. Non a caso i grandi amori della storia e della letteratura sono
tutti pre-coniugali (modello Romeo e Giulietta) o extra-coniugali (modello Paolo e
Francesca). Se il rapporto amoroso è svincolato dalle strutture socio-patrimoniali che
prevedono la coppia esclusiva, è svincolato appunto dalla coppia esclusiva. È semplicemente
libero, come l’amicizia. Come l’amicizia, può essere più o meno forte, saldo, precario,
duraturo, fuggente, perenne, eterno, momentaneo. Come l’amicizia, può tradire e può
spegnersi indipendentemente dalla presenza di «altri». Come l’amicizia, può essere rivolto a
più di una persona contemporaneamente.
Dunque, concludendo, chi dice «se hai tre amori significa che in realtà non t’importa nulla di
nessuno» dice una solenne cazzata.
Invece chi dice che dovrei impegnarmi di più a lavorare e guadagnare denaro, invece di
perdere tempo a scrivere queste scemate in un blog, forse non ha tutti i torti.
E per giunta c’è pure chi, le quattro pinzillacchere che ho messo in questo messaggio,
riuscirebbe a sbrodolarle per la lunghezza di un libro, farcendole di aggettivi, digressioni e
incisi, e a venderlo pure.
E vabbè. Io no. Io son conciso, che il mondo è vasto e breve è la vita.
Una sera, un treno
lunedì 11 febbraio 2008, 0.37.33 | molinaro
Treno serale, dopo cena, fra Vercelli e Torino. Vagoni vecchi, di quelli a due piani con
cinque posti in fila, stretti, che una volta trovavo solo in Liguria, sulla Savona-Sestri.
Affollamento medio, luce bassa, grigia. Non c’è ovviamente nessun altoparlante ad
annunciare nulla, ma c’è il capotreno che gira per le carrozze e dà, ad alta voce, indicazioni
utili, molto più ricche di quelle che scandiscono sui treni di lusso con gli altoparlanti. La
prossima stazione, a che ora ci arriviamo, quali coincidenze vi si trovano e quanto tempo c’è
per il trasbordo. Qualcuno sonnecchia, lui lo sveglia per rammentargli che deve scendere a Chivasso per prendere il
treno verso Aosta. Si vede che l'ha tenuto a mente dal biglietto che ha forato prima. A chi esce dalle carrozze, ricorda
di verificare di non aver dimenticato nulla. Anche prima dell’arrivo a Torino, spiega a tutti che la prima è Porta Susa,
la seconda Porta Nuova, capolinea del treno. Insomma, accudisce amorevolmente il suo convoglio. Infine una
passeggera, incuriosita, gli domanda perché si impegni così tanto, su e giù per il treno.
– Bisogna pur dare un senso alla vita – le risponde serio e pacato il capotreno.
Giuro che è tutto vero, poco fa, tra Vercelli e Torino, sul treno regionale numero 2030. Che, sospinto da tanta buona
volontà, è giunto a Porta Susa con tre minuti di anticipo. Osservato e semplicemente riferito con fedeltà dal vostro
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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umile guardatore di vita, e buona notte a voi tutti.
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IL
DETONNATORE – GRANDE NOVITÀ
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Sarà capitato a tutti voi di voler mangiare un’insalatona in un bar e di scoprire che è rimasta solo l’ultima,
composta da radicchio, cicorino, mais, pomodoro, uovo, carote e tonno. E se non vi piace il tonno? E se siete
allergici? E se siete di quei vegetariani che non mangiano neanche il pesce? Vi trovate nei guai! Che fare?
Rinunciare?
No! Non dovete mai più rinunciare! Da oggi c’è il detonnatore, un’esplosiva novità che vi permette di togliere
tutto il tonno dalla vostra insalata! Il semplice ma geniale dispositivo è costituito da una gabbietta con sportellino e
da un famelico gatto. Accostando la gabbietta all’insalata e aprendo lo sportellino, il gatto caccerà fuori la testa e
slapperà via tutto il tonno, lasciando per il vostro gradito spuntino un’insalata perfettamente detonnata.
Non viaggiate mai più senza il vostro detonnatore. Lo trovate nei migliori negozi a soli euro 99,99 IVA inclusa
(anche con finanziamento a tasso zero in tre comode rate da euro 33,33). Il detonnatore è un prodotto esclusivo
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L'esplosione dell'edicola
martedì 12 febbraio 2008, 13.56.41 | molinaro
Capire, capire. Tante volte lascio correre, perché a chiedere
sempre sarei un rompicoglioni. Ma restano un sacco di cose non
capite. Anche nelle canzoni. Su questi versi di De Andrè
C’è chi lo vide ridere
davanti al Parlamento
aspettando l’esplosione
che provasse il suo talento,
c’è chi lo vide piangere
un torrente di vocali
vedendo esplodere
un chiosco di giornali.
mi sono sempre domandato: ma è lui che ha messo male la bomba o gliel’hanno
spostata? O nessuna delle due, e c’è una terza spiegazione completamente diversa?
Sì, è una cazzata, forse, ma è per dire che nella vita ci sono tantissime cose che
passano così, non capite. Buona giornata a tutti.
Annotazione sul quaderno
mercoledì 13 febbraio 2008, 0.11.20 | molinaro
Stasera sono preoccupato e lo dico, senza modi, senz’arte e senza stile. D’altronde non ricordo di avere mai promesso
a chicchessia di fare un blog letterario o arguto o accattivante o che cazzo ne so. La mia idea di comunicazione con il
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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mondo è diversa. Questo non è mica un libro da vendere. Non è obbligato a piacere a nessuno. Sono preoccupato
soprattutto per tre donne, per ragioni completamente diverse. Una è alle prese con una malattia, e questa è la cosa più
grave. Un’altra è alle prese con questioni familiari-maritali e decisioni importanti che alla fine riguardano anche me.
La terza è come svanita in brume lomelline, credo non sia felice, ma non mi dice più nulla. In sostanza, per nessuna
delle tre posso fare qualcosa. Contro una malattia non ho poteri, ma non ne ho nemmeno in questioni familiari altrui,
e neppure contro un muro di silenzio e nebbia. Tre preoccupazioni e tre impotenze, tutto qui. E oceani di parole che
girano, girano, girano a vuoto. Fortuna almeno che in queste sere con me c’è una ragazza e ci si fa un po’ di
compagnia, ora sono qui che scrivo e lei è sul letto che disegna. E poi si vedrà. E speriamo in bene. E che tutto vada
nel migliore dei modi. Naturalmente soprattutto per la malattia, e poi anche per gli altri garbugli. Incrociamo le dita.
E se qualcuno domanda perché lo scrivo qui, gli rispondo che non sono affatto tenuto ad avere un motivo. Buonasera.
Piccoli sorsi interrotti. Pausa.
mercoledì 13 febbraio 2008, 9.29.15 | molinaro
Forse ho fatto male ad aprire un blog. Ci sto pensando. Pensando a pezzettini, perché ho
troppe altre cose da fare e troppe cose in testa. È che forse questa non conoscenza,
pseudoconoscenza, non so come chiamarla, delle persone sul blog, mi dà più ansie che
appagamenti o soddisfazioni. Vedo i nomi nel riquadro delle visite, anche quelli che non
lasciano commenti. Vedo andare avanti il contatore, spinto da quelli che non lasciano
neanche il nome nel riquadro delle visite. Poi ci sono quelli che lasciano un commento –
pochi, in proporzione alle visite, o almeno così mi sembra – ma neppure questi li conosco. Parole buttate lì, piccoli
sorsi interrotti, per usare un verso di De Andrè. E mi accorgo che spesso cerco di confezionare dei bei messaggi per
suscitare commenti, contatti, che in fondo sogno sempre come reali, come abbracci, perché le parole sono un mezzo e
non un fine, tantopiù su un computer – per me è così. Una forma di adescamento, che produce però solo piccoli sorsi
interrotti. Perché probabilmente non esiste altro. E a volte mi domando se non sia tutta così la vita, anche quella
reale: cercare di farmi bello, di essere adatto, per ottenere una vicinanza che poi è sempre un piccolo sorso interrotto.
E magari sentirmi dire da qualcuna che non so dare, che sono avaro, stitico. E chi lo sa? Ci sto pensando, pensando a
pezzettini. Non sto tanto bene, sono sommerso dal lavoro e fatico a concentrarmi, sono preoccupato, mi sento solo.
Vorrei scrivere orrendamente, scrivere pò con l’accento, magari quocere con la q, scrivere xkè al posto di perché
come le ragazzine trulle, di cui però qualcuno s’innamora, molto spesso io. Non voglio confezionare belle cose,
voglio essere me stesso, qui forse non è il posto adatto e allora devo capire a che cosa serve, se serve a qualcosa, o se
non sia invece uno sfogo-droga, che poi parlo (parlo?) qui (qui? cos’è?) e magari non riesco a parlare con le poche
persone che ho accanto davvero. Non so, ci penso, ho da lavorare, sono stanco, non sto tanto bene, ci sono delle cose
da cambiare, mi prendo una pausa. Ciao.
Caos calmo
martedì 19 febbraio 2008, 11.29.58 | molinaro
Interrompo la pausa per scrivere la recensione di un film che
ho visto ieri sera. Una cosa neutra e innocua, una recensione.
Ma già prima di scriverla mi accorgo che non è vero. Non
essendo questo un giornale né una rivista e non essendo io un
giornalista né un critico cinematografico, la recensione di un
film risulta, qui, personale e intima, né più né meno che
raccontare con chi faccio l’amore o di che angosce soffro o quali gioie provo
nella vita. Aspetti diversi del medesimo esistere. A me viene così, se sia normale
non lo so, e alla fine chi se ne frega.
Credo che ci sia anche un destino nelle scelte e nelle combinazioni. Del film non
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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sapevo nulla (in questo periodo non leggo neanche i giornali), sono andato a
vederlo semplicemente perché in genere mi piace Nanni Moretti. Non avevo
idea, neppure alla lontana, di quale fosse l’argomento trattato. E ho trovato un
film che parla delle cose su cui più sto meditando in questi giorni o in questi
mesi. Ovvero il sentire (preferisco evitare la parola sentimento, è troppo
connotata, forse è stata infettata dal suo corrispondente aggettivo sentimentale,
che fa cagare – spesso gli aggettivi sono pericolose mine vaganti), il comunicare
ciò che si sente, e il capire ciò che sente l’altro.
Il film tratta diversi temi (fra cui la ferocia consueta del mondo del lavoro e gli
effetti devastanti delle fusioni tra aziende, di solito esaltate come successi dalle
mosche del capitale – come le chiama Volponi – ma, di fatto, vere macellazioni
e decimazioni per i lavoratori) ma il nocciolo, mi pare, è quello: sentire,
comunicare, capire.
Detto così suona un po’ generico e universale, lo so, ma il pregio di Moretti è
saper scavare in modo ancora originale in questa universalità, cogliendone gli
aspetti più legati al vivere della società contemporanea.
Lo spunto di partenza della storia si collega in qualche modo a La stanza del
figlio: là è un figlio che muore lasciando i genitori a gestire il lutto (trovo feroce
questa locuzione però si usa, pare sia lessico della psicanalisi, a me gestire
ricorda sempre qualcosa di gelido, tipo ufficio del personale, ma tant’è,
adattiamoci), qui è una moglie che muore lasciando da solo l’uomo con una
figlia in età di scuola elementare.
Non si capisce (o almeno io non ho capito: altri spettatori più intelligenti magari
sì) se la morte della moglie sia malore, incidente o suicidio. La si vede a terra
nel prato di casa, e basta. La bambina grida «mamma è caduta», ma questo è
compatibile con tutte e tre le ipotesi, che si sia accasciata al suolo o che sia
volata dal balcone, volontariamente o no.
Pietro, il marito (Nanni Moretti), probabilmente non la amava molto: ed è
fondamentalmente su questo, oltre che sul rapporto con la figlia Claudia, che si
interrogherà per tutto il film. Poi ci sono un suo (di lui) fratello Carlo un po’
trullo, che di lavoro indossa dei jeans, se ho ben capito (insomma, fa della
pubblicità), una sua cognata (sorella della moglie morta) schizzatina di cui già
ho scordato il nome (la interpreta Valeria Golino), e altri personaggi di contorno
abbastanza ben tratteggiati, fra cui i capoccioni della ditta (impegnati appunto in
una fusione aziendale, con i coltelli che svolazzano), un ragazzino spastico che
transita tutte le mattine trascinato da una donna bruna, una ragazza con un cane,
il gestore di un chiosco che mette troppo pecorino nei broccoli, una donna che
all’inizio del film viene da Pietro-Moretti casualmente (nel senso che lui passava
di lì per caso, non si conoscevano) salvata da un probabile annegamento (chissà
se Nanni Moretti nella vita reale sa davvero nuotare così bene!) e che verso la
fine del film scopa con lui (ma resta una storia collaterale un po’ appiccicata lì:
non ho capito che cosa spinga quei due a scopare, lei è pure alquanto ciospa, e
nel film non si vede né si lascia intuire che essi approfondiscano reciproci
sentimenti: boh!), e poi altri personaggi ancora.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Dunque dopo la morte della moglie, quando la figlia ricomincia la scuola a
settembre, Pietro smette di andare in ufficio e passa le giornate davanti alla
scuola, a pensare, osservare, sentire, comunicare, capire. La scena principale del
film è il piazzale davanti alla scuola, un angusto ritaglio d’erba assediato dal
traffico selvaggio (siamo a Roma), con un chiosco e qualche panchina. Un luogo
dove si sta bene, come dice lo stesso protagonista. Un luogo dove cercare di
ritrovare sé stessi e i rapporti con gli altri e con la vita. Il film è sostanzialmente
questo: una breve intensa recherche di un tempo-spazio perduto (o mai trovato
prima).
Piccolo inciso: ho trovato un po’ strano, come deformato, il naso di Moretti, ma
adesso non so dire se è sempre stato così e non ci avevo mai fatto caso, o se gli è
diventato così invecchiando, o se è deformato con un trucco per il film (ma non
ne capirei tanto il motivo).
Insomma, Caos calmo mi è piaciuto. Non ho letto il romanzo di Sandro
Veronesi (che nei titoli di testa del film deve comparire molto di sfuggita, se
compare: io non l’ho visto citato, ma magari mi ero distratto quell’attimo: al
cinema Medusa di via Livorno, il più vicino a casa mia, ti rintronano con
un’overdose di pubblicità e trailer prima di concederti il film: e poi già m’ero
innervosito perché mi sono dovuto spostare perché come al solito m’ero
dimenticato che in alcuni di questi cazzo di multisala moderni i posti sono
numerati, manco fossimo alla Scala, che palle! – ed è pure caro, per essere di
lunedì, cinque euro e venticinque, e la coda rallentata da quei venticinque
centesimi da cercare in tasca, minchia, non gli bastavano cinque euro tondi, che
poi il lunedì sarebbe già fin troppo quattro?) e dunque non so quanto il film vi
aderisca, ma la storia è intensa, e dice bene quel che dice.
Così l’ho percepito io, almeno. Sono anch’io in una sorta di recherche, forse, nei
rapporti umani. C’è un’amica che si sta allontanando da me accusandomi di
negligenza e disattenzione – adesso non vuole proprio più comunicare con me.
Un processo iniziato l’estate scorsa, forse, e sul quale non riesco a intervenire in
alcun modo. Mi spiace molto perché è una buona amica, da oltre un decennio.
Ma, a suo giudizio attuale, io non sono un buon amico per lei. Forse il primo
segnale fu appunto l’estate scorsa, una sera che camminavo con lei – andavamo
al cinema Centrale in via Carlo Alberto – e risposi a una chiamata al telefonino
di una ragazza a me cara. Rimasi al telefono sei o sette minuti, certo non di più
(se no saremmo arrivati tardi per il film, cosa che non accadde), ma lei giorni
dopo mi fece notare la cosa come se fosse stata una grave indelicatezza: quando
sei con un’amica non puoi metterti a parlare al telefono con qualcun altro
mollandola lì da sola. Mi parve una reazione del tutto esagerata, ma chissà.
Da allora in poi è saltato fuori abbastanza (troppo) spesso il discorso se io fossi
X avresti per me ben altra attenzione, dove X può stare per il nome di una
qualunque donna di cui io sia innamorato-invaghito-attratto-preso-desideroso –
o dite un po’ voi come vi pare, che non so fare certe sottili distinzioni –
insomma una di quelle che mi s’illuminano gli occhi se le vedo o le penso (ecco,
forse questa è una buona definizione, saltata fuori adesso così per caso).
Non so perché stia accadendo questo con la (ex?) buona amica (con la quale non
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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c’è mai stato nulla di diverso dall’amicizia, tanto che io a volte la chiamavo
scherzosamente una dei miei migliori amici). Non mi sembra di essere
disattento. Dopo quella faccenda della (pur breve) telefonata in via Carlo
Alberto, le sere che sono stato da lei ho quasi sempre spento il cellulare (a non
rispondere mentre squilla non sono capace, sono fatto così, è come se mi
squillasse dentro un’angoscia della persona che chiama e non sente rispondere,
sente suonare a vuoto, e magari invece quella persona non si angoscia affatto, e
l’ho capito che coi cellulari funziona così – tante volte non rispondono a me! –
ma non ce la faccio: o lo spengo o, se suona, rispondo, e a chiunque, non guardo
nemmeno il nome o numero sul display – forse anche perché senza occhiali col
cazzo che lo leggo), e no, davvero non mi sembra di essere disattento o avaro o
stitico (parole sue) con lei. Ma se sembra a lei, una ragione ci sarà, ci deve
essere, ed è su questo che medito e rimugino.
(Cercando di osservare la cosa come da fuori, con l’ordinaria malizia
dell’oggettività [in verità in vita mia non ho trovato nulla mai di più malizioso
che le osservazioni cosiddette oggettive], mi sembrano quasi scenate di gelosia,
ma se le dicessi una cosa del genere mi sputerebbe in un occhio. Comunque
siamo molto complicati. Sì.)
Va bene. Fine della recensione. Certo, tutto questo messaggio è la recensione di
Caos calmo, perché una recensione, se non è quella fredda cosa che mettono i
critici sui giornali, è un discorso vasto e personale, sempre: un film (poesia,
libro, quadro, musica, scultura, paesaggio) «è» l’interazione con chi lo guarda,
legge, ascolta, osserva. Buona settimana a tutti.
Incubo
martedì 19 febbraio 2008, 17.59.20 | molinaro
La notte scorsa ho fatto un sogno tremendo, uno dei peggiori incubi di tutta la vita, peggio
ancora che quando, da bambino, sognai che mia nonna mi tagliava in due con una sega,
all’altezza della cintola, me lo ricordo ancora adesso, bello non fu.
Ho sognato che uccidevo una ragazza, una ragazza che conosco. Ero con due complici, ma i
complici non so chi fossero, nel sogno questo non era chiaro. La colpivamo con qualcosa,
non so cosa, e la spingevamo giù in un dirupo, forse, o in un luogo simile. Poi scendevamo, era morta, e i due
complici volevano far sparire il cadavere. Sembravano criminali incalliti, mi dicevano di stare tranquillo che tanto
non ci avrebbero beccati. Io invece ero preso dal terrore e mi allontanavo, sicuro che nel giro di poche ore sarei stato
arrestato e portato in carcere. Più che rimorso per quello che avevo fatto provavo quel terrore lancinante per il carcere
ineluttabile. Ho sognato che tornavo a casa mia e mi mettevo a letto, sapendo che presto sarebbe arrivata la polizia. E
qui c’è stata la parte più terribile, quando sogni di essere dove effettivamente sei: per un tempo che non so, ero nel
mio letto, ma non so se dormivo, pensavo che avevo distrutto la mia vita (pensavo alla mia, non a quella della
ragazza che avevo ucciso), pensavo ecco vedi stavi a farti tanti pensieri e adesso il futuro è chiarissimo, la galera,
l’angoscia era insopportabile, poi è arrivata come una consapevolezza graduale (dormivo? ero sveglio? non lo so), in
un modo straziantemente lento la consapevolezza che non era accaduto veramente, lo avevo sognato. Era ancora
notte, mi sono alzato agitatissimo, sono andato in bagno, sono tornato a letto. Un sogno terribile, che sembrava vero,
dettagliato, preciso. Una sola cosa nel sogno mancava: il movente del delitto. Non sapevo perché uccidevo quella
ragazza, anzi perché la uccidevamo, dato che eravamo in tre. Veramente terribile.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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E terribile è stato quel fatto della consapevolezza riacquistata lentamente: non so quando mi sono svegliato, non
ricordo di essermi svegliato, a un certo punto ero nel letto e ho capito che grazie a Dio era stato solo un sogno.
Una cosa simile, però di segno opposto, mi era capitata a quindici anni. Ma allora era stato un sogno bellissimo:
avevo sognato di baciare una ragazza che amavo (e che curiosamente ha lo stesso nome di quella che ho... ucciso la
scorsa notte – ma non è la stessa), di riaccompagnarla a casa, di tornare a casa mia, di cenare e di andare a dormire,
felice, e mi ero alzato dal letto la mattina successiva convinto che fosse accaduto veramente. Solo dopo un po’ di
minuti mi ero accorto che era un sogno, ahimè. In quel caso là, scoprire che era stato solo un sogno fu un colpo di
grande tristezza, una coltellata; in questo caso qui è stato un grandissimo sollievo. Tutto il contrario.
Ma sono rimasto scosso. Un sogno terribile. Per quel che mi ricordo, è la prima volta che sogno di uccidere. Ma più
ancora dell’omicidio in sogno, mi ha sconvolto il fatto di provare solo terrore per la galera, e non particolare rimorso
per avere ucciso. Tremendo. Che nottataccia. Fossi almeno esperto di cabala, potrei ricavarne qualche numero per il
lotto, ma non lo sono. Uff!
Ancor per la memoria mi si gira. / Qual è colui che suo dannaggio
sogna, / che sognando desidera sognare, / sì che quel ch’è, come non fosse, agogna, / tal mi
fec’io. E basta con la peperonata la sera.
La psicanalisi è una iattura?
mercoledì 20 febbraio 2008, 14.13.01 | molinaro
Nella mia vita (come probabilmente nella vita di tutti) ci sono rapporti umani che
continuano, altri che cominciano, e altri che finiscono. Nella stragrande maggioranza dei
casi, direi la quasi totalità, quelli che finiscono non finiscono per mia scelta, ma per scelta
dell’altra persona. Già su questo c’è da riflettere e infatti rifletto abbastanza frequentemente.
I rapporti amorosi con ragazze molto più giovani di me si sono spesso estinti per cause
quasi «naturali»: dopo l’esperienza con l’uomo maturo (per quanto l’aggettivo «maturo»,
riferito a me, mi faccia un po’ ridere, chissà perché), c’è stato il logico passaggio a più adatti fidanzati, i progetti, la
casa, i figli. A volte l’amicizia è sopravvissuta e a volte no. Diciamo che comunque una spiegazione c’è, c’è una
«ragione» da farmi.
Pensavo invece ai troncamenti che ho subìto da parte di persone amiche (o ex amiche) coetanee o, se non coetanee,
comunque più avanti nel percorso della vita (potrei dire oltre i quaranta, ma è una cosa così, indicativa). Mi accorgo
che le persone che mi hanno troncato (e stroncato) più bruscamente hanno un dettaglio in comune: la passione, a vari
livelli, per la psicanalisi e le scienze a essa correlate. E credo che sia un dettaglio importante.
Forse queste persone mi hanno analizzato con determinati strumenti (forse per loro decisivi) e mi hanno trovato
inadeguato, scombinato, contorto, insomma da scartare. Forse. In ogni caso è una curiosa coincidenza, almeno.
Non ho nulla contro una lettura psicanalitica delle cose (delle persone), ma ho molto contro chi la considera la lettura
(esaustiva) delle cose e delle persone. Non mi sognerei mai di dire che la poesia è la lettura giusta della realtà: dico
che è una lettura. La poesia vale né più né meno che la psicanalisi, la filosofia, la fisica, la religione, l’astronomia, la
musica, la chimica, la pittura e così via: sono tutti sguardi su una realtà che nel suo complesso rimane inconoscibile
(e di cui soprattutto rimane inconoscibile il senso: nessuna disciplina umana può dirci perché viviamo, a che scopo, e
che senso hanno l’esistenza, il nascere, il morire, l’amare, l’universo, il tempo, il soffrire, il riprodurci, il sognare, il
nulla).
Talvolta mi pare che le scienze psicologiche (al pari di tutta la medicina di oggi, peraltro) si muovano per modelli,
protocolli. Insomma partano già sapendo dove vogliono arrivare (che è la cosa più antiscientifica che si possa
immaginare: la scienza è sperimentazione, scoperta, discutibilità, rivedibilità di ogni dato e assoluta incertezza dei
risultati – altrimenti è fede – o almeno così sapevo io, se è cambiato qualcosa ditemelo).
Spesso ho l’impressione che chi mi analizza voglia spiegarmi chi sono io. Ora, posso anche non conoscere me stesso
– è un percorso interminabile il conosci te stesso – ma che venga qualcun altro a spiegarmi chi sono (lui come fa a
saperlo, di grazia?) lo trovo assai indisponente. Davanti a questo tipo di analisi probabilmente reagisco in modo
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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antipatico. Sicuramente mi chiudo e mi difendo. Perché, come canta Guccini: ognuno vada dove vuole andare,
ognuno invecchi come gli pare, ma non raccontare a me che cos’è la libertà. E tanto meno raccontami chi sono io,
aggiungo.
Insomma, magari non conosco me stesso, ma tu mi conosci ancora meno, per ovvie ragioni. Se vuoi che
condividiamo strumenti di analisi, aiutandoci nel cammino, va benissimo (consapevoli del fatto che strumenti anche
uguali ci porteranno in direzioni diverse perché siamo diversi, ogni essere vivente è diverso). Ma se vuoi
accompagnarmi su un sentiero prefissato, sul sentiero che decidi tu, verso ciò che tu pensi che io sia, allora il tuo
atteggiamento è simile a quello di una setta o di una chiesa: sono due millenni che la Chiesa cattolica vuole spiegarmi
chi sono e perché esisto, e indicarmi l’unica via di salvezza. No, grazie.
So che solleverò qualche polemica. So che la psicanalisi non è questo, anzi è una ricerca continua e senza pregiudizi,
se è fatta bene. Ma nel suo uso comune (un po’ troppo dilettantesco? posso dirlo? sì, lo dico!) rischia di scadere in
questo spaccio di modelli, e in questo fideismo psichico totalitario. L’amico che mi ha troncato alcuni anni fa ci
scadeva di brutto, ripensandoci a distanza. Un testo di Freud può essere utile, ma non più di una canzone di Guccini o
di un quadro di Artemisia Gentileschi o di una musica di Mozart o di una scultura di Benvenuto Cellini. Sono cose di
cui posso fruire. Patrimonio umano a cui attingere. A volte mi è più utile Freud a volte Guccini. Ma lo decido io.
Punto.
[Per inciso: Benvenuto Cellini era un criminale, accusato (quasi certamente a pienissima ragione) di avere stuprato e
ucciso una sua modella – e di vari ulteriori gravi delitti. Caravaggio non era tanto meglio, e così numerosi altri.
Eppure le loro vite ci sono state più preziose (a noi, umanità) di quella del rag. Mario Rossi, impiegato Olivetti,
marito e padre esemplare, la persona più buona ed equilibrata del mondo, come riferisce suo cugino, il geom.
Aristodemo Bianchi. [Nomi di fantasia, è ovvio, ma con l’aria che tira è meglio specificarlo.] Però per la sua famiglia
il rag. Mario Rossi è infinitamente più prezioso di Benvenuto Cellini. Bon. Non so perché mi è venuto in mente e che
cazzo c’entra, questo. Forse è per dire che, così come non esiste un solo modo di analizzare, non esiste neanche un
solo criterio di valutazione delle persone e delle loro vite. E in fondo, che sia giusto o no, preferirei passare una
settimana con Cellini – col rischio di essere accoltellato? – piuttosto che con il rag. Rossi. Non pretendo di avere
ragione su nulla, è una scelta istintiva.]
Cito ancora Guccini (embè? è un periodo che gli sono affezionato – il più grande è sempre De Andrè, in quel campo,
ma a Guccini adesso sono affezionato) il quale, rivolgendosi nientemeno che a Dio, dice: E quindi ci sopporti, ci
lasci ai nostri giochi, cosa che a questo mondo han fatto in pochi. Già: cosa che a questo mondo han fatto in pochi.
La canzone è Gli amici.
Va bene. Ho già perso un sacco di tempo, mi rimetto al lavoro, che stasera dopo cena mi vedo con una giovane amica
che almeno quando mi analizza lo fa con garbo, come del resto faccio io con lei: senza pretese d’assoluto (e, guarda
caso, con lei scrutarci dentro è stato di aiuto reciproco, non di stress: ma che sia solo perché ha vent’anni? forse
crescendo si peggiora, si diventa pragmatici, rigidi, intolleranti? però no, non sempre...). E stasera faremo solo due
chiacchiere, magari su un suo nuovo amore o su una maglietta blu comprata al mercato, e guarderemo uno
sceneggiato tivù a casa sua, perché non è che si debba sempre parlare dei massimi sistemi. Alla lunga stanca. Buona
giornata.
Due piccole poesie questa domenica sera
lunedì 25 febbraio 2008, 0.16.27 | molinaro
Ecco qua, è domenica sera. Un paio di poesiuole scritte oggi,
semplici semplici, scarne, così, prima di andare a dormire. E
buona settimana a tutti quanti.
SEQUENZA
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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L’acqua nella bottiglia, il pennarello,
il libro sulla sedia. Lei mi dice:
«Forse ti lascio. Non so se ti lascio».
Lo spazzolino, i grissini sul tavolo,
la tenda alla finestra. Resto zitto.
L’onda s’increspa, si spezza, ritorna.
Il quadro nello specchio, il copriletto
lucido, la fessura della porta,
la notte che matura nei rintocchi.
L’asciugamano, l’orecchio che ascolta
e riferisce al cuore – così il cuore
sa meglio, e può allentare certi nodi.
Il corridoio in mezza luce, il letto
sfatto, l’amore fatto, la mattina,
la mano con la mano, camminare.
L’AMORE È (POESIA DA BACIOPERUGINA)
Non contiamola su: l’amore è anche
sogno – e senza sogno imputridisce
come l’acqua fermata in uno stagno.
Ma viceversa quando è solo sogno
come un’appannatura si dissolve
al soffio macchinoso del mattino.
Ci vuole una miscela bilanciata
di sogno e realtà perché l’amore
si faccia solido senza indurirsi.
Ma non c’è una ricetta: ciascheduno
(o ciaschedue) ha la ricetta sua:
non contiamola su: l’amore è
quello che è.
Mario Quintana
mercoledì 27 febbraio 2008, 21.19.33 | molinaro
Una piccola casa editrice di Perugia ha pubblicato il mese scorso la prima traduzione
italiana di versi di Mario Quintana (1906-1994), uno dei maggiori poeti brasiliani del
Novecento. Una lacuna colmata, direi. E speriamo che segua poi la traduzione di altre opere
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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di Quintana, autore discusso, amato e odiato, ma importante senza dubbio: è conosciuto in
patria come il poeta delle cose semplici ed è rimasto sempre un po’ ai margini del dibattito culturale, non curandosi
granché delle analisi critiche. La raccolta tradotta è A cor do invisível, uno degli ultimi libri dati alle stampe
dall’autore, nel 1989. Il traduttore è Natale P. Fioretto, studioso di letteratura russa e portoghese, docente presso
l’Università per stranieri di Perugia, che nella sua interpretazione del testo di Quintana concilia la fedeltà sostanziale
con la reinvenzione poetica in italiano. Ecco i dati completi del libro: Mario Quintana, Il colore dell’invisibile,
traduzione di Natale P. Fioretto, collana Calligraphia, Edizioni Graphe.it, Perugia 2008, pp. 140, euro 10,00.
A me piace, come forse è naturale, dialogare con i poeti, trovare dei punti di contatto, o qualche poesia che sembra
parlarmi. Un punto di contatto l’ho trovato nell’ultimo verso di questa poesia di Quintana (pag. 26):
L’ultimo viandante
Era un sentiero così vecchio, figlia mia,
che non sapeva più dove andava...
Era un sentiero
vecchierello,
perso...
Non c’erano orme
di passi nel giorno
in cui per caso lo scoprii:
pietre ed erica stavano coprendo tutto,
il sentiero agonizzava, moriva
solitario...
E ho capito...
Sono i passi che fanno il sentiero.
Che fa contatto con un passo della mia La scusa:
Ciò che dura
non è perché sia forte o resistente:
è perché c’è una mano che amorosa
ripara, aggiusta, ricolora, inventa
Già. L’attenzione, la partecipazione, il passaggio che mantiene vive le cose: tanto i sentieri quanto i rapporti umani.
Una poesia di Quintana che invece mi è parsa diretta a me è questa, a pag. 105:
I fiumi
Ci sono nella vita tante cose,
tante cose e un solo sguardo!
Tutta la tristezza dei fiumi
è non potersi fermare...
È bensì vero che un fiume fermo diventerebbe palude, e bisogna passare e andare, ed è un problema senza soluzione.
Per quanto si sia vasti, per quanto si contengano moltitudini (cfr. Walt Whitman), tutto fugge. Infine una poesia che
mi è semplicemente piaciuta (sì, anche a me danno fastidio tutti quei puntini di sospensione, sembra una
punteggiatura da ragazzina alle prime armi, ma mi dicono che servono a segnare il ritmo nella versione brasiliana, e
allora ci credo) è questa, a pag. 56:
Chi ama inventa
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Chi ama inventa le cose che ama...
Forse sei arrivata mentre sognavo di te.
Allora, subito, si è accesa la fiamma!
Era la brace addormentata che si svegliava...
ed era un volare qua e là sulle rovine,
nell'aria attonita campane a distesa,
suonate da angeli pellegrini
la cui virtù è far resuscitare...
Un ritmo divino? Oh! Semplicemente
il palpitare dei nostri cuori
che battono insieme a festa,
o solitari, a un ritmo malinconico.
Oh! Mio povero, mio grande amore distante,
tu non sai quanto bene fa alla gente
aver sognato... e aver vissuto il sogno!
Eccetto autorizzati
giovedì 28 febbraio 2008, 20.24.14 | molinaro
Lo si legge spesso, sotto i segnali stradali di divieto d’accesso, o sui cancelli dei cantieri, o
su misteriose porte proibite: «eccetto autorizzati». Solo gli autorizzati possono accedere,
entrare, percorrere, superare la barriera, introdursi.
Ora, a me questa cosa sembra ambigua e discutibile. Prima di tutto, ci sono almeno due tipi
di autorizzati, che mi paiono assai distanti fra loro. I primi sono quelli a cui si rizza da solo
al minimo vedere, annusare, percepire una donna. I secondi sono quelli che provvedono da
soli a farselo rizzare, mediante una sega o pratiche consimili. In entrambi i casi l’azione è rivolta «a sé» e quindi si
può correttamente parlare di autorizzati, ma le due tipologie sono differenti e forse, sotto qualche aspetto, addirittura
opposte, per la diversa facilità e immediatezza dell’autorizzazione.
In secondo luogo, e indipendentemente dalla distinzione precedente, non capisco perché si prenda in considerazione,
nel selezionare l’accesso a una via pedonale o a un’area di lavoro, proprio questa specifica caratteristica e condizione,
una caratteristica e condizione del cazzo. Misteri delle regole e della segnaletica.
Il valico
venerdì 29 febbraio 2008, 15.56.19 | molinaro
Ecco una «vecchia» poesia, a pag. 290 de La parola rinvenuta.
Sarà del 1994 o giù di lì. Mi è venuta voglia di metterla qui perché
oggi è il 29 febbraio, un giorno che arriva solo ogni quattro anni, e
domani è marzo, e marzo per me è già primavera, la stagione
trasognata in cui ogni cosa sembra possibile. Non smetterò mai di
difendere il valico del sogno, nonostante tutto. Buon marzo!
IL VALICO
Con in bocca il sapore di una mela
fresca, nel primo pomeriggio, steso
su una panca in giardino, ragazzo
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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scendeva in me un dolcissimo torpore
all’aria appena lucida di aprile:
mi scivolava il mondo dalla pelle
impercepito, morbido e lontano
per tornare a comporsi nel mio sogno
o dormiveglia: una brezza leggera
senza prendermi nulla cospargeva
immensità. Il gusto di una mela
fresca, di pomeriggio, mi rimanda
– ora che gli anni mi hanno fatto adulto –
in quello stesso luogo senza luogo,
in quello stesso tempo senza tempo
e non c’è differenza: se non che
al riscuotermi trovo più stanchezza,
qualche ostacolo impronto, cose vane
che devo fare con accorta urgenza.
Quando si è grandi ci vuole più impegno
per difendere il valico del sogno.
[nell'immagine, l'autore in una foto degli stessi anni della poesia]
Una cosa vuol dire se si vuole che voglia
domenica 2 marzo 2008, 14.21.52 | molinaro
Buona prima domenica di marzo, ragazze e ragazzi, donne e
uomini, vecchierelle e vecchierelli. Mi sono alzato tardi dopo una
festa di compleanno stanotte in Val Bormida, ho pagato on line la
bolletta del telefono che mi scadeva domani, ho pensato di farmi
un caffè ma non me lo sono fatto perché nel frattempo mi è uscito
di mente, poi ho scritto una poesia o qualcosa del genere ed
eccola qui. C’è un bel sole caldo su Torino, adesso esco, va.
UNA COSA VUOL DIRE SE SI VUOLE CHE VOGLIA
Una cosa vuol dire se si vuole che voglia
la targa della mia auto finisce con CV
e vuol dire
quella di Chiara finisce con CM
e non vuol dire niente
quella di Cesare fa AX ER che suona bene
ne ho vista una AT EA è divertente
e la mia moto faceva VC 64570
ma non divaghiamo con le targhe
con chi fai l’amore di solito vuol dire
ma non sempre e non per tutti
chi governa un paese di solito vuol dire
ma in Italia non ne sono sicuro
PDL a Torino vuol certamente dire
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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«Palazzo del Lavoro» e ci va Claudia
per sentire lezioni di economia
adesso però in campagna elettorale
hanno inventato che vuol dire altro
a proposito devo decidere
se votare Bertinotti o Veltroni
voi cosa consigliate?
che entrambi i miei figli mi vengano a trovare
immediatamente interrompendo la giornata
se non mi sento bene vuol dir tanto
ma forse per altri è appena normale
che i baci siano lunghi e forti vuol dire
secondo me vuol dir molto ma anche lì
altri avranno altre interpretazioni
una cosa vuol dire se si vuole che voglia
le periferie sono orribili dormitori oscuri
questo vorrà ben dire
eppure c’è chi preferisce stare lì
piuttosto che in un alloggetto in centro
a pari prezzo
quindi per lui vorrà dire dell’altro
che ci si telefoni nello stesso momento
vuol dire se ci va che voglia dire
con Federica succedeva spesso
e non so se ha voluto dire molto
un sogno di Romina vuole dire
però dipende a chi lo racconta
osservare i colori dei panni stesi di traverso
da casa a casa nei vicoli vuol dire
e se vuol dire per i due che li osservano
direi che basta e non serve dell’altro
Clara vestita d’azzurro vuol dire
vuol dire per me
il voler dire non è trasferibile
anche se certe cose sembrerebbero dire
un po’ per tutti ma non è mai così
che l’aria a Torino sia piena di smog
vuol dire che si dovrebbero eliminare le auto
ma le auto circolano e allora non vuol dire
per qualcuno non vuol dire proprio nulla
scrivere storie su una panchina vuol dire
per chi ci scrive ed è bello anche leggere
storie di sconosciuti ma per altri vuol dire
soltanto vandali imbrattapanchine
una carezza sui capelli vuol dire
ma a volte non vuol dire
l’orecchio attento all’ascolto vuol dire
o forse non vuol dire
scrivere fiumi di versi vuol dire
oppure non vuol dire
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Carlo Molinaro
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non si può dire
una cosa vuol dire se si vuole che voglia
dunque forse la cosa necessaria
perché qualcosa voglia dir qualcosa
sostanzialmente
è che si voglia davvero che voglia.
Corollario:
avere un senso per tutti
è velleitario.
Altro teorema:
già avere un senso anche solo per sé
può essere un problema.
Io sto come mi pare
2
lunedì 3 marzo 2008, 12.37.51 | molinaro
Breve annuncio di pubblicazione. Anzi, di ripubblicazione. A maggio uscirà la
seconda edizione riveduta e corretta (un lavoro un po' come il Manzoni sui
Promessi sposi) del romanzo (se romanzo si può chiamare) Io sto come mi pare.
La prima edizione, venduta solo su Internet, è andata esaurita. Questa nuova
versione sarà collocata in una collana mainstream, che, mi dicono, vuol dire che si
troverà nelle librerie, insomma proprio come un libro vero, no? Dell'introvabile
edizione precedente dispongo ancora di pochissime copie mie d'autore, che potrei cedere a prezzi da
concordare (anche con pagamenti in natura) ad amatori (meglio se amatrici). Nell'immagine (che come
sempre s'ingrandisce cliccando) la probabile copertina della nuova edizione. Preparatevi a invadere le
librerie, dai. Ho calcolato che se vendo almeno un milione e mezzo di copie posso smettere di lavorare
come editor e correttore di bozze. Non vi parrebbe una buona cosa? Potrei rendermi più utile all'umanità!
Comunque da qui a maggio manca ancora un'eternità e quindi non mancherò di rammemorarvi la
faccenda quando il libro effettivamente uscirà. Ah, volete sapere che cosa racconta il libro, per chi non lo
sapesse già? Mah, non saprei (ehm); forse racconta la storia di una ragazza normale che fa una vita
normale con un uomo normale secondo me. Dunque una cosa assolutamente improbabile... Ciao, buona
settimana!
Non è un paese per vecchi
martedì 4 marzo 2008, 17.56.26 | molinaro
Non è un paese per vecchi. E quale paese lo è? Quando sei vecchio ti mettono da parte, non
ti prendono in considerazione per le offerte di lavoro ma neppure (ultimamente) ti offrono
una buona pensione, neanche la pensione Miramare di Chiavari, ben che vada il tuo destino,
se non è sotto un ponte, è uno di quei posti orribili che quasi sempre, per beffardo ossimoro,
si chiamano Villa Serena o qualcosa del genere. E poi soprattutto le diciottenni (e in certi
sfortunati casi pure le ventiseienni) cominciano a trovare ridicolo il fatto che tu le corteggi;
e poi se ti vesti come ti sei sempre vestito, tipo jeans mai stirati e maglione lavato una volta all’anno, ti guardano un
po’ così; e se sai tutti gli orari dei treni regionali e tutte le tariffe postali ma non quanto pesano i nipotini e quand’è il
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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loro onomastico, magari lo trovano deplorevole; e poi hai gli stessi soldi di quando eri studente ma un sacco di spese
in più; e poi può succedere che la salute non sia più quella di una volta, e devi ricordarti gli occhiali da presbite, e poi
anche cose più gravi e poi muori e così via. Ma insomma ci penserò poi, se e quando sarò vecchio; è inutile pensarci
adesso.
Quanto al film dei fratelli Cohen con tutti quegli Oscar, l’ho visto ieri sera all’Ambrosio con un’amica. Per essere
avvincente, lo è: prende. Lo definirei un noir western, tanto per definirlo. Ha dei buoni momenti di tensione narrativa
e qualche bella scena. Eppure sono rimasto un po’ perplesso. Credo che sia per le cose che ho letto prima sui giornali,
cioè che era un film che rappresentava la società americana, evidenziava, sottolineava, denunciava, ecceterava.
Almeno, credo di averle lette, quelle cose, se non me le sono sognate (a volte mi succede: mi sogno le cose e poi le
attribuisco a giornali, libri, persone viventi: giuro che non lo faccio apposta). Forse ci ho pure caricato delle mie
aspettative personali di film impegnato: con tutti quegli Oscar, un po’ di impegno, no?
Così, non ho trovato le cose che mi aspettavo; ma forse non dovevo aspettarmele. Mi sembra un «normale» noir
western, ripeto. Potrei accostarlo, che so, a Mucchio selvaggio di Peckinpah. Con qualche citazione interna
coheniana: uno a cui sparano mentre è seduto alla scrivania muore con gli stessi sputacchi gorgoglianti di sangue sul
collo obeso che c’erano in un accoltellato (o forse attaglierinato o attagliacartato o aqqualchealtroggettappuntitato)
sempre presso una scrivania in L’uomo che non c’era. O almeno credo. Bisogna andare cauti con i ricordi. Non è un
paese per smemorati svaniti svagati svampiti – e io lo sono sempre stato.
La società del film è abbastanza normale. Tutti si ammazzano per i soldi e/o perché sono psicopatici. Bande di
criminali si sterminano fra loro con il corollario di qualche vittima innocente di passaggio (al solito: il portiere
d’albergo, la moglie di quello là, la ragazza in piscina, qualche automobilista in transito). Lo sceriffo fa
coraggiosamente quello che può e non sa bene perché lo fa. Tutto regolare. Non ci vedo particolari analisi. Ma se lo
prendi come un «semplice» noir western, allora è un buon film. Però, tutti quegli Oscar, non so. Si vede che gli altri
candidati erano peggio. O che io ho un’idea diversa di che cosa un film deve significare (il solito intellettuale
disorganico di sinistra, sempre lì a cercare sensi): magari per gli Oscar conta invece solo la tecnica (τέχνη, ars) e
forse, chissà, hanno ragione loro. Si può giudicare il senso, dei film e delle vite?
[Che c'entra l'immagine? Niente; ma dopo l'aspra carneficina del film un paio di tette fanno sempre bene; e
comunque è Scarlett Johansson, un'attrice che ha fatto qualcosa con i Cohen. E poi è anche per
completare l'immagine della copertina del libro del messaggio precedente: là il culo, qui le tette.]
Il rosmarino ce la farà
mercoledì 5 marzo 2008, 12.53.36 | molinaro
Il rosmarino sul terrazzo è sopravvissuto. Da otto anni che abito qui, ho piantato tre
rosmarini. Il primo ha resistito due anni, il secondo un anno. Questo qui, che è il
terzo, sembra intenzionato a vivere la sua seconda estate. Superare l’inverno è il
punto cruciale. E non ditemi che dovrei portare il vaso in casa. Il rosmarino è una
pianta che sta fuori. Non diamo vizi ai rosmarini, non trasformiamoli in cagnetti
d’appartamento.
L’amica è stata tutta la notte a lavorare alla tesi. Ogni tanto mi svegliavo e sentivo il ticchettìo delle sue
dita sulla tastiera del computer. Alle sette mi sono alzato e mi sono messo al lavoro io, dopo aver
preparato la colazione. Poi l’ho accompagnata in facoltà, che era in ritardo.
Ieri sera zucchine bollite e insalata di carciofi, non si può andare avanti a tranci di pizza e chebab.
Stamattina l’aria è fresca. Nel pomeriggio devo andare in un’azienda per un altro lavoro.
Tornando dalla facoltà ho visto diversi cartelloni elettorali, fra cui un fascistaccio locale che imperversa da
decenni con il suo faccione, l’erba grama è resistente, era nel MSI al tempo dei tempi e adesso è in Forza
Italia anzi no nel Popolo delle libertà, nuova denominazione.
Voglio comprarmi La poesia è un fischio, di Umberto Fiori. Non sono un appassionato di libri di critica
(preferisco chi la procrea, la poesia e l'arte in genere) ma questo, da una recensione che ho letto, sembra
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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contenere spunti interessanti. Del resto Fiori è anche poeta, non solo critico.
Ha suonato la postina. La giornata va avanti. Ieri sera mentre scandivo con il lettore ottico pagine di
documentazione per la tesi dell’amica, lavoro meccanico, ascoltavo De Andrè. Quando il lavoro richiedeva
più concentrazione mentale invece mettevo Yann Thiersen, la musica di Amélie.
Dicono che stiano arrivando ancora giorni invernali, ma ormai il rosmarino dovrebbe essere fuori pericolo.
Sí, tu niñez: ya fábula de fuentes
mercoledì 5 marzo 2008, 20.07.21 | molinaro
Commentando un messaggio sul blog dell’amica Petarda mi è venuta in mente
questa poesia. Mi sembra un motivo sufficiente per metterla qui. È difficile,
stando sulla riva del fiume, pronunciare parole che non siano sconce. Nel
dubbio, è meglio tacere e non fare rumore neppure con la bicicletta.
RICORDO D’INFANZIA
Sí, tu niñez: ya fábula de fuentes.
Jorge Guillén
C’era, poco distante da Vercelli,
una grande foresta. A torso nudo
m’inoltravo nel verde, e mi colpiva
il sole, che oscillava sulle foglie.
C’era una chiazza d’acqua che agitava
bolle di sabbia, e nasceva un ruscello
che rallentava in piccoli laghetti.
Molto lontano, il croscio di una cava.
C’era un sentiero nitido, compatto
di terra bianca fra due cigli d’erba:
di colpo si perdeva sul ghiaione
sparso di secchi rami calcinati.
Il fiume scintillava e scivolava
vegliato dagli stridi degli uccelli.
Sopra il filo dell’acqua, qualche uomo
stava in piedi, qualche volta, fissando.
Spingevo piano la mia bicicletta
perché non disturbasse. Mai nessuno
disse sconce parole.
(da La parola rinvenuta, pag. 117; la poesia è del 1983, forse, o giù di lì)
[Nota tecnica: ma perché il trova non trova? Dico quel riquadrino, l’ultimo in basso della colonna a destra, che dovrebbe
trovare i messaggi con una data parola in questo blog, ma non trova un mazza. Almeno, sul mio computer non trova una
mazza. Qualche specialista informatico può aiutarmi?]
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 314 di 404
Memorie, età, alici, are belle, nipoti, domeniche e i soliti treni
venerdì 7 marzo 2008, 13.48.00 | molinaro
Oggi è il compleanno di Arabella (che sia o no un nome di fantasia). Praticamente la prima
ragazza che mi ha affascinato violentemente in età adulta. Insomma, avevo trent’anni.
Adulto sì, anche perché ero già sposato e padre. E poi insomma a trent’anni si è adulti,
nonostante tutto questo moderno protrarsi delle domestiche permanenze. Lei mi disse di
averne diciassette, in realtà erano quindici, ma tanto non accadde nulla e quindi no problem,
in sostanza.
Non accadde nulla ma mi ispirò un fottìo di poesie dell’epoca (pagg. 121, 135, 142, 154, 161, 162, 165 del librone
che Bartelio ha promesso di comprare, più altre perse per via). Mi ispirò poi anche (ma molto liberamente) il
racconto Odor d’Eliana. La memoria. Il tempo. Ho poi avuto qualche storia dove i trent’anni non erano di mia età ma
di differenza, e poi storie invece di più bilanciata anagrafe, e poi ora sono così vecchio che mio nonno e mio padre,
che pure sono stati uomini veri, alla mia età di adesso mica ci sono arrivati.
Il tempo, la memoria. Della memoria mi diceva ieri mio figlio Francesco, che studia biologia e forse farà
neurobiologia: i meccanismi della memoria, l’accesso apparentemente casuale ai dati registrati nel cervello, che
emergono quando vogliono e come vogliono. Posso dimenticare una cosa di ieri e ricordarne bene una di mezzo
secolo fa. Succede. Però il tempo un po’ i volti (e le voci) le sbiadisce: di mio padre (morto 32 anni fa) ma anche di
Monica (morta 16 anni fa) non so ricostruire bene nell’udito la voce, e a volte mi chiedo se il viso che ricordo è il
loro vivo d’allora o è quello che rivedo nelle fotografie. La memoria.
Mah, cerchiamo di tenere botta. Ieri pomeriggio al parco con il nipotino n. 2 ho piazzato ben due volte la mia battuta
a effetto no, sono il nonno alle signore che facevano complimenti al papà! Ci godo sempre abbastanza. Eh, passerà
anche questo, ma insomma. I mistici dicono che bisogna distaccarsi dalle gioie e bellezze mortali, però sono sempre
piuttosto confusi e imprecisi sull’alternativa a cui attaccarsi. Vien da pensare che la millantino.
Il tempo. A volte mi domando se con Arabella potrebbe succedere qualcosa oggi. Eravamo sul 30-15 e adesso siamo
sul 55-40. Non la vedo da tantissimo tempo, chissà com’è diventata. Facile che sia sposata, madre, lavoratrice,
eccetera. Sarebbe logico. Beh, quelli sono dettagli, ma chissà come è lei davvero, in sé. Non me lo figuro. E non
desidero, poi, figurarmelo. Meglio che rimanga «la ragazzina».
Comunque c’è una cosa che non è cambiata, da quand’ero studente: sono sempre senza soldi. Ora sono mesi che non
incasso un pagamento di un lavoro, mi tocca andare oggi alla Coop a prendere 500 euro dal libretto, e così resta quasi
vuoto. Uff, che palle. Ma domenica a Tronzano Vercellese presento il libro di Alice che è una ragazza simpaticissima
e ha scritto un neuromanzo. Prendo il regionale a Porta Susa alle 11.36, cambio a Chivasso e arrivo a Tronzano alle
12.55 e pranzo con Alice e poi nel pomeriggio presentiamo il libro non ho ancora capito bene dove. Ma Tronzano è
piccola, se volete venire alla presentazione domenica pomeriggio credo che riusciate a trovarci. Buongiorno,
bellezze. La vita è.
– Non ho l’età per amarti – cinquettò lei vezzosa.
– Quando l’avrai sarò morto o all’ospizio – ribatté lui ombroso. E aggiunse, con un guccino di stizza: – Non la
vedi, non la tocchi, oggi la malinconia?
– Volere o volare, non ce l’ho – mudugnò lei.
– Eppure i miei trent’anni... – azzardò lui con tono di maggio.
– Di differenza – precisò lei.
– Appunto: resteranno sempre tali: cosa vuoi aspettare?
– Effettivamente – ammise lei. Infine trovarono un accordo, perché l’amore vince sempre. O quasi.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 315 di 404
[Nel video, Petra Magoni e Ferruccio Spinetti offrono (a Parigi) un'interessante versione della canzone con
cui la Gigliola vinse Sanremo nel 1964. Nell'immagine in alto, un raro disegno del titolare di questo blog,
che nelle arti figurative non è che si lanci tanto.]
Sciogliere il ghiaccio
venerdì 7 marzo 2008, 18.02.57 | molinaro
Oggi mi sento così, un po’ arido, appannato, che non scaturisce
quel che dovrebbe scaturire, e allora mi è successo di scrivere una
poesia vagamente sperimentale. Secondo me le avanguardie degli
anni Sessanta scrivevano le poesie sperimentali perché erano
aridi e appannati e non gli scaturivano le cose. Ma mi rendo conto
che è un’affermazione polemica. D’altronde poi hanno smesso (di
sperimentare freddamente, come Zanzotto o Sanguineti, oppure di scrivere tout
court) e quindi li perdono. Quando uno è arido e appannato potrebbe anche stare
zitto. Ma l’ho pensato troppo tardi e la poesia vagamente sperimentale era già scritta
e ve la beccate qui sotto. Poi ho ulteriormente pensato: «Quasi quasi mi faccio uno
sciampo». E infatti adesso ho i capelli puliti. Basta, vado alla Coop a prendere 500
euro dal libretto. Che rogna.
SCIOGLIERE IL GHIACCIO
(poesia con subpoesia all’interno)
Voglio guardarti e basta
senza voler capire
voglio solo sentirti
e non sentirti dire.
Clara Vajthò
Sciogliere il ghiaccio. Ma fare attenzione
a ciò che ne consegue: l’alluvione.
Sciogliere il ghiaccio e non fare attenzione.
Mi porterà nel mare l’alluvione.
Il finito è finito. L’infinito è rimasto.
Non sogneremo un futuro al catasto.
Il finito è infinito. Dentro il sogno rimasto
non contempliamo un passato al catasto.
Vorrei tu mi sentissi,
non mi sentissi dire.
Ma questa lontananza
costringe alle parole.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 316 di 404
E infatti si inserisce qui una subpoesia di parole
[sub nel senso della subroutine
ai tempi del GOSUB del primo Basic]
L’AMORE (E L’AMICIZIA) AI TEMPI DELL’ELETTRONICA
Se non ci fossero i sms
come farei a tenere il contatto
più volte al giorno con Clr. e con R.?
Con Cld. invece si va più a voce,
ma l’apparecchio è lo stesso.
Se non ci fosse la mail
sarebbe un casino con Mlv. e Mrn.
e se non ci fosse Skype
non so come farei con Mrc.
[ma perché con tutte le iniziali
che esistono al mondo
io fra amicizie e amori
ho due Cla... e tre Ma...?
coincidenze, coincidenze!]
Se non ci fosse il blog di Ch.
non saprei dove scriverle
e soprattutto dove leggerla.
[RETURN]
Questa lontananza costringe alle parole,
però chi si vuol vedere si vede
appena può.
Chi non vuole, no.
(Nota: i sms e non gli sms perché io pronuncio s-m-ś con l’accento sulla ś e i suoni
così nudi, più o meno come quando si dice s-s-t per dire «stai zitto», non
essemmesse con tutto il nome delle lettere per esteso)
Persepolis
sabato 8 marzo 2008, 1.59.07 | molinaro
Tornato dal cinema Romano di piazza Castello, sotto una gradevole dolce
pioggerella incipiente. Ho visto Persepolis. Vivendo un po’ su una rama,
come dice la mia ex collega Gabriella, non ne sapevo nulla. Basti dire
che non sapevo neppure che fosse un film d’animazione, m’aspettavo
una roba normale con gli attori. Tantomeno sapevo di chi fosse e di cosa
parlasse. Ma l’altro giorno Petarda mi ha accennato qualcosa, tipo che
non era da perderlo, e m’è bastato. Dopo aver cenato con minestrone di verdura e grana
padano con pere Kaiser, vincendo l’inerzia sonnolenta che già mi stava prendendo, ho alzato
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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le chiappe e sono andato al cine, da solo.
Ne è valsa davvero la pena. È la storia di una ragazza di Teheran che attraversa gli anni dallo
scià alla rivoluzione alla guerra alla dittatura iraniana. E con la dittatura si conclude, dato che
il passo successivo, al momento, è molto di là da venire. La storia è nitida, lo sguardo è
profondo e tagliente, la critica al regime è cristallina, perfettamente compatibile con la critica
ad alcuni miti dell’Occidente: insomma, l’iraniana (migrata in Francia) Marjane Satrapi,
fumettista e ora regista, con questo film fa la «semplice» cosa che a noi che stiamo di qua,
imbalsamati in ideologie fatiscenti e correttezze timorose, non riesce mai bene: pensare
direttamente con la testa (e con il cuore).
Il film è largamente autobiografico (come faccio a saperlo? embè, ho guardato adesso la sua
biografia sulla Wikipedia, no?), è amaro ma lascia acceso un lume di possibilità.
Averlo visto a pochi giorni di distanza da Non è un paese per vecchi dei Cohen permette poi
alcune riflessioni comparate: da un lato il male individuale (ma anche collettivo) che divampa
nel vuoto di una società apparentemente libera, il modello americano; dall’altro il male
collettivo (ma anche individuale) gestito e promosso dalla dittatura teocratica, che succede a
quella dello scià. Avrà senso notare che nella Satrapi intravedo una speranza e nei Cohen
no? Sì, avrà senso. Se non riseminiamo speranza siamo fottuti. [Il presunto conflitto di civiltà
finisce 0-0, però sembra che «loro» credano nei supplementari e nei rigori, e noi non più.]
Ma adesso vado a dormire. Domani devo proprio fare un po’ di pulizie che in bagno ho
beccato una blatta, e non credo fosse Kafka. Va ben che ne ha beccata una anche Claudia in
casa sua dove è pulitissimo, però comunque un po’ di pulizie devo farle.
Autoanalisi?
domenica 9 marzo 2008, 8.24.20 | molinaro
Autoanalisi, non autoanalisi. Indulgente con me stesso, spietato con me
stesso. Me la conto su a modo mio, guardo in faccia la realtà. Tutto un
po’ insieme, forse. Indulgente e spietato possono andare insieme sì,
sono momenti diversi del pandemonio di pensieri che accompagna ogni
mia azione, anche quelle che funzionerebbero meglio con il cervello
scollegato, una in particolare, e non vi dico quale, tanto lo sapete
benissimo.
La situazione attuale sotto diversi aspetti. Sono un editor squattrinato perché
a) ho seguito la mia passione e ho fatto le cose che desideravo davvero
b) non ho mai avuto le palle per studiare e lavorare più duro e ho preso il primo mestiere
che m’è capitato
c) per caso
Ieri l’amica Z, quella che vedo di più in questo periodo della mia vita, mi presenta due sue
amiche, X e Y, e me le preannuncia dicendo:
– Vedrai che X ti piacerà molto, ormai ho capito i tuoi gusti.
Arrivano X e Y, e X è davvero piacevole. Che Z indovini così i miei gusti
a) mi fa piacere: un’amica mi conosce nel profondo
b) mi stizzisce: sono diventato troppo prevedibile
c) mi è indifferente
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 318 di 404
Dopo, Z mi dice:
– Hai visto? Perché non ci provi? Non ha neanche il fidanzato!
Le rispondo:
– Non mi sembra il caso. Oramai prima di provarci con una ventenne ci penso un attimino,
sai.
In effetti sono un po’ mutati alcuni miei orientamenti con le donne. Mi interesso assai più
frequentemente a donne sui quaranta, cinquant’anni e oltre, perché
a) ho finalmente scoperto che sono molto interessanti e affascinanti
b) le ventenni non me la danno proprio più
c) per caso
Le tre domande a tripletta di risposte a-b-c qui sopra enunciate appartengono naturalmente
a) a una seria possibilità di autoanalisi in un percorso di maturazione
b) a un giochino satirico-ironico da libretto minimalista
c) al cazzeggio vano di una domenica mattina
Guardate, non so voi, ma io non sono in grado di rispondere con certezza a nessuna delle
domande. Posso cavarmela dicendo che sono un po’ vere e un po’ false tutte le risposte. O
che sono domande del cazzo, la vita non è il quiz della patente. Che una cosa non esclude
l’altra: puoi arrivare a Vattelapesca perché hai sbagliato treno o perché è il posto dove volevi
andare da una vita, e in entrambi i casi scoprire che Vattelapesca è un villaggio meraviglioso
o un posto di merda.
Oh, basta. La vita è adesso, andiamo avanti. Ieri sera (sabato sera ore ventuno) il professore
con cui si laurea una mia amica le ha telefonato per dirle che deve modificare alcune cose
nella tesi. La discussione di laurea è domani (lunedì). La tesi è già stampata e rilegata (ma
va? davvero?). Correzioni con penna e bianchetto su ciascuna copia e due fogli volanti
inseriti con il nastro adesivo. Anche il mondo accademico è bislacco. E allora perché non
dovrei essere bislacco io?
Fra tre ore prendo il treno per Tronzano, vado a presentare il libro di Alice. Anche andare in
treno a Tronzano, cambiando a Chivasso, è bislacco: credo che il 99,99% delle persone
userebbe l’auto. Ma faccio un po’ come mi pare. I perché delle cose sono intricati, intrecciati
fra scelte e fato. Potevo fare l’ingegnere o il tranviere, e oggi sarebbe lo stesso una
domenica di marzo un po’ piovosa. Sono contento di rivedere Alice dopo anni. A Tronzano c’è
un bel viale e nessuno lo sa perché non esiste un turismo su Tronzano. Ma io lo so. E poi se
una mi piace davvero proprio proprio, io finisce che ci provo sì, che abbia 18 o 68 anni,
perché di bello ce n’è dappertutto, e vaffanculo.
[Nell'immagine, l'autrice del libro che vado a presentare, impegnata a sbafare pasta,
patate e dolce.]
Effervescenza, provincialità e dissuasori mobili; e poi Tronzano
lunedì 10 marzo 2008, 12.29.45 | molinaro
Quand’ero bambino fecero la loro comparsa le prime medicine in compresse effervescenti.
Saranno state l’aspirina e l’alkaseltzer o non so, non ha importanza quali fossero. Ricordo i
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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dialoghi in casa:
– Ma bisogna berla mentre frizza?
– Certo, se no a che cosa serve che frizzi?
E si ingurgitava tutto quel frizzamento e si mandava giù.
A distanza di circa mezzo secolo sono giunto alla conclusione che no, non bisogna berle mentre frizzano, quelle
medicine: l’effervescenza è solo un metodo per ottenere lo scioglimento della compressa in acqua. Bisogna anzi
aspettare che finiscano di frizzare e che l’acqua torni limpida. Ci sono arrivato da solo (e ne vado abbastanza fiero)
perché non l’ho mai trovato scritto da nessuna parte. Forse lo danno per scontato. Strano, in un mondo dove piazzano
persino dei treppiedini per dirti che un pavimento bagnato è bagnato. Boh. Per noi provinciali intorno al 1960 non era
affatto scontato che l’effervescenza, con tutto quel pirotecnico bollicinoso meraviglioso frr frr frr, servisse solo,
banalmente, a sciogliere la pastiglia; mentre era sicuramente scontato che un pavimento bagnato fosse bagnato. Punti
di vista.
Negli anni Ottanta a Parigi vidi degli strani paletti circolari che nascevano dal selciato, salivano, e poi
riscomparivano. Rimasi a lungo affascinato a guardarli. Adesso ci sono anche a Torino, nel quadrilatero romano e
pure altrove; qui li chiamano dissuasori mobili (terribili terminologie burocratiche: mi sa che presto chiameranno i
semafori persuasori luminosi – persuadono abbastanza poco, peraltro: qui in via Saccarelli angolo via San Donato
ormai tutti passano con il rosso!).
Sempre negli anni Ottanta il mio amico Sandro, fine aristocratico torinese à la page, mi disse:
– Carlo, fai troppo spesso la figura del contadino che rimane a bocca aperta davanti al gioco di prestigio del
saltimbanco, lo stesso trucco da tremila anni. Devi smettere!
Mi sa che invece continuo. Lo stupore è anche un privilegio. Dopo che hai smontato tutti i giocattoli, con che cosa
giochi? Forse l’universo stesso è un giocattolo: di sicuro ne ha l’aspetto, con tutte quelle palline! D’altronde, lo
faranno anche da tremila anni, sì, ma non ho ancora capito e forse non capirò mai come riescono certi prestigiatori a
tagliare a pezzi le donne e poi ricomporle vive come prima. E non so se m’interessa saperlo.
Ieri ero a Tronzano Vercellese, un paesino della bassa, fra le risaie. Ci arrivi in treno e trovi subito qualche scempio:
un nuovo sottopassaggio a colata di cemento nudo che sembra un film di periferia criminogena americana (e pure
poco pratico: per andare sul binario due devi uscire dalla stazione!) e in compenso la biglietteria soppressa, dunque la
scomparsa di ogni presenza umana ferroviaria e quindi l’atrio ridotto a un pisciatoio, come è assolutamente naturale.
La sera poi le indicazioni sul pannello luminoso sono sbagliate, dicono che il treno è sul binario uno e invece arriverà
sul binario due: io lo so perché so che i treni tengono la sinistra e non credo troppo ai pannelli luminosi, quindi vado
sul binario giusto e prendo il treno; ma uno sprovveduto fiducioso (uno che magari sa tutto da sempre
dell’effervescenza e dei dissuasori mobili, ma...) sarebbe andato al binario uno, come un pollo, e avrebbe perso il
treno (impossibile rimediare attraversando in tempo, con il sottopassaggio newyorkese fuori stazione), e sarebbe
rimasto nella fredda notte tronzanese (era l’ultimo treno) e probabilmente sarebbe morto congelato. Eh!
Ma, stazione a parte, a Tronzano ci sono alcuni begli scorci: un viale, una piazza. Non è brutto, no. Alice, l’autrice
del libro che sono andato a presentare, dice che a Tronzano non c’è vita, ma non è vero. La vita è tante cose diverse.
Personalmente non amerei andare ad abitare a Tronzano (e neanche a Vercelli) perché io adesso sono un po’ un
animale di città grande. Ma non per tutti è così; e pure io potrei cambiare, chissà mai.
Siamo stati a casa di Elisa (siamo: Alice, Andrea, Catia, il ragazzo di Catia e io) e sua madre ci ha fatto il caffè. Poi è
arrivato anche suo padre. Il pomeriggio lento. Una casa sparpagliata, una mescolanza di oggetti, un cane, un gatto e
un corvo, fotografie già illeggibili di infanzie ancora relativamente vicine (viste da me, almeno: la compagnia riunita
era sui venticinque anni di media, credo), un grande bagno freddo, cataste di riviste, camere trasformate in altro,
penombre, uno stretto corridoio pieno di panni stesi, di colore prevalentemente blu, che per percorrerlo devi lasciare
che ti accarezzino. La casa di Elisa: questo mi basta per dire che c’è vita a Tronzano. In fondo, per ipotizzarla su
Marte si basano su molto di meno, e noi gli si dà pure retta.
Poi viene la sera, senti stridere la ruota del tempo e a volte la solitudine ti attanaglia, ma credo che questo possa
accadere indifferentemente nel centro di Parigi o in quello di Tronzano. Ci sono innumerevoli fili che ci legano al
mondo, percorsi dalle nostre sensazioni – ma in certi momenti si interrompono tutti e non c’è niente da fare.
Va ben. La presentazione del libro di Alice è andata bene, c’era gente, lei ha venduto una ventina di copie e in
soprannumero ne ho vendute pure io due del mio, il libro di poesie del presentatore (annunciato nei manifesti come il
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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poeta torinese Carlo Molinaro). Una copia l’ha comprata proprio Elisa. C’è vita a Tronzano, ma devi andarci in
treno, piano, con il regionale, dribblare i pannelli luminosi sbagliati, trovare – ci vuole fortuna – la casa giusta,
cogliere i colori e gli odori: insomma, devi conquistartela: come quasi tutte le cose che poi valgono.
Anche il libro di Alice vale e ve ne consiglio la lettura; magari date un’occhiata al suo blog, credo ci si trovino tutte
le informazioni necessarie. No, sul mode d’emploi delle compresse effervescenti no, quello no.
Musica affollata
martedì 11 marzo 2008, 17.59.18 | molinaro
Dopo otto ore di lavoro sulle bozze, mi riposo un momento in questo pomeriggio soleggiato
e metto un po’ di musica. Scelgo un CD dei Mercanti di liquore.
La prima canzone, Apecar, mi fa venire in mente Antonella. Le piace molto. Tra le sue
fantasie c’era girare il mondo con un Apecar. Mi sarei dovuto comprare un Apecar invece
della Panda, per farla felice. Forse è stato quello uno degli errori, per cui adesso ci si vede
così poco.
La seconda canzone, Lombardia, mi fa venire in mente Federica. Quando gliela feci sentire disse: «Ma questa
l’hanno scritta per me!». Federica era fuggita tanti anni fa dalla Brianza, più o meno proprio la zona di Lissone, citata
nella canzone: sì, per non sentirsi come un mobile a Lissone. Ora, da due anni abbondanti, è fuggita di nuovo, anche
da me, e non so verso dove.
La terza canzone, La musica dei poveri, mi fa venire in mente le feste sulle montagne dietro Savona, con rapidi
passaggi di Chiara – la canzone di solito la cantava Anita, con Cesare e Mac, ma una volta alla Colla di Praboè, dove
nasce il rio Biterno, che non è il rio delle Amazzoni ma insomma, l’ha cantata pure Chiara, ed è stata l’unica volta
che l’ho sentita cantare, quella ragazza.
Anche la quarta canzone, Il viaggiatore, mi fa venire in mente gruppi di amici lontani, e poi mi fa venire in mente i
miei viaggi, i miei lunghi treni verso la laguna veneta, verso i ponti sul Bacchiglione, verso il mare di Ponente, verso
il lago di Como (c’è spesso dell’acqua alla meta, vorrà dire?).
Sì, ma se metto sul giradischi De Andrè è peggio (Genova e tutta la gioventù), e con Guccini sono fregato, quello mi
prende facile da Venezia a Cadibona (nel senso che ho ormai irrimediabilmente identificato con Cadibona il paese in
cui Vorrei incontrare le pietre, le strade, gli usci e i ciuffi di parietaria attaccati ai muri) e con divagazioni
sull’America, su Ulisse e sulle locomotive, e poi con le colombe e il fiore, che ci sta dentro tutto.
Potrei rifugiarmi in Vivaldi, una cosa tranquilla, Le quattro stagioni. Ma mi viene in mente mio nonno che me lo fece
ascoltare per la prima volta – e mi piacque così tanto che cercai lumi sull’enciclopedia e ne feci una bella relazione,
in seconda elementare, quando mio nonno era già morto ma da poco, un infarto in giardino sotto il fico (a parziale
smentita dell’altra nota canzone gucciniana). Strabiliai le ragazze diciottenni del tirocinio magistrale che erano in
visita alla nostra classe, e ne fui contento, mi piacevano le diciottenni (in certe cose non cambio mai).
Intanto i Mercanti di liquore sono arrivati a Cecco il mugnaio che riesce a farmi venire in mente Marì solo perché è la
canzone con cui Cesare mi ha fatto conoscere i Mercanti ed eravamo sulla Punto bianca targata AX...ER fra Altare e
Mallare, cioè nella situazione in cui per la prima volta Marì e io ci cacciammo gli occhi negli occhi e forse tutto si
decise.
Sì, ma cazzo, cha affollamento, possibile che io non possa ascoltare un po’ di musica in santa pace, da solo? Mi
vengono in mente tutte – e poi mi commuovo, è un casino di amori, tenerezze, rabbie, nostalgie, speranze, desiderio.
Patetico, ridicolo.
Basta, mi metto i scarp del tenis e vado a fare una sgambata alla Pellerina, che è più sano. Anche la Pellerina è piena
di donne, dalla mia ex moglie sul prato fino alla dama azzurra il cui nome ho scritto l'estate scorsa su un tavolo di
legno con l'Uniposca bianco, ma lì almeno corro. Che, lo insegna Forrest Gump, è una soluzione come un'altra.
[Nella sfocata immagine telefoninesca, Fabio con la chitarra, Sonia e Lella alla piccola festa di Capodanno
del corrente 2008]
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Ma per seguir
mercoledì 12 marzo 2008, 17.41.59 | molinaro
Scrivevo il 5 settembre 2007 in questo blog:
...............
Sia come sia, Veltroni dichiarando testualmente che bisogna essere più severi contro le
prostitute mi sa che si è giocato il mio voto alle primarie. Anche se non è che ci siano
grandi alternative. Ma votare uno che finisce a prendersela con le puttane è troppo. Voglio
votare la Sinistra, non l'Inquisizione.
E adesso che si fa? Tocca votarlo, contro Berlusconi e quegli altri cazzoni? O voto l’arcobaleno? Ci penserò. Mi
sento stizzoso e malmostosetto, e nel frattempo ho scritto oggi questa poesia, che non c’entra una mazza.
.................
MA PER SEGUIR
Che giornata brillante! Le lenzuola
sono asciugate in tre ore
sventolando nel sole sul balcone.
Le ho ritirate e riposte nel cassetto.
Devo comprare dell’olio d’oliva
perché è finito. Vado al supermercato.
Che altro devo comprare? Non so,
non ci voglio pensare.
Ho ricaricato il telefono. I soldi
sono quasi finiti. È arrivata
la lettera del padrone di casa
con l’affitto aumentato.
Mi sento come un vecchio che gesticola
sul molo dove attraccano le barche
borbottando: – Che cosa pescate
voi che sfidate il mare?
E ritorna nell’ombra del portico,
chiede da bere, scuote il capo, guarda
la punta del bastone che disegna
sogni ormai consumati sulla polvere.
Piccole buone cose di ogni giorno,
andate in culo! Mi manca l’immenso.
Ripartirò. Non perderò altro tempo
a rinchiudere il vento nei cassetti.
[nell’immagine, l’affitto aumentato – non è poi un grande aumento, la questione casomai è che non guadagno un
cazzo]
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Che cosa c'è nella Cinquecento?
mercoledì 12 marzo 2008, 22.23.19 | molinaro
Già mi dà fastidio perché è un francobollo pubblicitario e scommetto che le
Poste non l’hanno fatto neanche pagare, alla Fiat. Ma poi, in quella Cinquecento
rossa del francobollo, che cosa cazzo c’è dentro? Mi è arrivata oggi una lettera
affrancata così, ho guardato, poi ho usato anche la lente d’ingrandimento, poi lo
scanner, e potete ingrandire l’immagine e vedere anche voi. Che cosa c’è nella
Cinquecento?
Davanti, più o meno al posto di guida, c’è forse un fantasma giallorosso (romanista?), o un’islamica
eccentrica, o un pupazzo di neve con la bronchite (con il maglione di Paperoga?). Un saccone con la
punta vagamente a ombrello. Ma proprio non capisco che cosa sia. E più indietro c’è una specie di
bandiera verde ammainata, stropicciata: lo stendardo della Lega Nord? Che fa par condicio con il
fantasma romanista? O il tendone di una bancarella del mercato?
A qualcuno viene in mente qualche idea? Ma che cosa avranno avuto in mente, l’ideatore e il
bozzettista? Già fanno francobolli stupidi – pubblicizzare un’automobile, cioè l’asfissia, la nevrosi e
l’intasamento! – e per di più li fanno indecifrabili. Rob de matt.
Lettura d'anniversario
martedì 18 marzo 2008, 2.00.04 | molinaro
Allora, c’è stata questa domenica sera, 16 marzo 2008, una lettura
di poesia a Savona, al mitico Raindogs, che è andata proprio
benino. Era sostanzialmente l’anniversario della prima lettura di
poesia al Raindogs, che avvenne il 18 marzo 2007. E fra i lettori
saliti sul palco c’era anche adesso (insieme con altri, fra cui si è
distinta una brava poetessa venuta da molto lontano) la famigerata
banda dei quattro che animò quella prima lettura e alcune successive: ovverosia
Chiara Borghi, Cesare Oddera, Francesco «Mac» Vico e io.
L’atmosfera era buona, il pubblico folto e attento, c’era armonia, c’era bellezza e tutto
è filato via liscio. Con emozioni. Ciascuno ha letto qualche pezzo «antico» e qualche
pezzo nuovo. La cosa più nuova che ho letto io è Le ragazzine che fanno pompini
nei portoni, scritta il giorno prima della lettura. Poi dopo la lettura, insomma adesso,
un’ora fa, ho scritto Il libro di Q., ed eccole tutte e due qui sotto. Buona settimana di
Pasqua, figliuole e figliuoli. Ah, venerdì 21 marzo, equinozio di primavera, al
Raindogs c’è il concerto di Zibba e Almalibre [vedi immagine]: se potete, non
perdetevelo!
LE RAGAZZINE CHE FANNO POMPINI NEI PORTONI
(da una storia vera, anche se non si può dedicare, perché sarebbe di danno)
Le ragazzine che fanno pompini nei portoni
e i ragazzi del mercato le chiamano troiette e
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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al massimo ispirano un poeta un po’ maiale
– che attraversa il loro ambiente, affascinato
ma sempre troppo estraneo, staccato – le ragazzine
che in prima ITIS sono bocciate con la media del tre
ripetono l’anno e sono ribocciate con la media del quattro
e allora passano a una scuola più modesta
non è detto che siano deficienti
certe volte poi cambiano
e ve la fanno vedere (o non ve la fanno più vedere)
ricambiano scuola e arrivano risolute alla maturità
e poi prendono l’università
si laureano con ottimi voti
e lavorano a progetti concreti di organizzazioni internazionali
per il bene dell’umanità
che è poi la cosa che già avevano in mente
quando facevano pompini nei portoni
ma questo lo capisco solo io
– scusate la presunzione –
e non importa.
IL LIBRO DI Q.
Mi ha detto che del libro di Q.
che leggevamo quel giorno sul treno
a rileggerlo dopo nella sua stanza
solo alcune poesie sono belle
e le altre non tanto
ma forse per caso quel giorno
avevamo letto proprio le più belle
e perciò il libro c’era piaciuto tanto.
Io dico che non è quello
non è soltanto quello
è che due amanti quando leggono
un libro insieme
qualsiasi libro diventa galeotto
anche un libro così così
diventa un libro bellissimo
e questo succede perché
anche se credono di leggere nel libro
sono loro, gli amanti, che lo scrivono.
Guarda che luna!
martedì 18 marzo 2008, 16.41.25 | molinaro
Cantava Fred Buscaglione: «Guarda che luna! Guarda che mare!». Parole di una canzonetta
qualsiasi: sanremi e balere (quando esistevano) erano strapiene di lune e di mari. Ma è
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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giusto: la luna e il mare sono due cose che, anche tremila anni fa, se le guardavi erano
uguali. Almeno credo.
E gli occhi delle ragazze (altra cosa che riempie sanremi e balere) erano uguali tremila anni fa? Forse sì. La luna sarà
la stessa luna. Gli occhi non sono gli stessi occhi: in tremila anni circa centoventi generazioni di occhi sono nate e si
sono putrefatte. Per sopportare questo, abbiamo inventato l’occhio di Dio.
Oggi su Torino brilla una sole metallico, bianco. Rimbalza in casa una luce strana. È come se le pulegge del pianeta
stridessero, per farsi sentire. Il globo ruota, e ogni giro si porta via un giorno. Ma a ogni giorno portato via segue un
giorno nuovo di zecca. Non è lì il problema. Ha ragione Fabrizio De Andrè. Non è il tempo che se ne va; siamo noi
che ce ne andiamo.
Stanotte la luna non mi lasciava dormire. Dormire a volte è uno spreco, a volte è un rimedio. Stanotte era soltanto
impossibile. È difficile smettere. Non solo di bere o di fumare. È difficile smettere di fare qualsiasi cosa.
Sono caduti pezzi di cornicione da una casa qui accanto. Nessuno s’è fatto male. È arrivato un uomo con un
furgoncino e ha messo le transenne. Indossava una tuta blu. Che mestiere è arrivare con un furgoncino e mettere le
transenne? Non lo so, ma mi piace. Vorrei fare l’uomo-che-mette-le-transenne. E come farà, poi, a smettere di
mettere le transenne? Smettere di mettere. Transenne. Trans. Enne.
Su Repubblica di oggi, una frase di un’intervista: «Per anni ho lavorato al carcere della Dozza a Bologna. Un posto
mica da ridere. Tossici, ladri di galline, mafiosi, trans, stupratori. La violenza la respiravi come aria». Che cosa
c’entrano i trans con gli stupratori? E i ladri di galline (ma esistono ancora?) sono violenti, come i tossici? Perché
fanno tutti tanta confusione? Tossiche sono a volte le nubi – ma non quelle vere. J’ai douté des détails, jamais du don
des nues (Noir Désir). È sempre più vero. Ho dubitato molto, ma ho dubitato dei dettagli: mai del dono delle nubi o
delle nude, che per me sono quasi la stessa cosa, e dunque l’ambiguità della parola francese mi sta bene.
Ma questo sole metallico m’intontisce, lei – nube, nuda: mia rugiada, mia vita – è sempre più bella e io sempre più
vecchio, l’asse del mondo cigola, crollano le borse di Babilonia e gli ombrelli di Atlantide. Dettaglio, primo piano,
campo medio, piano americano, grandangolo, panoramica, macchina indietro, dissolvenza. Te lo dice anche l’occhio
ormai presbite: abìtuati a guardare da lontano.
Forse Dio esiste ed è un immenso ufficio oggetti smarriti, dove non ricorderemo più che cosa cercare. Ho tenuto per
anni in cucina, in un angolo, una vecchia macchina da scrivere rotta, quella che usavo a quindici anni. Qualche
giorno fa l’ho presa e l’ho buttata in un cassonetto. Non mi servono i dettagli, senza il dono delle nubi.
Guarda che luna, guarda che mare: da questa notte senza te dovrò restare: folle d’amore vorrei morire, mentre la
luna di lassù mi sta a guardare. Resta soltanto tutto il rimpianto, perché ho peccato nel desiderarti tanto: ora son
solo a ricordare e vorrei poterti dire: guarda che luna, guarda che mare! So perfettamente, so con sicurezza a chi lo
diceva Fred. Ma sono solo canzonette. Ora vado al deposito bagagli a fare il mio turno di volontariato, che è assai più
utile di queste sterili malinconie. A proposito, il deposito rischia di chiudere per mancanza di volontari: se a qualcuno
interessa, mi contatti.
[L'immagine mi sono permesso di prenderla da qui.]
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1959
(con una poesia molto molto molto giovanile)
giovedì 20 marzo 2008, 10.40.34 | molinaro
Rispondendo a un commento del messaggio precedente ho citato
il 1959, anno in cui fu scritta la canzone Guarda che luna.
Canzone che io ascoltavo nell’interpretazione di mia madre,
mentre faceva le faccende di casa. Confesso: che fosse un pezzo
forte di Fred Buscaglione, l’ho scoperto molto, molto recentemente
(diciamo questa settimana? eh, sì, ho i miei tempi!).
Il 1959 è l’anno in cui cominciai ad andare a scuola: la prima elementare. Mio nonno
mi aveva già un po’ insegnato a scrivere. Ricordo che mi fece scrivere la data, al
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Carlo Molinaro
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principio di quell’anno: 1° Gennaio 1959 (a quell’epoca i mesi si scrivevano con la
maiuscola, solitamente; forse erano sentiti come nomi propri; ma, in generale,
c’erano molte più maiuscole in giro). E io gli dissi, tanto per dire una scemata (ho
cominciato prestissimo a dire scemate):
– Con due “9”?
– Sì, certo, in “1959” ci sono due “9”, vedi?
In quell’anno o forse nel successivo 1960 scrissi anche una delle mie primissime
poesie, che diceva così:
LA PIANTINA
Soffia il vento
arriva il temporale
tutti stanno male
ma la piantina
che è tanto piccolina
si sente sicura
e senza paura
con il bastone
che le ha messo il padrone.
Non l’ho ripresa nel libro perché è un’opera un po’ troppo giovanile, ehm, a sei anni.
Certo che ci si possono fare delle buone psicanalisi. Mi sa che non ho ancora
smesso adesso di dibattermi fra il bisogno di avere un bastone a cui aggrapparmi e il
terrore che un padrone limiti la mia libertà.
Oggi è il giovedì santo, giorno che per me, dal 1992 in poi, è indissolubilmente legato
al suicidio di Monica (lei sì la trovi nel libro, da pag. 231 a pag. 244, ma anche
altrove).
E allora, dato che è il sedicesimo giovedì santo da allora, ve la faccio anche vedere
in fotografia, Monica, nell’immagine. Addormentata sul lettino di mia figlia Lucia,
allora novenne. Così, per ricordo. Poi pensiamo al futuro, certo: oggi ho poco lavoro
da fare e nel pomeriggio porterò la nipotina (la figlia della Lucia allora novenne) in
giro in tram, penso il 4 e il 13, da capolinea a capolinea. Ho anch’io qualche valore
da trasmettere: per esempio l’amore per il trasporto pubblico, per le rotaie che
attraversano centro e periferia, portando la gente.
Una giornata particolare
sabato 22 marzo 2008, 21.27.48 | molinaro
Ho passato la vigilia di Pasqua a Genova. L’andata in treno il
mattino, il ritorno in treno il pomeriggio. Il mare era mosso,
soffiava il vento e il cielo era terso, di un blu profondo. Sono
stato al parco di Nervi, con il roseto, gli scoiattoli e la focaccia
al formaggio (una delle focacce al formaggio migliori del mondo
si mangia in una focacceria che sta nel fornice che dalla
stazione di Genova-Nervi porta alla passeggiata Anita Garibaldi). Sono stato nei
vicoli. Ho anche preso per la prima volta la metropolitana genovese, dalla
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Darsena a Sant’Agostino e poi da lì alla stazione Principe. La stazione della
metropolitana di Sant’Agostino è una vera calata agli inferi: scendi e poi scendi e
poi ancora scendi, nelle viscere del misterioso sottosuolo della Superba. C’era
gente in giro, la città sembrava tranquilla e festiva. Insomma, è stata una bella
giornata.
Ho scritto una poesia sul treno dell’andata e una su quello del ritorno. La poesia
dell’andata è una lezione di botanica che parla del fiore dell’albicocco. La poesia
del ritorno è un quadretto d’ambiente che parla del vagone in cui mi trovavo. E
qui è successa una cosa particolare.
Avevo appena finito di scriverla, la poesia, la stavo rileggendo, quando un
ragazzo si è alzato dal suo posto, si è avvicinato, si è seduto in un posto vicino a
me e mi ha detto:
– Lei scrive racconti, poesie?
– Sì... Soprattutto poesie – ho risposto con una naturalezza che quasi mi ha
stupito: mi aspettavo di provare imbarazzo o fastidio in una circostanza del
genere, ma forse sto cambiando.
Gli ho parlato delle cose che scrivo, lui a me delle cose che fa: disegna, illustra, e
anche lui scrive, in particolare brevi racconti per bambini. Fa il liceo artistico, ha
sedici anni.
Poi abbiamo parlato di altre cose: viaggi, posti, treni, quartieri di Torino.
– Conosco Torino, più che per nomi di vie e piazze, per pizzerie, locali, bar,
chebaberie, ristoranti cinesi economici – mi ha detto. Così parlando di posti dove
mangiare o dove passare una sera gli ho detto:
– Torino va ancora bene, è meno cara di altre città. Amici di Milano mi invidiano
perché a Torino puoi ancora uscire la sera spendendo meno di dieci euro.
– Dieci euro se sei felice, molto di più se sei triste – mi ha risposto lui. L’ho
guardato con grande ammirazione mentre mi spiegava che è l’infelicità a far
spendere denaro alle persone. Un ragazzo che a sedici anni ha già capito che la
più grande nemica del consumismo è la felicità, e che per questo il potere
economico ci vuole perennemente infelici e insoddisfatti, è su un’ottima strada.
Senza montarsi la testa, perché resta sempre un infinito non capito, ma è su
un’ottima strada. Mi ha detto il suo nome, io gli ho dato l’indirizzo di questo blog,
dove può trovare anche quello della mia posta elettronica.
Poi però adesso un minimo di imbarazzo lo provo: se viene a visitare questo
blog, leggerà la poesia che mi ha visto scrivere. Ci si riconoscerà certamente. Si
accorgerà che scrivevo anche di lui (e della ragazza cicciottella – speriamo che
non si offenda – che gli stava accanto). Io stavo scrivendo di loro, e lui non lo
sapeva, e si è alzato per parlarmi. Ma no, in fondo non c’è niente di
imbarazzante. Anzi, è bello: è quasi come se nell’aria corresse a volte uno spirito
che fa comunicare le persone, no?
A completare la giornata, a casa a Torino nella cassetta della posta ho trovato un
libro che aspettavo e che è mi arrivato velocissimo, e la lettera di una ragazza,
che mi ha fatto piacere, anche se fra le altre cose scrive: «ormai mi sembra
chiaro che non sarò mai la tua ragazza». Ma come ormai, principessa? La
questione non era già chiara fin dall’inizio?
Va bene. È stata una giornata particolare.
LEZIONE DI BOTANICA APPLICATA
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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(con due note aggiuntive, come ogni lezione che si rispetti)
Per imparare di che colore sono
i fiori dell’albicocco
devi osservare lo stesso albero almeno due volte:
di primavera e d’estate.
Di primavera devi fissarti bene in mente
il colore dei fiori
e anche la posizione dell’albero
per ricordarti poi qual è – è consigliabile
qualche punto di riferimento fisso:
la riva di un fosso, una casa, una chiusa,
un monticello, un argine o altre cose
dotate di una certa stabilità nel tempo.
D’estate devi tornare sul posto
e trovare le albicocche. Così, se non hai
scordato ciò che hai visto a primavera,
ora sai di che colore sono i fiori d’albicocco.
Per chi abita accanto a un albicocco
tutto questo vien da sé e non ci bada:
è roba che conosce dall’infanzia.
Ma per noi forestieri ci vuole attenzione.
Sorge poi la domanda:
come hai fatto d’inverno a stabilire
di quale albero aspettare i fiori e i frutti?
Ammettiamolo: tu non sapevi
che quello fosse un albicocco. Dunque
imparare di che colore sono i fiori
dell’albicocco è un evento casuale,
benché sia necessario perseguirlo
con amorevole determinazione.
Succede così: d’inverno t’invaghisci
di un disegno di rami secchi nudi
contro un livido cielo: una corteccia
uguale a tante altre ma chissà
perché ti accende un sogno.
Tu lo scegli
e torni a rivederlo a primavera
e d’estate e se è un albicocco
allora impari di che colore sono
i fiori d’albicocco.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Ci vuole la costanza e la fortuna
e bisogna rischiare di sbagliare.
Né i frettolosi né gli sfortunati
né i paurosi sapranno il colore
dei fiori d’albicocco.
Nota uno: va bene anche se fosse
un pesco o un pero o un mandorlo:
la cosa importante è imparare un colore.
Nota due: non c’è un limite al numero
di colori di alberi diversi
che puoi imparare applicando questo metodo.
Tieni presente però che il percorso
è lungo e impegnativo: considera il tempo
e le forze: non essere sbadato.
Alessandria-Genova, 22 marzo 2008, intorno alle ore 10
PARTE DELLA POPOLAZIONE DEL REGIONALE 2170 DA GENOVA VERSO
TORINO IL 22 MARZO 2008
Una ragazza cicciottella ha due
stelline pitturate su un ginocchio.
Una ragazza molto bella ha due
occhi d’acqua marina. Precisiamo:
acqua marina, non acquamarina:
l’acqua del mare, non la pietra dura:
l’acqua del mare è più viva e variabile.
Un ragazzino ricciutello ha due
baffetti biondi e suona la chitarra
accanto alla ragazza cicciottella.
Una ragazza più monella ha due
gambe graffiate e ginocchia spellate:
penso che venga da zuffe nei prati,
giochi di palla su campi sterrati.
Un uomo bruno col berretto ha due
auricolari nelle orecchie: ascolta
musica, pare, che lo soddisfà.
Ora s’è alzato, scende a Novi Ligure.
Una signora con gli occhiali ha due
tette considerevoli in un golf
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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scollato a punta, di lanetta blu.
Una signora più vecchietta ha due
anelli grossi sulla mano destra;
con lei c’è un uomo pelato che ha due
scarpe di tela coi lacci slacciati.
S’abbassa il sole e s’allunga la macchia
d’ombra cucita al treno sui binari.
La ragazza con gli occhi acqua marina
raccoglie fra le palpebre la sera
che preme al finestrino. Arriveremo
fra un’ora alla stazione di Torino.
Genova-Alessandria, 22 marzo 2008, intorno alle ore 17
[nell'immagine, il mare oggi a Genova]
Pasqua, pantaloni e poesie
domenica 23 marzo 2008, 10.18.47 | molinaro
Questi sono quasi eleganti, stoffa classica. Sì, ma se li guardo controluce alla
finestra attraverso il culo vedo il campanile di Santa Zita. Non vorrei trovarmi con le
braghe squarciate proprio al pranzo di Pasqua dai parenti. Eppure li ho comprati
nel 1978, poco prima di sposarmi. Sì e no trent'anni. La roba dura proprio niente.
Questi altri, di velluto nero o forse blu scuro (due colori che solo alcune donne
sanno distinguere), possono andare. Insomma, hanno il culo liscio anche loro, ma
dovrebbero resistere. Per il resto ho solo jeans. Mi sa che dovrei comprarmi un paio di pantaloni. Magari
quando mi pagano la rassegna stampa. Eh, ma devo 368,16 euro alla commercialista... Vedremo. Per
oggi faccio così.
Ieri mi sembrava che, delle due poesie scritte in treno, fosse più importante quella dell'albicocco. Oggi la
trovo un po' ingarbugliata e mi pare migliore quella ambientata sul vagone del treno. Come nasce e come
si evolve una poesia? Così, uno ha un foglio e una matita, è per esempio su un treno, e scrive.
Nell'immagine, la prima stesura scritta in treno: trascritta poi a casa con minime varianti. Forse sono
frettoloso nel dare in pasto al prossimo ciò che scrivo: c'è chi aspetta per anni, ponzando, valutando,
selezionando. Fa lo stesso. È tardi, mi metto i pantaloni e vado dai parenti, e buona Pasqua.
Tre bei dì
martedì 25 marzo 2008, 1.40.38 | molinaro
Questa Pasqua è andata bene. Tutti e tre i giorni. Sabato,
domenica e lunedì. Sabato a Genova, già raccontato. Domenica
con mio figlio e mia figlia, i suoi figli, il genero, i consuoceri, zii,
nonni e altri parenti in un pranzo simpatico, di quelli dove ci si
trova bene (e non è mica facile che accada, in generale). Lunedì la
classica scampagnata, ma classica fino a un certo punto, in una
compagnia buona, piccola e vera, e con il favore del tempo (quello meteorologico,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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alla faccia delle brutte previsioni degli esperti; e forse anche quell’altro, quello che fila
le nostre vite ma ogni tanto sembra concedere piccole tregue di brevi eternità
lucenti), e in un posto che i turisti non sanno, ma proprio perciò più prezioso.
Insomma, non passavo una Pasqua così buona dai tempi del... di quando... uhm...
boh? no, pensandoci: non avevo mai passato una Pasqua così buona. E allora va
bene. Poi, ancora una piccola poesia, qui sotto.
QUALERBASIVOGLIA
Voi colli onnipresenze
e folla di sorprese
fittissimamente conversate –
sempre crescenti intese.
Andrea Zanzotto, Verso i Palù
Il tempo è bello, l’erba è buona, lei
sul piede destro ha un calzino a righe
e sul sinistro uno in tinta unita:
non so se è per moda o distrazione.
Per stenderci nel prato avremmo un plaid
ma non lo usiamo. Le tolgo le paglie
dal braccio e dalla schiena. Bevo a canna
dal bottiglione della Coca-Cola.
Il fuoco è ben curato fra le pietre.
Il vento smaglia le nubi nel cielo.
La terra è densa ma non troppo dura.
L’acqua prepara il cambio di stagione.
Nell’uovo la sorpresa-paccottiglia
è un portachiavi a cuore. Me lo infili?
La sera addobba i suoi colori ai monti,
è quasi ora di tornare a casa.
Quesito
martedì 25 marzo 2008, 13.24.09 | molinaro
C’è una differenza fra l’essere aperto, pronto, assetato di vita e amore, e l’essere
vulnerabile, incostante, farfallone? È un quesito che mi è sorto pensando al ragazzo
conosciuto in treno. Sono lì che scrivo, in un tardo pomeriggio colorato, sono su un treno,
luogo per me affascinante. Ho sulle ginocchia la cartellina con il foglio, in mano la penna. I
pensieri sono scivolati dolcemente sul foglio attraverso la penna, nel modo sempre magico e
imprevedibile che è tipico della poesia. I versi sono intonati, il momento è buono. Una
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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persona a un tratto mi si avvicina perché ha notato che sto scrivendo. Mi parla, è una persona simpatica, gradevole.
Fa discorsi intelligenti. È sensibile all’arte. Mi racconta cose. Ci scriveremo, gli darò il mio libro, credo che la
comunicazione continuerà.
E allora? E allora niente, tutto bene, una nuova conoscenza nella vita, ottima cosa. Ma: se anziché un ragazzo fosse
stato una ragazza, magari carina, magari proprio la ragazza acqua marina di cui avevo appena scritto, pochi minuti
prima, che raccoglie fra le palpebre la sera / che preme al finestrino? Se fosse stata lei ad avvicinarsi a me?
Diciamolo, diciamolo: adesso sarei qui a farneticare un furibondo nuovo amore!
E allora? E allora niente: se fossi qui a farneticare un furibondo nuovo amore con occhi acqua marina potremmo
essere comunque tutti contenti, e la risposta alla domanda posta all’inizio di questo messaggio è no: non c’è
differenza, perché la vita stessa è aperta, pronta, assetata, vulnerabile, incostante e farfallona. Oggi va così e domani
va cosà, oggi c’è e domani chissà.
Non so come fanno quelli che a un certo punto chiudono le porte. Ma in fondo mi accorgo che non me ne frega
niente: facciano come meglio credono. Da parte mia, penso che l’invulnerabile costanza (i confini ben contesi della
Ketty gozzaniana) sia infine incompatibile con la vita, che è fragile movenza. E nonostante ciò, quello che non pianta
quasi mai nessuno in asso da un momento all’altro sono io. Loro, gli invulnerabili costanti, mollano e troncano. È
bislacco!
Una roba che tradussi
martedì 25 marzo 2008, 15.54.07 | molinaro
Mi è ricapitato fra le mani il libro Fiabe romene di magia (Tascabili Bompiani, attualmente
nell'edizione del 2003; ma uscì la prima volta nel 1989). Me lo diedero da tradurre dal
romeno all'inizio degli anni Ottanta, credo. Erano undici lunghe fiabe, scritte in un
linguaggio popolare difficile da rendere in italiano. Ci lavorai molte notti (di giorno
lavoravo alla Utet) per quasi un anno. Lo consegnai, ma non uscì. Non subito, almeno. Uscì
dopo qualche anno, con una fiaba aggiunta, di una quindicina di pagine, tradotta da Fulvio
Del Fabbro. E con la prefazione di Marin Mincu, all'epoca lettore madrelingua di romeno a Torino; una prefazione
che io stesso avevo riscritto in italiano, con parecchi aggiustamenti.
Mi diedero quattrocentomila lire per tutto il lavoro, definitivo. La cifra, rivalutata a oggi, farebbe all'incirca la metà di
un mese di stipendio medio basso. Il libro si presenta così: Fiabe romene di magia, a cura di Marin Mincu;
traduzione di Fulvio Del Fabbro e Carlo Molinaro. Tutto regolare, credo. Pagine 266, euro 7,80: non è neanche caro.
Beh, ve lo consiglio, o forse no; la mia stessa traduzione non so se è granché, è un libro venuto fuori un po' così. Io lo
ricordo come una fatica inutile e un fastidio, ma questo forse non vuol dire – ho un modo mio di ricordare le cose.
Pubblicità, Parini, infedeltà, sproporzione, panchina
mercoledì 26 marzo 2008, 17.57.00 | molinaro
Trovo volgare, ridicola e grossolana quasi tutta la pubblicità. Non è per
fare lo snob: è solo che l’applicazione retorica di categorie «alte» (il
desiderio, l’emozione, la contemplazione della bellezza e persino
l’amore) a oggetti come un’automobile, una lavastoviglie o un
anticalcare, se non è gestita con sapiente ironia, di fatto è volgare,
ridicola e grossolana: crea all’incirca lo stesso effetto che il Parini
satireggiava applicando versi epici alla dispettosa cagnastra della bella signorina scassacazzi:
Or le sovviene il giorno,
ahi fero giorno! allor che la sua bella
vergine cuccia de le Grazie alunna,
giovenilmente vezzeggiando, il piede
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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villan del servo con l’eburneo dente
segnò di lieve nota: ed egli audace
con sacrilego piè lanciolla: e quella
tre volte rotolò; tre volte scosse
gli scompigliati peli, e da le molli
nari soffiò la polvere rodente.
Indi i gemiti alzando: aìta aìta
parea dicesse; e da le aurate volte
a lei l’impietosita Eco rispose.
Ecco, parlare di emozioni, desiderio e bellezza (e pure di libertà!) a
proposito di un ammasso di ferraglie e plastica prodotto in serie
(l’automobile) genera lo stesso effetto di sproporzione, che dovrebbe
dare un senso di profondo disagio a qualunque persona minimamente
sensibile. Ma forse non succede, e non c’è più nessun Parini a metter la
cosa in satira.
Al peggio poi non c’è limite: stamattina ho trovato su La Stampa un intero
paginone con la pubblicità di questi qui che come lavoro «beccano» la
gente a letto insieme (l’uso cubitale di quel verbo, insieme con la rozza
vignetta, è quintessenza di volgarità e di cattivo gusto). Il «beccarli» è
rimedio ai «dubbi che logorano le tue sicurezze e la tua vita», e l’invito è
perentorio: «Difènditi!» (e paga a noi la parcella). Anche mettere gli
investigatori alle calcagna dell’amore è una violenta sproporzione, ma
evidentemente accade, e frutta soldi: perché una pagina intera su La
Stampa credo costi più che un chilo di patate.
Per fortuna in giro, oltre alle réclames prodotte in serie, ci sono anche le
scritte spontanee, sui muri e sulle panchine, piccola pubblicità più
personale e diretta, e lì qualcosa di bello si trova, come questo non
esistono leggi in amore, basta essere quello che sei, che ho colto su una
panchina di Savona (vedi immagine).
Canzoncine e diritti d'autore
giovedì 27 marzo 2008, 21.32.09 | molinaro
Stamattina ho messo il video della canzoncina del Partito democratico in alto nella
colonnina a sinistra del blog. E oggi i Village People (o la loro casa discografica o i loro
procuratori) hanno chiesto e ottenuto che il video fosse rimosso dal sito del Partito
democratico. Questione di diritti d’autore. La canzoncina è ricalcata su una loro canzone.
Boh! A dire il vero, è una musica che avevo già sentito da qualche parte, certamente, ma la
canzone originale non la ricordo e i Village People non li avevo mai sentiti nominare prima
di oggi. D’altronde non avevo mai sentito nominare neanche Marco Ferradini prima di ieri, né mai sentito quella sua
canzone Teorema. Ma vabbè, questo non vuol dire, perché io vivo un po’ in un mondo mio, lo so.
La questione è un’altra. È che secondo me sono stronzi a essere così fiscali su una libera reinterpretazione che, in
fondo, gli fa solo pubblicità. E poi la musica è di tutti, «lei non appartiene neanche a chi la fa», come dicono
giustamente i Mercanti di liquore nella canzone che potete ascoltare nel video che trovate qui sotto (da un concerto a
Paganica, presso L'Aquila).
E poi il video del Partito democratico è divertente (a prescindere dagli apprezzamenti politici), e ci ho trovato una
ragazza che mi ispira simpatia (quasi dappertutto trovo almeno una ragazza che mi ispira simpatia), la potete vedere
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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nell’immagine, anzi se qualcuno ha il suo indirizzo me lo dia che le scrivo una lettera. No, va bene, la mollo lì,
d’accordo, ehm, però la musica è di tutti e dal mio blog il video non lo tolgo! Un video realizzato in due settimane,
con una spesa di meno di settanta euro, da un gruppetto di ragazzi, e subito il potere economico ci si scaglia contro...
No, io non ci sto.
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xxxxxxxxxxxxxxxx
In questo momento...
venerdì 28 marzo 2008, 16.05.01 | molinaro
In questo momento, ore 16 del 28 marzo 2008, passa nella via qui sotto un corteo
di precari con trombe e fischietti. Sono tanti e gridano lavoro! Mai passato, a
memoria mia, un corteo per queste vie secondarie del quartiere. Vorrà dir
qualcosa?
[L'immagine non c'entra granché, ma sempre corteo è: la scattai (rischiando
parecchio) a Bucarest nel 1974 dopo essermi infiltrato nella grande festa nazionale del 23 agosto. Sul
palco c'è anche Ceausescu, da qualche parte. La Securitate funzionava fino a un certo punto: lo straniero,
anziché una macchina fotografica, poteva avere una pistola, no? Non si accorsero che ero straniero,
nessuno mi perquisì.]
Bocca buona
sabato 29 marzo 2008, 21.55.39 | molinaro
Tutti mi dicono che sono troppo di bocca buona. A me non sembra. E
stasera provo a elencare una serie di cose che non mi piacciono.
Alcuni posti dove non mi piace mangiare:
– Dove devo stare attento a non sporcare la tovaglia
– Dove c’è troppo frastuono
– Dove si paga un conto superiore a dieci euro
– Dove ti danno i piatti di plastica
– Dove il cibo non raggiunge la soglia minima di commestibilità
– Dove all’ora precisa di chiusura prendono tutto quello che avanza nei banchi e lo buttano
nel sacco della rumenta (trenta secondi prima lo vendevano a caro prezzo)
– Dove devo sedermi accanto al moroso della ragazza che mi piace e che non me la dà (se
me la dà invece posso anche farlo)
– Dove i cessi sono iperigienizzati e con chiusure troppo tecnologiche
– Dove si offendono se non mangi tutto come un porco affamato
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 334 di 404
– Dove ti danno razioni da passerotto e si offendono se ne vuoi ancora
– Dove l’unico argomento di conversazione è il cagnetto di uno dei commensali
– Dove il cameriere ti versa lui da bere
– Dove fra una portata e l’altra passa mezz’ora
– Dove fra una portata e l’altra passano cinque secondi
– Dove guai se ti scappa un ruttino
– Dove tutti ruttano e scoreggiano
– Dove la carta dei vini è separata ed è più lunga della lista dei cibi
– Dove nella lista prima delle pastasciutte c’è l’articolo (le linguine con la salsa putipù, gli
agnolotti in sugo d’ornitorinco)
– Dove i camerieri hanno un atteggiamento servile
– Dove non ci sono i prezzi affissi al vetro della porta o comunque all’esterno, verificabili
prima di entrare
– Dove c’è l’insegna Hostaria
– Dove i cibi vengono vantati con formule tipo «come una volta», «come faceva la nonna» (e
se mia nonna putacaso cucinava da schifo?)
– Dove spezzano gli spaghetti a metà
Potrei continuare, ma credo che si sia già capito che non è vero che mi va bene tutto.
Passiamo a un altro argomento.
Alcune donne con le quali non mi piace trombare:
– Quelle così grasse che è già un casino trovarla, la patata
– Quelle che sanno solo di profumi e deodoranti
– Quelle che vogliono obbligatoriamente lavarsi subito prima
– Quelle che non si lavano da un mese
– Quelle che si lavano subito dopo, quasi avessero schifo della mia semenza
– Quelle che non mi lasciano leggere nei loro occhi
– Quelle che parlano durante
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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– Quelle che hanno fretta
– Quelle che «se mi ami devi fare l’amore solo con me»
– Quelle che stabiliscono precisi limiti
– Quelle che s’incazzano se spogliandole strappo una maglietta
– Quelle che mi criticano se ho un calzino bucato
– Quelle che devono difendere la loro reputazione
– Quelle che pensano e ponderano da ragioniere se farlo o no
– Quelle che distinguono con precisione fra sesso e amore
– Quelle che si vantano di essere difficili e di averla data a pochi
– Quelle che votano Alleanza nazionale o il Popolo delle libertà
– Quelle che il topless mai
– Quelle che tentano di sminuire le altre donne che mi piacciono
– Quelle che non trovo belle
– Quelle di cui non sono innamorato
– Quelle di Vercelli (perché ci ho provato per quarant’anni e adesso basta, il tempo è
scaduto, andate a farvi scopare da qualcun altro, peggio per voi, dovevate pensarci prima)
Insomma, ce n’è. Non sono poi così facile, io! E adesso vado a farmi un viaggetto e buone
cose a tutti.
Poesie di adesso e di un anno fa
martedì 1 aprile 2008, 7.30.36 | molinaro
Negli ultimi giorni di marzo, insomma l’altro ieri e ieri, ho scritto
alcune poesie. Poi stamattina per caso da alcune scartoffie
ammonticchiate in un angolo, che avevo dimenticato, sono emerse
due poesie scritte un anno fa, negli ultimi giorni di marzo,
dimenticate anche loro. Ecco qui dunque le poesie recenti e quelle
scritte un anno fa, recuperate un po’ per caso (perdo un sacco di
cose qua e là).
Queste sono quelle scritte ieri e l’altro ieri:
LE COSE
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Poi le cose alla fine sono quelle: i piccioni
aggrappati ai silos della riseria
dove c’è un filo di chicchi, i vagoni
sui binari morti che s’infiltrano in campagna,
le fioriture di diversi colori
che si sporgono sul fiume, il sapore
del gambo dei gerani, la ferita
lattiginosa del fico, le fiche
di Chiara Federica e Valentina,
la leggerezza della terra attraversata
fra cortile e cortile o fra città e città,
le capocchie di verde sulle cime
d’un secco arbusto, il presagio dell’acqua
nel fosso ancora asciutto, il rallentare
del treno alla stazione di Novara
quando sale una donna che si slaccia
i bottoni di legno della giacca,
l’edera selvatica sul muro
della fabbrica abbandonata dove
vanno in esplorazione i ragazzini
e rovesciando una tegola rimasta
per terra a preservare un poco d’umido
trovano vita sorpresa di lombrichi,
di centopiedi, forcine, lumache.
D’APRILE IL VECCHIO FAUNO PROVA ANCORA
La primavera è qualcosa che riempie,
solleva e gonfia con l’acqua la terra
e i fiumi: con la linfa nei germogli
fa vita e con il sangue al basso ventre
chiama altra vita.
Vieni qui, ragazza:
ho nettare abbondante da spillare
per la tua sete: so bene versarlo
in fondo alla tua coppa, con più grazia
e non meno vigore dei più giovani
ragazzi che s’azzuffano per te.
A loro ti darai più tardi: adesso
vieni con me: ti mostrerò sentieri
luccicanti di fiori profumati
del tuo profumo, dove starai bene:
avrai l’amore mio e di te stessa.
UN VERSO DA SALVARE
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Non è un poeta sublime, è un po’ retorico
il Carducci Giosuè,
ma l’endecasillabo con cui definì
ormai ben più che un secolo fa
la classe politica italiana
piccioletti ladruncoli bastardi
conserva una sua fresca attualità.
A UNA RAGAZZA ACIDINA
Neanche il riscaldamento globale
potrà fondere il ghiaccio
che c’è nelle tue parole.
RAGAZZA FRESCA
Fra le tue cosce c’è un fresco di fonte.
Sulle tue tette c’è un fresco di monte.
Dentro i tuoi occhi c’è un fresco orizzonte.
C’è un vento fresco dai piedi alla fronte.
Io voglio prendere il fresco con te.
TIT STOP (CON PD)
Ricordo che succedeva in Ultimo spettacolo
di Bogdanovich, nella provincia americana
su un furgoncino preso di straforo:
lei gli dava di petto e non di coscia.
Lui mugugnava e poi s’accontentava.
A me è successo soltanto due volte
in vita mia di essere fermato
sulla cortina di ferro della cintola:
il passaporto ristretto alle tette,
passera off limits, accesso negato.
L’ho trovato bislacco. Ho mugugnato,
infine anch’io mi sono accontentato.
Occupare gli spazi possibili!
Meglio che niente! Vedere i lati buoni!
Un po’ come votare per Veltroni.
PRIMAVERA IN SECONDA CLASSE
Una ragazza che non saprei dire
l’età, ma certamente troppo giovane,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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si china avanti verso me. La maglia
scollata mi concede un videoclip
sulle belle tettine. Il treno frena:
una borsa di carta le precipita
in testa. Dice: «Cazzo!» – ma ridendo:
è una borsa leggera. La rimette
a posto. Fra la maglia e la cintura
la pelle liscia come porcellana
porta la primavera dentro il treno.
Queste due seguenti sono quelle scritte un anno fa:
PASSANDO PER SALICETO
Basta un lenzuolo steso in un cortile
a cambiare la scena delle ville
sparse intorno al paese, basta un uomo
chino su un ciglio a raccogliere erbe
che lui conosce. Basta poco a mettere
vita davvero in questo labirinto
di costruzioni standard. Mentre scrivo
so che non sono solamente uno
che scrive mentre passa: ho steso anch’io
lenzuola al sole e raccolto le erbe
e posso amarvi, non sono straniero.
UNA MATTINA LUMINOSA DI MARZO
Una mattina luminosa di marzo
sul treno per Savona induce sogni
smodati questo cielo strano che
ha un colore che non ha mai avuto
prima o almeno così pare a me
che pure ho visto tanti cieli e tanti
colori e tanti marzi e molti più
ne ho immaginati e ora sogno che accada
qualcosa d’impossibile, qualcosa
che faccia tutto nuovo e tenerissimo.
Per la tua sicurezza!
martedì 1 aprile 2008, 15.34.47 | molinaro
L’altro giorno su un treno c’erano seduti nello scompartimento con me un ragazzo e una
ragazza, sui vent’anni, morosi da due mesi (lo so perché parlavano dei due mesi appunto da
festeggiare in settimana). Facevano discorsi che nella mia fastidiosa presunzione di
intellettuale sussiegoso definirei qualunquistici, poi non so, vedete voi: i romeni sono tutti
violentatori, se vedo uno che ti dà fastidio in un minuto gli rompo la faccia, c’è da avere
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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paura a girare di sera, faccio il concorso e sono sistemato per tutta la vita, minchia cosa c’è
nell’altro scompartimento, la discoteca araba? [c’era una musichetta araba che veniva dal corridoio], minchia ti
accompagno io in bagno che sono pericolosi. Insomma, una cosa così. Lei sembrava leggermente più aperta e
fantasiosa di lui: gli contestava che fosse la soluzione ideale e finale vincere quel concorso e sistemarsi per tutta la
vita, gli diceva che poi si sarebbe rotto i coglioni e che era meglio ogni tanto cambiare.
Non so se allarmato da questa propensione al cambiamento oppure per caso, lui a un tratto le ha chiesto: «Ma tu
quanti ragazzi hai avuto prima di me?»
Incuriosito da questa domanda che evidentemente veniva posta per la prima volta dopo due mesi che stavano
insieme, ho drizzato le orecchie. Sì, lo so, in treno con le orecchie non mi faccio mai i cazzi miei, è verissimo, lo
ammetto, mi piace cogliere i discorsi e gli umori della gente.
Nel breve attimo prima che lei rispondesse, mi è venuta in mente una battuta di Daniele Luttazzi, una battuta che
avevo sentito in un suo spettacolo e che mi aveva infastidito. Anche i comici d’avanguardia, o di sinistra, o
broadminded, o rivoluzionari, o impegnati, o quello che sono, insomma quelli lì tipo Luttazzi, cadono a volte in
orribili luoghi comuni di stampo catto-maschilista. Aveva sentenziato Luttazzi: «Per sapere la verità, quando un
uomo ti dice quante donne s’è fatto, devi dividere per dieci; quando una donna ti dice con quanti è stata, devi
moltiplicare per dieci».
Ho pensato: vediamo se questa ragazza dà una risposta di potenziale interpretabilità luttazziana, magari evasiva,
riduttiva, tipo «tre, ma col primo ero una ragazzina inesperta e non conta», oppure «solo due», o addirittura «nessuno
importante prima di te».
Invece la ragazza è stata qualche secondo a pensare, magari a conteggiare nella mente, prima di profferire queste
esatte parole:
«Tu sei il diciottesimo».
Bene. A meno che sia stata con centottanta, cosa che non reputo probabile, vuol dire che anche Daniele Luttazzi certe
volte è un coglione. Il ragazzo sul treno ha ostentato indifferenza, ma gli si è dipinto in volto un vago disagio. Non so
se c’è un nesso, ma poco dopo si è messo a raccontarle di come trattava la sua ragazza precedente, che alle dieci e
mezzo la accompagnava a casa e poi andava da solo in giro in moto a baccagliare.
Sentito il bel racconto, la ragazza gli ha semplicemente chiesto:
«E allora perché stavi con lei?»
Lui ha risposto con frasi alquanto sconnesse e improbabili. Non voglio essere di malaugurio a nessuno, ma secondo
me quei due non vanno molto oltre i due mesi di fidanzamento.
Vabbè. A parte questo, oggi ho scritto un’altra specie di poesia, che s’intitola Per la tua sicurezza, e ve la trascrivo
qui sotto, finché si può. Buone cose a tutti quanti.
PER LA TUA SICUREZZA!
Presto metteranno inferriate intorno ai ruscelli
per evitare che i bambini bevano acqua non potabilizzata,
spareranno una polvere oscurante nell’alta atmosfera
per evitare i danni all’occhio da osservazione diretta del sole,
imporranno il casco a chi cammina a piedi
perché qualche carico sospeso può sempre cadere,
anzi vieteranno di camminare a piedi, che si fa prima:
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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spostamenti solo all’interno di veicoli. Per la tua sicurezza!
Imporranno ai ristoranti solo piatti usa e getta,
cibi sterilizzati e cucinati con guanti sterili e maschera,
vieteranno di soccorrere chi cade per strada: potrà farlo
soltanto l’operatore specializzato con la sua tuta a norma.
Raccomanderanno ai giovani di non bere mai in due o più
dallo stesso bicchiere. Di non usare lo stesso asciugamano.
Di parlare da una certa distanza. E ovviamente non baciarsi.
Ma per adesso, finché siamo in tempo, mangiamo la frutta
senza lavarla, che viene dall’orto, e poi baciami e baciami ancora
e poi – dato che sono i giorni che incinta non ci resti –
scopiamo senza preservativo; e io ti verrò dentro.
E poi censureranno anche questa specie di poesia:
per correttezza, sicurezza e igiene, soprattutto perché dà
un pessimo esempio. Mi cancelleranno. Per la tua sicurezza!
Due film
giovedì 3 aprile 2008, 2.47.09 | molinaro
Ho visto due film recenti: Barbie Mariposa, cartoni animati (per così
dire: insomma, computer-animati), di registi vari, con voce principale
originale di Chiara Zanni (di cui la Wikipedia dice: her name is Italian,
it means «clear and light»: ma è vero?), prodotto dalla Universal
Pictures, e Il vento fa il suo giro, di Giorgio Diritti, prodotto da Arancia
Film, con Dario Anghilante, Alessandra Agosti e Thierry Toscan.
Descrivono entrambi ambienti molto chiusi e conservatori, ostili a ogni novità: il primo un
isolotto abitato da fatine farfalline vane e conformiste, il secondo un paesino della Val
Maira, in provincia di Cuneo, abitato da ex montanari vani e conformisti.
Tra le fatine farfalline ce ne sono solo un paio che si distinguono e sognano cose diverse,
cercando poi di metterle in pratica. La prima a muoversi è ovviamente la cattiva, che
vuole soppiantare la regina dell’isolotto grazie a un’innovazione tecnologica da lei
inventata (lampade portatili anziché illuminazione fissa statica), nonché avvelenando la
regina stessa. La buona, che aveva una terribile voglia di farsi un giro fuori dall’isolotto,
ne ha finalmente l’occasione dovendo andare a cercare gli strumenti per sconfiggere la
cattiva. Comunque alla fine non cambia niente, restano lì e amen. Nel paesino della Val
Maira, uguale. C’è un pastore francese (di capre, non di anime!) che ci va ad abitare con
la sua famiglia, riportando finalmente nella valle un antico mestiere che potrebbe salvare
il luogo dal suo destino di baraccone estivo di villeggiatura, reperto fossile deserto undici
mesi all’anno. All’inizio sembra che lo accolgano ma poi gli fanno un culo così, deve
andarsene e tutto torna come prima, una vera merda.
Insomma, due film sull’impossibilità di cambiare le cose negli ambienti chiusi. Tristi.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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[Nell'immagine, una scena del film di Giorgio Diritti]
Il cerchio nei cerchi
venerdì 4 aprile 2008, 23.59.46 | molinaro
Sono stato poco fa a una serata di videopoesia alla libreria Massena 28. Un po' a
fasi alterne, ma nel complesso interessante. Quando sono percorse in modo
limpido e non strumentale, queste strade parallele possono dare frutti. I «video di
poesia» erano a cura di Marco Salvatico e Gerardo Fragnito, e trattavano con una
certa leggerezza e scioltezza temi di vasta portata filosofica, con incursioni nella più
drammatica realtà contemporanea (la tragedia della mancanza d'acqua, l'assurdo
della città). Il titolo dell'opera complessiva è Il cerchio nei cerchi. Con la primavera, la libreria Massena 28
ha ripreso in pieno le sue attività, confermandosi un centro importante di vita culturale a Torino. E meno
male che c'è.
[E il video di Manu Chao qui sotto che c'entra? Nulla, avevo voglia di mettercelo.]
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[Nota a piè di messaggio: oggi sono quarant'anni dall'assassinio di Martin Luther King.]
Visita al cimitero
sabato 5 aprile 2008, 23.59.24 | molinaro
Oggi ho deciso di fare una visita al cimitero di Torino Sud, dove
è sepolta Monica. Non ci andavo da più di un anno, perché
sapevo che appunto un anno fa circa c’era stata la
riesumazione generale nel «suo» campo. Adesso anche i morti,
o almeno i morti poveri, nella terra, hanno il contratto a
termine. Morti interinali. Quindici anni e poi li sfrattano. Se
qualcuno se ne cura ancora, i miseri resti possono essere destinati a un loculo, o
a una tomba di famiglia, o a qualcosa del genere. Se no, vengono gettati in una
fossa comune. Le spoglie di Monica sono state messe nel loculo di sua madre,
morta pochi anni dopo di lei, forse anche per il dolore di avere perso la figlia.
Sono andato prima nel luogo dove c’era la tomba con il contratto a termine di
quindici anni, il luogo dove per quindici anni ho portato fiori, soprattutto roselline
piccole, anche se appassiscono subito. La tomba era così come vedete nella foto
a destra, e adesso il luogo si presenta così come
vedete nella foto a sinistra, un deserto vuoto e piatto
su cui si proietta la mia ombra, ma poi ci
seppelliranno degli altri, e poi ricrescerà l’erba.
Dopo, ho cominciato a
girare l’immenso
cimitero alla ricerca del
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 342 di 404
loculo dove è stato
messo ciò che resta del corpo di Monica. Lo so che tutto questo non importa, che
lei non c’è più o è altrove; però i simboli e la pietas hanno un senso, e Antigone
avrà avuto le sue ragioni, no? I loculi sono disposti più o meno in ordine
cronologico, in grandi costruzioni successive, abbastanza orribili (mentre la parte
di cimitero con le tombe nella terra, quelle quindicennali, è bella, è come un
giardino, e a volte ci saltellano leprotti – ma oggi non ne ho visti – e sopra c’è un
grande cielo e intorno la corona dei monti, nelle giornate limpide). Ho cercato
nella zona cronologicamente corrispondente, ma non è stato facile. Ho cercato
per circa due ore. Ho letto migliaia di nomi di morti. Ho chiesto informazioni a un
signore seduto davanti a una tomba. Non ha saputo dirmi nulla ma è stato
gentile.
Poi all’improvviso l’ho trovato. Hanno aggiunto una targhetta sul marmo, così
come vedete nella foto qui a destra. Come a dire: «Ci sono anch’io, adesso, qui
con la mamma». Sono rimasto a guardare credo per
mezz’ora. Poi ho ripreso il cammino per i vasti prati.
E a un certo punto, vaffanculo, mi sono steso su un
prato. Lo so che al cimitero non si fa. Ho accarezzato
l’erba verde nuova, i fiori gialli e blu che ci crescono
spontanei, le zolle brune dove l’erba non ha ancora
attecchito. Il cielo azzurro pallido ha accarezzato me
con un vento leggero. Mi sono lasciato piangere
tranquillo come una roccia. Ho percepito che è
nell’aria e nel cuore che le cose rimangono, e la terra è buona, è qui la
comunione di sempre, sono qui i resti, e non hanno nulla, nulla, nulla di misero.
L’illusione religiosa dice: riabbracceremo i nostri morti. Invece no, non è futuro,
è presente: siamo già abbracciati con loro, lo siamo sempre. Ma solo in qualche
momento privilegiato possiamo accorgercene.
Sull’autobus del ritorno, fermo al capolinea, ho ritrovato il signore che prima
stava seduto davanti alla tomba. Mi ha salutato e mi ha detto che lui in quel
cimitero ha la moglie e il figlio, e mi ha domandato chi ci avevo io. «La
fidanzata», gli ho risposto, ma piano, mentre l’autista accendeva il motore,
dunque non ha sentito, credo, ed è meglio così.
E sull’autobus dell’andata, invece, avevo ricevuto una telefonata di Paola, che era
amica di Monica, allora, a vent’anni: le coincidenze sono strane. Paola mi manda
sms, ma a voce non mi telefonava da anni. Mi ha telefonato perché non avevo
risposto a due sms – erano arrivati in momenti incasinati, non avevo potuto
rispondere subito e poi, lo ammetto, mi ero dimenticato – e allora temeva che mi
fosse successo qualcosa, che stessi male. Paola di mestiere fa la puttana,
continua quel mestiere lì, ora ha trentacinque anni, ne ha passate tante di
vicissitudini. Le do una mano mettendole gli annunci su internet, perché lei non
ha il computer: bella ragazza trentenne contatterebbe uomini gentili e distinti,
con il suo numero di telefono. Che se lo scrivessi qui, quel numero, mi
metterebbero al bando per favoreggiamento della prostituzione, vedete com’è
ridicolo il mondo?
È ridicolo, ma è anche pieno d’amore. Nell’erba, negli autobus, nelle amiche che
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 343 di 404
si preoccupano, nei sorrisi, nelle distanze che si accorciano. Monica mi diceva: ti
voglio bene tanto. Così, in quell’ordine, TVBT, non TVTB. Ciao Monica, ti voglio
bene tanto ancora, come prima, come sempre. Lunedì vado a prendere un tè da
Paola. Te la saluto.
=====
=============
In una visita al cimitero di un po' di anni fa scrissi questa poesia, che sta a
pagina 448 del librone:
==================
VISITA AL CIMITERO
Il vento forte che agita gli alberi
verso la fine di corso Orbassano
dove le file di case si perdono
nell’arcipelago dei capannoni
soffia più forte dentro la foresta
che mi nascondo da sempre nel cuore
con il suo urlo interminabile
di scimmie rosse in stagioni d’amore.
C’è sempre un segno se vengo da Monica
un canto un brivido un filo uno stelo
c’è sempre un giorno che le rassomiglia
c’è sempre un tono diverso nel cielo
e quando scendo dal bus nel piazzale
da un orizzonte che prende alla gola
m’accerchia un ballo di foglie e di polvere
dove si narra che lei non è sola.
=============
[Nell’immagine accanto al titolo, da sinistra, Federica, Alessandra e Silvia. Che
cosa c’entrano? Niente! Sono ragazze! Ma dato che ci avevano tenuto a
comparire qui, ho pensato di poterle mettere anche nel mio blog! Qualche
ragazza ben viva e vivace sta bene nel blog e nell’aprile!]
Luna nuova d'aprile
domenica 6 aprile 2008, 10.52.09 | molinaro
Oggi è il primo compleanno del mio nipotino Riccardo. Potete vedere, se vi interessa,
abbondanti foto di lui e di tutta la famiglia sul sito fotografico di mio genero. Riccardo è un
bel bambino simpatico, anche se un po’ più mammone della sorellina Cristina (che compie
quattro anni fra un mesetto circa). Cristina fin da piccolissima stava con chiunque, Riccardo
se non ha la mamma intorno si mette ben presto a protestare. Ah, questi maschi! Però la
mamma ha giustamente da studiare e lavorare, e così lui si fa le sue ore quotidiane di
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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protesta, e amen. Quando sono io a intrattenerlo, magari al parco, cerco di distrarlo con tutti gli spunti possibili (ama
soprattutto afferrare foglie, rami e altri oggetti diversi da studiare), ma dopo un po’ il richiamo alla mamma
sopraggiunge, con relativi lai.
Un anno fa sono andato alla Clinica Universitaria, reparto maternità, verso mezzogiorno: mia figlia stava per entrare
in sala parto. Tutto bene. Riccardo è nato verso le tre, mentre Cristo stava morendo in croce, per così dire: era il
venerdì santo. L’ho visto, gli ho dato il benvenuto, ho sorriso a mia figlia, sono rimasto un po’ con tutto il parentado,
poi sono partito per Genova Sampierdarena, dove avevo appuntamento a cena con un’amica, e dopo cena con lei e
altri amici a Savona, che poi è stata una nottata molto movimentata, perché va anche bene essere nonni, ma non solo!
Buona domenica: oggi è luna nuova, si fa la luna d’aprile.
[Nell'immagine, Paola (vedi messaggio precedente). Prima di dire che la biancheria intima non è sexy,
considerate che la foto gliel'ha scattata una compagna di prigionia nello spogliatoio di un carcere. Lei è stata
molto in carcere, come quasi tutte le persone che il sistema non riconosce correttamente: beep! not recognized!
alarm! dentro!]
Due inni (per così dire)
lunedì 7 aprile 2008, 8.45.50 | molinaro
La canzoncina del PD sarà ben discutibile, ma almeno è il frutto artigianale del
lavoro di un gruppetto di ragazzi. Quella del Berlusconi mi sembra ben peggio, ed è
presentata come inno ufficiale (almeno dalle informazioni in mio possesso: si
accettano smentite, nel caso). Ve le offro qui sotto per un confronto. Buona
giornata e buona settimana!
!
[Nell’immagine in alto a destra, una fanciulla in spiaggia. Che c’entra? Niente, è solo per tirarmi un po’ su il
morale dopo le due canzoncine, no? L’estate dovrebbe arrivare indipendentemente dal voto. Si spera.]
Brioss
martedì 8 aprile 2008, 10.42.23 | molinaro
Questo video circola da qualche giorno e forse l’avrete già visto. Tutti sottolineano
la sciocchezza che dice il signor dirigente della Telecom quando descrive Waterloo
come una vittoria di Napoleone. Io non noto tanto quello (i dirigenti di oggi studiano
solo la materia denominata far soldi, quindi non vedo come potrebbero conoscere
la storia), noto piuttosto il tono presuntuoso, sussiegoso, da saputello fighetto
aristocratico che guadagna settantamila euro al mese (così mi dicono). Chissà
perché, mi sono venute in mente le brioches di Maria Antonietta. Buona giornata!
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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[Nell'immagine in alto a destra, uno spacciatore di pizze cerca di convincere una cliente riottosa a
sottoscrivere un contratto per la consegna a domicilio di una superpizza con salsiccia rinnovabile, pagabile
anche in comode rate mensili, TAN 0,00% TAEG 45,66%.]
Eros Massena
mercoledì 9 aprile 2008, 0.39.34 | molinaro
Tornato ora a casa dopo un pomeriggio-sera intenso e complesso, ma insomma buono, trovo
fra le altre cose l’invito per una serata poetico-erotica alla libreria Massena 28 questo
venerdì, e ve lo giro (cliccare sull’immagine!). Ci sono forse un po’ troppi quasi (quasi
spogliarello, quasi reading...) e a me soprattutto lo spogliarello piaceva schietto e senza
quasi, come ebbi già a dire. Tuttavia, tuttavia... Potrebbe essere interessante. Vivo giorni
pieni e scombinati, ma se potrò venerdì sera mi sa che ci andrò
Semplice
mercoledì 9 aprile 2008, 14.06.29 | molinaro
Poi magari stasera vado a vedere quel film che parla del
precariato, Tutta la vita davanti, di Paolo Virzì. Me ne
hanno parlato abbastanza bene. M’indispone solo un po’ il
titolo: io non ho tutta la vita davanti, ne ho vissuto già un
gran bel pezzettone, però precario lo sono lo stesso.
Comunque va bene. Nel frattempo oggi ho scritto una poesia, e
la metto qui.
SEMPLICE
Amore è semplice
come il muro scrostato d’un androne
quando la primavera asciuga l’umido
nel chiarore del tardo pomeriggio:
è semplice
come sentire giù dalla finestra
adesso scendo!, restare appoggiato
alla porta leggendo così per passatempo
la lista di cognomi del citofono.
Semplice come le ginocchia ruvide
sotto la gonna sbiadita di tela:
tu corri ancora, io ti rincorro ancora:
io ti rincorro e tu corri perché
di nuovo hai visto qualcosa di nuovo
in fondo allo stradone, dove l’erba
attacca le fessure del bitume.
[Nel video qui sotto, una scena del film di Virzì.]
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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L'ultimo 101
giovedì 10 aprile 2008, 2.43.11 | molinaro
Notte. La vita scorre. Sono stato in ospedale da un’amica, poi a cena da mia figlia.
Sono tornato a casa con l’ultimo 101 (il 101 è il bus che sostituisce la metropolitana
di sera). Ci sono tante visioni, tanti scenari, c’è del vero e c’è del finto, la distinzione
è sottile. Osservo il mondo e a volte mi sembra di non capire nulla, mentre gli altri
capiscono tutto; altre volte mi sembra di capire tutto, mentre gli altri non capiscono
nulla. Nessuna delle due proposizioni ha senso. Però lo sguardo d’amore è quello
che vede di più, di questo m’accorgo, e me ne frego se sembra un discorso romantico o buonista. Gli altri
sguardi distorcono, quale più quale meno. C’è rumore, fragore. Certe grosse costruzioni servono solo a far
soldi, come il film presentato nel video qui sotto, che curiosamente è uscito il 6 aprile 2007, giorno in cui
nasceva il mio secondo nipotino e cenavo a Sampierdarena al sushi bar. La distinzione è sottile ma è
meglio distinguere. È pieno di bluff e di palloni gonfiati. Ma adesso è tardi ed è meglio andare a dormire.
Risaie, e voto per il PD
venerdì 11 aprile 2008, 18.56.05 | molinaro
Nell’ultimo giorno ufficiale di campagna elettorale, all’antivigilia delle consultazioni
politiche, ho preso la mia decisione e mi sembra giusto dichiararla: voterò per il Partito
democratico. In realtà, essendo in linea di principio contrario all’astensione (astenersi a me
sembra come buttare un diritto alle ortiche: questa è la mia opinione) ed essendo un uomo
con idee di sinistra, il mio dubbio era poi solo fra due possibilità: o la Sinistra arcobaleno o
il Partito democratico. Alla fine ho scelto il secondo: perché mi sembra che offra più
possibilità e che contenga, anche, qualche barlume di nuovo, qualche speranza. All’interno del sistema politico di una
democrazia occidentale non si fa la rivoluzione: ma un partito compatto di «sinistra europea», quello almeno lo si
potrebbe fare. E potrebbe governare, se vincesse. E sarebbe pur sempre meglio del governo della destra
commercialcapitalista, finanziarborsista e neofascista.
No, non credo che sia tutto uguale. E, pur nel rispetto dei pensieri di tutti (ho molti amici astensionisti), spero che chi
ha idee di sinistra vada a votare. Non vorrei che alla fine fossero proprio le anime belle, i duri e puri del non voto, a
riconsegnare l’Italia alle mosche del capitale, a chi confonde la società umana con una azienda.
Massì. Tornando a casa poco fa, all’uscita della metropolitana mi hanno cacciato in mano una rivistina reazionaria
gratuita di destra qualunquista (s’intitola Però Torino) e un volantino astensionista con disegni di pecore. Ma non mi
sento pecora andando a votare.
Poi, non c’entra un cazzo, ho scritto una poesia che parla di risaie (sono nato fra le risaie).
VERCELLI 2053
Se si diffondono le varietà di riso
moderne, nuove, che vengono all’asciutto,
qui fra una generazione o due i nonni
racconteranno: «Tu soltanto pensa
questa pianura coperta di quadri
d’acqua limpida, specchi incorniciati
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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fra gli argini sottili detti corde:
specchi del cielo d’aprile e di maggio».
Racconteranno, forse. Ma nessuno
potrà davvero immaginare quella
vetrata d’acqua posata sui lembi
della campagna: sarà una fantasia
astratta, un esercizio d’invenzione:
una delle fiabe del passato
che raccontano i vecchi svaniti.
Nulla. Perché la risaia ha il colore
sì del cielo ma più ancora degli occhi
che la guardano: persi quegli occhi
è cieca nel ricordo, è un disegnino,
una foto in un libro, storia andata.
«Chissà le zanzare, che palude sarà stata»,
diranno i più pensosi. Le cetonie
e le libellule non ci sono già più
da decenni: nelle stagioni ultime
delle risaie l’acqua sembra limpida
ma c’è disciolto il veleno invisibile:
atrazina, oxadiazon, metosulam,
pretilachlor, dalapon, cycloxidim.
C’è la concorrenza della Cina.
Ma poi, onestamente, chi vorrebbe
mondare il riso coi piedi nel fango
la schiena rotta, i vermi alle caviglie?
Eroticismi
sabato 12 aprile 2008, 3.15.19 | molinaro
La lettura-spettacolo di Alessandra Racca, con l’ausilio di Luca e
Davide, alla libreria Massena ieri sera è stata davvero buona. E
c’era un sacco di gente. Stanno diventando proprio un
bell’appuntamento questi venerdì di poesia. La settimana
prossima c’è Stefano Zanoli che fa Van Gogh aveva orecchio per il
blues. E poi altri a seguire.
Io mi sono messo su uno sgabellino in un angolo, come al solito, e sono stato a
guardare e ascoltare, e in qualche punto mi sono pure lasciato emozionare. Se ho
ben capito Alessandra, pur avendo scritto molto (racconti, teatro, credo) non ha mai
pubblicato un libro di versi. Certo la sua recitazione è importante, forse la sua è una
poesia soprattutto da ascoltare, tuttavia credo che starebbe benissimo anche sulle
pagine di un libro. Almeno: a me la voglia di rileggere ciò che ho ascoltato è rimasta.
I tre versi iniziali (mi pare) di una lunga poesia molto bella, letta verso la fine della
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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serata, mi hanno ispirato una specie di risposta, e la metto qua sotto.
Alcune poesie di Alessandra parlano d’amore, altre del cazzo, della fica, degli
incontri, degli scontri, della donna, dell’io e del super io: il titolo della serata,
Eroticismi, sembra voler inventare un termine per racchiudere tutto quanto.
Equilibrismi di Eros. Per come ho percepito io, alla fine, parla sempre di vita e
d’amore. Che altro? È brava. E adesso lo so.
Sì, perché tutti noi si scrive qua e là, si legge qua e là, difficilmente ci si conosce, in
questo mondo dove la comunicazione è apparentemente così facile. Per esempio qui
nella rete telematica mondiale ci sono milioni di persone potenzialmente contattabili,
ma alla fine tu chi contatti, e perché, e perché dovrebbe risponderti, e che cosa si ha
da dire? Stamattina non so perché mi è stata segnalata questa tipa di Forlì, su un
sito che si chiama Badoo. Ma che cosa potrei mai dirle, appunto?
Invece la poesia, scritta o detta, e soprattutto i posti dove ci si trova, un
appuntamento per una lettura in una libreria, un’occasione dotata di senso, questo
sì, questo dà una possibilità. E allora Beppe tieni duro con la libreria Massena, che
ne abbiamo bisogno.
INCONTRO SUL FILO
Mi piace pensare
che le nostre parole
si stiano cercando.
Alessandra Racca
(citazione a memoria, dalla lettura dell’11 aprile 2008)
Anche a me piace pensare
che le nostre parole
si stessero cercando
e si siano trovate: loro, le parole
dette una sera o lette sulla carta:
loro con la loro autonomia
di parole che fanno quel che vogliono:
mandiamo avanti loro e poi magari
basta così – è qualcosa, ora non
allarghiamoci troppo.
Che già è stata una bella serata:
le sedie, il filo, il bicchiere,
la voce delicata
nel dire cazzo (non è niente facile
dire cazzo naturale, senza che
qualche corda vocale stupidina
ammicchi, faccia l’occhietto e così
rovini tutto) e lo strip certo ironico
e simbolico ma comunque
quando rimani con la sottovestina
qualche moto interiore lo provochi
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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come è giusto che sia perché ogni cosa
è la cosa che è
e intanto è un’altra cosa.
[Nell’immagine in alto a destra, una tipa di Torino, presa da qui, che magari potrei
anche voler provare a conoscerla, sì, ma che cosa... No, la rete è un gran casino.
Non si conclude granché. Conoscersi è una faccenda più complessa: servono arte,
voglia e destino. E forse un po' di eroticismi.]
Decifrare la gente
sabato 12 aprile 2008, 16.51.53 | molinaro
Esco di casa un’ora fa e che cosa ti trovo in una finestra all’angolo della mia via? La
bandiera berlusconica (vedi immagine a destra). Dunque hanno anche loro dei tifosi? Certo
il simpatico occupante dell’alloggio che l’ha esposta dev’essere un tipo particolare: non
pago dell’inferriata, ha tappato la finestra con un pannello bianco opaco, isolandosi così del
tutto dal mondo esterno, pieno di comunisti e marocchini. Tiè.
Stavo pensando alla gente, alla gente così diversa
da me, alla gente che faccio così fatica a capire.
Stamattina qui nella community di libero.it sono
incappato in un profilo che potrebbe essere tenero
(vedi immagine a sinistra), con la foto della
«titolare» insieme con cinque amiche e la
precisazione: «io sn la 3a da sx». Ho pensato tre
possibili cose. 1) Non esiste, è il solito maniaco o
quantomeno burlone che s’è inventato tutto
prendendo la foto chissà da dove. 2) Sono sei
indifese ragazzine esposte a un branco potenziale di lupi. 3) Sono agguerrite ragazzine che saprebbero metterci in
riga tutti quanti. Naturalmente la tripletta di ipotesi è schematica, ci sono trentamila altre eventualità, differenti o
intermedie.
Epperò io resto sempre meravigliato, scosso e a volte intimorito da tutto un grande mistero. Anche politico, diciamo
oggi, visto che siamo alla vigilia delle elezioni. Com’è fatto l’uomo (o la donna) che mette alla finestra la bandiera
del malefico? Per chi voterebbero (uso il condizionale perché sono evidentemente minorenni) le ragazzine della foto
del profilo di strippina93? E per quale motivo? Poi mi rendo conto che sono quisquilie, minime derivazioni delle
grandi insolubili domande: cos’è l’uomo? chi siamo? dove andiamo? perché esistiamo? che cazzo ci facciamo qui?
Buon sabato sera!
Synagosyty e altre cose
domenica 13 aprile 2008, 10.58.47 | molinaro
Ieri, sabato, nel pomeriggio sono andato alla libreria Massena 28 all’inaugurazione della
mostra di Luisa Rinaldi intitolata Arte controtendenza (vedi immagine a destra). Sono
quadri che oscillano tra un figurativo di paesaggio aspro e un astratto puro. L’espressione
del sentimento è affidata a una gamma di colori caldi e vivaci, netti, distinti, mai mescolati
in sfumature. La mostra prosegue fino al 26 aprile. Luisa Rinaldi è autrice anche di poesie
(tre raccolte pubblicate) e di un lungo racconto autobiografico (Come l’acqua che scorre,
Bonanno Editore, Catania 2006) in cui fra l’altro denuncia l’esperienza fortemente negativa e violenta subìta in una
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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comunità religiosa, i Ricostruttori nella preghiera, fondata da padre Gian Vittorio Cappelletto.
La sera poi sono andato al teatro Gobetti a vedere Synagosyty (immagine a
sinistra). È la storia di un immigrato di seconda generazione (un beur, come
direbbero in Francia), un «italiano di origine straniera», con tutti i problemi
dell’integrazione in un paesino della cintura milanese. A raccontarla è lo
stesso beur, Aram Kian, attore e autore (con Gabriele Vacis), accompagnato
da Francesca Porrini. Bravissimi entrambi. Si parte dall’infanzia e si arriva
fin verso i trent’anni, attraversando l’adolescenza e il passaggio all’età
adulta. Nitido come una testimonianza oggettiva e appassionante come il
percorso della vita, è un lavoro che mi è piaciuto molto. Ve lo consiglio. Si
replica fino al 21 aprile. Il teatro Gobetti è a Torino in via Rossini 8.
Poi, ancora a proposito di libreria Massena: Beppe ha messo il video di Eroticismi sul sito, e ve lo potete guardare
qui.
Case a termine, pompe e pasticcerie
lunedì 14 aprile 2008, 1.56.26 | molinaro
Pensavo che adesso si fanno anche le case a termine.
Costruiscono un palazzo già con l’idea che fra trenta, quaranta,
massimo cinquant’anni sarà demolito perché non più funzionale
alla società che nel frattempo sarà andata avanti, seguendo le sue
magnifiche sorti e progressive (G. Leopardi). Fino a non molto
tempo fa, invece, chi costruiva un palazzo lo pensava eterno. Era
conscio che eterno non sarebbe stato, ma lo pensava eterno. Come le sepolture al
cimitero: adesso dopo quindici anni strappano i morti al loro riposo. Esigenze di
spazio, dicono. Mica possiamo lasciarli lì seppelliti per sempre. Una volta invece si
seppellivano proprio per sempre, senza più disturbarli. Eppure, fateci caso: forse che
il mondo è intasato da distese immense di tombe dell’Ottocento, del Settecento, del
Seicento? A me non pare. Anzi, non se ne vede praticamente più nessuna in giro, se
non in qualche contesto molto, molto monumentale. Il tempo le ha cancellate, come
è naturale. Ci ha pensato lui. Così come ha cancellato i palazzi pensati eterni. Non
c’è bisogno di programmare la distruzione. Ci pensa lui, il tempo.
Il delirio d’onnipotenza non è di chi costruisce una casa pensandola eterna o di
chi seppellisce i morti per sempre. Costoro infatti conducono la loro onesta
battaglia perduta contro il tempo. Fanno la loro parte, modestamente, e lasciano al
tempo la sua. Il delirio d’onnipotenza è di chi costruisce il palazzo programmato
per essere demolito fra quarant’anni o seppellisce il morto per disseppellirlo
fra quindici. Costoro è come se volessero arrogarsi ogni parte e ogni potere, è
come se dicessero al tempo: fatti da parte, a distruggere ciò che costruisco ci penso
io, decido io, fisso io le scadenze, perché io sono perfetto e so tutto, anche il futuro.
Un po’ come chi, per sconfiggere la morte, si spara un colpo: tiè, morte, ti ho fregata,
ho deciso io. Delirio, follìa del vermiciattolo che si crede un dio. Stronzate.
No, io faccio la mia piccola parte modesta e quindi considero eterno ciò che faccio.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 351 di 404
Se costruissi una casa la immaginerei eretta nel suo sito per sempre: nel 2100, nel
2300, nel 2850, nel 3700, nel 7520. Anche questo blog lo scrivo come fosse per
l’eternità! E lo faccio pur sapendo che è in bilico su precarie elettricità e che i «signori
di Libero.it» possono cancellarlo in qualsiasi momento (sono ragionevolmente sicuro,
anche se non sono stato lì a sciropparmi le trecento videate di condizioni d’uso, che
da qualche parte nel contratto, in carattere microscopico, c’è scritto che possono
cancellarlo senza dare nessuna spiegazione e senza alcun risarcimento: i potenti,
piccoli o grandi, mettono sempre clausole così, le cosiddette clausole d’inculata).
Cambiando argomento, pensavo che Guido Gozzano ha scritto una poesia in cui
dichiara il suo amore per tutte le signorine che mangiano paste nelle confetterie (vedi
qui o qui: nessuno dei due siti la trascrive perfettamente ma ci accontentiamo – forse
non l’hanno immaginata per l’eternità, la loro trascrizione, e quindi l’hanno messa giù
trascuratamente, come le case a termine). E mi sono venute in mente le ragazze che
fanno i pompini nei siti porno. Ho pensato che molte (non tutte, ma davvero molte)
sono bellissime. E ho scritto una poesia per loro, che potete leggere qui sotto. So
che alcuni storceranno il naso pensando che è solo una boutade, un modo per
essere originale a ogni costo, l’anticonformismo di maniera dell’intellettuale. No,
ragazzi, sono troppo vecchio per cadere ancora in simili trappole. Le modelle dei siti
porno, spesso semplici e genuine, mi piacciono davvero molto più che quelle altre,
quelle pagatissime e un poco anoressiche, che ogni tanto si sbronzano e insultano
un poliziotto ma in galera non ci vanno perché sono ricche, quelle che indossano
capi d’alta moda e mai poserebbero per foto troppo erotiche, e che anzi se scappa
fuori un loro pezzettino di nudo è subito gossip planetario, quasi fra le cosce
avessero non una fica ma un oggetto misterioso, unico, mai visto e stupefacente, la
pietra filosofale. E che tante volte, a ben guardarle, belle non sono affatto, né
fresche, né simpatiche. Ma, insomma, quelle lasciamole perdere. Ciò che voglio dire
è che nei siti porno (per esempio questo – non cliccare se sei minorenne –
figuriamoci!) ci sono tantissime ragazze graziosissime. Da innamorarsene, almeno
come quelle di Gozzano.
Che poi, detto per inciso, il pompino non è un’arte tanto facile. Pochissime donne lo
sanno fare davvero bene (così come – par condicio – pochi uomini sanno baciare
bene la passeretta – stando a quanto mi confidano le amiche), con morbidezza,
senza far sentire i denti, inducendo un giusto lievitare... Eh, ci sono tante cose che ai
giovani non si insegnano mai bene: la musica, il disegno, l’educazione civica,
leggere un orario ferroviario, il pompino e il cunnilinguo, la libertà dello spirito, la
ginnastica, rammendare un calzino, la democrazia, cucinare il riso, il rispetto per le
persone, togliere il calcare dal filtro dei rubinetti, la storia contemporanea, la
posizione da prendere sugli autobus per agevolare la salita e la discesa dei
passeggeri, slacciare un reggiseno, la poesia, cambiare una guarnizione a una
caffettiera, gestire l’angoscia, lavare i maglioni a trenta gradi con il programma
delicato, pensare, sognare, interrare i bulbi dei giacinti alla distanza giusta, pulire gli
occhiali senza che restino peluzzi, baciare nei punti giusti, non avere paura,
cambiare il toner alla stampante, pulire il pesce e tante, tante, tantissime altre cose.
Siete andati a votare, marrani? Buona settimana!
XXX-CHANTILLY
Le ragazze che dentro i siti porno
in foto o in video fanno pompini
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 352 di 404
e scopano e lo prendono nel culo
e anche tre per volta e sulla faccia
prendono schizzi di sperma a ruscelli
e altre cose ancora, innominabili,
ho notato che in larga maggioranza
sono belle e dolcissime: hanno occhi
verdi, blu, grigi, neri, luminosi
come riverberi, sopracciglia morbide,
capelli che vorremmo accarezzare,
fianchi di seta, tettine simpatiche
da baciare e poi tutto un andamento
svelto sontuoso risoluto fiero.
Guido Gozzano era innamorato
di tutte le signore che succhiavano
le paste dentro le confetterie.
Consimilmente sono innamorato
delle ragazze che succhiano cazzi
nei siti porno con grazia e armonia.
[Nell’immagine, alcune ragazze «prese» da fotoservizi assolutamente porno, del tipo descritto nella
poesia.]
Berlusconi è una sventura
lunedì 14 aprile 2008, 23.57.53 | molinaro
Rispetto rigorosamente la volontà democraticamente espressa, ma a volte le masse hanno strani
comportamenti che sembrano compulsivi. Anche Mussolini per un certo periodo ebbe un sostegno
popolare maggioritario, se non plebiscitario. Questo non mi impedisce di definirlo un criminale. La
storia parla dopo un certo tempo. Forse. Comunque adesso rigodiamoci il governo dei fasciorazzistiliberisti-ciarlatani, e amen. Se piace ai più!
Amori di (e)scorta e amori immaginati
giovedì 17 aprile 2008, 15.43.22 | molinaro
Per questo blog sono transitate, a leggere e commentare, alcune professioniste
dell'amore, reali o presunte (di una però sono certo che è reale, la conosco dal
1992 ed è un'amica). Oggi ho trovato su Repubblica questo video di una escort. La
trovo simpatica. E dice una cosa che mi è stata detta da tante donne (e da alcuni
uomini): ossia che gli uomini (forse a volte anche le donne) si innamorano di
un'idea e non di una persona. A me non sembra del tutto vero, penso che ci sia
quantomeno una mistura di idea che ci si fa e di realtà della persona amata. Però è suggestivo che lo
dicano in tante (dalle escort alle più caste fanciulle) e in tanti. Sarà perché è molto vero o perché è un
luogo comune? Almeno a una che mi ha detto che mi sono innamorato di un'idea d'amore e non di lei, mi
sento di rispondere che no, non è vero. Anzi a due. Forse a tre. Quante me l'hanno detto? Non sono
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 353 di 404
sicuro...
Poi il servizio di Repubblica spiega che adesso gli uomini ricchi preferiscono andare con le escort piuttosto
che farsi un'amante. Beh, a me sembra un passo avanti. Se l'essere ricchi è una conditio sine qua non di
un rapporto, riconoscersi lealmente come puttaniere e puttana (nobile arte), anziché rivestire il tutto con
la diversamente significante parola amanti (che implica evidentemente e grammaticalmente l'amare) è più
onesto, corretto e vero. Ciao!
Spegni la luce e cadi
giovedì 17 aprile 2008, 17.16.33 | molinaro
Martedì scorso al Teatro della Caduta ho visto uno spettacolo che è un piccolo gioiello:
Spegni la luce e cadi. Viene replicato (ma sempre diverso!) ogni martedì, credo fin verso
l’estate, quindi ve lo consiglio vivamente. Mi ha emozionato profondamente. Dieci, dodici,
quindici persone che fanno due ore di poesia, teatro sperimentale, cabaret, musica, gioco e
varietà in un piccolo teatro che sembra la stanza di un alloggio (una cinquantina di posti al
massimo, stando stretti) sono una cosa meravigliosa, in un mondo dove sembrano contare
solo i grandi numeri, l’audience, e dove accade che un testo teatrale sia scartato perché «richiede sette attori, costa
troppo, va ridotto in modo che lo possa recitare un attore solo o al massimo due» (storia vera vissuta).
Al Teatro della Caduta invece lavorano in venti (contiamo anche i tecnici, chi sta all’ingresso, chi cura le
prenotazioni, eccetera) per una capienza massima, come dicevo, di cinquanta spettatori: due spettatori e mezzo per
ogni persona impegnata a lavorare. Si entra gratis e poi si lascia la somma che si vuole in un cappello che viene fatto
girare alla fine dello spettacolo (quindi paghi sapendo che cosa hai visto).
Gli artisti «fissi» di Spegni la luce e cadi sono Guido Catalano, Andrea Gattico, Mayumi Suzuki, Andrea
Roncaglione e Dirce Darys. Gli altri si alternano, vengono ospitati, ci sono una volta, un’altra, non si sa, è una
sorpresa. Di molti che ho sentito martedì non ricordo già più il nome, e mi spiace, però forse è nella natura della cosa,
un’arte spesa così con generosità, che poi se devi ritrovarla la ritrovi. Ricordo Alessandra Racca perché la conoscevo
già (e fra l’altro tornerà a esibirsi con i suoi Eroticismi mercoledì 23 aprile alle 22 al Machè, via della Consolata 9/G,
Torino).
Che cosa è successo allora martedì scorso? Vediamo se mi ricordo tutto. Difficile. Dirce Darys ha cantato Je ne
regrette rien e un’altra canzone nello stile di Edith Piaf. Guido Catalano ha «inscenato» tre o quattro sue poesie. Due
ragazze di cui una vestita da poliziotto hanno teso fili e spostato sedie. Un giocoliere ha giocato con le risate del
pubblico. Due alieni hanno parlato una strana incantevole lingua esilarante (come il gas). Andrea Gattico e Mayumi
Suzuki, oltre a offrire le loro ottime musiche (pianoforte e violino), hanno curato effetti speciali di alto livello, in
particolare in un documentario su un salmone ribelle. Andrea Roncaglione è intervenuto nei dialoghi come voce fuori
campo con grande saggezza. Una stagista ha gestito con perizia l’entrata degli spettatori, fra prenotazioni e lista
d’attesa. Un demente di passaggio è saltato sul palco e si è accasciato per dieci secondi in silenzio. Alessandra Racca
ha porto con grazia una poesia sulla (non) differenza fra sesso e amore. Un altro giocoliere ha fatto girare le palle ma
una gli si è attaccata in testa. Un diavolo con le corna rosse ha sparato battute così così (sì, quello mi è piaciuto di
meno: lo dico, così almeno si capisce che non sto facendo un panegirico). E poi altre cose, altre cose ancora, in una
profusione generosa e travolgente. Una ragazza con le treccine rasta mi è stata seduta tutto il tempo fra le gambe e ho
dovuto resistere alla tentazione di tirargliele, le treccine (questo non faceva parte dello spettacolo ma ha fatto parte
della mia serata e lì dentro la distinzione è sottile, quasi non c’è – questo è il bello di un teatro così). Sì, ragazzi, io
questa cosa ve la consiglio proprio.
Domanda artistica su un dipinto minore di un pittore di fine Ottocento
giovedì 17 aprile 2008, 22.43.39 | molinaro
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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William-Adolphe Bouguereau, Fanciulla che si difende dall’amore.
Va bene, è carina, mi ricorda qualcuno, ma perché lo fa? Perché si difende dall’amore?
Elezioni, Vecchioni, emozioni, maccheroni, copertoni
venerdì 18 aprile 2008, 9.43.20 | molinaro
Oggi sono sessant’anni dalle prime elezioni politiche italiane dopo
la Liberazione. Il 18 aprile 1948 la sinistra subì una sconfitta
maggiore di quella di domenica scorsa. La DC andò molto vicina a
prendere da sola la metà dei voti. Ecco i risultati di allora alla
Camera (voti – percentuale – seggi; fonte Pupia):
Democrazia Cristiana 12.740.042 – 48,51% – 306
Fronte Democratico Popolare 8.136.637 – 30,98% – 183
Unità Socialista 1.858.116 – 7,07% – 33
Blocco Nazionale 1.003.727 – 3,82% – 18
Partito Monarchico 729.078 – 2,78% – 14
Partito Repubblicano Italiano 651.875 – 2,48% – 9
Movimento Sociale Italiano 526.882 – 2,01% – 6
Südtiroler Volkspartei 124.243 – 0,47% – 3
Partito dei Contadini d’Italia 95.914 – 0,37% – 1
Partito Cristiano Sociale 72.854 – 0,28% – 0
Partito Sardo d’Azione 61.928 – 0,24% – 1
Movimento Nazionale Democratici Federalisti 52.655 – 0,20% – 0
Unione Movimenti Federalisti 52.655 – 0,20% – 0
Blocco Popolare Unionista 35.899 – 0,14% – 0
Partito Comunista Internazionalista 20.736 – 0,008% – 0
Altri 83.294 – 0,37% – 0
Totale votanti: 26.264.458.
Furono le prime elezioni politiche in cui votarono le donne (certi diritti che oggi ci
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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sembrano naturali sono stati conquistati da mica tanto tempo).
A quel risultato elettorale le reazioni dei poeti furono uguali come adesso. La
reazione di Umberto Saba è bene descritta da Vittorio Sereni in questa poesia che si
intitola appunto Saba (tratta dal libro Gli strumenti umani):
SABA
Berretto pipa bastone, gli spenti
oggetti di un ricordo.
Ma io li vidi animati indosso a uno
ramingo in un’Italia di macerie e di polvere.
Sempre di sé parlava ma come lui nessuno
ho conosciuto che di sé parlando
e ad altri vita chiedendo nel parlare
altrettanta e tanta più ne desse
a chi stava ad ascoltarlo.
E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile
lo vidi errare da una piazza all’altra
dall’uno all’altro caffè di Milano
inseguito dalla radio.
«Porca – vociferando – porca». Lo guardava
stupefatta la gente.
Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna
che ignara o no a morte ci ha ferito.
(Per inciso: i versi 5-9 sono una splendida descrizione dell’egocentrismo insicuro e
fertile del poeta, che succhia la vita degli altri perché ne ha bisogno per vivere lui,
ma, se è poeta vero, altrettanta e più ne rende.)
Va bene. Se la sinistra è finita, bisognerà trovare altri modi. Interessante certo è
quello che scrive un tal Bifo qui. Osserviamo, pensiamo, studiamo.
Stasera intanto vado a Varazze a sentire un concerto di Vecchioni. Poi si vedrà. A
proposito di Varazze: nell’immagine, tratta da una sbiadita foto, un giovane gadano si
aggira sulla spiaggia di Varazze, appunto. Corre l’anno 1958, un decennio dopo le
elezioni di cui sopra. Il gadano percepisce su quella spiaggia la presenza di una
ragazza che gli piace e annusa l’aria guardingo, tenendo in mano un oggetto
misterioso. Ma non la trova. Non sa che ella nascerà solo ventitré anni dopo, e altri
ancora dovranno passarne prima che ella frequenti quella spiaggia. Oltre che
gadano, è completamente sfasato sui tempi.
Mi è rimasto un biglietto in più per Vecchioni stasera. Se ti interessa mandami una
mail entro mezzogiorno, insomma subito. Offro anche il passaggio in Panda TorinoVarazze e un eventuale pernottamento in riviera o dintorni. La candidata ideale è una
ragazza carina, simpatica e maggiorenne (anche da pochissimo tempo). Massì.
Buongiorno, figliuoli, andiamo avanti.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Erika nel sottopassaggio
venerdì 18 aprile 2008, 13.14.20 | molinaro
Oggi c’è un cielo strano. Domenica scorsa ho accompagnato
Claudia alla stazione di Torino Porta Susa a prendere il Regionale
20085, e per restare con lei ancora tre minuti sono salito sul treno
e sono sceso a Torino Dora (posso! ho l’abbonamento urbano
Formula!). Nel sottopassaggio di Torino Dora ho visto una grossa
scritta e l’ho fotografata con il telefonino (è nell’immagine). Poi
sono tornato a casa con il 49 sbarrato. C’è un quartiere grigio lì intorno. E oggi ho
scritto questa poesia. Buondì.
ERIKA NEL SOTTOPASSAGGIO
Il sottopassaggio della stazione Dora
con la scritta Erika ti amo e l’odore di piscio
il caffè-tabacchi della stazione Dora
con la barista che inveisce contro le negre
che toccano le cose sul bancone
i dintorni della stazione Dora
la parte di Torino rimasta più grigia
il traffico più triste e più arrabbiato
il quartiere nuovo dietro la stazione Dora
con quei palazzi altissimi che a parte
qualche variante cromatica fighetta
e qualche modesta pretesa geometrica
sono gli stessi orribili alveari
degli anni Cinquanta-Sessanta-Settanta
tranne che costano molto più cari
la gente circola soltanto in automobile
eccetto alcuni immigrati e alcuni sognatori
è una città a macchia di leopardo
dolci piazzette angosciosi labirinti
però anche dove mi guardano male
(mi guardano male perché io li guardo
– non è normale – sarà un pervertito)
vorrei conoscermi e amare perché
ci dev’essere un aggancio uno spiraglio
la via d’uscita da questi interrati
speriamo sia vero l’amore per Erika
nel sottopassaggio della stazione Dora
speriamo non sia solo la svogliata
cazzata ahò cazzo vuoi che me frega
fra un telefilm e l’unz unz nell’iPod.
Ho pensato che ti amo
venerdì 18 aprile 2008, 17.06.06 | molinaro
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Fatta la doccia e la barba, in mutande, devo vestirmi per
andare a Varazze al concerto di Vecchioni, sì adesso mi vesto, ho capito
che è tardi, ma mi è scappata da scrivere ancora una poesia e quando
scappa scappa, e l’ho scritta, eccola qui, ma adesso mi vesto e vado.
HO PENSATO CHE TI AMO
a C. V.
Mentre devo partire per Varazze
ho pensato che ti amo perché
sai rivoltare i colletti alle camicie
e fai le bolle e ti arrampichi sugli alberi
e mi mostri i panni stesi e costruisci
i paracadute per lanciare le monete
dal quarto piano ai suonatori in strada
e hai tentato di insegnarmi l’acquerello
e l’armonica a bocca e mi baci per ore
poi ti fai scura e si parla per ore
e sono tutte buonissime ore,
ho pensato che ti amerei anche se
tu non facessi tutte queste cose,
che ti amo così perché sei tu
con i tuoi sogni concreti di bambina
con le tue fantasie di donna adulta
con il cercare te stessa dentro me
e me dentro te stessa per capire
qualcosa o niente ma stare vicini,
esserci dentro questa vita bella,
ho pensato che ti amo anche se
stasera a Varazze facessi l’amore
con un’altra, con la tua quasi omonima
che amo pure lei o un’altra ancora
nuova, linda, incontrata per caso
nella sera sul mare, a un tavolo fresco
ridendo fra i bicchieri e l’ondeggiare
d’una tendina alla brezza notturna,
ho pensato che ti amo ed è così.
Ma non te lo dirò – tu lo sai già.
Vecchioni a Varazze
sabato 19 aprile 2008, 12.35.40 | molinaro
Un po’ in ritardo anche stamattina, che vado a pranzo con mio
figlio adesso. Certo, ho dormito fino alle dieci passate, d’altronde
mi ero messo a letto alle cinque e mezzo. Bella nottata, sì. La
pioggia e poi in autostrada al ritorno la luna quasi piena in mezzo
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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alle nuvole sparse. Adesso è sabato. Un caffè, una poesia, ora vado.
VECCHIONI A VARAZZE
Mi sono alzato tardi. Non capisco
la guarnizione della caffettiera:
è sbrindellata, forse è da cambiare,
eppure a volte tiene e a volte no:
forse dipende da come l’avvito?
Stamattina ha tenuto. Però è strano.
Bevo il caffè e scrivo una poesia
su ieri sera a Varazze, Vecchioni,
la prima volta sentito dal vivo.
L’acustica del mesto palasport
non è granché: delle canzoni nuove
il testo lo capisco mezzo sì
e mezzo no, che poi già le parole
delle canzoni io faccio fatica
a coglierle, sommerse dalla musica
con il volume alto dei concerti.
Piove a dirotto, ho trovato gli amici
all’entrata, ci siamo sistemati
in alto, in fondo, sulla gradinata.
Luci a San Siro con lei che si bacia
un altro giustamente è un’esperienza
selvaggia et aspra e forte e l’ho cercata
perché sono un coglione e un importuno:
vent’anni fa sono riuscito a smettere
di bere ma gli amori quelli no
non riesco a smetterli, no, neppure quelli
mai cominciati. Va bene. Ma un conto
è stare a farti un po’ di compagnia
altro è aspettare che il treno vada via
e sul mio treno la viola d’inverno
a volte passa per il corridoio
e per ora non suona, ma sorride
come chi sa che non ti perderà.
Nessuna storia mai è una canzone
con un finale mio, e tutti vanno via
– e poi andrò via anch’io.
Non mi piacciono tutte le canzoni
di Vecchioni, per esempio non mi piace
Figlia (cosa vuol dire che sua madre
non era poi tanto ragazza? mi sa
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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metà di astio e metà di vecchiume),
però la maggior parte sono belle.
Una buona serata. Poi mangiamo
qualche cosa a Savona, al Benzi che
è aperto anche di notte. Poi riprendo
la mia autostrada verso nord. Mi fermo
per un caffè a Fossano e mi telefona
Claudia e ci raccontiamo amori e musiche
così alle tre di notte nella Panda
sotto la pioggia nell’area di servizio
semideserta, c’è solo una pattuglia
della Polstrada, c’è un camionista greco
con due donne che parlano francese.
È preziosa la Claudia. Tante volte
com’è prezioso qualcosa lo sai
soltanto dopo, tanto tempo dopo.
Faccio esercizio per saperlo prima:
perché i bei tempi siano questo tempo.
È un esercizio come un altro, c’è
chi fa yoga, chi training psicofisico,
chi shiatsu, chi meditazione: io
faccio di vivere quello che vivo.
Arrivo a casa alle cinque passate.
Ma insomma, sì, fanculo, è bello esserci:
cantare e prendere quello che viene:
scrivo, non sono bravo a fà i danè:
che gliene frega, a chi mi legge,
se lei c’è stata o non c’è stata e lei chi è.
A che serve questo coso?
domenica 20 aprile 2008, 0.52.55 | molinaro
Ho guardato spesso con curiosità quegli strani grossi cilindri che sembrano fatti solo di
un’intelaiatura (nell’immagine, uno che ho fotografato martedì scorso a Torino, non lontano
dal teatro della Caduta). Credo che siano collegati a qualcosa che riguarda il gas, ma non so
assolutamente a che servano. Anche il paesaggio dell’industria è pieno di mistero.
I barbari
domenica 20 aprile 2008, 15.25.14 | molinaro
(Fonte Istat) Quando si verifica uno stupro in Italia, tre volte su quattro il colpevole è
italiano. Quando si verifica uno stupro in Italia, sette volte su dieci il colpevole è il
fidanzato / compagno / marito o ex fidanzato / compagno / marito della donna. Più che
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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normale, dunque, che dopo uno stupro a Roma ieri sia partita la solita campagna (elettorale)
contro gli immigrati, contro quella losca gente che viene da lontano, e a favore della quiete che sempre si respira fra
le sacre mura domestiche.
[L'immagine è tratta da art112ism]
Tre poesie oggi sul treno
domenica 20 aprile 2008, 23.51.10 | molinaro
Oggi sul treno da Torino a Vercelli ho scritto tre poesie. La
prima sul treno fermo a Porta Nuova. La seconda fra Porta
Nuova e Porta Susa. La terza, quella più lunga, fra Porta Susa e
Vercelli, dedicata alla tipa che mi si è seduta davanti. A Vercelli
da mia madre ho mangiato polenta e coniglio. Il coniglio
insomma, la carne non mi va tanto, ma la polenta era davvero
splendida.
LA PARABOLA TERRENA
Un piccione che a giudicare dal piumaggio
e dalla compattezza del collo e delle spalle
era ancor giovane giace sull’asfalto
all’angolo fra corso Dante e via Giuria
con l’intestino di fuori, però ben raccolto,
non sparpagliato. L’hanno fatto secco
credo da pochissimo. Fra due o tre ore
sarà una sagoma piatta. Ma già adesso
a lui non gliene frega più una mazza:
la sua parabola terrena si è compiuta.
BILANCIO SMS ALLE 18.50 DEL 20 APRILE 2008
Messaggi inviati: 5697.
Messaggi ricevuti: 6256.
S’intende da quando ho questo telefono:
non ho mai azzerato il contatore.
Nota 1: spendo troppo in SMS.
Nota 2: non è del tutto vero
che sono quel rompiballe che dicono
che scrivo tanto alle ragazze
che raramente mi rispondono.
C’è un buon equilibrio: anzi, benché di poco,
i ricevuti sono più degli inviati.
Ma non è il caso di farci arzigogoli.
Il bilancio dell’amore è un’altra cosa.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Anzi: l’amore non ha nessun bilancio.
LA PASSEGGERA DORMIENTE
(Il Regionale duemilaventitré.)
(Questa volta l’ho preso a Porta Nuova.)
A Porta Susa sale un sacco di gente.
Ci sono diversi posti liberi nel vagone
ma c’è gente abbastanza per occuparli tutti
e forse gli ultimi resteranno in piedi
(beati gli ultimi). È libero il posto
davanti a me. Osservo, seleziono,
decido chi vorrei che si sedesse.
C’è una nera ricciolina proprio bella.
Ma no, s’è messa là dall’altra parte,
più avanti. Ne vedrò solo i capelli.
Passa un ciccione col viso bovino.
Tu no, dai, passa oltre, tu no qui
gli dico col pensiero. E lui va oltre.
Ecco, si è seduta una ragazza che insomma
è abbastanza carina. Non mi è andata male.
È alta. Capelli corti castano chiaro.
Carnagione né chiara né scura.
Indossa un impermeabile rosso carminio
con doppia fila di bottoni rotondi
di metallo. Sembrerebbe acciaio. Però sottile.
Ha una grossa borsa nera fatta a cornetto
e anche i pantaloni sono neri.
Ha belle labbra. Niente rossetto. Gli occhi
ora li ha chiusi, perché dorme. Non ho visto
di che colore sono. Se li apre
annoterò. Ha una maglietta verde marcio
e le scarpe da ginnastica nere
con le stringhe blu scuro. Ha una collana
di cosi quadrati tipo l’ambra ma più sul granata
e meno trasparenti. Eh? Cosa? Come dite?
Ma no, sciocchini, come faccio a sapere
di che colore ha le mutande! Magari non le ha.
Il naso è regolare, il viso è
rotondo ma non rotondissimo. Va bene.
Ha un po’ di macchie al centro della fronte
come un residuo d’acne o qualche sfogo.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 362 di 404
Ho letto sul giornale che un uomo
è stato condannato per molestie sessuali
per aver guardato con troppa insistenza
una sconosciuta sul treno. Però l’avvocato
ha già annunciato il ricorso in appello.
Chissà se questa poesia è una molestia.
Eh no, mica volevo farci sesso.
Probabilmente non la vedrò mai più.
Quasi sicuramente.
Guarda che se non ti svegli prima di Vercelli
non scriverò di che colore hai gli occhi.
Guarda che fra poco devo scendere.
Niente. Non sapremo il colore dei suoi occhi.
Speriamo non dovesse scendere a Vercelli
o prima, poverina. Mica potevo svegliarla.
Quella sì sarebbe stata una molestia.
Poi magari il ciccione col viso bovino,
quello che ho cacciato via con il pensiero,
è la persona migliore del mondo.
Ma noi siamo crudeli e vogliamo
avere davanti qualcosa di bello
mentre il treno procede nella sera.
[L'immagine è presa da qui.]
La rivoluzione amorosa
lunedì 21 aprile 2008, 15.36.41 | molinaro
Leggendo L’animale morente di Philip Roth mi prende una
folgorazione. Non ho ancora finito il libro, anzi non sono nemmeno
a metà, ma a me le folgorazioni mi prendono in corso d’opera, non
sono di quei tipi metodici che si fanno folgorare solo alla fine.
Non mi ha folgorato il libro in sé, che mi sembra buono ma non
eccezionale. Mi ha folgorato un insieme di cose, come tessere che completano un
mosaico. Il paragone con altri libri che parlano anch’essi, direttamente o
indirettamente, della «rivoluzione sessuale» degli anni Sessanta. Che ne discutono o
che vi sono ambientati. Che la raccontano o ne fanno lo sfondo di un intreccio. Che vi
sono in qualche modo collegati.
E il paragone con quello che ho vissuto io. E due espressioni, due locuzioni, due brevi
sintagmi di sostantivo più aggettivo che improvvisamente mi si mettono davanti agli
occhi insieme, uno accanto all’altro. Non mi era mai successo prima, non ci avevo
pensato. Eccoli:
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 363 di 404
– Libero amore.
– Rivoluzione sessuale.
Sentiti e risentiti un milione di volte. E oggi un’improvvisa domanda.
– Se è libero amore, perché non rivoluzione amorosa?
– Se è rivoluzione sessuale, perché non libero sesso?
Hanno (abbiamo) fatto un pastrocchio. Credendo forse di mescolare, hanno tenuto
invece ben separato. Credevano (ma credevano davvero?) di superare le categorie dei
nonni (la coppia, l’amore esclusivo, il sesso altrove, la brava ragazza, la cattiva
ragazza, tutto un po’ trasgressivamente permesso purché al suo posto) arrivando a una
nuova armonia (l’amore e il sesso come valori che combaciano a informare il mondo,
la libertà di non escludere, più nessuna cattiva né brava ragazza, più nessun posto
limitato da private frontiere). Lo credevano. Ma lo credevano davvero?
Vedo nei libri (ma certo non solo nei libri) la curiosa contraddizione: lui (per esempio
il protagonista di Roth) «aveva accolto con entusiasmo la rivoluzione sessuale» ma
poi «si è innamorato». Come sarebbe a dire ma poi? La rivoluzione non è tutta un
innamorarsi?
No, non lo è, non lo è stata: le categorie sono rimaste staccate. I nonni li (ci) hanno
fregati. Il sesso è rimasto da una parte e l’amore dall’altra. Ci sono ancora le cattive
(tipe da sesso) e le brave (tipe da amore) ragazze. C’è ancora l’esclusione, ci sono
ancora tutti quei modelli della borghesia, la strizzatina d’occhio, la scappatella nel
retrobottega. Cazzo, il trionfo della borghesia è totale. Vaffanculo!
Si è mancata la rivoluzione amorosa, quella in cui il sesso è libero per natura, perché
l’amore rivoluzionato non ha e non dà impedimenti, non potrebbe mai darne.
Ecco il grande equivoco: la rivoluzione sessuale non può portare al libero amore, è un
fuoco acceso sotto una pentola vuota. È la rivoluzione amorosa che porta al libero
sesso, e a tante altre splendide cose. Si è attaccato il problema dal lato sbagliato.
Chissà se in buona fede.
Ecco perché mi sono sempre sembrati così strani i contorcimenti di certi personaggi
(letterari e reali) fra sesso libero e innamoramento. Ecco perché non li ho mai capiti. E
perché loro non hanno mai capito me.
Anche un verso di Alessandra Racca mi ha illuminato, dove lei parla con fresco
desiderio (in Eroticismi) di un sesso dove non importa se c’è o non c’è amore (e nello
specchio vedo anche un amore dove non importa se c’è o non c’è sesso). Lasciare
liberamente tutte le cose insieme, così come vengono, rispettandone la spontaneità
come un prezioso diritto umano: questa è la rivoluzione amorosa.
Ma è tutta da fare! Tutta ancora da cominciare. Ci si è imbrogliati con un libero amore
che inciampa sul sesso, e con un libero sesso che inciampa sull’amore. Sesso e amore
hanno continuato a intralciarsi a vicenda, proprio come quando i nonni si facevano
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 364 di 404
fare i pompini al bordello mentre la dolce amata sposa poteva usare la bocca solo per
casti baci e romantiche canzoni cinguettate sciacquando i bicchieri.
Gli uomini sono rimasti comodi fermi al palo. Hanno fatto una rivoluzione
gattopardesca. Buttiamo tutto all’aria, perché nulla sia rovesciato.
Ma si stanno muovendo alcune donne. Forse perché loro erano da sempre meno
comode. Non è comodo dovere per tutta la vita solo fare pompini a tutti o solo cantare
romantiche canzoni per uno sposo. Magari si gradirebbe un po’ di tutte le varie cose
insieme. Qualcuna s’è stufata e si sta muovendo. Da poco, con difficoltà, ma si sta
muovendo.
Che si muovano le donne, è la mia unica speranza. Perché gli uomini te li raccomando.
Hanno fatto una rivoluzione del cazzo. Del loro cazzo. O forse nemmeno.
La rivoluzione deve ancora cominciare. C’è da trasformare l’amore in amore (da un
verso di Clara Vajthò). E il sesso allora sarà gioia, e nessun potere potrà più
soggiogarlo. Il potere farà di tutto per fermare questa rivoluzione qui: farà molto più di
quello che ha fatto per contrastare quella degli anni Sessanta, da cui è uscito indenne e
più subdolo di prima, l’astuto potere che può oggi sussurrare suadente: «ma come siete
liberi ragazzi, siete liberi di fare tutto il sesso che volete, sì, tutto quello che volete,
mica è colpa mia se poi vi innamorate e chiedete a gran voce di non essere più liberi,
fate tutto voi, io sono un potere buono, buono come il pane, come il petrolio, come un
telefilm, come le cuffiette nelle vostre orecchie».
Ma la rivoluzione amorosa ora comincia. Io ci credo. Comincia. Non: liberi o
innamorati. Ma: liberi e innamorati.
[Nell’immagine, Nikolaj Konstantinovič Kalmakov, Afrodite, olio su tela, 1926, particolare.]
Otto; or, Up with Dead People
martedì 22 aprile 2008, 2.20.30 | molinaro
Sono stato al cinema a vedere un film che mi è decisamente piaciuto, nel contesto del
festival Da Sodoma a Hollywood, una rassegna di cinema GLBT che si tiene a Torino ogni
anno (questa è la ventitreesima edizione). Il film è Otto; or, Up with Dead People, del
regista Bruce LaBruce (Germania-Canada, 2008). È un film sugli zombi, ma i veri zombi
siamo noi, morti dentro, annichiliti da una società malata che sopravvive producendo cose
inutili, rifiuti e schiavitù. Un film che ho trovato efficace, lucido, bene mirato sull’obiettivo.
Non so quanto girerà nelle sale «normali», ma ve lo consiglio. Non lo consiglio però ai minori e alle persone troppo
impressionabili: ci sono frattaglie vaganti; benché, in fondo, meno che in un medio film horror commerciale.
Fiera dell'editoria di poesia
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28/05/2008
Carlo Molinaro
Pagina 365 di 404
martedì 22 aprile 2008, 11.41.52 | molinaro
Sono usciti gli Atti della prima Fiera dell’Editoria di Poesia, che si è tenuta a Pozzolo
Formigaro il 23 giugno 2007. Cioè, forse erano giù usciti da un po’ (la data di stampa è
novembre 2007), ma io li ho ricevuti adesso. È un bel libretto che contiene gli interventi
critici dei partecipanti al dibattito, e una poesia per ciascun poeta presente. Io ero
presente, accompagnato da una bellissima ragazza (sì, è stata una splendida giornata), e
quindi c’è anche una poesia mia. Nell’immagine potete vedere la copertina del libro e la
pagina che comprende la poesia mia e quella di Massimo Morasso (contiguità dovuta a pure ragioni di ordine
alfabetico). Tutto il libretto (88 pagine), curato da Mauro Ferrari e Cristina Daglio per le Edizioni
dell’Associazione Letteraria «La clessidra», è un bel concentrato di cose interessanti e importanti, sia «di»
poesia sia «sulla» poesia, con lo specifico riferimento, appunto, all’editoria. È il primo volume della nuova
collana Format e chi volesse lo può ordinare anche con una semplice mail ([email protected]) al
prezzo di dieci euro.
La prossima Fiera si terrà ancora a Pozzolo Formigaro il 21-22 giugno 2008.
Contatti poetici e perdite di tempo
martedì 22 aprile 2008, 16.53.31 | molinaro
Ero poco fa sul tram numero tre in corso Regina Margherita e mi si è aperto in testa un
verso di Montale: lo sai: debbo riperderti e non posso. Mi è capitato così, senza motivo,
perché la poesia quando arriva arriva; e mi ha messo addosso una grande volteggiante
malinconia. Prima mi è venuta in mente un donna, che non posso «riperdere» perché non
l’ho mai «avuta», ed è la donna a cui ho dedicato la poesia Sottoripa, che c’è nell’immagine
del messaggio precedente, nella pagina degli Atti, e che comunque avevo già messo almeno
una volta in questo blog, qui. Poi mi sono venute in mente altre donne, trovate, perse, ritrovate, riperse. E infine la
vita: che è lei, la vita, che si può riperdere tante volte, perché tante volte si può ritrovare. Ma di ritrovarla non sei mai
sicuro. E comunque ogni riperdita è un dolore, indipendentemente, a prescindere. E ci sarà la volta che non la ritrovi
più.
Giunto a casa ho cercato la poesia. Non su Internet, no, sul libro, è meglio. Sul libro l’ho trovata e l’ho letta. Non
ricordavo affatto che alla fine della prima strofa parlasse di Sottoripa. Che strani collegamenti, che misteriosi
riverberi ha la poesia. Allora forse l’abbiano sentito entrambi, lui e io, a Genova, quell’odore d’ombra che sale dal
porto. Entrambi l’abbiamo associato a una donna e a qualcos’altro.
Ho pensato in successione tre cose stupide.
1) Chissà come si chiamava la donna che Montale doveva riperdere.
2) Ma tu, perché non mi dai un bacio? Un bacio, dai.
3) Non posso perdere tempo dietro queste fantasticherie, ho da lavorare.
Sì, appunto. Adesso basta, adesso torno al lavoro.
Qui sotto c’è la poesia di Montale. Noto in quest’attimo che anche la sua è fatta di due strofe di sei versi, come la
mia. Strane, strane combinazioni di cose. Però la mia ha un motivo preciso per essere fatta di due strofe di sei versi,
un motivo che non vi dirò, ma che è preciso, banale, sciocco, da ridere (cantava Vecchioni venerdì sera a Varazze,
con le parole di una poesia di Pessoa: le lettere d’amore / fanno solo ridere: / le lettere d’amore / non sarebbero
d’amore / se non facessero ridere; / anch’io scrivevo un tempo / lettere d’amore, / anch’io facevo ridere: / le lettere
d’amore / quando c’è l’amore, / per forza fanno ridere).
Adesso basta, adesso torno al lavoro. Però ho voglia di spaccare tutto. Non è che sono poi così triste o incazzato o
disperato, ho solo voglia di spaccare tutto, così. Chissà se ce l’aveva anche Montale. Sembrava un tipo timido. Ma
anch’io lo sembro. A volte l’apparenza inganna.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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=========================
Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l’oscura primavera
di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall’aperto,
strazia com’unghia ai vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia
da te.
E l’inferno è certo.
(Eugenio Montale, Le occasioni (1928-1939), Parte seconda - Mottetti, in Tutte le poesie, Oscar Mondadori, Cles,
Trento, 2006, p. 139)
[nell’immagine, due poeti moderatamente maledetti seduti per terra a Genova, fra Sottoripa e il «Porto antico», il
5-XI-2004]
Consuela
martedì 22 aprile 2008, 20.30.13 | molinaro
Una pagina de L’animale morente di Roth mi ha illuminato. Ho scoperto chi sono. Mi sono
immedesimato. No, non con il protagonista del romanzo, David Kepesh, quello mi sembra
un po’ stronzo. No, mi sono immedesimato con lei, Consuela Castillo. Io sono una ragazza
cubana di vent’anni, di buona famiglia contadina arricchita, in un campus universitario del
New Jersey. Un mondo della cui moderna cultura capisco una cosa sì e quattro no.
Come Consuela, mi emoziono davanti agli impressionisti ma Picasso me lo devo studiare
con fastidiosa perplessità, cercando cercando e non trovando. Guardo, leggo, ascolto cose che sono dei veri must
della cultura moderna e resto lì a cercare di capire che cosa avrei dovuto capire, a sforzarmi di immaginare quale
emozione avrei dovuto provare.
Non voglio estremizzare, intendiamoci. Ci sono un sacco di cose nell’arte, nella musica e nella letteratura di oggi che
mi prendono, mi coinvolgono, mi emozionano, mi cambiano (è il minimo che possa fare l’arte, cambiare le persone),
mi spingono avanti verso nuova conoscenza (di testa e di cuore).
Ma ce n’è un altro sacco, direi un po’ più grosso, davanti a cui resto proprio come Consuela. Ecco il passo che mi ha
colpito: «La cultura è importante, per lei, anche se in un modo antiquato e deferente. Non che sia una cosa da cui
voglia trarre il suo sostentamento. Non vuole e non potrebbe - è stata allevata troppo bene e in un modo troppo
conforme alla tradizione, per questo -, ma la cultura è importante e meravigliosa come nessun’altra delle cose che
conosce. Consuela è la ragazza che trova affascinanti gli impressionisti, ma il Picasso cubista deve guardarlo bene,
aguzzando gli occhi (sempre con un senso di fastidiosa perplessità) e mettendocela tutta per cogliere l’idea. Lei sta lì,
in attesa della nuova e sorprendente sensazione, del nuovo concetto, della nuova emozione, e quando non viene (non
viene mai), si accusa di essere inadeguata e priva di... cosa? Si accusa di non riuscire a capire nemmeno che cosa le
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manca. L’arte che puzza di modernità non la lascia soltanto perplessa, ma anche delusa di sé. Vorrebbe che Picasso
contasse di più, che operasse in lei qualche trasformazione, magari, ma teso sulla ribalta del genio c’è un telo
trasparente che le offusca la vista e tiene un po’ a distanza la sua venerazione. Consuela dà all’arte, a tutte le arti,
assai più di quanto ne riceva, una specie di zelo che non manca di un suo fascino struggente» (Philip Roth, L’animale
morente, Einaudi, Farigliano, Cuneo, 2002, pag. 5).
Sì, mi sono immedesimato molto con lei, tanto che all’ultima riga ho pensato: ma fìccatelo su per il culo il suo
fascino struggente, saputello professore di merda, che capisci al volo Picasso – ma sarà vero? perché vedi, a
Consuela e a me a volte viene il dubbio che voi bluffiate, anche se siamo timidi nel dirlo – e guardi la ragazza cubana
dall’alto della cattedra, come fosse un curioso animaletto, ma poi te ne innamori. O forse no, non te ne innamori: ti
innamori solo della sua proiezione nel mondo delle tue idee, dei tuoi modi, modi non antiquati e non deferenti, ma
gelidi, ah, cazzo, quanto gelidi, e lo sai!
Ora, ripeto, non estremizziamo. Ci sarà un po’ di tutto. Certo nell’arte ci saranno cose che non capisco perché mi
mancano dei passaggi intermedi, e altre che invece non capisco perché non c’è niente da capire, perché sono, per
dirla fantozzianamente, una boiata pazzesca. Il tempo di solito le smaschera. Sono stato all’ultima Biennale di
Venezia e direi che lì la categoria boiata pazzesca rappresentava un buon novanta per cento. In mezzo a quelle
costosissime installazioni prima o poi qualcuno avrà il coraggio di gridare che il re è nudo. Almeno lo spero.
Ma, al di là delle boiate pazzesche vendute al potere a caro prezzo (la critica è asservita, è totalmente embedded), c’è
una componente magari più sincera, nell’arte e nella letteratura moderna, che Consuela e io fatichiamo a
comprendere: il gusto del nascosto, del doppio, dell’ingannevole, dell’esoterico. A tutti i livelli, anche nell’arte di
strada: osservo certi graffiti su un muro di periferia e mi rendo conto che sono fatti volutamente per essere decifrabili
solo da un gruppo ristretto. A tutti gli altri risultano illeggibili. Leggo racconti (e anche poesie) in cui mi sembra che
l’autore volutamente mi prenda per il culo, mi dica il contrario di quel che vuol dire, mi nasconda un pezzo per il
gusto di nasconderlo. Non so per quale motivo lo faccia. In tutto questo, l’avverbio volutamente è fondamentale.
Nelle mie poesie (ma anche in prosa) cerco di essere il più chiaro possibile, cerco di mostrare tutto quello che riesco
a portare faticosamente alla luce. Rimane un’immensa fascia oscura, rimane perché c’è, perché non arrivo a scavarci
dentro, è naturale che rimanga, c’è un infinito ignoto e misterioso; ma non mi sognerei mai di oscurare volutamente
una parte di quel che ho scoperto e che quindi posso comunicare. Mi sembrerebbe anche un sacrìlego spreco e un
rischio intollerabile: la finestra si apre solo per un attimo: se non dici adesso tutto quello che hai visto, non è affatto
sicuro che tu lo possa dire domani; potrebbe essere perduto per sempre. L’artista è un veggente precario: se quel poco
che vede non lo mostra tutto, se non lo mostra nel modo più chiaro possibile (che è sempre comunque abbastanza
oscuro), viene meno al suo compito, è inadempiente. È come un molinaro che nasconde una parte della farina
macinata nel suo molino. Chissà poi perché. Per farla marcire lì con lui?
Insomma, fra boiate insipienti e sapienti studiati nascondimenti, gran parte dell’arte moderna a me e a Consuela non
parla. E a me Consuela è tanto simpatica. E spero che guarisca, dato che alla fine del libro è molto malata. M’importa
assai più di questo che delle paturnie dell’intellettuale David, che anziché correre da lei malata si fa pagine di seghe
mentali per poi decidere sì, all’ultima pagina, di correre da lei, con una controvoce che gli dice di non andarci:
«Pensaci. Rifletti. Perché se ci vai, sei finito». Finito come stronzo, io direi, ma come uomo, tutto da cominciare.
[Chissà. E se magari anche tutta una parte dell’arte moderna, se ci andasse, sarebbe...]
(Mah, speriamo che Consuela guarisca bene. La storia è ambientata ai giorni nostri negli Stati Uniti d’America dove,
se hai qualche soldo, il tumore al seno si cura bene, no? E quei due là qualche soldo ce l’hanno. Andrà tutto bene.)
Cianfrusaglie
giovedì 24 aprile 2008, 10.37.10 | molinaro
La casa è molto cianfrusagliosa, sto rifacendo una lavatrice perché
ieri ci ho dimenticato dentro i panni bagnati, è un’ora che mi dico
che voglio farmi un caffè ma non l’ho ancora fatto e in compenso
ho scritto la poesia qui sotto. Poi vado a comprarmi la poltroncina
ergonomica perché se no con questo lavoro al computer mi viene
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Carlo Molinaro
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un mal di schiena assai sgradevole. Pensavo che sono sempre
debitore agli altri di quasi tutto quello che faccio e scrivo. Prendiamo la poesia qui
sotto. Le unghie sono mie e vabbè. I calzini anche sono miei ma l’idea di osservarli e
«dirne» è legata a una poesia di Alessandra sentita per la seconda volta ieri sera.
L’edera pure adesso è mia però me l’ha regalata Malvina. Se Alessandra non avesse
parlato di calzini ieri sera e se Malvina non mi avesse regalato l’edera io non avrei
mai scritto questa poesia. Sento echeggiare un sonoro «e chi se ne frega!». Ehm,
vabbè, ma era così per dire quanto gli altri sono dentro me. Forse tutti sono dentro
tutti ma questo non lo so, non stiamo a sociopsicofilosofare, che essi sono dentro me
lo so, poi dentro gli altri non lo so, è possibile ma io non lo so. E le poesie d’amore,
allora? Senza le ragazze a ispirarle, nulla, nulla. Adesso me lo faccio quel caffè.
CIANFRUSAGLIE
Devo tagliarmi le unghie:
mi sembra che è da poco che l’ho fatto
ma certe volte
il tempo passa quasi a tradimento.
Ho la casa piena di calzini spaiati
di cui molti bucati:
quando due spaiati s’assomigliano
li appaio e li riuso, niente sprechi.
Ho trapiantato l’edera di Malvina
in un vaso grosso
contro il muricciolo dell’altana:
chissà se vorrà rampicare.
Sarebbe nella sua natura
rampicare, è un rampicante,
ma della natura
non mi fido mica tanto: vedremo.
Non è detto che io mi tagli le unghie
oggi.
Non sempre quando una cosa è da fare
la faccio.
25 aprile: fiaccolata a Torino e lettura di poesia a Savona
giovedì 24 aprile 2008, 23.10.16 | molinaro
Sono stato alla fiaccolata per la Festa della Liberazione. Qui a Torino la si fa tutti gli anni,
la sera della vigilia. Un bel corteo, tanta gente, tanti ragazzi giovani. Erano presenti le
«istituzioni» cittadine e poi i sindacati, i partiti della sinistra, le associazioni, i gruppi sociali
e la gente sciolta. Un bel momento di partecipazione. Lo so che non è con le fiaccolate che
si risolvono i problemi, ma intanto mantenere queste fiaccole accese è un segno buono, dato
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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che c’è chi la Liberazione la vorrebbe dimenticare. In teoria sarebbero dovuti essere presenti
tutti i partiti, perché tutti hanno la possibilità di esistere solo grazie alla sconfitta del fascismo nel 1945. Però c’erano
solo quelli di sinistra, parlamentare e non. E va bene. Degli altri non è che abbiamo poi sentito tanto la mancanza.
Sono stato ai margini del corteo, l’ho osservato più che seguìto; ero con un’amica. La mia parte più propriamente
attiva la farò domani a Savona, dalle 16 in poi, con una lettura di poesie al circolo Artisi (salita San Giacomo 9, se ho
ben capito l’indirizzo: ma insomma lo troverò!) a cui parteciperanno con me alcuni amici che hanno ancora voglia di
ricordare e resistere, resistere anche all’onda montante del liberismo selvaggio e del capitalismo globale che ha
dichiarato guerra al sociale e all’umano. Fra gli altri, Cesare Oddera, Francesco Vico e Chiara Borghi.
[nella sfocata immagine presa con il telefonino, un momento della fiaccolata]
Il 25 aprile in un circolo di Savona
sabato 26 aprile 2008, 2.39.34 | molinaro
Un simpatico circolo Arci sulle alture di Savona, il circolo Artisi. Un cortile come di una
cascina. Un palco, dei tavoli, della musica, del mangiare e del bere, delle storie da
raccontare e anche qualche poesia. Così si è celebrato il pomeriggio del 25 aprile, e non è
stato male.
Da parte mia ho letto una specie di composizione nuova, scritta lipperlì, che sarebbe questa
qui sotto.
NON LIBERATEVI DELL’AMORE
Ragazzi liberatevi,
liberatevi di ciò che lega mani e cuore
ma non liberatevi dell’amore.
Liberatevi dei saggi che ripetono
le stesse cose da secoli e secoli
senza che nessuno ne discuta mai.
Liberatevi dei paesaggi
che altri hanno dipinto per voi.
Liberatevi di quelli
che tutti chiamano maestri
ma non c’è chi sappia dire il perché.
Liberatevi di chi racconta
che i partigiani erano tutti briganti.
Liberatevi di chi racconta
che i partigiani erano tutti degli eroi.
Liberatevi di chi racconta racconta racconta
dimenticando sempre di ascoltare,
liberatevi dei santi
ma non liberatevi dell’amore.
Liberatevi dei banchieri, dei bancari,
dei finanzieri, degli assicuratori,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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degli agenti immobiliari,
dei consiglieri particolari;
liberatevi dei genitori,
liberatevi dei professori
anche quando fanno i simpatici,
persino quando scrivono canzoni.
Liberatevi dei venditori di pentole
e dei venditori di sogni
ma non liberatevi dell’amore.
Liberatevi delle lune di cartone,
delle offerte di protezione;
liberatevi di tutti i ciarlatani,
dei falsi indiani metropolitani.
Liberatevi delle spiegazioni,
degli alibi, delle giustificazioni,
degli aggiustamenti, delle correzioni
ma non liberatevi dell’amore.
Liberatevi della paura
madre di tutte le disfatte, liberatevi
dell’incantesimo della rinuncia,
delle lunghe sirene dei rimorsi;
liberatevi dei cenni d’intesa,
degli ammiccamenti,
delle strizzate d’occhio compiacenti
ma non liberatevi dell’amore.
Liberatevi delle altezze divine,
delle colonne di marmo, dei templi
con tutti i loro schiavi e i loro preti;
liberatevi dei falsi profeti,
liberatevi dei veri profeti;
liberatevi anche dei poeti
sussiegosi con i loro quaderni,
liberatevi di chi vi dice liberatevi,
liberatevi di me
ma non liberatevi dell’amore.
[nell’immagine, presa con il telefonino, il palco del circolo Artisi di Savona durante la lettura]
Poesia il giorno dopo (di Chiara)
sabato 26 aprile 2008, 23.47.22 | molinaro
Succede qualche volta che una poesia nasca il giorno dopo. Questa poesia sul
25 aprile Chiara l’ha scritta il giorno dopo. La poesia arriva quando arriva. Ma
non è mai in ritardo, perché non sta dentro un tempo. Non ha potuto leggerla
alla manifestazione perché non l’aveva ancora scritta. Ma adesso la metto io qui
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28/05/2008
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(spero che a Chiara non dispiaccia) perché mi sembra una bella storia, una
storia importante; e una poesia scritta bene.
25 APRILE
Le batteva forte il cuore nell’attenderne il ritorno
Dopo due anni di notizie perse
Avevi cominciato a piangerlo o tenevi ancora accesa la speranza?
Lei, che ricamava con le sue iniziali federe e lenzuola
Ancora prima di rivolgergli la parola
Lui, disperso in Francia
Cammino lento di bosco
Fame, freddo, paura
A non fidarsi mai di nessuno
Nascosto da partigiani, puttane e suore
Che con la divisa sei fascista
Che senza la divisa sei disertore
Ladro, brigante, comunista o contadino
Muori ucciso ed è il tuo destino
Lei, ragazzina con le trecce
Idee chiare di socialismo
Distingueva bene tra il nero del male
E il rosso dell’amore, sapeva con chi stare
Lui, dietro il suo fucile senza un colpo mai sparato
In terra straniera dove tutto ti è nemico
Pensava a suo padre ucciso dalla guerra disperata
Correva di albero in albero per tornare da quella madre che lo aspettava
Vivo, ancora intero ma senza fiato
I rossi, i neri non erano affare suo
La politica e i salotti bene sono vezzi
Per chi la storia la scrive
Non la vive
Per il sangue rosso della ragazza
Per il cuore nero del vecchio gerarca
La vita del ragazzo non vale un cazzo
Se c’è una guerra da vincere e un nemico da annientare
La vita è solo una matricola
Lo scotto da pagare
Quel giorno d’aprile il cielo era fermo
Guardava gli ultimi fucilati
Le ultime mosse della bestia che spira all’inferno
Su tutti quei corpi dilaniati
La guerra è finita
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Lei, cerca una notizia, controlla le strade
Ha fiducia ma qualcosa le manca
Se lui è morto lei non sarà mai più in pace
Lui, ancora addosso la paura del disertore
S’aggira nel suo paese come uno straniero
Ogni angolo non gli è sicuro
Al buio è terrore quando tutto tace
Lei, lo vede con la madre
Il cuore le ritorna in petto
Il tempo ricomincia dopo cinque anni di rinuncia
Mangiano insieme, forse fave
Di là dagli alberi del bosco
Quel che successe è storia loro
A me resta a ogni anno il ricordo
Di quando i miei nonni sconfissero il mostro
Chiara Borghi
Ja smort al ciar e i droc mi ’d cò
lunedì 28 aprile 2008, 17.02.34 | molinaro
Ovvero, nell'idioma delle mie natali lande selvagge: «spengo la luce e cado anch’io». Non
credo che aggiunga molto allo spettacolo, spero anzi che non tolga troppo, ma in
scaletta domani sera, martedì 29, al Teatro della Caduta, alle 21 precise, ci sono anch’io.
Che cosa farò? Ah, è uno scaramantico segreto. O forse non l’ho ancora deciso! Mandatemi
almeno un mentale in bocca al lupo: è (quasi) il mio esordio teatrale!
[nell'immagine, un esempio di un servizio postale che funziona bene: sul sito delle Poste puoi seguire passo
passo il cammino della tua lettera, dalla partenza alla consegna - come, che cosa c'entra? c'entra! un servizio
postale che funziona è affascinante come una poesia: lo sapete che amo la Posta!]
Due poesie
martedì 29 aprile 2008, 9.50.24 | molinaro
Due poesie scritte in questi giorni, in momenti diversi. Non credo che siano collegate fra di
loro; forse l’unica cosa che hanno in comune è l’accenno alla strada, a quel luogo infinito
che possiamo chiamare strada. Tempo grigio stamattina su Torino. Buona giornata a tutti.
CONGEDO DEL VIANDANTE FORESTIERO
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Se restate con me malvolentieri
tolgo il disturbo – disse il viandante.
Se viaggiate con me malvolentieri
posso cambiare strada. Non dirò
che non vi amo più. Vi amo ancora,
vi amo fin da quando vi ho incontrati
sul mio cammino. Rimarrei con voi
tutta la vita e se fosse possibile
anche al di là. Tuttavia non sopporto
di essere accettato per pietà
o correttezza. Io sono scorretto
ed empio, un amatore industrioso,
appassionato di donne e di strade
e amici da parlare accanto a un fuoco.
Vi porterò con me – non ve ne abbiate
a male: voi non ve ne accorgerete
di essermi nel cuore – l’ho capito
che per voi è un disagio – così disse
il viandante straniero e al biforcarsi
del sentiero guardò la strada buona
(dove ancora, lontane, percepiva
le loro voci). Forse rise o pianse
o le due cose insieme (lui faceva
spesso così).
Tirò un respiro forte,
sputò sul muso all’angoscia che sempre
lo derideva – ritornò a smarrirsi
per la strada cattiva, nella selva
di novità, nella fragranza aspra
di piante sconosciute, forse buone
o velenose – non si può sapere.
L’INVITO DELLA ROSA
Non vale nulla il nome della rosa
senza l’odore della rosa vera.
La rosa vera sta in cima allo stelo:
non nello stemma o nell’allegoria.
Chi è cieco dalla nascita non sa
né saprà mai la forma della rosa.
La poesia rimescola e combina
tutte le cose: ma non può creare.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Dunque chi non ha mai trovato amore
non sprechi tempo a cercarlo nei versi.
Corra piuttosto fuori nelle strade
dove tutto si perde e si guadagna.
[nell'immagine, un'amica, che ho perso di vista ormai da molti anni, cammina in un porto]
Stasera teatro!
martedì 29 aprile 2008, 14.29.11 | molinaro
Fare una cosa in teatro all’improvviso, una cosa da cinque o sei
minuti, non è mica una faccenda da poco, per me che attore poi
non lo sono stato mai. Non riesco neanche a raccontare bugie
alle ragazze! Ho pensato: devo fare almeno una prova. E l’ho
fatta, qui in casa (i vicini forse, nonostante tutto, non hanno
chiamato un’ambulanza; o forse deve ancora arrivare). Poi
magari stasera faccio tutta un’altra cosa, ma intanto ho fatto questa prova qui,
che sentita così fa cagare, ma chissà, magari con l’effetto del teatro intorno,
chissà. Poi chissà se faccio questo o faccio altro. Magari modifico, arricchisco, o
depaupero... L’improvvisazione vera, sì, non l’improvvisazione preparata,
fanculo. Si vedrà. È anche un gioco, spegni la luce e cadi! O la spacca o la
spacca!
Teatro della caduta ieri e primo maggio domani
mercoledì 30 aprile 2008, 15.01.39 | molinaro
Allora. Ieri sera c’è stato lo spettacolo dei Martedì della caduta
(vedi messaggi precedenti). Per me è stata davvero una bella serata.
Prima del mio «numero» ero molto emozionato, lo ammetto,
proprio come un debuttante (ero un debuttante!). Entrato in scena,
mi sono rilassato subito, e il discorso (comprese le parti cantate!) mi
è venuto molto fluido, con varie aggiunte, improvvisazioni, idee
saltate fuori lì per lì. Mi piaceva stare lì – credo che questo sia importante. Ho parlato,
cantato, poetato, gesticolato, lanciato alcune cose sul pubblico (una bandiera
arcobaleno, un abito da sposa, un foglio appallottolato e infine la camicia rossa che mi
sono strappato di dosso: e tutto ciò aveva un senso, ma è inutile spiegarlo qui; il teatro
spiegato fuori dal teatro è una cosa noiosissima).
Così partecipando ed essendo molto emotivamente preso, non saprei «recensire» la
parte che ho fatto io (quella no di certo!) ma neppure il resto dello spettacolo (anche
perché il secondo atto non l’ho visto ma solo sentito, essendo dietro le quinte... le
quinte? insomma, il telone o parete che chiude il palco sul didietro, alle spalle degli
attori, come si chiama? la terminologia teatrale non è il mio forte!). Così a naso mi è
sembrato bello come il precedente dello stesso genere che avevo visto due settimane
fa. Però ci vorrebbe il parere di qualche spettatore neutrale e non coinvolto.
Mi ha fatto piacere che sia salita sul palco a fare una sua parte, nel momento del
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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«coinvolgimento del pubblico», la ragazza che di solito sta all’ingresso a controllare le
prenotazioni e le tessere. Io ero dietro e non ho potuto vederla, ma sono contento lo
stesso. Dopo è venuta nel bugigattolo dove si comprimono gli attori prima e dopo la
loro parte, e si è seduta su una panchettina piccola piccola accanto a me, che ero a
torso nudo e puzzavo come una capra (credo che le mie ascelle fossero a quel punto
armi chimiche di distruzione di massa). So già cosa state pensando, ma no, niente,
dicevo solo che mi sembra carina e simpatica e un po’ pazza, una buona mistura, sarà
mica vietato dirlo. Se ho ben capito si chiama Marta, ma non sono sicuro, magari si
chiama in tutt’altro modo e faccio la mia solita figura di merda con i nomi.
Domani è il primo maggio e vado a Roma al concerto con un gruppo di amici. Sì, la
solita banda di Savona e dintorni, saremo in sei, quattro in auto e due in treno (io in
treno! ne dubitavate?). Una cosa decisa all’improvviso e quasi per caso, alla festa del
25 aprile. Ma che, alla luce dell’esito funesto delle elezioni romane (dopo l’esito
altrettanto funesto di quelle nazionali) assume forse un valore particolare, maggiore.
Teniamo vive queste partecipazioni, almeno, in attesa di tempi migliori, in attesa
soprattutto di una sinistra che sappia trovare i nodi che stringono e immobilizzano
questa cazzo di società capitalconsumistica distruttrice – e scioglierli, per fare una
società diversa, umana e amorosa.
[Nell’immagine, tratta da qui, un significativo panorama del concerto romano del primo maggio di due anni fa.]
Il concerto del primo maggio
sabato 3 maggio 2008, 10.07.50 | molinaro
Una bella esperienza e un bel bagno di folla, in piazza San Giovanni a Roma, il
primo maggio. Chiara e io in treno a raggiungere Cesare, Sonia, Mac e Lella che
erano già là, arrivati in macchina, e ci sono rimasti (in vacanza fino a domani,
maledetti!) mentre Chiara e io siamo tornati ieri pomeriggio, sempre in treno. Il
clima è stato favorevole, di musica c'era del meglio e del peggio, ma la cosa più
bella, come sempre in queste occasioni, era la marea di ragazze e ragazzi in
piazza. Un bel giro, un bel modo di cominciare maggio. Ciao, buona giornata!
[Qui sotto c'è una galleria di immagini che ho scattato - con una macchinetta usa e getta - del nostro
gruppo di amici al concerto (cliccare per ingrandire, naturalmente). L'unica dove ci sono anch'io è
ovviamente l'unica che non ho scattato io, e non è neppure venuta granché.]
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Carlo Molinaro
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Cesare e Chiara
Cesare e Chiara e, dietro, Sonia e Lella
Carlo, Cesare e Chiara
Chiara e Mac
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Sonia
Sonia e Cesare
Sonia
Mac
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Lella
Panoranica su un po' di folla
Un po' di folla e il palco in fondo
Palco notturno
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Abbiocco sul treno al ritorno
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Spostare un napoletano
sabato 3 maggio 2008, 17.45.40 | molinaro
Visto il trionfo della Lega Nord, mi permetto... No, scherzo, ma
voglio raccontare, con un sorriso, questo aneddoto di ieri. Chiara e
io, il giorno dopo il concerto, lasciamo con calma la nostra camera
d’albergo e andiamo in stazione, a Roma Termini, a prendere il
treno per il Nord. È un Intercity Plus a prenotazione obbligatoria (lo
so che ho scritto il Recitativo contro i treni rapidi, ma sulle lunghe
distanze si fa quel che si può, e poi è un viaggio guadagnato gratis con i punti della
Cartaviaggio!) e noi abbiamo prenotato i posti di finestrino, uno davanti all’altro
(primo schema a sinistra nell'immagine). Il treno arriva da Napoli. Saliamo, troviamo
il nostro scompartimento e vediamo che i «nostri» posti sono occupati da due vivaci
marmocchi, mentre altri due posti sono occupati dalle rispettive nonne, disposte come
nel secondo schema da sinistra nell’immagine.
Sussurro che «quei due posti là» sarebbero prenotati. Una delle nonne mi risponde:
«Ma dobbiamo far spostare i bambini?» – all’incirca con il tono con cui si potrebbe
ragionevolmente dire «ma dobbiamo conficcare un pugnale nei nostri ventri e
sparpagliare a terra le nostre budella?».
Ah no, beh, certo, e poi l’importante è che ci siano due posti, per Chiara e per me, chi
se ne frega della disposizione. Però mi azzardo ancora a proporre, probabilmente in
modo troppo timido e confuso, che una delle nonne potrebbe almeno spostarsi accanto
al pargolo suo, lasciando liberi i due posti di corridoio, in modo da permettere a Chiara
e a me di stare uno di fronte all’altra (terzo schema da sinistra nell’immagine).
La mia proposta alternativa non viene neppure percepita, mi pare. Chiara dice: «Va
bene, non importa» – e insomma occupiamo i due posti liberi, senza che nessuno dei
pre-occupanti sposti le chiappe nemmeno di un centimetro (quarto schema da sinistra
nell’immagine).
Vabbè. Chiara e io abbiamo lo stesso parlato molto e bene, sporgendoci l’uno verso
l’altra, e anzi forse è stato più divertente così. Le nonne napoletane hanno parlato pure
loro lamentandosi dell’inciviltà sui treni, dei prezzi, dei tempi, delle infedeltà del
principe Carlo in Inghilterra e delle distanze da viaggiare, mentre i marmocchi, pur
dotati di giochi elettronici vari e filmoteca su lettore dvd portatile speciale antiurto per
bimbi, si sono lamentati del treno, del ritardo, del non arrivare mai e di mille altre
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cose.
E dire che io avrei voluto proprio che quel treno non arrivasse mai, che il viaggio
continuasse per tante altre ore ancora; ma io ho le mie ragioni di poeta, e non si
possono neanche lecitamente dire; mentre quelle delle nonne napoletane e dei loro
marmocchi si possono dire eccome, perché l’importante è la famiglia – la famiglia e
l’Itaglia. Ma confermo che racconto tutto questo con un sorriso, e oggi sono contento,
abbastanza contento.
Periferie
domenica 4 maggio 2008, 14.21.04 | molinaro
Stamattina mi sono svegliato tardi. È domenica. Mi sono fatto un caffè, poi sono uscito per
fare una passeggiata o corsetta verso il parco della Pellerina. Giunto alla Pellerina mi sono
un po’ rotto le balle di passeggiare o corsettare sempre nel parco, per quanto bello e
rigoglioso, e ho deviato per via Pianezza, verso Lucento, alle spalle dell’ormai famigerata
ThyssenKrupp. Come periferia non è nemmeno così brutta. Fra le periferie che conosco,
quella di Torino è forse la migliore. C’è dello spazio vivibile, c’è qualche tocco di [non
rinuncia alla] bellezza, pure lì fra le brutture, c’è del verde e c’è persino della memoria. Ce n’è abbastanza, di
memoria, da attirare nemici: su un manifesto commemorativo del 25 aprile, nel quartiere, ho trovato scritto con la
bomboletta spray nera: «BASTA CON LA STORIA!» Vuol dire, se non altro, che la storia c’è. Tornato a casa, ho
collegato nel pensiero questa mattina di oggi alla mattina di due giorni fa a Roma, e ho scritto questa specie di poesia,
che potete, se volete, leggere qui sotto. Buona domenica.
PERIFERIE
«La nostra civiltà si estingue perché della vita
badiamo più alla durata che al contenuto»
dice sul balcone di un albergo di Roma
una giovane laureata in filosofia
che per vivere fa la barista e la bagnina
e vende aspirapolvere o balla sui cubi.
«Cioè: vogliamo campare cent’anni
ma non pensiamo: cosa ho fatto di buono
e di bello? che cosa ho combinato?»
spiega e mi chiede di prendere in bagno
il bicchiere di plastica con un dito d’acqua
per spegnere la cicca che ha finito di fumare.
«È vero» dico guardando sotto noi
stendersi la consumabile periferia romana
dove l’unico segno che potrò ricordare
è il disco giallo di un ufficio postale.
«Costruiamo palazzi con trascuratezza
sicuri che fra pochi decenni saranno abbattuti
perché non più funzionali: non abbiamo
la passione secolare di una cattedrale gotica
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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sorretta dal sogno di essere eterna.
Morti noi – morti dopo strazianti accanimenti
per vivere di strazio un giorno ancora –
morti noi, ma che cosa ce ne frega?
Così non faremo più nulla di bello:
al bello serve un futuro collettivo,
serve crederci. Senza bellezza
spariremo ed è giusto, naturale».
La ascolto mentre il sole del mattino
benché pallido riesce a ravvivare
il rame dei suoi riccioli e l’azzurro
degli occhi. Dice che ha studiato storia
perché ha creduto che potesse servire
a non rifare le stesse cazzate
del passato, ma che è stata ingenua a crederlo.
Vorrei dirle: «La bellezza c’è ancora
e la difenderemo e ne faremo
dell’altra» – invece dico: «Abbiamo tempo
prima del treno». Penso che ieri
mi ha tenuto per mano – ma era solo
per non perderci nel caos della piazza.
Sono talmente piccole le cose!
Mi piace tanto chiamarla per nome,
mi piace dire il suo nome al vocativo
e posso farlo, questo posso farlo:
dunque il mondo non è da buttar via.
Stamattina – sono passati due giorni,
è domenica e sono a Torino, da solo –
ho passeggiato giù verso Lucento,
via Pianezza, zone antiche industriali.
Ci sono ancora molte ciminiere:
qualcuna lasciata a ricordo in rettangoli
di piazza trasformati in giardinetti:
la semplice colonna di mattoni
rossi che dice: qui c’è stata fabbrica.
Altre, più moderne, che funzionano
dentro grandi recinti luccicanti
come quello davanti alla chiesetta
di Santa Brigida, dove sono entrato
trenta secondi e c’era l’Agnus Dei
così ho stretto la mano, «pace a te»,
a un forestiero con giacca e cravatta.
Su un fabbricato basso e lungo è rimasta
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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l’insegna incisa: FORNITURE FERROVIARIE
E TESSUTI. Forse facevano qui le tendine
per i vagoni di legno rimorchiati
dalle locomotive. La bellezza
c’è e c’è anche l’amore e lotteremo
perché la vita non sia un intervallo
di tempo inutile fra nascere e morire.
Scrivo questa mattina per non perdere
quei due toni di rosso: i mattoni
della ciminiera e i riccioli di lei
nel sole pallido. È roba da nulla.
Sono talmente piccole le cose
che sorreggono il nostro sogno eterno
di ragazzini di periferia.
Non ci diamo per vinti.
Ancora tre piccole poesie
domenica 4 maggio 2008, 23.54.59 | molinaro
Ho scritto ancora tre piccole poesie sul treno fra Torino e Vercelli,
un po’ all’andata e un po’ al ritorno, nel consueto viaggio per la
cena domenicale da mia madre. Eccole qui sotto. E domani è
lunedì e via con una nuova settimana. Buona notte a tutti quanti.
PROMESSA
Non ci possiamo perdere. La luna
cambia e ritorna: la rivedi sempre
da qualche parte in cielo. Torna il verde
nelle strette fessure tra le pietre.
Torna l’acqua nel letto del torrente.
Torna l’amore mio dalle colline
con le sue mani belle e gli occhi azzurri:
mi sorride e mi porge i frutti freschi
che non conosco, che lei sa trovare.
LUCI DAL TRENO
Sono vicine sì ma indecifrabili
le luci dei paesi che attraversa
la ferrovia da Milano a Torino.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Lampioni o case o raccordi di strade
o capannoni deserti con cani
feroci o cascinali dove un vecchio
si mette a letto e tossisce da solo.
Non so nulla di tutte queste vite
e anch’io tossisco da solo sul treno
che mi riporta al mio appartamento.
RISAIE
Volano grandi uccelli sopra il pelo
dell’acqua ferma come un altro cielo
disteso giù, finché spunti uno stelo
di riso. Quanto sangue in questa terra,
dimenticato da generazioni.
Però il prodotto è ancora buono: rende
e si vende, benché sia avvelenato
dai diserbanti. Il sangue fa buon riso.
===================
[nell'immagine, le rose nel giardino a Vercelli stanno ancora una volta per fiorire: è da
quando sono nato che assisto ogni anno a questo fenomeno, di maggio, e sempre
mi meraviglio]
Versi su commissione!
lunedì 5 maggio 2008, 19.25.53 | molinaro
L’amico Andrea, studente d’arte, mi ha chiesto per un suo lavororicerca di scrivere dei versi sul mondo inquinato in contrasto con
quello naturale. Ha detto: «So che non si scrive a comando, che
soprattutto per la poesia è necessaria l’ispirazione»; però mi ha
chiesto, se caso mai mi viene, di scrivere qualcosa su quel tema.
Ci ho pensato, ho provato, e mi è venuta questa cosa sui rifiuti.
Insomma, non so se va bene, ma tant’è. Andrea, puoi usarla come vuoi, se ti serve,
e se no no, s’intende, pazienza! Ciao!
UN RIFIUTO È UN RIFIUTO
Un rifiuto è un rifiuto. C’è poco da fare.
No, c’è molto da fare, ma sì, per carità:
gestirli bene è una cosa importante:
la raccolta differenziata, il riciclo, il riuso,
il compost, il termovalorizzatore,
la produzione di energia e così via.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Va bene sì. Ma non basta. I rifiuti
sono rifiuti – e già la parola
non è bella. Sarebbe tutto più bello
riducendo i rifiuti al minimo possibile.
Meno involucri di plastica, meno scatole,
meno sprechi nella ristorazione,
meno colloqui di lavoro andati male,
meno strumenti e apparecchi usa e getta,
meno ragazze che ti dicono di no,
meno medicinali inutili in grandi confezioni,
meno genitori che non ti lasciano uscire,
meno trasporti di roba qua e là coi camion,
meno Celestino V, meno Aventino,
meno sacchetti e buste e borsine e shopper,
meno automobili, meno tivù spazzatura,
insomma: meno rifiuti. Per un mondo migliore
ci vogliono meno rifiuti, perché va bene
tutta la gestione, provare a trasformarli
in risorse, però bisogna produrne di meno
perché un rifiuto è un rifiuto
e può sempre far male.
Sabato alla Fiera del Libro
lunedì 5 maggio 2008, 21.52.59 | molinaro
Sabato 10 maggio alle ore 13 alla Fiera del Libro di Torino, Spazio
Autori Calligaris A, presentazione di Le carte di riso - Quindici poeti
vercellesi, antologia a cura di Francesca Tini Brunozzi, edita da
Torino Poesia. È superfluo dire che fra i quindici ci sono anch’io,
vercellese di nascita, ancorché torinesizzato. Se potete, venite! Eh!
Europeana
mercoledì 7 maggio 2008, 20.08.29 | molinaro
In treno ho letto un libro che mi è stato regalato da un’amica che mi regala sempre libri
belli, e infatti è bello, e lo consiglio: Patrik Ourednik, Europeana, Breve storia del XX
secolo, Edizioni Duepunti, Palermo 2005. È davvero una breve storia del XX secolo, scritta
in modo veloce e incisivo, 150 pagine che si leggono in un giorno e che raccontano tante
cose che forse, del Novecento, non avevamo bene considerato. E poi avvince e prende e... se
sono riuscito a leggerlo io che odio i libri di storia, è tutto detto! Ourednik è un ceco nato a
Praga nel 1957 e poi trasferitosi a Parigi, come fanno tanti. Fa diversi mestieri fra cui il redattore, come me.
[nell’immagine, il libro messo lì con altre cose]
L'amore importuno
giovedì 8 maggio 2008, 12.19.47 | molinaro
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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A volte mi rendo conto di quanto può essere fastidioso un corteggiamento non gradito.
Ebbene sì, a volte (ho detto a volte!) me ne rendo conto. Anche se è condotto con discrezione, senza eccessi e senza
volgarità, anche se è fatto soprattutto di attenzioni, contemplazioni, interiorizzazioni, sorrisi e... poesie, anche se poi
cerca di derubricarsi (non so se è la parola più giusta) in «semplice» amicizia, rappresenta pur sempre un qualcosa di
sbilanciato, un qualcosa che mette a disagio perché «tutto sta da una parte». Leggere un libro e pensare «è un libro
che le piacerà» e regalarglielo; sentire una canzone e pensare «questa la troverà bella» e mandargliela; vedere un
posto bellissimo e raccontarglielo per condividerne con lei la bellezza; invitarla in mille occasioni di svago cultura
festa cazzeggio concerto mostra eccetera; ricordare una sua parola detta mesi prima e prenderne lo spunto per un
discorso che le tiri su il morale. Tutte queste non sono «cattive azioni». Però se succedono continuamente a senso
unico, se lei non ti regala libri né ti manda canzoni né ti racconta luoghi né ti invita né ricorda una tua parola detta
mesi prima, allora c’è uno squilibrio, una disarmonia che può mettere «lei» a disagio. E dunque non le fai del bene.
Non è colpa sua se a lei non viene voglia di regalarti un libro né di mandarti una canzone né di condividere con te la
bellezza di un luogo; non è colpa sua se non le interessa conoscerti nel profondo, mentre tu di lei vorresti scoprire
ogni atomo; in definitiva: non è colpa sua se non è innamorata di te. E allora, dopo un tempo ragionevole di prove e
approcci (provarci non è reato, provarci va bene!), dopo un tempo ragionevole che è difficile dire quanto dura, ma
insomma ragionevole, sì, davanti al persistere del diniego bisognerebbe smettere, bisognerebbe lasciar perdere,
farsene una ragione, come dicono. Bisognerebbe. Riuscirci è poi un altro discorso, ma bisognerebbe. Perché alla fine
la questione è onestamente e correttamente definita nelle due battute della vignetta che vedete nell’immagine
(tratta dal Carlone World, più precisamente qui). È solo una vignetta ma quando l’ho vista per caso stamattina mi ha
colpito, mi sembra una raffigurazione della Necessità, della Moira, del destino inesorabile. Ehm! Guardatela, la
vignetta. Che altro potrebbe dire lui? E che altro potrebbe dire lei? Nulla di diverso. E il Fato osserva impassibile,
dalle sue misteriose lontananze. Vabbè, buona giornata, ragazzi! Lo so che ho fatto un discorso da pischelli. O forse
no. Che cosa cambia, con gli anni? A 15 o a 70, un sì è un sì e un no è un no. Resta tutto uguale. No? Sì. Io dico di sì.
Cercherei un telegrafo
giovedì 8 maggio 2008, 16.48.55 | molinaro
Poi ho pranzato con mio figlio, poi mi sono rimesso a lavorare, poi
ho pensato all’eternità, che non è proprio un pensiero pensabile, e
poi all’improvviso mi è venuta questa poesia qui, e l’ho scritta.
Magari quel famoso serpente, nell’Eden, era il filo di un telegrafo.
O che fosse un blog?
CERCHEREI UN TELEGRAFO
S’io fossi su un’isola meravigliosa
dove c’è sempre il clima ideale
e nessun bisogno di vestirsi
e alberi con frutti squisiti
che maturano in ogni stagione
con tutti i gusti possibili
e mi nutrono e non serve altro cibo
e poi ruscelli d’acqua limpidissima
e animali graziosi dal canto soave
con i colori più mirabili
e con me una donna bellissima
una donna così bella che non saprei
neanche come sognarla in sogno
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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a darmi tutto l’amore possibile
e prendere tutto l’amore mio,
cercherei un telegrafo. Perché
ogni cosa contiene il suo finire
e so che devo fare questo: devo,
prima che sia finita, raccontare.
Ma che disperazione nasce da una distrazione
domenica 11 maggio 2008, 10.03.32 | molinaro
Premessa: odio questa canzone, la trovo bruttissima. L’ho odiata quando è uscita e
la odio adesso. Anche il cantautore non mi è mai stato molto simpatico, pace
all’anima sua. È una di quelle canzoni (ce ne sono diverse altre, di vari autori) che
io classifico come «canzoni del pentitismo peloso nonché sprezzante verso
quell’altra, poveretta». Fanno tutte più o meno questo discorso: «senti amore è
vero ho trombato con un’altra però senti perdonami perché amo te vedi quell’altra
non è importante insomma m’è scappata una trombatina e diciamo che lei non vale niente anzi è pure un
po’ troia evidentemente io quella che amo sei tu scusa è stato solo un attimo così».
Sarà perché mi metto sempre nei panni dell’altra, di quella che ha regalato la «occasionale» (?) notte
d’amore, sarà perché sono allergico al gerarchizzare gli amori (ogni amore è splendido e si possono avere
tanti amori insieme – lo so che pochi sono d’accordo con me su questo punto ma io la vivo così), sarà che
ci vedo pure dei rimasugli della classificazione che facevano i nonni fra donne di serie A, B, C (da
fidanzare-sposare, da avventuretta breve, da scopata al volo), che è uno dei sei o sette motivi che
bloccavano ogni dialogo fra me e la generazione di mio padre (ma temo, con sgomento, che ci sia
qualcuno che la pensa ancora così anche nella generazione di mio figlio), insomma sarà per varie ragioni,
ma odio quel genere di canzoni, e questa di Battisti ne è un prototipo.
Eppure stamattina, mentre lavavo il pavimento della cucina (pulizie grosse, ho persino spostato il
frigorifero per lavarci sotto, ho scovato il nido degli scarafaggi e non sono stato tenero come Guido
Catalano, se uno di loro era Kafka amen, soluzione finale, strage; adesso aspetto che asciughi, il
pavimento, per la seconda passata, e intanto scrivo questo messaggio nel blog), quella canzone mi è
venuta in mente riferita a una cosa, una cosa apparentemente piccola, che ho fatto l’altro giorno: ho ferito
la sensibilità di una donna amata perché ero tutto preso dal voler fare urgentemente una cosa per un’altra
donna amata. Non c’entra niente di sessuale, è una roba di libri, posta e francobolli (!), però stamattina,
strofinando il pavimento, ho pensato proprio così: «eppur mi son scordato di te».
E ho pensato che questa cosa succede, sì che succede, nei rapporti umani. Anche se hai più amori e loro
lo sanno e non c’è gelosia «classica», può esserci disattenzione, trascuratezza, puoi essere in un certo
momento tutto preso da X e dimenticare Y. Può succedere nelle amicizie, in famiglia, persino con i figli (un
classico: tutto preso dal neonato secondogenito, trascuri il fratellino maggiore, e non ti accorgi che lo
ferisci), può succedere dappertutto, nelle cose importanti e in quelle banali (un caso comune: sei con X e
ci stai così bene che dimentichi un appuntamento con Y). La cosa non implica gerarchie, X e Y possono
essere invertibili, ma succede, sei preso con una persona e ne dimentichi un’altra. D’altronde a qualcuno
succede pure di trascurare qualcosa d’importante perché tutto preso da una partita di calcio. O dalla furia
di scrivere un racconto o una poesia!
Insomma, continuo a odiare, per i motivi che ho detto, la canzone di Battisti e tutte quelle che ne ricalcano
il tema, ma devo ammettere che un fondo di verità c’è. E questo video «d’epoca» è interessante, no?
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Sulla bellezza
mercoledì 14 maggio 2008, 15.24.09 | molinaro
In questi giorni ho scritto due poesie. Cioè, veramente ne ho scritte di
più, ma le altre per adesso restano sui foglietti di carta, non mi
convincono, oppure voglio tenerle segrete, chi lo sa? Ne ho scritte due
che metto qui, diciamo allora. La prima è una poesia sulla bellezza (ma
non credo che c’entri il fatto che la Fiera del Libro quest’anno fosse
dedicata al tema della bellezza). La seconda è una poesia che suona
come una sottile polemica contro certa psicologia e pedagogia. Cioè, lo so che in linea di
massima è vero che si matura quando si impara a dire di no. In linea di massima è vero. In
linea di massima. Ma non sempre. Si matura anche imparando il coraggio dei propri sì, e
superando le paure dei propri no. Che poi in psicologia si può sempre dire tutto e il contrario
di tutto. Ma, insomma, a me la poesia è venuta così. Forse è anche quella una poesia sulla
bellezza sprecata. Buona giornata!
STAZIONE DI ROMANO DI LOMBARDIA
Fra le rotaie papaveri rossi
e fiori gialli nel verde dell’erba.
È come i panni stesi sui canali,
come i coppi sui tetti all’imbrunire,
come i tuoi occhi limpidi perplessi,
la pianta abbarbicata sotto il ponte,
il francobollo, l’uccello, il bicchiere
che tintinna, l’increspatura minima
dell’acqua per la brezza, la maglietta
arancio, quei disegni sopra il muro.
La roba bella, chi la vede, c’è.
IO DICO DI NO
Sei diventata una ragazza seria:
seria e magari un po’ stronza: cioè dura:
riottosa: chiusa: del tutto indisponibile
e pure indisponente:
io preferivo quando scopavi con cinque uomini
nella stessa settimana: intendo dire:
sarei stato contento di essere
uno dei cinque: lo sai: non sono geloso
e sono, in compenso, presuntuoso:
dunque convinto che ti sarei piaciuto
potendo fartelo vedere da vicino:
potendo farti sentire come sono davvero:
insieme con gli altri quattro, non importa,
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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anche altri sette o altri settanta:
sarei riuscito forse a piacerti più di loro:
o avremmo comunque provato qualcosa
delle nostre anime e delle nostre pelli:
sì: molto meglio allora piuttosto che adesso
che fai così l’inavvicinabile e qualcuno
dirà persino che sei maturata:
io dico di no.
[l'immagine è un'elaborazione mia su foto scattate da me: produzione propria]
Ginkgo biloba
giovedì 15 maggio 2008, 0.53.54 | molinaro
Stasera davanti alla stazione di Vercelli guardavo i due antichi alberi di Ginkgo biloba che
vegliano maestosi sulla piazza, da ben prima che io nascessi, e mi è venuto in mente che
tanti anni fa una volta li spiegai, li raccontai a due amici che arrivavano a Vercelli per la
prima volta e naturalmente non li conoscevano. Li raccontai con entusiasmo: «Sono alberi
che vengono considerati come fossili viventi, superstiti di un’altra era; sono alti, robusti, e
hanno strane foglie a lamina. Sono maschi e femmine, questi due (o dovrei dire queste due)
sono femmine, ed essendo femmine producono semi coperti da una specie di pasta molle, che cadono al suolo e
puzzano tantissimo, per un mesetto c’è un odore nauseabondo!» Ero molto fiero di quei due alberi davanti alla
stazione della mia città natale.
Ma uno degli amici disse, con la massima naturalezza: «Se fanno una puzza nauseabonda, perché non li abbattono?».
E l’altro assentì con un sorrisetto, e mi guardarono entrambi come se io fossi un po’ scemo. Praticamente, è da allora
che so di vivere in un mondo che ha qualcosa fuori registro, qualcosa di stonato, regolato male: un mondo dove può
sembrare logico abbattere due splendidi alberi perché per un mese all’anno lasciano cadere semi che puzzano.
Per fortuna i due alberi sono ancora lì, ma la logica di quegli amici (che poi ho perso di vista, forse non a caso),
logica che temo sia quella dominante, ha prodotto devastazioni notevoli. Una logica secondo la quale, se una cosa mi
dà un attimino fastidio (o mi ostacola, m’intralcia), la elimino, la distruggo. Una cosa, una qualsiasi cosa. Anche un
albero. Anche un animale. Magari anche una persona. Mica devo sentire la puzza, per un mese all’anno.
Avevo una foto scattata quarant’anni fa a quei due alberi in un pomeriggio dorato, in una luce splendida. La foto l’ho
persa (sono un pessimo conservatore di oggetti miei), ma la ricordo bene (è meglio una foto ordinatamente custodita
in un cassetto ma dimenticata e mai più guardata per l’eternità, o una foto perduta ma impressa nella mente in modo
nitido? mah, non lo so; però la seconda non sbiadisce, anzi con il tempo acquista nuovi colori) e l’importante è che
ci siano ancora gli alberi, e che rimangano davanti alla stazione fino al compimento naturale della loro vita (non ho
idea di quanto viva un Ginkgo biloba, ma credo molto a lungo).
Boh, non so, un pensiero così. Poi ho preso il treno per Torino e poi a Torino ho preso il 59, inteso come autobus –
per due sole fermate, ma ero stanco, non avevo voglia di camminare. Alla fermata dove sono sceso è salita,
incrociandomi nella porta, una ragazza bionda dolcissima, delicata, un angelo. Roba da non scendere, da restare
sull’autobus e proseguire con lei. Già, ma restare e proseguire per fare che cosa? Forse si può solo guardare e
scendere. Non si può avere l’amore di tutti gli angeli del mondo. È già una fortuna se una donna, o due o tre... Già
una grande fortuna. Non posso inseguire tutte le bellezze che incrocio. Sì, mi è venuto questo pensiero ragionevole.
Per un attimo. Poi per fortuna mi è passato. L’idea di diventare ragionevole mi terrorizza. Speriamo che non succeda.
Ma no, ma no, in un modo o nell’altro continuerò a inseguire tutte le bellezze del mondo. E a rallegrarmi dei Ginkgo
biloba davanti alla stazione di Vercelli, anche nel mese in cui puzzano. Che poi adesso con la modernità e l’igiene e
quelle robe lì, spazzano la piazza con una velocità che non fa neanche in tempo a puzzare bene.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Intervista cartacea
giovedì 15 maggio 2008, 12.46.23 | molinaro
Internet domina, ma esistono ancora riviste di carta e solo di carta. Ne è un
esempio questo mensile di Cosenza che si intitola Confronto e su cui è stata
pubblicata una lunga intervista che mi ha fatto il giornalista Fulvio Castellani.
Non so se sia interessante, ma provo a metterla qui sotto, per il gusto di mettere
nel blog una cosa di carta. La pagina è grossa e digitalizzarla è stato un po’
difficoltoso, spero che cliccando sull’immagine essa si apra in dimensioni
leggibili. [Provate con quelle varie cose che fanno i computer: la lentina che
ingrandisce, l'opzione "dimensioni reali", eccetera.] Perché proprio lì è stata
pubblicata una mia intervista? Non lo so! Castellani è friulano, io sono
piemontese e la rivista è calabrese: ma forse è proprio questo il bello: le cose
vanno qua e là per caso, anche geograficamente. Buona giornata!
===========
===========
50000
giovedì 15 maggio 2008, 14.43.15 | molinaro
Lo so che non siete cinquantamila, perché si contano i
passaggi, e ognuno è passato più di una volta (per fortuna!),
ma insomma il contatore segna 50000, dopo quasi un anno di
blog e 337 messaggi, e quindi cin cin! Ciao a tutti!
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Ancora due poesie sulla bellezza, credo, non so
venerdì 16 maggio 2008, 18.26.17 | molinaro
Pomeriggio di pioggia su Torino. Ho buttato giù sul foglio altre due
poesie. Forse sono entrambe sulla bellezza (la prima in modo più
esplicito, nel titolo; ma anche la seconda). Forse sono entrambe
sull’amore, inoltre. Ma non importa su che cosa sono: sono, e
basta. Sono qui. Anch’io sono qui: ho lavorato un sacco ma mi è
rimasto molto da fare, e sono un po’ stanco, ma va bene. Buona
serata.
LA BELLEZZA
La bellezza non potrà salvare il mondo:
non c’è rimedio al disamore che
s’annida nelle case, negli androni
chiusi da porte pesanti. La bellezza
fa paura: dove entra rapisce
e non ridà: ne è terrorizzato
chi ha le mani contratte sul sacchetto
delle conquiste sudate.
La bellezza non ama nascondersi
– al contrario di come ci raccontano
certi profeti in malafede – lei
si mostra tutta a tutti, senza veli
e senza inganni. Ma molti non sanno
sostenerne la vista: la coprono con sacchi
neri o le sparano e gridano e fuggono
strappandosi i capelli.
La bellezza si muove, non rimane
ferma neppure un minuto, compare
e già è cambiata, s’allontana, lascia
la nostalgia sua sorella, ritorna
e sempre è nuda, è fragile, è tutta
intera in ogni parte e non la puoi
afferrare e neppure ricordare
perché è troppo grande.
La bellezza non potrà salvare il mondo
ma è di lei che il mondo vive: è lei
che fa la differenza nel perenne
morire dei lombrichi e degli umani,
è lei l’anello aperto nella dura
catena che costringe i nostri giorni:
è lei la compassione dei colori,
l’accenno di sorriso al sopracciglio.
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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ESSERE GUARDATI DA VENEZIA
Essere guardati da Venezia
girando nei canali sulla topa
del Borghi che è bravo a dosare il motore
negli angoli più stretti. Ci ha portato
anche il pane e il salame e una bottiglia
di vino. La sua topa è bianca e azzurra:
i colori che piacciono all’amica
che m’accompagna.
Essere guardati da Venezia
e dai turisti dove ce ne sono
– qualcuno ci fotografa – però
cerchiamo i rii più piccoli, in disparte
fuori dai giri di vapori e gondole.
Occhi di panni stesi, di muraglie
rigonfie, di scalini, di portoni
mangiati dal salino.
Essere guardati da Venezia
nell’imbrunire silenzioso, quando
un amico saluta da una fondamenta
qualcuno che passa e da dentro le case
vengono odori e rumori di cena
e musiche mischiate da lontano.
Rasentiamo una barca e da fuori di un bar
uno grida: «Nochier, vira più largo».
Essere guardati da Venezia
qui un po’ in disparte e sapere che lei
ci trova belli: il Borghi è un liceale
riccio magro e diritto, la mia amica
è ogni giorno più giovane, io
mi sento addosso una luce che quasi
vien da piangere e allora la notte
ci prende in braccio.
[Nota: il Borghi è il ragazzo che ci ha portati in giro sulla sua topa, che, come quasi tutti sanno, è una barca bassa
e piatta, usata soprattutto per trasporto di merci. È un amico, e Borghi è il suo soprannome: nelle città marinare si
usano ancora i soprannomi.]
Anche i nonni amano (o qualcosa del genere)
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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sabato 17 maggio 2008, 17.03.49 | molinaro
Oggi Cristina, la prima figlia di mia figlia Lucia, compie quattro anni: fra poco vado alla
sua cena di compleanno. L’altro ieri ho tenuto io i nipotini (Cristina e il suo fratellino
Riccardo, di un anno) dal tardo pomeriggio fino a notte. Come nonno me la cavo mica male,
eh! Ci ho giocato, poi ho dato da mangiare a tutti: tortellini in brodo, ovetto al tegamino e
fragole alla più grande (nonché a me stesso); pappa di verdura e più tardi biberon di latte e
biscotti sciolti al più piccolo. Poi di nuovo giocare, poi un cartone animato in DVD, poi
Riccardo mi si è addormentato in braccio, poi ho raccontato una fiaba a Cristina e doveva essere molto avvincente
perché s’è addormentata anche lei mentre raccontavo – ma lo scopo era proprio quello. Quando Lucia è tornata è
rimasta molto soddisfatta. Sono simpatici i nipotini: Cristina è sempre in movimento e tira fuori battute che fanno
morir dal ridere; Riccardo non articola ancora parole di senso compiuto ma sa come farsi capire. [Nell’immagine,
Cristina che guarda una scarpa sul bordo di una fontana.]
Sì, fare il nonno va bene, ma va bene anche fare l’amore, che siam pure di maggio e il desiderio vitale monta come
un fiume in piena (ma è più o meno così anche in tutti gli altri mesi). E allora oggi pensavo agli amori appunto, a
quelli che ci sono e a quelli che non ci sono, ma meglio quelli che ci sono.
E ho scritto questa poesia, su un amore, su un amore che c’è, su un amore che l’abbiamo fatto una decina di giorni fa,
amore o quello che è, ma insomma sì, amore, scusate ma lo chiamo amore (tanto per parafrasare il Federico Moccia
che lui sì sa come vendere i libri). Il titolo della poesia non mi convince e secondo me si vede benissimo che è un
titolo un po’ del cavolo. La verità è che il titolo giusto della poesia, quello che avevo in mente, è semplicemente il
nome di lei. Ma non si può. Non qui, almeno.
Poi, non c’entra niente ma fa lo stesso, oggi leggevo sul Corriere della sera che un tal Penati, di cui si dice che sia
presidente della provincia di Milano e che sia del Partito democratico, ma non so se crederci, ha profferito le seguenti
due frasi: basta con i discorsi d’accoglienza, i rom non sono mica i Gipsy King e i figli dei rom non vanno a
scuola, questa è un’ingiustizia che non possiamo accettare sul nostro territorio. Deduco che un esponente del Pd
(se è vero, ma io quasi quasi non ci credo) ritiene che la società debba accogliere solo i Gipsy King, e che il modo
giusto per rimediare all’ingiustizia dell’esclusione dalla scuola di un gruppo sia cacciar via tutto il gruppo. Alla
salute!
IL BUONO DEL DONARSI
È come certe foglie che bisogna
sfregarle perché mandino un odore.
O come certi frutti che il sapore
lo senti dopo – non al primo morso.
A lungo ci baciamo stando in piedi
nella stanzetta d’un albergo a ore.
Non è la prima volta ma ogni volta
indugiamo a spogliarci come se
non sapessimo bene cosa fare
o a che punto arrivare.
Quando infine
siamo nudi sul letto ci esploriamo
e lei si schiude. Fa un disegno d’ombre
il corpo bruno sparso sul lenzuolo.
È come terra che c’è da scavare
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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per arrivare all’umido ma poi
zampilla l’acqua. È dolce quando ride:
non si nasconde, non fa la ritrosa.
Ci abbracciamo in assalti ripetuti:
dopo c’è il treno, la distanza, il tempo.
Chi lo sa quando si potrà rifare
questo amore.
Che prende la sua grazia
non nella guerra delle seduzioni
negate ma nel buono del donarsi:
nel mistero che resta dopo il sì.
Papaveri, risaie e altro
domenica 18 maggio 2008, 23.29.47 | molinaro
Oggi sono stato a pranzo in un paese del Vercellese, per festeggiare la laurea della prima
figlia di mia sorella (e anche, un po’ in ritardo, i diciott’anni dell’altra figlia di mia sorella).
Un agriturismo dove, francamente, il fritto misto alla piemontese lo fanno un po’ alla cazzo
di cane: non lo consiglierei. Peccato, perché quando è buono è buono. Pazienza. Al ritorno
con la Panda ho fatto la strada delle Grange, una provinciale che collega Vercelli a
Crescentino, fra le risaie. La strada delle Grange in questa stagione è una delle meraviglie
del mondo – che sono ben più di sette, sappiàtelo: sono tante quante ne riuscite a trovare. È già una strada bella se la
percorri così in auto e vai. Ma se ti fermi da qualche parte è meglio. Come dappertutto: la velocità dell’automobile
consente solo un assaggio dei luoghi, dei paesaggi: per sentire il gusto vero bisogna fermarsi e percorrere dei tratti a
piedi. Io mi sono fermato dalle parti del km 17 e ho percorso un tratto a piedi lungo un canale. Intanto che ero lì ho
scritto una specie di poesia, la prima qui sotto. Poi la prima specie di poesia ha dentro un nome che mi ha fatto venire
in mente una storia di anni fa e allora ho scritto un’altra specie di poesia, la seconda qui sotto. E buona notte e buona
settimana.
[Nell’immagine, il luogo dove è stata scritta la prima specie di poesia, oggi pomeriggio.]
POCHI PAPAVERI
Uscendo da un pranzo di festa in campagna
ho visto i papaveri in cima alle risaie
non molti in verità solo qualche papavero
qua e là e mi è venuto in mente che giorni fa
le avevo detto di aver visto i primi papaveri
e lei mi aveva risposto oh da noi è tutto pieno
e m’ero un po’ risentito per questo suo disprezzare
i miei pochi papaveri che avevo visto io
e le avevo risposto in Liguria vengono più presto
ma poi ne vengono tanti anche da noi quassù
e adesso immagino che leggendo questa specie di poesia
che sto scrivendo seduto in riva a un canale
di quelli grossi che se ci cadi muori annegato sicuro
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Carlo Molinaro
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lei direbbe infastidita ma perché ti ricordi a memoria
le mie parole non è il caso ricòrdati piuttosto
delle parole di quelle che ti amano voi uomini
e soprattutto voi poeti fate sempre così
scrivete poesie per quelle che come me non ci stanno.
Di quello che fanno gli altri poeti non m’importa niente
immagino di risponderle io di norma scrivo poesie
per gli amori ricambiati per gli amori
che succedono davvero per quelle che ci stanno
guarda Claudia Antonella Diletta Federica
Grazia Sandra Francesca Valentina Isabella Marina
tutte poesie per donne con cui l’amore l’ho fatto
in realtà è molto raro che io scriva per un amore respinto
è successo qualche volta però è molto raro
quindi tu per me non sei la regola se mai l’eccezione
immagino di dirle questo e intanto penso
– pensare è diverso da immaginare è più ragionevole –
che è inutile dirglielo perché a lei non frega niente
di essere la mia eccezione o la mia regola
e più in generale non gliene frega niente del mio amore
e allora mi domando perché sto qui seduto
in riva a un canale nel sole del pomeriggio
che si è aperto con tutte le nubi chiare e scure intorno
che fanno come castelli e mi piacciono i castelli
di nubi qui in mezzo alle risaie mi domando
perché scrivo questa specie di poesia per lei
sono stati i papaveri a farmela venire in mente
ma è una scusa che non regge e poi i papaveri
in poesia stanno appena un gradino sotto gabbiani e puledri
nella classifica dei luoghi comuni da evitare
anche se comunque i papaveri qui ci sono
e qualche gabbiano c’è sul Po e sulle discariche
puledri no puledri è più difficile e poi non m’ispirano
comunque adesso non ci penso più la metto via
anche se stamattina quando l’ho detto a mio figlio
– perché noi in famiglia abbiamo questa confidenza
sugli amori di ciascuno che so che c’è chi si stupisce –
quando gli ho detto che non voglio più pensare a lei
lui mi ha sorriso e mi ha detto sì e poi babbonatale esiste
e il fatto che io scriva adesso questa poesia qui
sembra dare ragione alla battuta di mio figlio
però invece davvero non ci penso più davvero
sicuramente non ci penso più.
VALSALICE
a Claudia S.
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Carlo Molinaro
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Quando ti ho spogliata la prima volta tutta
si era su un letto dell’Hotel Valsalice,
davanti all’omonimo liceo salesiano
(cioè, non so se sia il nome ufficiale del liceo,
ma qui a Torino è noto come «il Valsalice»,
appunto). L’Hotel c’è ancora ma ha cambiato
nome e non so se dà ancora le camere
a ore. Era il millenovecentonovantaquattro:
la data precisa non la so perché
annoto, mentalmente o su carta che sia,
la data del primo bacio, non quella
della prima scopata, perché credo che il bacio
sia il vero inizio, il resto viene da sé
come naturale conseguenza. Però
ero molto dubbioso nel proporti
l’albergo a ore: sembrava una cosa
un po’ puttanesca per te liceale
(non del Valsalice! se no avremmo cercato
da un’altra parte!), per te che fino allora
avevi avuto un solo fidanzato
anzi lo avevi ancora, veramente, un ragazzo
molto gentile e tenero che però quando ha scoperto
che facevi l’amore con me ti ha detto «troia!»:
a volte basta davvero un piccolo dettaglio
per far crollare gentilezza e tenerezza:
questo secondo me vuol dire che erano false,
ma so che ci sono opinioni differenti.
Comunque sbagliavo per quel solito mio
perbenismo residuo: tu nell’albergo a ore
sei stata felicissima di entrare.
Così abbiamo cominciato a fare l’amore,
e poi l’abbiamo fatto in altri luoghi:
casa mia nei rari momenti in cui era libera,
casa dei tuoi per vivere pericolosamente,
casa di tua nonna quando tua nonna era via,
e quella famosa volta a Bologna nel parco,
e in altri posti ancora. E ci dicevamo
cose tenere e belle, ma non tanto «ti amo»
(eravamo molto misurati nei termini),
tu piuttosto dopo l’amore tante volte dicevi
«come sto bene, Dio come sto bene»
e io ero felice e – lo ammetto – anche un po’ fiero
di quel tuo stare bene, che se il giorno che crepo
esistesse davvero un angelo che interroga
«che cosa hai fatto di buono nella vita?»
gli risponderei, fra pochissime altre cose,
«ho fatto star bene Claudia scopando».
E se è un angelo serio capisce, capisce.
Poi sai che non mi ricordo mica come è finita?
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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Cioè, tu sei andata all’estero, poi sei
tornata, poi di uomini ne hai avuti diversi
e poi ti sei sposata e poi hai divorziato subito
e poi ti sei innamorata di un altro
e ci abiti insieme – mi pare che a oggi
sia questa la situazione, è passato del tempo,
tu sei oltre i trent’anni ma come tu stessa dici
non sei cambiata molto. Dunque com’è finita?
Forse non è finita, forse, se ci rivediamo,
lo facciamo di nuovo. Cioè non voglio dire,
magari no, per carità, ma insomma
non c’è stata una fine propriamente detta,
non ci siamo piantati, è rimasto sospeso,
in fondo ci scriviamo ancora adesso,
ogni tanto. Sì, va bene, è passato del tempo,
effettivamente forse se ci rivediamo adesso
l’amore non lo facciamo, magari prendiamo
solo un aperitivo e facciamo due passi,
comunque non è stata una cosa da niente,
e io, se per caso esiste l’angelo, quando crepo
glielo dico davvero che di buono nella vita
fra pochissime altre cose ho fatto
star bene Claudia scopando. È mica poco.
Ma vadano a farsi...
mercoledì 21 maggio 2008, 8.56.37 | molinaro
Lo so che sono noioso con i miei frequenti discorsi sul [sulla negazione reazionaria del]
libero amore, ma... mi provocano! Come si fa a non reagire a questi gruppi statunitensi che
propugnano la verginità fino alle nozze, affidandone la custodia al padre della fanciulla?
L’ho letto stamattina sul Corriere della sera [immagine in alto a destra]. D’accordo,
saranno forse piccole minoranze rincoglionite (lo spero), ma è preoccupante. La cosa che
trovo più volgare è il loro simbolo [nell’immagine qui a sinistra]: il babbino tiene in mano
la chiave per aprire la fica alla pargola. Ma non si vergognano? Se rappresentano gli Stati
Uniti, allora l’11 settembre è stato solo uno scontro interno fra simili (almeno su questo
punto, lo so che ci sono altri fattori, non sono del tutto scemo – lo sono solo in parte!).
Vergini fino alle nozze con la chiave della patata in mano a papà. Ma vadano a farsi fottere!
[Mai espressione popolare è stata più calzante.]
Il poeta Bravuomo
giovedì 22 maggio 2008, 5.32.51 | molinaro
Ieri sera al Machè, arguto localino di Torino in via della Consolata,
ho ascoltato una lettura di poesie di Arsenio Bravuomo,
accompagnato da due musicanti. I versi di Bravuomo spaziano fra
il narrativo ritmato, la filastrocca «alta», l’enumerazione bislacca e
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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altre cose ancora, con effetti espressivi di buona qualità. Prevale,
direi, uno sguardo sul mondo che è contemporaneamente affettuoso e ironico,
incantato e disincantato, amorevole e cattivo. Una poesia di conflitto, forse. Ma un
conflitto produttivo, efficace. Credo che la lettura sia durata sui tre quarti d’ora (non
so, non ho guardato l’orologio) e non ha avuto cali di tensione né d’attenzione, e
questo è molto. Nella saletta sotterranea del Machè eravamo in quattordici: n. 1
poeta, n. 2 musicanti e n. 11 spettatori-ascoltatori. Chi conosce i giri della poesia sa
che è un buon numero, considerato poi che pioveva a dirotto (fuori, non dentro il
locale, per fortuna): quindi, un’ottima serata. Potete vedere qui una precedente
lettura del Bravuomo, alla libreria Massena!
()
giovedì 22 maggio 2008, 14.03.20 | molinaro
Ho scritto una poesia fra parentesi. Non è dedicata a un amore,
stavolta, ma a un’amicizia. Sono molto complicati i rapporti fra gli
esseri umani. Così è. Per i versi in corsivo ringrazio Midnight
Raver. Per il resto non ho nessuno da ringraziare. Né da
rimproverare. Così è. Così si è. Buona giornata a tutti.
()
(già un’ora dopo la dichiarazione di silenzio
sento nella mia vita la tua mancanza)
(a te – se è vero quel che dici – non importa)
(dopo quindici anni)
(mi faccio delle domande)
(che cos’è per te l’amicizia?)
(una perenne selezione darwiniana del più adatto?)
(o la patente a punti?)
(ognuno vede solo una parte)
(ognuno riesce a far vedere solo una parte)
(certo)
(ma sei sicura di vedere in me meglio di me?)
(e come puoi essere sicura di conoscere te stessa?)
(che cos’è per te l’amicizia?)
(non è un sentimento come l’amore?)
(mi faccio delle domande)
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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(posso amare una stronza)
(posso essere amico di uno stronzo)
(a me sembra ovvio)
(se no davvero è la patente a punti)
(l’algoritmo che valuta la compatibilità standard)
(già un’ora dopo la dichiarazione di silenzio
sento nella mia vita la tua mancanza)
(direi che questa è la prova se ce ne vuole una)
(perché poi ci vogliano prove non lo so)
(è solo la mia opinione naturalmente)
(a volte sei stata stronza)
(tutte le volte che hai deriso le cose a cui tengo)
(per esempio)
(a volte sono stato stronzo)
(tutte le volte che ho deriso le cose a cui tieni)
(per esempio)
(ma non siamo macchine che rispondono preciso)
200 OK
413 Request entity too large
202 Accepted
405 Method not allowed
406 Not acceptable
(non siamo macchine che rispondono preciso)
(sentiamo presenze e mancanze)
(e qualche desiderio)
(e questo è quasi tutto)
(non c’è una ragione precisa)
(per fortuna)
(mi faccio delle domande)
(non ho risposte)
(tanto per te ciò che dico è sempre falso)
(tu dove attingi alla verità?)
(mi faccio delle domande)
(già un’ora dopo la dichiarazione di silenzio
sento nella mia vita la tua mancanza)
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28/05/2008
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(questa è l’unica risposta)
(ma fa niente sono abituato)
(ciao)
Ghepardi, salmoni e uragani
venerdì 23 maggio 2008, 1.38.40 | molinaro
Giocosi, semplici, raffinati, ironici ed esilaranti «documentari» in un piccolo teatro. Ieri sera
al Teatro della Caduta è andato in scena Avrei preferito essere Jacques Cousteau.
Documentari fatti con musica, voce narrante, dialogo, sagome pendenti e guizzanti,
salmoni, uragani, uomini falena, ghepardi e orche assassine munite di cinepresa ad acqua.
La bravura tecnica usata con passione da chi vuole prima di tutto divertirsi e divertire. La
leggerezza di chi sa uscire dagli schemi e fa uno sberleffo ai grandi numeri, al successo, ai
canoni teatrali – ma fa uno sberleffo anche a certe pseudoavanguardie sussiegose che se la tirano tanto tanto. Che
bello che è, ragazzi! Torino è fortunata ad avere questo teatrino (cioè, soprattutto, le persone che lo animano,
s’intende). Martedì prossimo c’è la festa di fine stagione, che si estenderà in strada, in modo che possa parteciparvi
anche chi non troverà posto nella saletta. Nella piccola meravigliosa saletta. Le cose belle sono piccole, me ne
convinco ogni giorno di più. Se cerchi i grandi spazi e le grandi platee stai già svendendo, magari senza accorgertene,
la tua libertà.
[nell’immagine, la saletta del teatro un attimo prima dell’inizio dello spettacolo ieri sera]
La curva di corso Regina Margherita
venerdì 23 maggio 2008, 14.21.47 | molinaro
Non so perché vi racconto quello che sto per raccontarvi, che credo abbia «interesse zero»,
come certe adescanti offerte rateali in voga oggi. Sarà che ho voglia di raccontare.
L’argomento è la percezione: fisica, visiva. Stamattina sono andato a Porta Palazzo a
comprarmi due paia di pantaloni, che ormai non ne avevo più: i miei erano tutti rotti e/o così
lisi, sottili e trasparenti che rischiavo di trovarmi con il culo di fuori da un momento
all’altro. Ho preso un paio di jeans nuovi a dodici euro (ottimi, freschi, estivi) e un paio di
solidi pantaloni di fustagno, usati, a cinque euro. Direi un buon affare.
Poi ho deciso di tornare a piedi e mi sono incamminato per corso Regina Margherita. Sono arrivato al rondò della
Forca e a un certo punto ero nella posizione segnata con il pallino rosso nell’immagine in alto a destra (se cliccate per
ingrandirla), ed ero intenzionato ad attraversare nella direzione indicata dalla freccia. Aspettavo che il semaforo
diventasse verde (è un po’ lungo, l’incrocio è complesso).
E a un tratto ho visto corso Regina Margherita storto, curvo. Assolutamente curvo! Mi è venuto il batticuore. Ma
come – ho pensato – corso Regina è tutto un rettilineo. E nell’attimo dopo: allora sto impazzendo. Mi ha preso come
una vertigine, quasi un terrore. Dio, sto impazzendo. Ci sono voluti alcuni lunghissimi secondi per capire che stavo
«vedendo» come corso Regina la sequenza corso Regina Margherita + corso Principe Eugenio, e «non vedevo» (non
«notavo») il vero corso Regina Margherita alle spalle di corso Principe Eugenio. La prospettiva che vedevo come
fosse un corso unitario era quella che nel disegno ho indicato con la sequenza di pallini neri. C’è da dire che corso
Regina e corso Principe Eugenio in quel tratto sono, come struttura, uguali: carreggiata centrale separata dai
controviali da due file di platani. Epperò!
Che spavento! E poi che sollievo! Corso Regina è ancora rettilineo e io non sono ancora impazzito. Però la morale
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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della storia è: non sempre vedo le cose giuste al primo sguardo. Neppure se sono cose che ho già visto un milione di
volte: il rondò della Forca è un luogo dove passo frequentemente, a due passi da casa, mica un luogo sconosciuto in
una città esotica – ma forse a volte anche la cosa più domestica si fa, all’improvviso, straniera, ignota, nuova,
indecifrabile.
Ulisse, proprio nessuno, e poi Erli
venerdì 23 maggio 2008, 21.06.54 | molinaro
Una ragazza a cui l’ho regalato lo ha definito «completamente inutile», tanto che mi ha
detto che me lo restituisce domani a Erli, perché lei nei suoi scaffali tiene solo libri utili.
Umpf! Davanti a un giudizio così drasticamente negativo, essendo e riconoscendo io di
essere un bastian contrario, mi viene voglia di recensire qui il libro, e lo faccio. Si tratta di
Chi ha ucciso realmente i Proci? Ulisse, Nessuno, Filottete, di Alberto Majrani (LoGisma
Editore, 2008). È un libretto che tenta di dimostrare che Ulisse è morto in guerra a Troia,
non ha mai fatto il suo viaggio di ritorno, non è mai arrivato a Itaca, e i Proci sono stati uccisi da Filottete, ingaggiato
da Telemaco che voleva difendere il suo diritto di discendenza come re di Itaca: se infatti uno dei Proci alla fine fosse
riuscito a sposare Penelope, evidentemente Telemaco sarebbe rimasto «tagliato fuori» (e quasi certamente ucciso). Il
mercenario Filottete, pagato da Telemaco, si spaccia per Ulisse, compie la sua missione, cioè fa strage dei Proci, e
poi se ne riparte per i fatti suoi.
Secondo l’autore tutto questo «si deduce chiaramente» dall’Odissea stessa, osservando con attenzione alcuni indizi
che Omero ci fornisce. Ora, a me piacciono i dementi che spendono cinque anni della loro vita per studiare e
dimostrare (dimostrare secondo loro, s’intende) un’ipotesi così bislacca, e ricavarne solo un libretto di cento pagine,
che non credo sarà un best seller. Mi sono simpatici, che volete farci? Sono capitato per caso, alla Fiera di Torino,
nello stand dove Majrani stava presentando il libro; mi sono fermato ad ascoltare; mi sono incuriosito e ho comprato
il libro e l’ho poi spedito all’amica. Oh, vabbè: mica sempre i regali si azzeccano!
Dicevo che la ragazza a cui l’ho regalato, e che proprio non l’ha apprezzato, me lo restituisce domani a Erli. Sì,
perché domani, sabato 24 maggio, a Erli, un paesello dietro Albenga, sulla strada per Garessio (era la statale n. 582
del Colle San Bernardo, ma adesso, nell’antistatalismo dominante di questa new economy di guano, anche le strade
statali sono state destatalizzate, quindi credo che sia diventata una qualunque strada provinciale), si tiene l’annuale
(ormai è una tradizione) festa campestre di musica e poesia per salutare l’arrivo dell’estate. Se passate di lì, la trovate
facilmente, è alla contrada Bassi di Erli, dalle quattro del pomeriggio in poi, per tutta la notte più o meno. L’arrivo
dell’estate: con il tempo che c’è ancora oggi (a Torino piove), estate non si sa, speriamo in bene, ma la festa si fa
comunque: suonare, mangiare, ballare e leggere poesie. Ma sì. Non ho ancora deciso che poesie leggerò, lo deciderò
stanotte, o domani, o un minuto prima di leggere. E non so nemmeno chi altri ci sarà a leggere poesie, chi ascolterò.
Ma mi piace questo non sapere. La festa è festa. Nulla da prevedere. Ciao!
Parlare a uno, parlare a mille
sabato 24 maggio 2008, 1.50.38 | molinaro
Pensierino della sera. Molti hanno il terrore di parlare in pubblico,
e invece parlano con la massima tranquillità agli amici e ai
conoscenti, insomma a una singola persona.
Per me è sostanzialmente il contrario. Nel mio piccolo ho tenuto
qualche conferenza, fatto qualche presentazione di libro, qualche
lezione in una scuola di scrittura e persino in un corso di
aggiornamento per insegnanti. Ho addirittura parlato in radio e in televisione, un paio
di volte. Con la massima tranquillità. Sono molto più agitato nel dialogo a tu per tu
con una persona.
Perché? Credo di saperlo. Se parlo a dieci o trenta o cento persone, o fossero anche
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28/05/2008
Carlo Molinaro
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dieci milioni, parlo a modo mio, con il mio stile, come mi viene. Tanto so che non
potrei mai «adeguare a loro il mio modo di parlare»: sono troppi, e ognuno è diverso.
Quindi vado tranquillo, mi autoassolvo da quell’ingrato compito di personalizzare. So
che, in ogni caso, qualcuno mi capirà in un modo e qualcuno in un altro; qualcuno
capirà a fondo quello che dico, qualcuno lo capirà a metà, qualcuno non capirà nulla
e qualcuno fraintenderà completamente. Dando questa cosa per scontata, vado
avanti sereno, all’incirca come quando scrivo qui, come in questo preciso momento:
so che se cento persone leggeranno questo messaggio (non saranno così tante, ma
facciamo così cifra tonda), dieci capiranno tutto al volo, dieci non capiranno una
minchia e ottanta capiranno in parte. E perciò scrivo con olimpica tranquillità.
Davanti a una singola persona, invece, la situazione è infinitamente più complicata.
Lì ti giochi tutto in uno. Non puoi dire «parlo così come mi viene, se capisce capisce
e se no vaffanculo». O meglio, lo si potrebbe anche fare, ma lo trovo da stronzo. Con
una sola persona, devi stare attento a come ti guarda, a che mosse fa, a come
percepisce, a come risponde; se ti accorgi che una parola non era la più adatta a
farti capire da quella specifica persona (perché ogni persona ha un linguaggio un po’
diverso), devi cambiare parola, aggiungere parafrasi, arricc