Storie di Soldati: Bergamo - I Musei per la storia in Lombardia

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Storie di Soldati: Bergamo - I Musei per la storia in Lombardia
Storie di soldati di Bergamo
a cura di Paolo Barcella
Storia di Alberto Sacchetti
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Alberto Sacchetti
Data di nascita: 11 novembre 1898
Luogo di nascita: Bergamo
Luogo di residenza: Bergamo
Professione: tipografo
Statura: 1,65
Capelli: castani
Occhi: castani
Fondi di riferimento: Archivio “Carte Elisabetta Sacchetti” conservato presso
l’Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea e
ruolo matricolare del caporale Alberto Sacchetti conservato presso l’Archivio di
Stato di Bergamo. L’archivio “Carte Elisabetta Sacchetti” contiene le fotocopie
di un quaderno scolastico di pp. 29 manoscritto dal soldato durante la Grande
Guerra e le fotocopie de I nefasti della Santa Entrada, testo in cui Sacchetti
evoca la sua partecipazione all’impresa di Fiume.
Le memorie di Alberto Sacchetti, soldato del 71° Reggimento Fanteria,
consentono una parziale rilettura dell’esperienza dei soldati nel corso della
Prima guerra Mondiale. Come molti altri giovani scaraventati al fronte,
Sacchetti rifiuta le logiche coercitive della vita militare e si avventura in una
serie di fughe dalla sua caserma nel tentativo di mantenere saldi i legami con il
mondo esterno. La convivialità e l’irriducibile desiderio di libertà diventano così
la cifra distintiva di un racconto che, rifuggendo la retorica patriottica, si fa viva
testimonianza di una guerra diversa da quella descritta nei
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documenti
ufficiali. Una guerra, insomma, fatta di sofferenze da evitare e dal timore di
sperimentare un inevitabile imbarbarimento personale. La scrittura di
Sacchetti, straordinariamente matura per la giovane età del soldato, è dunque
un brioso e ironico strumento di demistificazione. Le sue memorie si
dividono in 7 paragrafi, ciascuno con un titolo e una struttura propri.
“La partenza” è il resoconto delle ansie di un ragazzo che il 17 marzo 1917
inizia la sua vita militare. Diretto alla caserma di Venezia, Sacchetti teme di
dover percorrere il tragitto in treno «solo come un cane», ma la sorella Maria,
che lo accompagna, riconosce tra la folla della stazione di Bergamo tale Rota,
con il quale si raccomanda di tenere compagnia al fratello. “Il viaggio”, così si
intitola la seconda sezione delle memorie, è scomodo: i sedili sono troppo
duri e non pochi sono gli ubriachi che «fanno un baccano indiavolato». La
mattina dell’8 marzo il convoglio raggiunge Venezia. I soldati sono di stanza
presso i capannoni marittimi e devono dormire in una baracca piena di paglia
sporca, dove «si erano già coricati migliaia e migliaia di individui». Tanto
meno si può uscire dalla baracca, poiché il terreno circostante è coperto per
tre quarti d’acqua e la restante porzione è pattugliata da ben 60 sentinelle.
L’impressione che Sacchetti ricava dalle sue prime ore di vita militare è, in
altre parole, disastrosa: «eravamo vigilati e rinchiusi come tanti farabutti, e
guardandomi attorno mi pareva di essere come un condannato ai lavori
forzati, tanto era leffetto che mi faceva quella penisola». È così che si inizia a
programmare l’evasione dalla caserma:
Erano già due giorni che ci si trovava rinchiusi, non si poteva più resistere, la fulgida nostra
gioventù di diciott’anni appena scoccati, non ci permetteva un simile trattamento, e allora
incominciarono le drammatiche fughe accompagnate da diabolici piani e da coronato
successo. Ancora oggi mentre le rammento non posso fare a meno di ridere, ma ridere alle
spalle del militarismo, che con tutti i suoi ordini e tutte le sue sentinelle non erano e non
furono capaci di sventare le nostre drammatiche evasioni.
Le parole di Sacchetti sono significative di un forte sentimento
antinterventista e dell’altrettanto profonda soddisfazione nel beffare le
regole della disciplina militare. Insieme a un’altra decina di soldati, il giovane
tenta la fuga aggrappandosi alla spranga di ferro trasversale dei treni merci
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che passano nei dintorni dei capannoni, lasciandosi poi trasportare per circa
150 metri prima di lanciarsi su un rialzo di terra. Alcuni altri ragazzi a bordo
di una piccola imbarcazione vedono Sacchetti e i suoi commilitoni, capiscono
le loro intenzioni e decidono di aiutarli, ma mentre si dirigono a riva vengono
individuati da una sentinella. I soldati fingono una ritirata. La sentinella torna
dietro la costruzione da cui era spuntata e a quel punto «i bravi monelli
avevano già approdato sulla nostra riva», racconta Sacchetti. Saliti a bordo
della barchetta, i giovani soldati remano con le mani fino alla sponda opposta.
Elargita una mancia agli improvvisati traghettatori, i soldati si avviano verso
il centro della città, dove trascorrono una allegra giornata in compagnia. La
“seconda evasione” – episodio che occupa il quarto paragrafo delle memorie
di Sacchetti – avviene dopo soli 2 giorni dalla prima. Il gruppo dei fuggiaschi
si divide in piccole bande di 3 o 4 persone ciascuno. Con Sacchetti ci sono
Rota, Pelliccioli e Pesenti. Convinto un giovane in barca a dare loro un
passaggio fino all’altra sponda del canale, laddove si trova «l’agognata
libertà», i 4 soldati costeggiano il mare lungo la strada del porto, dove sono
ancorate numerose navi da guerra che producono una certa suggestione in
Sacchetti. Quando hanno quasi raggiunto il centro della città, entrano in un
negozio di manifatture e comprano un «colletto» ciascuno perché i vestiti che
avevano indosso erano assai sporchi. Sacchetti acquista anche del filo per
rammendare i bottoni della giacca che gli si sono staccati. Salgono a bordo
dell’imbarcadero S. Chiara e ammirando la città approdano al Lido. Vagano
senza metà finché, stanchi, sostano in un caffè di lusso, ordinano da bere e
scrivono «un mucchio di cartoline». Poi s’incamminano alla volta
dell’imbarcadero, ma la fame inizia a mordere e così si fermano in Piazza San
Marco, scelgono un «restaurant di 2a classe» e consumano un buon pasto
accompagnato da ottimo Chianti. Nel buio di Venezia, oscurata per rendere
più difficili le ricognizioni degli aerei nemici, i giovani soldati non sanno
trovare la via per tornare ai capannoni marittimi. Si avvicinano dunque ad
alcuni «gentiluomini» muniti di lanternino per chiedere informazioni, ma
ricevono soltanto indifferenza e sospetto. Si rifugiano dunque in un cinema.
Quando ne escono, alle 22.30, hanno bisogno di un posto per dormire e un
uomo si offre di accompagnarli fino a una vicina trattoria. I giovani,
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soddisfatti, dormono il sonno di chi sa di avere scampato una giornata di
fatiche e vessazioni. La mattina successiva rientrano alla base e trovano i
coscritti ordinati in rango. Il tenente li rimprovera ferocemente per la loro
fuga, ma Sacchetti e i suoi compagni non fanno altro che accogliere «quel
rimprovero con un sorrisetto e con un’alzatura di spalle», proponendosi di
tagliare la corda una terza volta.
Il racconto della vestizione, che occupa il capitolo centrale delle memorie di
Sacchetti, assume i connotati di un vero e proprio sketch tragicomico.
Condotti al deposito del 71° Reggimento Fanteria, la sera del 21 marzo 1917 i
giovani soldati abbandonano i loro abiti borghesi e vestono per la prima volta
la divisa militare. I pantaloni di Sacchetti sono corti e stretti; la giubba ha
maniche troppo lunghe e collo sproporzionato. La divisa, riflette il fante del
1898, era più adatta «a un Raischevich1» che a lui: «insomma tutto sommato
assomigliavo da acconciato apposta per un carnevale tanto mi rendeva buffo
e ridicolo quella divisa, solo il berretto trovai che mi andava bene». Le
camicie di tela che gli vengono consegnate sono
macchiate di sangue, segno evidente che erano già state portate al fronte, in prima linea, e
perciò abituate al pidocchiume, agli asfalti, alle granate e ad altri esplosivi consimili. Feci
giuramento che non le avrei mai portate, e così feci, le tenni per ben due mesi e mezzo in
fondo allo zaino, adoperando sempre le due di flanella. Quando poi partii pel fronte le versai
ricevendone in cambio due nuove di trinca.
Le genti che affollano Piazza San Marco, dove i soldati sono costretti a
transitare, ridono alle spalle di Sacchetti e dei suoi commilitoni. Rientrati ai
capannoni, scambiano i pezzi della divisa tra loro, cercando di limitare così i
difetti di misura. A quel punto, riferisce Sacchetti, per quella giornata non «ci
fu più nessuna seccatura, e siamo liberi di farci i nostri porcacci comodi». Si
noti come la cerimonia di vestizione sia tutt’altro che una solenne adesione ai
valori della patria e della sua difesa. È forse in ragione di questo scarso
spirito di appartenenza che 2 giorni dopo i giovani soldati mettono in scena
la terza, mirabolante fuga. Il «trombettiero», un mutilato alla mano sinistra in
I fratelli Giovanni, Enrico Ruggero e Massimo Roberto Raicevich, di cui Sacchetti riporta erroneamente il
cognome, erano celebri campioni di lotta greco-romana. Il fisico statuario di Giovanni gli valse parti
cinematografiche nella serie di film Maciste.
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attesa di riforma, si fa carico di accompagnarli sino all’uscita centrale della
caserma, dove riferisce ai tenenti e alle guardie che ha l’incarico di portare i
soldati fino al deposito. Imboccato il viale, i soldati svoltano in una calle e si
sparpagliano. Con Sacchetti rimangono Grippa, Pesenti e lo stesso
trombettiere. Raggiunto il bel Lido, mangiano in una trattoria e tornano in
città, dove vagano insieme a quanti incontrano sul loro cammino. È solo alle
21 che rientrano ai capannoni.
Presto, tuttavia, le occasioni di divertissement si concludono. La compagnia di
Sacchetti, la 16ma, viene inviata a Tarcento, in provincia di Udine, meta
raggiunta dopo una lunga marcia e una nottata trascorsa «alla bellemeglio».
La «noiosissima vita» di Tarcento dura un mese e consiste nella mattutina
adunata per l’istruzione principale; nel rancio; nella nuova istruzione
pomeridiana o, in alternativa, nella marcia o ancora nell’istruzione interna.
Una volta a settimana c’è l’esercitazione di tiro e la domenica pulizia del
locale, pulizia personale e Santa Messa. Poi Sacchetti e i suoi compagni sono
comandati di accamparsi presso la Piazza d’Armi di Tarcento e vengono
trasferiti a quella che il soldato definisce sarcasticamente «compagnia aglievi
maiali (caporali)» perché composta da «tutti ragazzi svelti e diremo anche
intelligenti e pieni di buona volonta». Nella nuova compagnia
si mena una vita da cani, alla mattina sveglia mezzora prima delle altre Compagnie e
dovendo dare buon esempio alle marcie dobbiamo portare lo zaino mentre le altre
Compagnie vanno con la sola mantellina arrotolata. Tutte le mattine mezz’ora di corsa con lo
zaino sulle spalle, gli altri Reparti rientrano nell’accampamento al passo mentre noi altri
invece sempre di corsa, il tutto perché la compagnia aglievi ciucci deve essere sempre
speciale dalle altre.
Incaricati di svolgere compiti «assai cretini», gli allievi caporali hanno morale
basso e un forte desiderio di essere inviati altrove. La maggior parte del
denaro Sacchetti la spende in sigarette e lavanderia; poi lettere, cartoline,
francobolli – fondamentali per mantenere il contatto con l’esterno – e
qualche spicciolo per i «piaceri, che del resto, erano tanto pochi!».
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Il 27 maggio 1917 la situazione cambia: 2000 militari devono partire per il
fronte per rinforzare i reggimenti. 50 di questi 2000 soldati vengono
sorteggiati tra gli allievi caporali e la fortuna non arride a Sacchetti:
Tutti i miei compagni si dimostrarono dispiacenti, ma non si poteva far nulla, fummo tutti
vestiti a nuovo, ci diedero tutto il corredo con i rispettivi viveri di riserva e i 32 caricatori
facenti parti anch’essi dell’equipaggiamento del militare, tanto che lo zaino completamente
affardellato e in pieno assetto di guerra pesava la bellezza di 41 kg senza poi calcolare le
giberne e il fucile.
Avvisate le sorelle con opportuna cartolina postale, Sacchetti parte per il
fronte l’1 giugno 1917. Nell’ingenuità di chi non sa a cosa sta andando
incontro, il diciottenne percepisce ugualmente un vago e tremendo presagio
di morte:
Fu una giornata memorabile, mai scorderò quella data, al momento della partenza, quei
pochi che rimanevano salutavano con le lagrime agli occhi i compagni partenti, ed era forse
l’ultimo saluto quello che ci si scambiava!? […] Sulla soglia un ufficiale che ci accompagnava,
mi fermò e facendomi una carezza sul volto esclamò: poveri ragazzi! Io che proprio non
pensavo minimamente a quello che era la situazione ne a quello che fossero i pericoli della
guerra, degnai il detto ufficiale di uno sguardo di compatimento, tirai diritto per il mio
destino.
Eppure, allo stesso tempo, la spensieratezza della gioventù caratterizza il
viaggio:
Durante il viaggio, affacciati ai finestrini si contemplava l’ubertosa e distesa campagna
friulana, i contadini vecchi, donne e bambini al nostro passaggio ci salutavano con simpatia e
con sventolii di fazzoletti sino a che il lungo convoglio non fosse distante dalla loro vista,
anche loro capivano che eravamo diretti alle prime linee, la ove il prode soldato combatteva
e moriva per la sua Italia, per la sua patria. Ma noi, appena diciottenni, non si pensava a
quello, la nostra esuberanza giovanile non ci permetteva simili posate riflessioni, pareva un
convoglio che trasportava un pellegrinaggio in gita di piacere tanta era l’allegria e la
spensieratezza che regnava.
Il racconto di Sacchetti si conclude così, con l’arrivo a Cervignano del Friuli. Lì
l’ex-allievo caporale si toglie le mostrine del 71° Fanteria per indossare
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quelle verde-gialle del 113° Reggimento Fanteria. Inizia a questo punto una
rapida ascesa delle gerarchie militari da parte del soldato. Il suo ruolo
matricolare certifica infatti la promozione a caporale il 31 maggio 1917 e
quella a caporale maggiore il 15 agosto dello stesso anno. A settembre viene
trasferito nel Battaglione complementare “Brigata Mantova” ed è solo il 4
novembre 1918 che può finalmente abbandonare la zona di guerra. 4 giorni
dopo è ricoverato in un ospedale da campo e il 6 dicembre 1918 l’ospedale
militare di Cuneo gli concede una licenza per convalescenza della durata di
30 giorni. Rientrato al deposito del 79° Reggimento Fanteria all’inizio del
1919, Sacchetti ottiene – insieme con la dichiarazione di buona condotta – il
foglio di congedo illimitato esattamente un anno dopo.
La seconda fase della carriera militare di Alberto Sacchetti, scevra da fughe
spericolate e sberleffi nei confronti dei superiori, è al contrario connotata
dalla fedeltà e dall’adesione ai valori della patria e della guerra, nonché
dall’esperienza di volontario nelle milizie legionarie fiumane, di cui fa parte
dal 13 settembre 1919 al 20 dicembre del 1920 sotto il comando delle
Truppe Brigate Slesia.
L’esperienza
al
fronte deve aver
segnato
profondamente la vicenda umana e ideale del soldato. Di fatto, tanto convinta
è la sua disaffezione nei confronti delle gerarchie militari e della guerra nelle
sue memorie, tanto più è intenso il coinvolgimento che dimostra
successivamente nell’impresa fiumana guidata dal poeta-vate Gabriele
D’Annunzio. Testimonianza di questo rinnovato sentimento nazionalista è lo
scritto I nefasti della Santa Entrada, redatto dallo stesso caporale Sacchetti il
3 ottobre 1919. Altrettanto significativa della direzione ideale intrapresa da
Sacchetti è la sua partecipazione come volontario alle imprese coloniali in
Africa nella seconda metà degli anni Trenta, attestata dal suo sbarco a Gibuti
nel gennaio 1937 con la Divisione Tevere e dall’assegnazione della licenza
coloniale ordinaria del 5 maggio 1939.
La traiettoria biografica di Sacchetti si rivela in questo senso la cartina di
tornasole di un’Italia che esce dal primo conflitto mondiale priva delle
coordinate concettuali che ne avevano fin lì contraddistinto la storia unitaria.
Il fronte forgia una comunità separata di uomini che vivono con sempre
maggiore forza il mito della violenza e della nazione, consegnandosi
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irrimediabilmente all’imminente avvento del fascismo, apoteosi e morte delle
contraddizioni che anche Sacchetti esprime nei suoi scritti. Giovane spaurito
e libertario prima, propugnatore delle più aggressive idee patriottiche e
guerresche poi, Sacchetti – come tanti – è un soldato la cui storia certifica la
perdita dell’innocenza dell’Italia liberale e la devastante ipoteca morale e
civile che la guerra ha posto sul futuro di più di una generazione.
Storia di Eugenio Adolfo Bertacchi
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Eugenio Adolfo Bertacchi
Data di nascita:
23 marzo 1888
Luogo di nascita:
Bergamo
Luogo di residenza:
Professione:
Bergamo
pittore decoratore
Statura:
1,69
Capelli:
castani
Occhi:
castani
Fondi di riferimento: Giuliana Bertacchi, “Il sole saliva radioso e la fame
saliva anchessa”. Il maggio 1915 del bersagliere Eugenio Bertacchi, in “Studi e
ricerche di storia contemporanea”, n. 35 (Giugno 1991), pp. 5-28; foglio
matricolare e ruolo matricolare del maresciallo Eugenio Bertacchi. Il saggio
di Giuliana Bertacchi è costruito attorno al materiale diaristico redatto da
Eugenio Bertacchi e conservato presso il ricco archivio privato del figlio
Bruno, nonché – in copia – presso l’Istituto Bergamasco per la Storia della
Resistenza e dell’Età Contemporanea. Si vedano anche le informazioni
contenute in Mario Pelliccioli (a cura di), Bergamo negli anni della prima
guerra mondiale: archivi e documenti, Ex Filtia n. 4, Quaderni della Sezione
archivi storici della Biblioteca Civica ‘A. Mai’ di Bergamo – Supplem. al n. 4
1992 di «Bergomum. Bollettino della Civica Biblioteca», pp. 49-56.
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Eugenio Adolfo Bertacchi nasce a Bergamo nel 1888. Figlio di un artigiano
falegname-ebanista, frequenta la Scuola d’arte “Fantoni” e s’appassiona di
letteratura, costruendosi una ampia cultura da autodidatta. Svolge il servizio
di leva a Bologna, nel corpo dei Bersaglieri, e partecipa alla guerra di Libia
con il grado di Sergente Maggiore. Durante la Prima Guerra Mondiale,
Bertacchi è impegnato presso la 7a Compagnia, 7° Reggimento, 10°
Battaglione Bersaglieri. Le memorie del bersagliere, probabilmente redatte
attorno alla metà degli anni Venti, danno conto proprio del momento della
chiamata alle armi e del periodo che si conclude con il 6 giugno 1915.
Sebbene le informazioni che se ne possono ricavare coprano un periodo assai
limitato della vita del soldato, è possibile trarne indicazioni preziose riguardo
la traiettoria umana di chi ha saputo, in tempo di guerra, mantenere intatto
uno sguardo ironico e scanzonato, testimonianza profonda connessione
sentimentale con l’ambiente circostante e con i commilitoni. Di fatto, insieme
con le sofferenze e la fatica, la guerra di Bertacchi è fatta di un’appassionata
capacità di cogliere e ammirare le bellezze della natura, di una istintiva
propensione al cameratismo conviviale (a cui si alternano tuttavia riflessivi
momenti di solitudine) e di una irriducibile rettitudine morale, un dato che –
a prescindere dalle ardue condizioni di vita cui è stato costretto – impregna
insieme al bisogno di libertà e di autonomia intellettuale il resoconto del
soldato. A tutti gli effetti, il diario di Bertacchi è, prima ancora che un
reportage preciso e rigoroso, una sorta di racconto picaresco in cui si
intrecciano storia e modalità narrative vicine al romanzo. Ne deriva una
smitizzazione dell’esperienza bellica, colta non nell’eroismo delle grandi
azioni militari, ma nella capacità di preservare –
in un contesto
psicologicamente e fisicamente probante – uno sguardo critico nei confronti
delle gerarchie e del mondo in generale, nonché un solido sistema di valori.
Di certo la Prima Guerra Mondiale è stata il teatro di pesanti vessazioni per
tutti i soldati che vi hanno preso parte. Nell’evocare la marcia della sua
Compagnia dal paese di Gargnano a Tignale, Bertacchi scrive:
E che tirata da Gargnano a Tignale! Sempre in salita, non più abituato allo zaino con un paio
di scarpacce strette dure, che ad ogni passo mi provocavano dolori atroci tanto che ad un
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certo punto ho dovuto mettermi quelle da riposo… e con quei sassi. E non dico niente del
sole!»
In alcuni casi le difficoltà dei trasferimenti zaino in spalla vengono acuite
dalle avverse condizioni atmosferiche, come sul Monte Tombea, dove «non ci
rallegrò mai una spera di sole; acqua e nebbia quando non era nevischio»2.
Così, morso dalla fame e dalla sete, il Caporale Maggiore Eugenio Bertacchi,
presto assegnato al posto di comando del 4° plotone della Compagnia, si
avventura spesso in «baracchette». Amante del buon vino e delle belle donne
(non certo di quelle «vecchie cispose», come recita un passaggio del suo
diario), già durante il viaggio verso il Garda si rende protagonista insieme ai
compagni di una «sbornia generale, tanto che non ricordo dove ho dormito».
Allo steso modo, quando a Tignale intravvede un’osteria, ci si infila e «al
diavolo lo spirito bersaglieresco!». Altresì, il 20 maggio 1915, quando viene
incaricato di ritirare la posta a Tignale, si precipita al paese
con la segreta speranza di fare una buona indigestione perché il magro regime del patrio
Governo non mi garbava troppo. Difatti non mancai alla parola. M’impinzai di ogni cosa e
riempii il tascapane di ogni ben di Dio.
Estremamente significativo delle abilità scrittorie di Bertacchi, del suo spirito
ironico e del suo carattere birbantesco è poi il racconto dell’incontro con una
ragazza:
Sull’imbrunire mi trovai non so come a leggero contatto con una robusta montanina la quale
aveva da pochi giorni il marito richiamato negli alpini e sembrava che non fosse
estremamente dolente perché si lasciava pizzicare anche in certi posti che secondo il rito
apostolico – Romano dovrebbero essere riservati al marito. In questi scherzi passai un paio
d’ore, tanto che quando decisi d’andarmene la ritirata era suonata da un pezzo.
Il Caporale Maggiore al comando del 4° Plotone della 7a Compagnia
Bersaglieri è dunque un uomo dedito ai piaceri della vita e poco propenso a
lasciarsi coinvolgere nelle cose di guerra. Ciò non toglie che Bertacchi
giudichi il conflitto una «necessità» e che arrivi a questionare animatamente,
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Con «spera di sole», espressione dialettale, Bertacchi indica un debole raggio di sole».
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facendosi anche dei nemici, con i propri compagni in merito all’opportunità
dell’intervento. Inoltre, quando le Compagnie vengono incaricate di spingersi
oltre confine e la guerra è ormai iniziata, il bersagliere prova dentro di sé «un
certo non so che» e arriva a sviluppare riflessioni di ispirazione
marcatamente patriottica:
sarei stato capace di qualunque eroismo. Ero arrivato al punto di vedermi senza il più piccolo
rammarico steso al suolo e ravvolto nel tricolore ma questo dopo un’epica lotta, ove il mio
nome ne sarebbe uscito fulgido, grande, e pensando a questo stringevo nervosamente il
fucile e scattavo in avanti.
A fare da contraltare a questo improvviso entusiasmo da parte del soldato
intervengono però i silenzi dell’ambiente circostante e una natura
incontaminata e pacificata:
Ed invece niente: nessun rumore turbava la maestosità dell’alpestre panorama, salvo il trillo
di qualche uccelletto che saltellava di ramo in ramo, infischiandosene del tumulto del mio
animo.
La meraviglia provata di fronte alle bellezze della natura è un elemento
ricorrente nel racconto di Bertacchi. L’amore per i paesaggi silenziosi e lievi
assume un ruolo di dignitosa opposizione rispetto alla grettezza, al rumore e
alle contraddizioni della guerra. All’alba del 12 maggio 1915, a bordo di un
piroscafo con direzione Gargnano, Bertacchi – «seduto sull’estrema prora con
le gambe penzoloni nel vuoto» – ammira estatico le «magnifiche rive del lago
di Garda». Analogamente, poco meno di un mese dopo, guarda «con tanto
d’occhi lo spettacolo veramente superbo» dei monti trentini. Il soldato
stabilisce addirittura un rapporto quasi simbiotico con la natura, tant’è vero
che di ritorno da una escursione (accompagnata nuovamente da qualche
bicchiere di vino) perde il resto della Compagnia e si ritrova a dormire da
solo all’addiaccio, ma senza provare «il minimo timore». Al contrario,
Bertacchi avverte «un senso di sicurezza» che difficilmente gli capita di
sentire quando «inquadrato con poche o forti masse». Nonostante questi suoi
momenti di sereno isolamento, il bersagliere non è certo uomo scontroso o
solitario. Al Bertacchi piace la compagnia e più volte dà mostra della propria
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generosità
nei
confronti
dei
commilitoni.
Emblematico
di
questo
atteggiamento è l’episodio che risale alla metà di maggio, quando alla
partenza per Tignale – quasi al verde – il soldato bergamasco regala
ugualmente allo zappatore Sentinelli «un “cavourino” d’argento perché,
povero diavolo, non aveva più un soldo»3. A questa generosità si affiancano
spesso elementi di straordinaria onestà morale e di orgoglio personale. Per
esempio, quando il Sergente furiere Salvatore Gullotta gli propone il posto di
comandante delle cucine di compagnia – posto che gli garantirebbe una
grado di sicurezza molto più alto rispetto alla condizione di soldato di prima
linea –, Bertacchi rifiuta perché si sente svilito nel suo ruolo di combattente e
di uomo. Lascia il posto all’amico Caporale Maggiore Mazzola, in parte stanco
e in parte impietosito dal suo continuo «piagnisteo» sulla lontananza dagli
affetti. Ancora, Bertacchi si impunta per pagare al collega Osio, che porta
spesso con sé vettovaglie di vario genere, la sua parte di vino pur essendo
quasi totalmente privo di denaro:
Mi ricordo anche che Osio non voleva che pagassi il mio litro – e l’avevo guadagnato anche –
ma io duro sborsai il suo prezzo, 80 cent. mi pare. Erano meno di inezie ma ci tenevo come ci
tengo di non accettare niente da nessuno!
A questo episodio si accompagna la rivendicazione della propria
indipendenza. Indipendenza non solo economica, ma anche intellettuale.
Quando infatti, sui monti del Trentino, si ritrova di fronte a una casupola
dove erano stati i gendarmi austriaci e vi legge le scritte «l’esercito
mussulmano libera i traditori» e, per chiarire il concetto, «Tagliano
farabutto!», il bersagliere si lascia andare a una riflessione che nulla ha a che
fare con l’amore per la patria e per l’esercito, ma che se mai si trasforma in
una critica feroce nei confronti dei militari che indugiano in saccheggi a
danno delle popolazioni civili:
La prima dicitura era certamente falsa, della seconda – con una mano sul cuore – si potrebbe
dire altrettanto? Le prime pattuglie che scendevano nei paesi della valle pagavano
puntualmente quello che prendevano, rispettavano la proprietà e non agivano affatto come
È con il nomignolo di «cavourino» che veniva identificata popolarmente la banconota da 2 lire in vigore nel
Regno d’Italia.
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in un paese di conquista. Per questo la scarsa popolazione trattava queste pattuglie con
deferenza forse con una punta di timore, ma non importa questo era ingiustificato. Gli
abitanti spesso arrivavano al punto d’informarci delle mosse delle pattuglie avversarie. Ma
quando – costrette dagli austriaci – dovettero abbandonare ogni loro cosa, sperando di
trovare – al ritorno – se non intatto almeno una parte di quello che con tanto dolore avevano
dovuto abbandonare: diamine gli Italiani sono o non sono nostri Fratelli? Invece a paesi
occupati questi buoni fratelli si dettero ad un saccheggio sistematico per non dire teppistico
e stupido.
L’autonomia intellettuale di Bertacchi è il segno evidente di un
temperamento forte e difficilmente scalfibile dagli atroci fatti di guerra. Più
volte, in nome di principî che ritiene giusti, si scontra con i superiori: «ebbi a
dire con la ronda e con un sottotenente e non mi ritirai che dopo mezzanotte.
Continuavo a rendermi popolare…». Il suo foglio matricolare riporta che il «5
aprile 17 rispondeva con frasi scorrette ad un ordine dell’ufficiale di giornata
mandatogli per mezzo di un bersagliere». Il soldato bergamasco riferisce
inoltre che, non appena raggiunto il deposito di Brescia dopo il richiamo alle
armi, si trova di fronte a un Maresciallo che si rifiuta di pagare la trasferta a
lui e altri commilitoni arrivati in ritardo («Il 10 ero a Brescia mi presentai al
Dep. ma per un’ultima notte ho preferito conservare l’abito borghese e la
libertà). «Non senza una punta di presa per il naso», Bertacchi controbatte
alle «speciose ragioni» del Maresciallo e alla fine ottiene quanto gli spetta.
Simili prese di posizione gli costano molto: inserito tramite un compagno
nell’ambiente del Comando, Bertacchi spera di avere un posto come
scritturale, ma riceve il secco diniego dello stesso Maresciallo con cui aveva
precedentemente discusso. Di questi suoi superiori Bertacchi fornisce
divertenti ritratti macchiettistici . Lo spietato Comandante Del Noce «è uomo
in fama di severissimo e nevrastenico», mentre il Maresciallo Muliterni è un
«fanfarone» nullafacente e per questo soprannominato sarcasticamente dai
soldati «mulo-eterno».
Quello che Eugenio Bertacchi ha saputo applicare all’ambiente di guerra è
dunque uno sguardo peculiare e attento, quasi clinico. Per niente
sprovveduto, il bersagliere riflette sulla condizione mentale dei soldati
destinati al fronte, dimostrando come la guerra fosse un orizzonte che
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appariva lontano e che pure ha poi determinato la tragedia quotidiana della
morte, della prigionia, delle devianze psichiche:
volendo fare una riflessione potrei garantire che noi tutti partenti per il confine eravamo ben
lontani da credere che la guerra fosse imminente, si viveva piuttosto così, alla giornata, senza
approfondire troppo gli avvenimenti che del resto giungevano sino a noi di molto affievoliti.
Più che agli avvenimenti futuri si pensava ai disagi presenti […].
Devianze da cui il bersagliere bergamasco è rimasto ben lontano
aggrappandosi alla vita e ai suoi piaceri.
Il racconto di Bertacchi si ferma dunque al giugno del 1915, ma la sua vita da
militare prima e da uomo libero poi prosegue. Il 10 settembre 1918 riceve la
promozione a Maresciallo per essersi distinto nel corso di un’azione sul
campo nel corso dell’anno precedente:
Sottoufficiale addetto al Comando di Battaglione durante un attacco nemico restava
ripetutamente nella linea del furore allo scopo di attingere utili informazioni sulla situazione,
dato che il suo avversario aveva fatto mancare le linee telefoniche rendendo la sua azione,
nella quale dimostrò grande ardimento e perizia, molto giovevole al Comando di Battaglione
che lo aveva inviato sul posto il 1° Ottobre 1917.
Sopravvissuto alla prima guerra mondiale, durante il fascismo dimostra una
costante ostilità al regime, il che gli costa un periodo di prigionia. Pur non
facendo parte attivamente della Resistenza, conserva la sua onesta e
individualissima critica nel corso di tutto il ventennio. Nel dopoguerra
Bertacchi continua a vivere nella sua Bergamo fino al 1966, anno della sua
scomparsa.
Storia di Alfredo Valenti
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Alfredo Valenti
Data di nascita:
7 marzo 1888
Luogo di nascita:
Alzano Maggiore
Luogo di residenza:
Alzano Maggiore
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Professione:
salumiere
Statura:
1,72
Capelli:
castani
Occhi:
castani
Fondi di riferimento: Archivio “Carte Ivana Pelliccioli” conservato presso
l’Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea,
foglio matricolare e ruolo matricolare del soldato Alfredo Valenti conservati
presso l’Archivio di Stato di Bergamo. L’archivio “Carte Ivana Pelliccioli”
contiene le fotocopie di un quadernetto a quadretti di pp. 113 manoscritto
dal soldato tra il 30 agosto 1916 e il 2 gennaio 1917.
Alfredo Valenti, salumiere di Alzano Maggiore, viene chiamato alle armi il 29
aprile 1916, un mese dopo essere stato congedato dal servizio militare.
Assegnato al 3° Reggimento Artiglieria da montagna “Oneglia”, parte da
Bergamo alla volta di Udine il 30 agosto 1916. Dal finestrino del convoglio su
cui viaggia ammira i paesaggi:
durante il viaggio posso godere delle bellezze che la natura mi offre, giacché si vedono
un’infinità di vigneti sovraccarichi di uva, che servirà a formare il gradito nettare per tenere
allegre le truppe del nostro esercito.
Raggiunto il capoluogo friulano la mattina del 2 settembre, le truppe
proseguono verso Cormons, paese conteso tra Italia e Austria sul confine
sloveno. La meta è irraggiungibile a causa dei bombardamenti nemici e così
Valenti e i suoi commilitoni vengono fatti sostare presso il piccolo comune di
Medea, dove viene stabilito l’accampamento dei soldati. Medea è sotto
controllo austriaco e suscita la curiosità dei giovani italiani:
naturalmente trovandosi in un luogo nuovo e di più austriaco tutti si è curiosi di correre a
vedere. Il paesetto è discreto, si va in compagnia a bere un bicchiere di vino il quale è
pessimo e carissimo perché gli irredenti che quà trovansi hanno fissato di farsi signori
durante questa guerra, fanno veramente affaroni perchè non è che un brulichio di soldati al
paese.
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Il lavoro quotidiano consiste nel curare i muli e nel fare la guardia alle
munizioni recuperate nella città-fortezza di Palmanova. Il 4 settembre una
granata esplode a un centinaio di metri dall’accampamento, provocando
grande spavento. Ciò non impedisce ai soldati di garantirsi piacevoli momenti
di convivialità:
Alla sera si va sotto la tenda, ed abbiamo un fiasco di vino e n. 2 bottiglie di Barbera, il nostro
s. Tenente Muzzi di Milano che ci comandava quando eravamo a Bergamo, ma che ora era
traslocato al I° Scaglione della Batteria, avendo comunicazioni per Cap. Maggiore che con me
si trovavano, è venuto sotto la nostra tenda e lì allegramente passa un’ora con noi, è tanto
buono coi soldati che non si direbbe un Ufficiale.
La battaglia infuria, ma per Valenti la guerra sembra soltanto un’eco lontana,
tant’è vero che la vita al paese scorre tra attività lavorative ormai consuete e
più spensierati attimi di socializzazione, come nel caso della buona musica
militare suonata in piazza il 5 settembre. Il giorno dopo, la Colonna munizioni
di cui fa parte Valenti si reca a Romans sull’Isonzo e il 7 settembre si trova a
Cervignano del Friuli, dove ancora si occupa della cura dei muli e della
guardia alle armi. In questa prima fase della guerra di Valenti, le difficoltà
sono legate prevalentemente alle pessime condizioni di igiene in cui versano
gli estemporanei alloggi dove lui e i suoi compagni riposano. Ecco cosa scrive
in proposito l’8 settembre 1916:
durante il riposo, ognuno si fà premura di procurarsi delle assi per formare una branda alla
buona, tanto per alzarsi da terra perchè i topi girano la notte sopra al nostro corpo, come
facessero delle vere processioni.
Nel frattempo, gli scontri a fuoco non cessano e paiono se mai sempre più
vicini, ma a sollevare il morale del soldato arrivano le lettere di Rosetta, la
sua fidanzata:
il cannone si sente più rapido e tonante, si sta preparando una avanzata, rientro in Caserma,
e finalmente incomincio a ricevere la tanto sospirata corrispondenza dalla mia adorata
Rosetta e dalle mie sorelle, ciò in questi siti è un grande sollievo. […] Vado a coricarmi e
sogno costantemente la mia adorata Rosetta, il mio povero fratello Giovanni, caduto in
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questa guerra il 15 Luglio da prode sul Trentino, era S. Tenente del 61° Fant. alla sezione
Mitragliatrici; e la casa mia, il mio paese, le mie sorelle, tutti quanti mi sono cari.
Si tratta di un passaggio particolarmente interessante del diario di Valenti
perché permette di capire fino in fondo il bisogno di sentire vicini gli affetti
della casa e della famiglia in un contesto di sradicamento come quello del
fronte. Condizione, questa, comune a tutti i militari impegnati durante la
Prima guerra Mondiale.
Inoltre, le sensazioni di Valenti paiono viaggiare di pari passo con
l’andamento del meteo. Le giornate di pioggia sono quelle di maggiore
sofferenza, mentre quando il sole scalda la caserma di Romans, dove ormai
Valenti è stabilmente di stanza, tutto assume contorni meno drammatici:
il cielo incomincia a rasserenarsi, il mio cuore allora mi sembra che batta più regolare, corro
col pensiero al mio caro amore, alla casa, ai parenti miei e le due ore di servizio passano così
rapidamente.
L’11 settembre, il soldato è comandato di portare i colpi al reparto trainato di
stanza presso Sagrado. Durante la marcia, «il pericolo è molto»: sulle teste
degli artiglieri fischiano raffiche di proiettili ed è soltanto il giorno successivo
che si riescono a scaricare le armi. La strada del ritorno verso la caserma, per
lo meno fino alla zona del Carso, è lastricata di tiri di fucileria nemica, ma
Valenti e i suoi se la cavano senza danni. Il 13 settembre il soldato viene
assegnato a più tranquille mansioni: «tutto il giorno non faccio altro che
ramazzare il vasto cortile, perchè il soldato deve essere capace a far tutto,
dicono…». I giorni successivi Valenti si divide tra Palmanova, Sagrado e
Romans, spostando munizioni da un posto all’altro. Le 7 granate che cadono
su Cervignano il 16 settembre 1916 non fanno vittime, ma dimostrano che la
guerra vera è ormai lì a un passo. Quattro giorni dopo, in occasione
dell’anniversario dell’annessione di Roma al Regno d’Italia, Valenti pranza in
una osteria e si ferma in una chiesa nei paraggi per pregare:
Vado in un osteria a mangiare un boccone, tanto per festeggiare il giorno, dopo voglio fare
una visita alla chiesetta quì vicina e mi trattengo un po’ a pregare perchè mi si preservi dal
male, là vi è la chiesa gremita di soldati e tutti pregano con gran fervore, indi faccio una
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passeggiatina prima di entrare, e mi propongo di fare nelle sere libere sempre una visita alla
Chiesa.
Per i soldati al fronte la fede religiosa diventa una vera e propria àncora a cui
aggrapparsi per allontanare gli spettri della fatica e dei compagni caduti.
Intanto, il problema dell’igiene dei luoghi di alloggio non è risolto:
quando mi debbo coricare di notte mi viene la febbre, perchè i topi ora sono aumentati di
numero e si son resi grassi, entrando naturalmente nel tascapane di ciascuno di noi trova
sempre un buon bottino. E’ un piacere, mentre dormi ti ballano il Tango sopra la faccia, e
girano sul corpo comodamente.
Il 26 settembre, dopo una giornata di lavoro nelle scuderie, Valenti assiste in
piazza a un concerto dell’Aida, apprezzandone la qualità. L’occasione è
ulteriore motivo di rievocazione del contesto di provenienza, giacché – con
riferimento al celebre teatro bergamasco – il soldato scrive: «parmi d’essere
al Donizetti». Questi tentativi di mantenere impresso nella mente il ricordo di
casa, amplificati anche dall’incontro con un compaesano del 121° Reggimento
Fanteria, sono però destinati a fallire di fronte all’abitudine alle sempre più
frequenti scene di guerra e al sedimentarsi di una coscienza patriottica. A
questo proposito, Valenti racconta che il 1° di ottobre
alla libera uscita vado a visitare il cimitero del paese, all’entrata vi si trova un monumento
formato da un 305 il quale era caduto all’inizio della guerra gettato dal nemico, su
accampamenti di nostri soldati nei dintorni di Sagrado, ma rimase inesploso, si formò perciò
il monumento a tutti i caduti che in gran numero si trovano in quel cimitero, e dove si nota
una gran quantità di ufficiali di Fanteria caduti sul Carso.
Il 5 ottobre la colonna di Valenti porta 600 proiettili a Gradisca d’Isonzo e
due giorni dopo si viene a conoscenza che la Batteria «ha perso di già 7
uomini morti ed abbiamo 32 feriti. Si resta un poco scossi da tali perdite, ma
bisogna rassegnarsi, perchè ormai l’artiglieria da montagna fa la guerra di
trincea colla Fanteria». La notte del 10 ottobre è insonne per l’artigliere di
Alzano Maggiore: i bombardamenti sono infernali, «un rombo cupo da
Gorizia a Monfalcone», e il freddo punge nelle ossa. Quello stesso giorno,
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l’allontanamento di due aerei nemici intenzionati a bombardare i depositi di
munizioni a Palmanova e Cervignano, così come la cattura di numerosi
prigionieri da parte dell’esercito italiano, sembra produrre in Valenti vivo
compiacimento. Il 15 ottobre la Colonna munizioni viene sciolta e il giorno
successivo, poiché non si sente il tuono del cannone, ci si illude che la pace sia
imminente: «il cannone non si sente più tuonare, in paese c’è poco
movimento, si vede che stanno per trattare la pace!». In realtà, le attività dei
soldati si infittiscono. Il riposo post-rancio viene abolito e Valenti riceve con
rammarico questa notizia perché non gli è più possibile scrivere a casa con la
stessa frequenza di prima. Il 18 ottobre, però, si scopre che la Colonna
munizioni è stata in realtà ripristinata e il 25 dello stesso mese si trasferisce a
Gradisca d’Isonzo, un paese dalla vita serale piuttosto scialba, tanto che i
soldati rimangono in caserma e giocano a carte. I primi giorni del novembre
1916, Valenti si muove dunque tra la caserma, Villa Vicentina e Palmanova,
sempre recando con sé le munizioni da portare ai reparti impegnati in
trincea.
Intanto la violenza diventa una bestiale normalità, tanto che il 7 novembre –
riferisce l’artigliere – «si è fatto un gran ridere per una mezzora» perché
«abbiamo ucciso una lepre a sassate». L’eccezionalità del contesto bellico
provoca insomma gravi distorsioni di immaginario: la doccia, concessa il 12
novembre a tutti i militari, è motivo di grande soddisfazione per Valenti,
mentre un duello aereo può persino arrivare a essere «meraviglioso» alla
vista del soldato. Si allentano i legami con la quotidianità e gli affetti;
crescono, al contrario, i puerili furori guerreschi. Con il trasferimento a
Fratta, frazione di Romans d’Isonzo, Valenti inizia l’istruzione al pezzo. La
disciplina militare è più rigida in questo ambiente: «il nostro Capitano ha
retrocesso il Cap. Mag. Franzoni, perché il giorno prima appena ritornato dal
fronte dopo 3 mesi di trincea, erasi ubriacato». Siccome il 30 novembre è
prevista la partenza per la trincea, le sere precedenti Valenti i suoi compagni
riescono a festeggiare bevendo vino e mangiando polenta e uccelli. La
mattina del giorno fatidico ci si incammina verso Castagnevizza; la strada è
lunga più di 5 ore e il Carso tutt’attorno «è una vera rovina […] distrutto
figurati che non v’è una pianta in vegetazione tutto bruciato dal fuoco e dai
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gaz». Il giorno dopo esplode una granata e Valenti corre un grosso pericolo:
«un sasso levato dal colpo mi cade su d’una gamba che m’indolenzisce l’arto
un pochetino, però è andata bene». La vita di trincea è scandita dalle
numerose preghiere e, come il 22 dicembre 1916, da lavori quali la pulizia
dei pezzi, la sistemazione delle piazzole e la formazione di piccoli muri dietro
cui ripararsi. Il 25 dicembre «i pacchi Natalizi da Vienna» sono proiettili
shrapnel calibro 152 sparati dall’artiglieria, mentre il 29 dicembre la
presenza di merluzzo a pranzo suscita nuovamente l’illusione che la fine della
guerra sia nell’aria: «oggi pel pranzo ci hanno dato il merluzzo, si vede
proprio che la guerra sta per finire». Il racconto della vicenda di Alfredo
Valenti si conclude con l’inizio del 1917 e il rientro a Fratta dalla trincea. La
guerra, tuttavia, è lungi dal terminare e prima ancora di vedere firmati
l’armistizio e la pace, Valenti perderà la vita il 24 ottobre 1918, così come
certificato dall’atto di morte del 06 novembre dello stesso anno. Quel giorno
a nulla sono servite le ultime, disperate invocazioni a Dio del trentenne
artigliere bergamasco, strappato agli affetti e alla sua comunità.
Storia di Giuseppe Opreni
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Giuseppe Opreni
Data di nascita:
28 settembre 1893
Luogo di nascita:
Bonate Sopra
Luogo di residenza:
Bonate Sopra
Professione:
contadino
Statura:
1,62
Capelli:
castani
Occhi:
grigi
Fondi di riferimento: Archivio “Carte Adriano Prezzati” conservato presso
l’Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea
e foglio matricolare del caporale maggiore Giuseppe Opreni conservato
20
presso l’Archivio di Stato di Bergamo. L’archivio “Carte Adriano Prezzati”
contiene il taccuino compilato da Giuseppe Opreni tra il 1918 e il 1919, così
come le memorie della sua partecipazione alla Prima guerra Mondiale,
redatte nel 1970.
Il
soldato
caporale
maggiore
zappatore
Giuseppe
Opreni,
ancora
diciannovenne, inizia la sua esperienza nell’esercito nel gennaio del 1915 e
partecipa dunque ai fatti della Grande guerra. Il taccuino di memorie redatto
dal soldato tra il 1918 e il 1919, così come il racconto della sua vita al fronte
indirizzato a un non meglio precisato Padre Pierino e datato 1970, aiutano a
ricostruire le vicende di cui è stato protagonista tra il 1915 e il dicembre del
1918. Pure essendo nato nel 1893, Opreni viene richiamato alle armi il 13
gennaio 1915 insieme alla classe del 1895, poiché prima era stato esonerato
dal prestare servizio nell’esercito. Assegnato al 5° Reggimento Alpini, il
soldato narra anzitutto la formazione del Battaglione Stelvio di cui fa parte.
Le compagnie mobili 113ma e 89ma, che integravano il vecchio Battaglione
Tirano, si raggruppano presso l’omonimo paese in provincia di Sondrio e da lì
vengono indirizzate la prima ai Bagni Nuovi, presso Bormio, e la seconda a
Santa Caterina in Valfurva. Durante tutto il 1915 e fino al marzo del 1916 le
due compagnie «fanno bene il suo dovere»: la 113ma, guidata dal Comandante
Patriarca, operando in trincea sul Gavia, sui Ghiacciai dei Forni e su altri
impervi passi come quello dell’Ables; l’89ma, alla cui testa si trova il
Comandante De Giorgi, prestando servizio sulla frontiera svizzera.
Successivamente, inizia la discesa dalle alte vette verso Tirano, dove però i
soldati rimangono per soli 8 giorni prima di partire nuovamente dove il
«Destino» - più volte richiamato da Opreni nel corso dei suoi appunti – le ha
dirette. La meta stavolta è Monte Nero presso Caporetto, sul cui versante
sinistro il 5° Reggimento Alpini dà più volte il cambio ai colleghi dell’8° nella
difesa trincerata della zona. È lì che per 15 giorni Opreni e i suoi commilitoni
scampano «la vita in mezzo alle frane, freddo, fame e tormenta». È solo in
aprile che possono finalmente ridiscendere a valle. Alla 113ma e alla 89ma si
aggiunge a quel punto la 137ma compagnia del Comandante Santini, anch’essa
proveniente da Tirano. L’unione di queste 3 compagnie dà vita al Battaglione
21
Stelvio, alla cui guida viene nominato il Comandante Signor Maggiore
Galbiati. Fino al maggio del 1916 il «glorioso Battaglione Stelvio» presta
servizio di copertura al 1° Battaglione Tirano, sulle Alpi Trentine, dandogli in
seguito il cambio e mantenendo la difesa della zona fino alla fine del gennaio
del 1917 tra «sacrifici, e dolori, e resistenza a tutto quel che è successo in
quei mesi». I 40 giorni di riposo trascorsi a Reana, nel Friuli, sono solo il
prodromo a un nuovo spostamento: il Battaglione viene mandato
sull’Altipiano dei Sette Comuni, meglio conosciuto come Altipiano di Asiago.
Ricomincia così la vita di trincea, conclusasi nel giugno del 1917, quando
infuria uno dei più massacranti episodi dell’intero scontro bellico: la battaglia
dell’Ortigara. Su questo monte al confine tra Veneto e Trentino, tra il rumore
delle mitraglie, Opreni riesce comunque a preservare la propria incolumità e
viene poi assegnato al servizio di guardia di trincea su posizioni collocate
proprio di fronte al monte Ortigara. Il Battaglione riceve dunque il cambio e
indietreggia, trascorrendo a valle 50 giorni fatti di lavori di linea. A metà
settembre del 1917, Opreni e gli altri tornano su posizioni montuose già
occupate in precedenza, dove danno il cambio al Battaglione Valtellina. A
metà ottobre il Battaglione Stelvio viene assegnato nuovamente a meno
pericolosi lavori di linea, ma presto arriva il momento di svolgere delicati
servizi di guardia o di reticolato presso la Cima Lozze. È soprattutto la 89ma
compagnia a doversi cimentare in queste imprese. Subito dopo, racconta
Opreni, «vennero poi i giorni brutti della ritirata ai primi novembre.
Lasciando tutte quelle magnifiche posizioni in mano al nemico, ci siamo poi
ritirati a formare una linea di difesa e di resistenza a destra del fiume Brenta
appena sopra Valstagna». Ma nel Comune vicentino il Battaglione rimane ben
poco perché il nemico avanza da tutte le posizioni e il pericolo è troppo alto.
Prende dunque il via l’«eroica» e dispendiosa difesa di Montefiore. Opreni
agogna un riposo che sembra non arrivare mai («le promesse erano assai
buone, ma i fatti invece era molto tristi»), ma alla fine di novembre lo
“Stelvio” può finalmente ritirarsi per un periodo a Bassano del Grappa, dove
giunge peraltro il rinforzo della classe 1899 recentemente richiamata alle
armi.
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Il racconto di Opreni non prosegue in modo lineare e dalle vicende del
Battaglione Stelvio si passa a narrare quelle della 52ma Divisione, alle cui
dipendenze è evidentemente passata a far parte la Compagnia del soldato di
Bonate Sopra. Nel maggio del 1918 la Divisione si compatta a Vicenza. Ne
fanno parte 4 gruppi di Alpini, comprese 4 batterie di artiglieria da montagna
e una compagnia del secondo genio zappatori. Tra maggio e giugno la
Compagnia viene inviata a Marostica per dare supporto alle azioni
sull’altipiano di Asiago. In questa circostanza, Opreni e i suoi compagni si
distinguono in abilità difensive. La loro linea arresta l’avanzata del nemico e
consente il mantenimento di importanti posizioni anche sul Grappa. A metà
settembre la 52ma è scomposta in due gruppi e chiamata in trincea. Per 15
lunghi giorni, esposti al fuoco nemico, i soldati della Divisione compiono
nuovamente il loro dovere «di eroi e resistenza a tutti i sacrifici della guerra».
Ritiratisi prima nei pressi di Marostica per un breve periodo di riposo,
vengono presto trasferiti a Bassano del Grappa, da dove arrivano «a poco a
poco senza saper nulla» sulle rive «del famoso Piave». La marcia dura 2
lunghe notti e alla vigilia dell’avanzata, riferisce Opreni, la Divisione è
provvista di tutto il necessario. Tuttavia, il 27 ottobre 1918, quando l’esercito
italiano tenta di oltrepassare il Piave, il bombardamento nemico è
«immenso» e la Divisione è costretta ad arrestarsi, riprendendo il cammino
soltanto la notte successiva, accompagnata dal «canto delle mitraglie». Il
pomeriggio del 28 ottobre le prime linee della 52ma vengono assaltate, ma la
Compagnia riesce comunque ad avanzare: conquista armi, cattura prigionieri
e oltrepassa numerosi paesi tra cui Valdobbiadene, praticamente raso al
suolo. L’avanzata prosegue il 31 ottobre, su per il monte Barbaria: «3 giorni
di sacrifici e di dolore, tanto per fame, freddo, stanchezza». Poi, improvviso,
«finalmente spuntava quel bel giorno, giorno 4 dell’armistiizio» e la
Divisione, dopo un ulteriore periodo trascorso in provincia di Belluno, può
lasciarsi alle spalle linee, gelo e trincee. Il 16 luglio 1918 Opreni viene
decorato con una croce al merito di guerra in virtù della determinazione del
Comando della 6a armata.
Per quanto si presenti per lo più come una cronaca degli spostamenti e delle
azioni del suo Battaglione, il diario di Giuseppe Opreni è rivelatore delle
23
sensazioni e dei sentimenti che buona parte dei soldati hanno sperimentato
al fronte. Di fatto, al di là dei frequenti cenni al «Destino» come motore delle
azioni umane – elemento che fa parte della mitologia guerresca nella sua
funzione di evasione quasi esoterica dalla sconvolgente e crudele modernità
cui si assiste nel corso del conflitto armato –, colpisce la profonda umanità
che emerge dai ritratti dei suoi superiori abbozzati dal soldato. Il Generale
Brigadiere Pesana viene descritto come «uomo di cuore, e di fiducia e
amorevole verso i soldati»; analogamente, l’altro Generale Brigadiere (del
quale Opreni non riporta il nome) è «un cuore calmo, di sciensa e amorevole
verso di colui che avevano sotto i suoi comandi, e specialmente per i soldati».
In questa prospettiva è opportuno sottolineare che nelle testimonianze di
Opreni mancano riferimenti patriottici e che il più volte evocato «eroismo»
dei soldati non va ricercato tanto nelle loro doti militari o nell’onorevole
servizio reso all’Italia nella battaglia contro il nemico, quanto nella
umanissima capacità di sopravvivere a una guerra che «si faceva col freddo e
tormenta e valanghe». A riprova del suo sentimento probabilmente antiinterventista e del suo desiderio di tornare alla normalità di un tempo
scandito da famiglia, lavoro e partecipazione alla vita della comunità, Opreni
apre il suo diario di guerra con un prologo dai toni marcatamente sarcastici
in cui riecheggia l’eco della battaglia dell’Ortigara. Paragonato alla festa
artigiana, lo scontro viene presentato come una «zona del divertimento»
dove «la paga e poca, e il divertimento e molto». Il menù di questa festa
surreale è composta da un «antipasto di pallottole», da un primo piatto di
«scheggie di granata» e poi ancora da «bistecche di bombe di aeroplano
incendiarie», mentre il ballo è diretto dalla «signorina mitragliatrice» e
dall’«onorevole reticolato». L’ironica lamentela finale per la sete, i pidocchi e
la fatica delle marcie in montagna è il più significativo epilogo per la storia di
un giovane come tanti: soldati per qualche anno, ma vittime per sempre della
Grande Guerra, luogo ideale in cui la modernità industriale e le sue
contraddizioni si sono manifestate duramente come mai era accaduto nella
storia.
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Storia di Filippo Animelli
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Filippo Animelli
Data di nascita:
17 gennaio 1895
Luogo di nascita:
Ambivere
Luogo di residenza:
Ambivere
Professione:
giardiniere florovivaista
Statura:
Capelli:
Occhi:
Fondi di riferimento: Giampiero Valoti, “Non più nulla si calcolava la vita…”:
la memoria della Grande Guerra di Filippo Animelli, in “Studi e ricerche di
storia contemporanea”, n. 35 (Giugno 1991), pp. 28-46. Questo saggio è
costruito attorno al materiale diaristico redatto da Filippo Animelli e
conservato
presso
l’archivio
“Carte
Giampiero
Valoti”
dell’Istituto
Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea. Si
vedano anche le informazioni contenute in Mario Pelliccioli (a cura di),
Bergamo negli anni della prima guerra mondiale: archivi e documenti, Ex Filtia
n. 4, Quaderni della Sezione archivi storici della Biblioteca Civica ‘A. Mai’ di
Bergamo – Supplem. al n. 4 1992 di «Bergomum. Bollettino della Civica
Biblioteca», pp. 38-39.
Primo di 9 tra fratelli e sorelle, Filippo Animelli nasce ad Ambivere il 17
gennaio 1895. Il padre, Pietro, rientra a Bergamo dopo un periodo di
emigrazione lavorativa in Svizzera. Filippo – in ragione delle ristrettezze
economiche di una famiglia di origine contadina – può frequentare soltanto la
prima elementare e senza nemmeno concluderla. Garzone da un ciabattino
prima e manovale poi, si impiega stabilmente come giardiniere, occupazione
che mantiene anche dopo la partecipazione alla Prima Guerra Mondiale.
25
Nel gennaio del 1915, il ventenne Filippo Animelli parte infatti per le armi.
Assegnato all’87° Reggimento di fanteria con stanza a Siena, durante le
esercitazioni si distingue per la mira straordinaria, caratteristica che gli vale
l’incarico di tiratore scelto. Il 16 maggio gli viene consegnata la divisa
militare e il 30 dello stesso mese si trova a Bassano, dove risiede per un paio
di mesi nell’attesa di essere inviato al fronte. La partenza avviene alla fine di
luglio: destinazione Monfalcone, dove infuria la battaglia dell’Isonzo e la
prima linea ha bisogno di forze fresche. È lì che «si sente il puzzo dei
cadaveri» e ha inizio «il sacrificio della trincea». Il violento attacco austriaco
dell’ottobre del 1915 trova impreparato l’esercito italiano. Animelli vede
davanti a sé alcuni compagni cadere e ne rimane profondamente scosso. La
sua compagnia ottiene così dieci giorni di riposo a San Canzian d’Isonzo. Nel
frattempo, però, si tiene la terza battaglia sul fiume e così il soldato viene
richiamato anzitempo in prima linea. I rinforzi non fruttano i risultati sperati
e l’esercito italiano continua a soccombere. L’autunno sull’Isonzo è
particolarmente piovoso, il che rende ulteriormente complicate le condizioni
di vita dei soldati. Tutti bramano ardentemente il riposo e la licenza, pensieri
che aiutano nei momenti di maggiore scoramento. Purtroppo, per Animelli la
licenza non arriva e nel gennaio 1916 è di nuovo in trincea. Scampato al
pericolo del contrattacco nemico avvenuto il 15 gennaio, il ventenne di
Ambivere può finalmente tornare a Bergamo per 20 piacevoli giorni.
Riconvocato successivamente sull’Isonzo, svolge svariati servizi operativi.
Nel maggio del 1916, Animelli è tra le truppe richiamate dal Carso ad Asiago
per ricacciare indietro gli austriaci dall’Altipiano. È in Trentino che il fante
bergamasco vive i momenti più intensamente drammatici della sua
esperienza di guerra. Il 19 giugno, svegliato nel cuore della notte, viene
comandato di partecipare a un assalto: «io e d’altri miei amici si calcolava che
al grido di Savoia occorreva fare come essere pazzi», riferisce in merito
Animelli. L’assalto alla baionetta è più che altro un massacro: Salvatore
Alatine, suo compagno di Perugia, viene ferito a una gamba. Animelli prova a
soccorrerlo nonostante l’incessante fuoco nemico, salvo poi darlo in custodia
a un altro commilitone che, tuttavia, tornando verso un avamposto cade
stremato per la ferita alla testa riportata in battaglia. Il bergamasco ha
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miracolosamente salva la vita: riparatosi in una buca nel terreno per ben 17
ore, si difende ponendo la vanghetta come scudo. I colpi di moschetto di un
cecchino austriaco che ne ha individuata la posizione fanno pensare al
soldato italiano di essere giunto alla fine dei suoi giorni, ma mentre dai
compagni si levano grida di aiuto e di dolore, Animelli non viene colpito. Ha
rischiato l’assideramento ed è dolorante pressoché ovunque. Ancora peggio è
però venire a conoscenza di una terribile verità: è lui l’unico sopravvissuto
della sua compagnia. Sull’Altipiano si susseguono ugualmente gli insensati
assalti italiani alle fortificazioni austriache. Gli esiti, senza il supporto
dell’artiglieria ancora in viaggio dal Carso, sono ovviamente negativi e le
perdite assai ingenti. Animelli viene dunque destinato a una sezione di
mitragliatrici. La guerra prosegue e non si risparmia l’uso di gas asfissianti e
bombarde. Il giovane bergamasco è esposto a queste esalazioni nocive e si
ammala. Ricoverato a Marostica e poi a Vicenza, non migliora. Trasferito a
Modena, un ufficiale medico lo cura con la giusta terapia e lo guarisce. La
licenza di 30 giorni per convalescenza è un sollievo per il soldato.
Il 5 febbraio 1917 Animelli torna in zona di guerra e più precisamente nella
trincea di Vallarsa, sul fronte trentino. Il rigido inverno mette a dura prova la
resistenza dei soldati. Dopo 20 lunghi giorni di trincea, Animelli riceve il
desiderato riposo. Tre mesi dopo, la brigata del mitragliere bergamasco deve
trasferirsi di nuovo sull’Isonzo, dove le gerarchie militari italiane hanno
ordinato l’ennesima offensiva. Animelli fa parte del reparto di rinforzo ai
soldati che assaltano il monte Santo e con coraggio si avventura fino
all’Isonzo per portare rifornimenti di pane e acqua ai compagni della trincea,
stremati dalla fame e dalla sete, nonché provati psicologicamente dalla
terribile distesa di cadaveri che li circonda. Gli 8 giorni di battaglia sono un
autentico «martirio». Animelli ottiene una licenza-premio di 20 giorni per
avere svolto il proprio dovere sul monte Santo. Il 15 giugno rientra a
Bergamo e nell’ottobre del 1917 si trova però nella conca di Plezzo, lì dove
prende le mosse l’attacco conclusosi con la clamorosa disfatta di Caporetto.
Impegnato sul monte Rombon, Animelli viene dispensato dai servizi pesanti
per motivi di salute e diventa telefonista della compagnia. Il 24 ottobre
l’annunciato attacco austro-tedesco diventa realtà: gas tossici prima e fuoco
27
di distruzione poi fanno piazza pulita della difesa italiana. Smarrimento e
disordine regnano sovrani. Privi di un comando preciso, i soldati italiani sono
infatti disorientati. Animelli viene catturato come prigioniero di guerra. Se fin
lì il giovane bergamasco aveva subito se non con fiducia quanto meno con
rassegnazione le vicende della guerra, da Caporetto in poi sono la disillusione
e un senso di tradimento a impadronirsi delle sue emozioni.
I numerosi prigionieri di guerra, nell’ordine delle centinaia di migliaia,
iniziano una lunga e atroce marcia verso est. Giunto a Lubiana, Animelli
risponde ai motti di scherno degli austriaci che indicano agli italiani quanto
lontana sia Trieste: «va fa in culo te e chi vuole Trieste». Trasferito al campo
di concentramento di Dunaszerdahely, in Ungheria, il giovane bergamasco
conosce la fame. Più volte tenta evasioni momentanee per procacciarsi del
cibo supplementare in cambio di vestiti. Il giorno in cui, con un compagno,
tenta una vera e propria fuga, le guardie lo raggiungono e – probabilmente
mosse a compassione – gli risparmiano la vita limitandosi a percuoterlo con il
calcio dei fucili. Ma Animelli non si perde d’animo e il 24 dicembre 1917 ci
riprova: unendosi alla corvée degli ufficiali italiani che va a fare la spesa,
riesce a sfamarsi. Scoperto, viene interrogato in merito alla fuga di due
ufficiali italiani. Animelli si rifiuta di parlare e viene pesantemente picchiato.
Svenuto, viene ricondotto in cella, ma il giorno dopo prende ancora una gran
quantità di botte perché orgogliosamente accusa i gendarmi di appropriarsi
dei viveri destinati ai prigionieri. Le prospettive sono funeste, ma il soldato
italiano sopravvive alla guerra e alla prigionia, rientrando a Bergamo alla fine
del conflitto. Ripresa l’attività di florovivaista, si sposa nel 1926 con Maria
Caterina Boffelli, dalla quale ha tre figli.
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Storia di Pietro Bono Tagliaferri
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Pietro Bono Tagliaferri
Data di nascita:
Luogo di nascita:
Luogo di residenza:
Pezzolo, frazione di Vilminore di Scalve
Professione:
Statura:
Capelli:
Occhi:
Fondi di riferimento: Diario di Pietro Bono Tagliaferri, redatto tra il
febbraio del 1917 e il maggio del 1920. Una fotocopia del diario è conservata
nell’archivio “Carte Agostino Morandi” presso l’Istituto Bergamasco per la
Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea. A causa di incongruenze tra
le rubriche e i ruoli matricolari conservati presso l’Archivio di Stato di
Bergamo, non è stato possibile reperire dati anagrafici più precisi sul soldato.
Residente a Pezzolo, frazione del Comune di Vilminore di Scalve (BG), Pietro
Bono Tagliaferri viene chiamato alle armi nel 1917. Privo di riferimenti
diretti a fatti d’armi, il suo diario è il resoconto delle peregrinazioni cui è
stato costretto tra il 1917 e il 1920, nonché una testimonianza viva delle
difficoltà ambientali e fisiche sperimentate dai soldati della Grande Guerra.
Tra il febbraio e il maggio del 1917 rimane presso la caserma di Bergamo.
Trasferito a Milano e rientrato poi nel capoluogo orobico, viene assegnato al
17° Reggimento Bersaglieri della caserma di Brescia. Presto passa a Fanteria
e si incorpora al 5° Reggimento Alpini di Edolo (BS). Il 27 giugno 1917 torna
fugacemente a Bergamo, presso la caserma Esperia, ma subito dopo gli viene
imposto di abbandonare la divisa di miliziano territoriale per indossare
definitivamente quella di alpino. Tra il 30 giugno e il 17 novembre 1917 si
sposta da una montagna all’altra, scalando il Mortirolo, costeggiando il lago
del Baitone e giungendo in vetta al Passo della Regina. «Per causa della
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famosa ritirata dalle Api Trentine fino al Piave», a partire dallo stesso 17
novembre passa tra le truppe mobilitate e il 18 dello stesso mese parte per
Varese. Il 20 novembre viene destinato al fronte veneto. Attraversate Brescia
e Verona, si ferma a Caprino Veronese sino al 25 novembre, quando giungono
nuovi ordini superiori: all’imbrunire di quel giorno parte dal «bel paesetto» e
il giorno dopo raggiunge Valstagna prima e San Gaetano poi, stavolta in
provincia di Vicenza. Lì viene integrato nella 24ma Compagnia del Battaglione
Valtellina. Resta a San Gaetano sino al 17 dicembre 1917, quando parte per il
Col Caprile. Arriva sino ai piedi del Colle Moschin, dove trascorre un’intera
nottata in mezzo alla neve. La mattina successiva riesce a procurarsi un
misero riparo in mezzo «alla neve ed alle roccie vive senza un piccolo
atresso» e li resta «fino la sera del 19 senza rancio, con una galetta e una
scatoletta di carne, in mezzo alla neve e sotto l’acqua». La sera del 19
dicembre 1917 torna a fondo valle e poi risale, fermandosi tra il Caprile e il
Moschin. È in queste zone che disimpegna compiti operativi fino al marzo del
1918. Di quell’esperienza racconta: «Passai tre mesi con una fame da lupo
senza poter comperare per 5 centesimi di alimento». Sceso dal Caprile,
attraversa il fiume Brenta e fa tappa nuovamente a San Gaetano la notte tra il
30 e il 31 marzo 1918. Si avvia dunque verso il Sasso Rosso, nelle Alpi Retiche
Meridionali. Cammina sotto la neve sulla roccia a picco e incontra un amico
che come lui proviene dalla Valle di Scalve, tale Lazzaroni del Comune di
Colere. È alla sua compagnia che il gruppo di cui fa parte Tagliaferri sta per
dare il cambio. Rimane in questa zona di guerra fino al 23 maggio 1918,
lavorando sotto il mirino puntato dei nemici, distanti non più di 3 metri:
«dico due o tre metri sempre migliorando le condizioni che nulla c’era di si
nascondere la testa, e a dire la verità era più prudente il nemico». La mattina
del 23 maggio scende verso fondo valle e riattraversa la provincia di Vicenza
passando per Valdistagna, Campese e altri paesi sino ad arrivare nei pressi di
Bassano del Grappa, da dove parte a bordo di un camion con direzione
Vicenza. Spedito a lavorare a Sanbonifacio, fa rientro a Vicenza e vi rimane
sino alla prima licenza, ottenuta a ridosso del giugno del 1918. A questo
proposito, Tagliaferri scrive:
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Anche là mi facevano lavorare da mattina a sera, fino che è arrivato quel’ giorno beato di
venire in licenza, e quasi lo anche finita. Insomma, la vita militare in tempo di guerra è assai
brutta.
La «continuazione del martirio», così come la definisce Tagliaferri ma senza
appellarsi alla retorica di santificazione della guerra che allignava negli
ambienti interventisti, comincia il 17 giugno 1918, quando – partito da
Boario, in provincia di Brescia – raggiunge una volta ancora Vicenza. Fatica a
trovare il suo Battaglione e marcia in solitario sia il 18 che il 19 giugno,
sostando una notte a Fontanelle, frazione del Comune di Conco. Proprio alle
Bocchette di Conco si ricongiunge con la sua Compagnia. È di stanza in questo
paese sino al 4 luglio. Poi viene il momento della trincea: sul Col del Rosso,
sull’altipiano di Asiago, dove rimane per quasi un mese. La notte del 27 luglio
la sua Compagnia ottiene il cambio e riscende verso la frazione di Santa
Caterina di Conco. Il 24 settembre 1918 torna alle Bocchette e gli viene
concessa una seconda licenza.
Il 10 ottobre 1918 raggiunge la sua Compagnia al Ponte d’Astico, sulla strada
per Bassano del Grappa. Dal 16 al 23 dello stesso mese è a Castiglione, sul
Brenta. Cammina una notte e una mattina per raggiungere la provincia di
Treviso. La notte del 27 ottobre è nuovamente in marcia verso il Piave.
Attraversa il fiume su piccoli ponticelli ancora in costruzione e «sempre
ribaltati in aria dalle ultime cannonate austriache». Il 29 ottobre inizia l’ardua
ascesa delle montagne circostanti il Comune di Valdobbiadene, portando un
pesante zaino in spalla e praticamente digiuno. Giunto alla vetta, può
finalmente ristorarsi, sebbene soltanto con mezza scatola di carne e una
galletta. Attraversa altre montagne di cui scrive di non ricordare il nome e
scende per il loro versante destro verso la valle. La mattina del 30 ottobre la
sua Compagnia deve attraversare il Piave dalla parte di Belluno, ma la
quantità d’acqua impedisce il transito. La mattina dopo la Compagnia si
sposta nel luogo in cui si trovava il vecchio ponte che l’esercito austriaco
aveva fatto saltare per impedire il passaggio agli italiani e da lì Tagliaferri e i
suoi commilitoni riescono a creare un primo varco in mezzo all’acqua. Il 3
novembre raggiungono la contrada di Menin, frazione di Cesiomaggiore,
sempre nel bellunese, e la mattina successiva, zaino in spalla, Tagliaferri si
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dirige verso le montagne retrostanti il Cadore. Fatta tappa a Toschian, altra
frazione di Cesiomaggiore, giunge «la chiara notizia che alle 4 pomeridiane
cessavano le ostilità, e che l’esercito austro-ungarico era sfasciato».
L’armistizio è firmato e la guerra conclusa. Non cessa, tuttavia, il lungo
percorso del soldato. Rimane a Cesiominore sino al 7 dicembre 1918. Poi
supera Feltre e Montebelluna, arrivando sopra Treviso, dove è di stanza sino
al 17 dello stesso mese. Superati Conegliano, Pordenone e altri paesi più
piccoli, trova dimora a Pagnacco, in provincia di Udine. È lì che resta sino al
26 gennaio 1919. Marcia altri sei giorni attraversando Udine, Cividale del
Friuli e Caporetto, fermandosi poi a Piedicolle. Torna «coi quadrupedi» a
Udine perché assegnato a lavori agricoli. Tra il febbraio e il marzo del 1919 si
sposta diverse volte, sempre in Friuli, e fa rientro a Pagnacco il 18 marzo. Gli
viene quindi richiesto di recarsi a Caporetto per portare foraggio alla località
di Conca di Plesso, dove si ferma sino al 25 aprile. Di nuovo a Pagnacco prima
e a Piedicolle poi, ottiene una terza licenza e torna nella sua Valle di Scalve.
Scaduta la licenza, Tagliaferri è a Udine il 19 giugno 1919. Tornato a
Pagnacco, riceve l’ordine – come del resto tutto il reparto distaccato – di
riannettersi al corpo. Attraversati Caporetto e Tolmino, viene aggregato alla
69ma Colonna Carreggio e si divide spesso tra Udine e Cividale «pel trasporto
delle vivande e viveri pel lo spaccio cooperativa della 52ma divisione che era
di stanza a Caporetto». Tornato al Battaglione, continua il lavoro di
rifornimento alla Compagnia. Il 13 ottobre 1919 arriva – ed è per Tagliaferri
motivo di grande sollievo – l’ordine di scendere dalla montagne innevate. Il
Battaglione Vicenza sostituisce il Battaglione Valtellina e il 25 ottobre 1919
Tagliaferri può iniziare una serie di viaggi in treno, talvolta oltre confine, che
lo conducono il 9 gennaio 1920 a Bergamo, da dove può facilmente
raggiungere Clusone prima e Pezzolo poi. In calce al suo diario, provato dalle
fatiche, dalla fame e dalla povertà della guerra, Tagliaferri scrive: «Beata la
borghesia e chi può goderla».
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Storia di Enrico Ondei
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Enrico Ondei
Data di nascita:
17 aprile 1887
Luogo di nascita:
Credaro
Luogo di residenza:
Professione:
Credaro
muratore
Statura:
1,63
Capelli:
castani
Occhi:
grigi
Fondi di riferimento: Archivio “Carte Giacomina Ondei”, conservato presso
l’Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea,
foglio matricolare e ruolo matricolare del soldato Enrico Ondei conservati
presso l’Archivio di Stato di Bergamo. Le “Carte Giacomina Ondei”
contengono, tra gli altri documenti, una copia della fitta corrispondenza che il
soldato ha intrattenuto con la moglie durante la Prima guerra Mondiale. Si
vedano anche le informazioni contenute in Mario Pelliccioli (a cura di),
Bergamo negli anni della prima guerra mondiale: archivi e documenti, Ex Filtia
n. 4, Quaderni della Sezione archivi storici della Biblioteca Civica ‘A. Mai’ di
Bergamo – Supplem. al n. 4 1992 di «Bergomum. Bollettino della Civica
Biblioteca», pp. 29-32.
L’esperienza di militare è durata lo spazio di un anno per il ventinovenne
bergamasco Enrico Ondei. Chiamato alle armi il 6 novembre 1915 e
assegnato al 25° Reggimento Fanteria, ha infatti perso la vita il 26 novembre
1916 sul Monte Mosciagh, nel corso di uno dei numerosi e sanguinosi
combattimenti dell’Altipiano di Asiago. La ferita all’addome procurata in
battaglia gli provocò un’inarrestabile emorragia che lo condusse alla morte.
La sua vita di soldato e di uomo è ripercorribile grazie alla corrispondenza
inviata alla moglie dalla zona di guerra e si contraddistingue per l’assoluta
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mancanza di eccezionalità. La storia di Ondei è la storia di molti uomini
impegnati nel corso della Prima guerra Mondiale. Non vi sono nelle sue
lettere cenni espliciti alle difficoltà della vita al fronte, né il soldato si lascia
andare a considerazioni sulle proprie emozioni. Le più immediate urgenze
che si riflettono nella sua scrittura riguardano il tentativo di proteggere gli
affetti. Anzitutto, il muratore di Credaro rassicura sistematicamente la moglie
circa le sue condizioni di salute e le fornisce indicazioni sulla gestione del
patrimonio familiare e dell’attività agricola. In secondo luogo, al fine di
assecondare il sempre più intenso desiderio di incontrarlo, cerca di
convincere la sua sposa che presto gli sarà possibile tornare in licenza,
mentre in realtà il desiderato permesso non arriva e l’ansia del distacco si fa
per la coppia progressivamente più forte. Infine, ed è questo un elemento di
fondamentale importanza poiché si tratta di uno dei più ricorrenti e
significativi topos della letteratura popolare prodotta dai soldati della Grande
Guerra, Enrico Ondei si appella con cristiana rassegnazione al potere divino,
certo che soltanto affidandosi al Dio in cui crede gli sarà possibile tornare a
casa. La fede religiosa, insieme con l’amore che prova per la moglie e la
piccola figlia, è la molla che alimenta la martirologica pazienza con cui si
sopportano e subiscono le intemperie atmosferiche, le durezze della vita
militare e i pericoli degli scontri a fuoco. Si giustifica così l’ossequiosa
obbedienza nei confronti dei superiori, l’incrollabile fiducia nelle loro parole
e la vana speranza di vedere firmato l’armistizio. Come per migliaia di suoi
compagni, non è dunque una consapevole e appassionata retorica patriottica
a orientare le giornate al fronte del fante Enrico Ondei. Se mai, l’unico,
semplice e incessante pensiero del giovane bergamasco è rivolto al proprio
luogo di provenienza, alla propria famiglia, a un disperato bisogno di pace e
libertà distante dalla fame, dal freddo e dallo stridente concerto della
mitragliatrice. È in questa apparente banalità che risiede uno dei più profondi
significati dell’esperienza di quanti – inconsapevolmente – furono sradicati
dalle proprie terre e mandati a morire in prima linea durante quella Grande
Guerra che per prima ha determinato l’ingresso dell’uomo moderno in una
società pienamente industriale, globale e spietata. La figura del martire che
qua e là emerge dagli scritti di Ondei diventerà, insieme al mito virile del
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soldato
vittorioso,
l’immagine-simbolo
del
conflitto
nell’immediato
dopoguerra, sublimata nel milite ignoto, immarcescibile figura che tuttora
abita l’immaginario e la memoria collettiva del popolo italiano.
Storia di Alessandro Francesco Gottardo Quarenghi
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Alessandro Francesco Gottardo Quarenghi
Data di nascita:
3 maggio 1898
Luogo di nascita:
Gandino
Luogo di residenza:
Gandino prima, Endine Gaiano poi
Professione:
prestinaio
Statura:
1,68
Capelli:
castani
Occhi:
cerulei
Fondi di riferimento: ruolo matricolare di Alessandro Francesco Gottardo
Quarenghi conservato presso l’Archivio di Stato di Bergamo.
Tra i soldati impegnati durante la Prima guerra Mondiale vi furono quanti
seppero resistere alle probanti fatiche fisiche e psicologiche del conflitto,
prodigandosi orgogliosamente in favore del proprio esercito. Qualcuno riuscì
persino a esibirsi in azioni al limite dell’eroismo: piccoli momenti di orgoglio
che a fronte di quanto perduto nel corso della guerra hanno fruttato
riconoscimenti ufficiali e decorazioni militari.
Una di queste storie è quella del prestinaio bergamasco Alessandro
Francesco Gottardo Quarenghi. Nativo di Gandino, il diciannovenne
Quarenghi abbandona le belle montagne della sua Valle Seriana nei primi
mesi del 1917. A marzo viene incorporato al deposito del 2° Reggimento
Fanteria e nel giro di qualche giorno si ritrova in zona di guerra. L’inflessibile
rigore e l’osservanza della disciplina militare gli valgono a giugno i gradi di
caporale e – poco dopo – quelli di caporale maggiore presso il 117°
Reggimento Fanteria. Nel maggio del 1918, impegnato sull’Altipiano di
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Asiago, dimostra sul campo di avere meritato queste promozioni: infatti,
come si può evincere dalla motivazione che giustifica l’assegnazione della
medaglia d’argento al valore militare, sulla Cima Cischietto il Quarenghi
con tre soli uomini, con lancio di bombe a mano ricacciò il nemico, che, per un varco già
esistente nel reticolato, era penetrato nella linea, e sotto intenso fuoco di fucileria, di pieno
giorno, riuscì a chiudere il varco, collocando il cavallo di frisia.
Insieme con la medaglia, a Quarenghi viene garantito un soprassoldo di 250
lire annue. Ottenuto il congedo illimitato nel dicembre del 1919, il giovane
rientra a Bergamo ed è restituito all’affetto dei suoi cari. Sul suo ruolo
matricolare si può leggere la dicitura «durante il tempo di guerra ha servito
con fedeltà ed onore ed ha tenuto buona condotta».
Storia di Attilio Pessina
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Attilio Pessina
Data di nascita:
10 aprile 1898
Luogo di nascita:
Almenno San Salvatore
Luogo di residenza:
Almenno San Salvatore
Professione:
falegname
Statura:
1,80
Capelli:
castani
Occhi:
grigi
Fondi di riferimento: ruolo matricolare di Attilio Pessina conservato presso
l’Archivio di Stato di Bergamo.
La guerra non è mai soltanto quella delle grandi azioni eroiche, dei
combattimenti aerei o dei bombardamenti. E, con riferimento alla Prima
guerra Mondiale, lo scontro bellico non è stato soltanto il logorante confronto
tra eserciti disposti lungo chilometriche linee di trincea poste l’una di fronte
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all’altra. Dietro i reparti avanzati, nelle improvvisate caserme e negli
estemporanei accampamenti, si nasconde infatti la guerra di quei numerosi
soldati che si adoperano alacremente in lavori manuali a sostegno
dell’industriosa macchina bellica. Spesso costretti a condizioni di lavoro
precarie, soprattutto dal punto di vista delle misure di sicurezza adottate,
questi soldati-artigiani hanno l’occasione di trasporre nel contesto della
guerra le professioni in cui più sono abili, ma nello stesso tempo sono esposti
al rischio di gravi infortuni. Le mutilazioni di guerra, insomma, non sono
state prodotte sempre dalle granate o dai proiettili, ma talvolta anche da
comunissimi strumenti di lavoro.
Questa storia è la storia del falegname bergamasco Attilio Pessina. Dichiarato
soldato di seconda categoria in congedo illimitato nel gennaio del 1917, il
diciannovenne Pessina viene richiamato alle armi il mese successivo.
Assegnato al deposito del 2° Reggimento Artiglieri da montagna, viene
trattenuto alle armi anche nell’agosto del 1917 per ragioni di mobilitazione.
Ed è il 17 di questo stesso mese, mentre prosegue il suo vecchio mestiere di
falegname presso la caserma di Vicenza, che qualcosa va storto: la lama
piallatrice sfugge per un attimo alle mani sapienti del Pessina e gli provoca
profonde ferite da taglio. Il risultato è l’asportazione della terza falange del
medio e dell’anulare della mano sinistra. Altresì riporta ulteriori ferite
all’indice e al medio della stessa mano. Una mutilazione che ne limiterà per
sempre l’elasticità manuale e dunque l’attività di falegname. L’esercito gli
concede l’autorizzazione a fregiarsi di un distintivo d’onore per ferita
riportata in guerra, oltre che della medaglia a ricordo dell’Unità d’Italia e
della medaglia interrelata della vittoria.
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Storia di Giuseppe Carlo Bonomelli
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Giuseppe Carlo Bonomelli
Data di nascita:
19 marzo 1898
Luogo di nascita:
Bolgare
Luogo di residenza:
Professione:
Bolgare
contadino
Statura:
1,66
Capelli:
castani
Occhi:
castani
Fondi di riferimento: ruolo matricolare di Giuseppe Carlo Bonomelli
conservato presso l’Archivio di Stato di Bergamo.
Diversamente da quanto riportato da una storia ufficiale volta a consacrare
apologeticamente il fronte come lo scenario su cui si sono misurate per la
prima volta l’unità e la maturità di una giovane nazione, l’Italia viveva la
Grande Guerra in preda all’impreparazione militare del suo esercito e
dovendo sforzarsi di costruire una comunità di soldati devoti al culto della
patria e del Re. Questi stessi soldati, tuttavia, erano in molti casi operai e
contadini capaci magari di esprimersi soltanto nel loro dialetto. Di fatto, la
Prima guerra Mondiale è stata la tragedia di generazioni di giovani analfabeti
ignari dei fragili equilibri della diplomazia internazionale e dei radicali
cambiamenti che il conflitto avrebbe portato nella storia del Paese e
dell’umanità tutta. Di qui l’alto tasso di renitenza alla leva, di diserzione o
addirittura, nei casi più estremi, di autolesionismo. Insubordinazioni di
questo genere costavano care a chi se ne rendeva protagonista: processi
sommari, condanne al carcere militare o persino esecuzioni erano quasi
all’ordine del giorno tra le file dell’esercito tricolore. Per non incappare in
queste feroci pratiche repressive, numerosi soldati accusati di diserzione
rientravano poi nei ranghi dei rispettivi reggimenti, sacrificandosi per la
patria e scampando le galere o persino punizioni peggiori.
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È questo il caso del bergamasco Giuseppe Carlo Bonomelli, un uomo comune
che come tanti altri ha attraversato con la sua storia quegli anni di povertà,
paura e morte. Nato nel 1898 nel Comune di Bolgare, il Bonomelli fa parte
dell’ultima generazione di giovani inviati in trincea. Figlio di contadini e
analfabeta, è soldato di terza categoria dotato di congedo illimitato nel
gennaio del 1917. Pochi mesi dopo, a marzo, viene però richiamato alle armi
e aggregato al 5° Reggimento Alpini di Edolo, in provincia di Brescia. Subito
raggiunge la zona di guerra e nel luglio dello stesso anno viene trasferito
presso il reparto mitraglieri FIAT del suo Reggimento. L’assenza
ingiustificata da questo stesso reparto tra il 21 luglio e il 26 luglio 1917 gli
vale l’accusa di diserzione. Un mese dopo, il 27 agosto, viene condannato a 2
anni e 2 mesi di reclusione e al pagamento delle spese processuali. Tuttavia,
la sua carriera di militare non si chiude qui. Continua a prestare servizio tra i
mitraglieri fino al 4 gennaio 1919, quando a guerra ormai conclusa viene
spostato nell’8° Reggimento Artiglieria. Il congedo illimitato arriva soltanto a
ridosso del 1920. L’anno successivo, ottenuto l’attestato di fedeltà e onore
alla patria, viene amnistiato dal reato di diserzione e può finalmente tornare
alla sua professione di contadino.
Storia di Carlo Locatelli
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Carlo Locatelli
Data di nascita:
25 dicembre 1893
Luogo di nascita:
Bergamo
Luogo di residenza:
Bergamo
Professione:
ragioniere
Statura:
Capelli:
Occhi:
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Fondi di riferimento: circolare compilata dalla famiglia e raccolta dalla
Commissione Onoranze ai Caduti in Guerra, ora conservata presso l’archivio
omonimo della biblioteca civica “Angelo Mai”. Alla circolare è accluso un
documento dattiloscritto, probabilmente redatto dalla famiglia stessa del
soldato, da cui sono state tratte le informazioni che seguono.
Carlo Locatelli nasce a Bergamo il 25 dicembre 1893. Amante della montagna
e delle sue bellezze naturalistiche, nonché abile sciatore, si diploma
ragioniere e trova impiego in un istituto bancario. Non appena viene a
conoscenza della dichiarazione di guerra dell’Italia, decide di arruolarsi come
volontario tra gli Alpini. Raggiunto il grado di Sottotenente di complemento,
viene assegnato alla 310ma Compagnia del Battaglione Cavento presso il 5°
Reggimento. Già nel 1915 si avventura dunque sulle Alpi Retiche Meridionali,
affrontando le asperità dell’Adamello e, soprattutto, dell’Ortler. È in questi
frangenti che la sua grande conoscenza dell’ambiente di montagna e dei suoi
segreti si fa preziosa. Sull’Ortler prende parte a numerose operazioni di
guerra, talvolta guidandole e spingendosi in territorio nemico alla testa di un
gruppo di sciatori al fine di effettuare ricognizioni o distruggere piccoli
avamposti. Particolarmente apprezzato per le sue doti tattiche, per la sua
indole serafica e per la capacità di animare i compagni con parole di acceso
carattere patriottico, spesso occupa le vette più alte conquistate dal nemico
per poi organizzarne la difesa. La sua profonda conoscenza della montagna
gli permette di sfuggire alle insidie delle valanghe e di assumere un ruolo
fondamentale nel preservare l’incolumità dei commilitoni. Nell’autunno del
1917 è impegnato nella ritirata di Caporetto, prima sul Tagliamento e il
Livenza, infine sul Piave. Successivamente opera come istruttore sciatore e
nella primavera del 1918 può finalmente tornare sul Passo del Tonale, la
montagna che lo vide ragazzo, sul cui versante destro partecipa alle azioni
dell’esercito. Il 26 maggio 1918, durante una di queste azioni, cade sotto i
colpi di una mitragliatrice e perde la vita.
Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti da Carlo Locatelli – encomi,
promozione per merito di guerra, croce di guerra italiana, medaglia d’argento
40
inglese al valore sul campo di battaglia – spicca la medaglia d’argento al
valore militare, assegnata con la seguente motivazione:
Locatelli Carlo, da Bergamo, sottotenente complemento 5, reggimento alpini. – Benchè [sic!]
fatto segno al fuoco micidiale delle mitragliatrici nemiche, sprezzante di ogni pericolo ed alla
testa del proprio plotone, attaccava risolutamente la posizione avversaria, dando esempio di
spirito di sacrificio e di valore, finché cadeva mortalmente colpito, incitando ancora i suoi
uomini all’assalto. – Valle di Presena, 26 maggio 1918.
Il suo corpo fu sepolto presso il cimitero di Ponte di Legno, con una lapida
commemorativa che recita la seguente epigrafe:
S.Tenente Carlo Locatelli
5° Alpini Batt. Cavento
Comp. 310
Su la cima Presena
Cadeva combattendo da eroe
Nell’azione del 26 maggio 1918
R.I.P.
Storia di Mario Bertuzzi
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Mario Bertuzzi
Data di nascita:
23 febbraio 1897
Luogo di nascita:
Bergamo
Luogo di residenza:
Bergamo
Professione:
studente
Statura:
Capelli:
Occhi:
41
Fondi di riferimento: circolare compilata dalla famiglia e raccolta dalla
Commissione Onoranze ai Caduti in Guerra, ora conservata presso l’archivio
omonimo della biblioteca civica “Angelo Mai”. Alla circolare è accluso un
documento dattiloscritto tratto dall’Album a ricordo degli Studenti
Bergamaschi morti per la patria – 1915-1918 (p. 189).
Studente presso l’Accademia “Carrara” delle belle arti di Bergamo, si arruola
volontario allo scoppiare della guerra, stupendo quanti nella sua aria
annoiata avevano sempre intravisto un’indole poco propensa all’azione.
Assegnato dapprima al gruppi di volontari del 5° Reggimento Alpini,
Battaglione Cuneo, viene successivamente trasferito al reparto “Arditi”.
Raggiunta l’età di leva, si incorpora al 2° e poi al 1° Reggimento Alpini.
Trascorre la maggior parte del tempo di guerra in zone estremamente
pericolose e adoperandosi in compiti operativi. Sul Passo del Tonale rischia la
vita a più riprese e non solo a causa del fuoco nemico: sono le intemperie e le
valanghe a minacciarne l’incolumità, senza però intaccarne la salute. Mentre
la tormenta imperversa, Bertuzzi ripercorre la sua vita passata, pensa
nostalgicamente alla sua Bergamo e ai suoi compagni di scuola. Così, nelle
rare ore d’ozio, sfoga il suo talento artistico abbozzando su cartoline postali i
profili caricaturali del nemico e li invia ad amici e conoscenti. Le sue lettere
lasciano trasparire una ingenua inconsapevolezza o, più probabilmente, il
tentativo di allontanare da casa le preoccupazioni della guerra. Il fuoco delle
mitragliatrici, di fatto, fa soltanto da sfondo a episodi briosi o persino a
spensierate novelle da cui trapela il cameratismo tra soldati. In uno dei suoi
scritti, tuttavia, emerge anche un triste ricordo che – con il senno di poi –
assume il nefasto valore di un presagio: evocando la scomparsa di una
compagna di scuola, Bertuzzi si lascia andare a parole di sconforto. La morte
lo coglie di lì a poco nell’infuriare della battaglia, quando – a pochi giorni
dall’armistizio – cade dopo essere stato raggiunto in fronte da un proiettile. È
la notte tra il 30 e il 31 ottobre 1918, sullo Stelvio. Il suo Tenente di Battaglia
e il Reverendo Cappellano del suo Battaglione scrivono «essere egli stato
colpito a morte in un’ardita azione». L’unico resoconto che rimane sulla triste
circostanza sono le parole di un suo compagno di allora:
42
Morì da eroe: lo raccolsi cadavere; aveva il fucile insanguinato fino all’alzo. Lo proposi per la
medaglia d’argento, piccola ricompensa pel suo grande valore, pel suo ultimo e grande dono.
Decorato con croce al merito di guerra con diploma datato 1 novembre 1918
dal Comando del 3° Corpo d’Armata, viene proposto per una medaglia
d’argento al valore militare che non è però mai giunta.
Storia di Angelo Luciano Pizzini
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Angelo Luciano Pizzini
Data di nascita:
19 luglio 1895
Luogo di nascita:
Brembate Sopra
Luogo di residenza:
Bergamo
Professione:
studente in Legge
Statura:
Capelli:
Occhi:
Fondi di riferimento: circolare compilata dalla famiglia e raccolta dalla
Commissione Onoranze ai Caduti in Guerra, ora conservata presso l’archivio
omonimo della biblioteca civica “Angelo Mai”.
Studente presso la Regia Università di Torino, Angelo Luciano Pizzini si
arruola alla scuola militare di Modena, dove frequenta il corso per allievi
ufficiali. Non appena consegue il titolo di Sottotenente di Fanteria, viene
assegnato al 60° Reggimento Fucilieri ed è subito impegnato sul fronte
dolomitico. Il più importante fatto d’armi in cui è coinvolto è senza dubbio la
presa del Montucolo austriaco: si distingue in questa occasione per coraggio
e abilità militari. Lanciatosi nella trincea minata dal nemico, disinnesca la
miccia che l’avrebbe fatta esplodere, guidando così i compagni in questa
43
difficile operazione. Pizzini subisce prepotentemente il fascino della guerra
aerea, innamorandosi dei velivoli e diventando presto pilota di apparecchi
Farman e Caproni. In poco tempo acquisisce competenze tali da meritare la
nomina di istruttore presso il Campo dell’Aviazione di Malpensa, dove è
stimato anche per le sue qualità di uomo dolce e cordiale. Nel giugno del
1918, durante l’offensiva dell’esercito italiano sul Piave, Pizzini partecipa con
il suo Caproni a ben diciotto bombardamenti aerei e riceve una croce di
guerra come riconoscimento per le sue doti. Ma il 16 agosto 1918, mentre
aleggia nel cielo di Conegliano per recare la posta ai soldati d’oltre Piave, il
suo aereo viene colpito e abbattuto da una granata nemica. Pizzini perde la
vita e – come da comunicazione degli stessi suoi nemici – viene sepolto con
gli onori militari nel cimitero di S. Lucia di Piave. Tra le numerose
manifestazioni di cordoglio ricevute dalla famiglia del caduto, c’è anche
quella dell’Onorevole Chiesa, commendatore generale per l’Aeronautica
Militare. Nella lettera indirizzata al padre del Pizzini, Chiesa scrive:
Nell’altissima forsa [corretto a mano: forza] dell’animo suo le sia di conforto l’ammirazione
pel caduto glorioso il cui nome sarà esempio e sprone alle maggiori fortune dell’aviazione
italiana: onore a lui.
Storia di Eugenio Bruni
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Eugenio Bruni
Data di nascita:
8 febbraio 1890
Luogo di nascita:
Milazzo (CZ)
Luogo di residenza:
Bergamo
Professione:
ragioniere
Statura:
Capelli:
Occhi:
44
Fondi di riferimento: circolare compilata dalla famiglia e raccolta dalla
Commissione Onoranze ai Caduti in Guerra, ora conservata presso l’archivio
omonimo della biblioteca civica “Angelo Mai”.
Calabrese, Eugenio Bruni si trasferisce a Bergamo in giovane età e cerca di
concretizzare il desiderio di percorrere la carriera militare. Studia con
assiduità per ottenere la nomina di Sottotenente di Complemento, carica che
gli viene conferita dalla Scuola di Milano. Quando la sua classe – 1890 – viene
congedata dal servizio militare, si iscrive e si diploma presso l’Istituto
Tecnico di Bergamo, acquisendo il titolo di ragioniere. La sua passione per la
carriera militare non viene però meno: frequenta la Scuola Militare di Parma
e consegue il grado di Sottotenente Effettivo. Alla dichiarazione di guerra
dell’Italia all’Austria, Bruni raggiunge i primi nuclei di frontiera con il suo
battaglione di fanteria (78° Reggimento). Le sue doti militari e morali ne
fanno un ufficiale esemplare: scrupoloso osservatore delle discipline militari,
mantiene la calma anche nel corso delle operazioni più rischiose,
distinguendosi altresì per le sue spiccate capacità di consigliere ed educatore.
Trasferito al 226° Reggimento Fanteria, è protagonista dell’offensiva italiana
sul Piave nel maggio del 1917, ma dopo quattro giorni di assalti senza tregua
perde la vita, così come era accaduto poco prima al fratello Luigi, suo
compagno di colonna. La sua figura di uomo e di soldato appare evidente
nelle parole che motivano l’assegnazione della medaglia d’argento in suo
onore:
Sempre primo nei cimenti più ardui guidava la Sua compagnia alla conquista di forti trincee
nemiche costantemente animato da sacro entusiasmo, dopo quattro giorni di lotta, riuniti i
superstiti del Battaglione, cooperava efficacemente al mantenimento delle posizioni
occupate – Hander [?] 23-25 maggio 1917 – aveva già perduto un fratello (Nicola) nell’
[illeggibile] maggio 1916 sul Trentino.
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Storia di Giovanni Mariani
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Eugenio Bruni
Data di nascita:
1 giugno 1892
Luogo di nascita:
Bergamo
Luogo di residenza:
Bergamo
Professione:
ragioniere
Statura:
Capelli:
Occhi:
Fondi di riferimento: circolare compilata dalla famiglia e raccolta dalla
Commissione Onoranze ai Caduti in Guerra, ora conservata presso l’archivio
omonimo della biblioteca civica “Angelo Mai”.
Conseguita la licenza di ragioniere, Giovanni Mariani si iscrive al terzo corso
presso la Regia Scuola Superiore di Agraria di Milano. Allievo altresì del
primo corso Uffici della Scuola militare di Modena, acquisisce il grado di
Sottotenente e viene assegnato al 58° Reggimento Fanteria di Padova. Parte
per la guerra con la celebre Brigata Emilia, costituita dal 119° e dal 120°
Battaglione, ed è impegnato sul Monte Mrzli. Si tratta di un’asperità che
svetta lungo la valle dell’Isonzo, tra la Bainsizza e Caporetto, appena oltre
l’attuale frontiera tra Italia e Slovenia. Lì il Mariani svolge i suoi primi delicati
servizi di pattuglia. Dopo nove mesi dalla nomina di Sottotenente viene già
insignito del ruolo di Tenente Comandante di Compagnia. Successivamente,
si sposta a Gorizia, dove rimpolpa le file della difesa italiana ed è protagonista
della battaglia sul Monte San Marco e sulla contesa quota 126. Nel maggio del
1917 fa parte dell’offensiva che consente all’esercito tricolore di conquistare
il Monte Santo e il Monte Cucco. Con grande orgoglio personale, è in questa
occasione alfiere del suo Reggimento. Il 14 luglio 1917, ancora sulla quota
126 di Gorizia, respinge con la sua compagnia un assalto nemico rievocato
anche nelle pagine del Bollettino del Comando Supremo. In questa
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circostanza è l’unico ufficiale impegnato in battaglia e si guadagna così una
medaglia d’argento al valore militare con la motivazione che segue:
Comandante di un’importante posizione, dava energiche ed opportune disposizioni per
respingere un attacco nemico e rimaneva si un posto avanzato più minacciato finché il
tentativo avversario fu infranto.
La brillante azione gli vale anche una licenza premio, ultima visita alla
famiglia rievocata nelle sue ultime lettere. Modello di disciplina, la sua
Compagnia viene chiamata il 29 agosto 1917 ad appoggiare un assalto del
119° Battaglione Fanteria. È in questa circostanza che Mariani viene proposto
una volta ancora per la medaglia d’argento al valore militare, ma una
pallottola di mitragliatrice lo colpisce all’addome. L’8 settembre, dopo dieci
lunghi giorni di agonia, perde la vita a bordo dell’ambulanza chirurgica n°2.
Storia di Santo Bani
Nome e cognome:
Santo Bani
Data di nascita:
5 maggio 1894
Luogo di nascita:
Calcinate
Luogo di residenza:
Calcinate
Professione:
Contadino
Statura:
1,57
Capelli:
castani
Occhi:
castani
Fondi di riferimento: Ruoli matricolari e foglio matricolare conservati
presso l’Archivio di Stato di Bergamo
Chiamato alle armi nel settembre del 1914, Santo Bani venne arruolato
nell’83° Reggimento Fanteria il 22 maggio del 1915.
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Un anno più tardi venne nominato caporale del medesimo reggimento e
quindi, nel gennaio del 1917, venne trasferito nel 237° Reggimento Fanteria
di Pistoia. Durante un combattimento avvenuto il 25 agosto del 1917 venne
ferito al gomito sinistro tanto seriamente da dover essere trasferito
all’ospedale militare di Caserta il 3 settembre successivo.
Rimase in convalescenza presso il deposito del 22° Reggimento Fanteria fino
al 17 ottobre, quando ottenne una licenza straordinaria di 30 giorni per
ulteriore convalescenza. Rientrerà presso il corpo militare alla fine dell’anno,
ma dovrà essere nuovamente mandato il licenza straordinaria con assegni in
attesa dell’espletamento degli atti medico legali compiuta per lesione
dipendente da causa di servizio. Verrà riconosciuto permanentemente inabile
al servizio militare e inviato in congedo assoluto il 16 settembre del 1918.
Storia di Pietro Fornoni
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Pietro Fornoni
Data di nascita:
27 novembre 1880
Luogo di nascita:
Bergamo
Luogo di residenza:
Bergamo
Professione:
xxx
Statura:
xxx
Capelli:
xxx
Occhi:
xxx
Fondi di riferimento: lettere conservate presso il Museo Storico
bergamasco.
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Nel giugno del 1915, Pietro Fornoni scriveva a Tiraboschi una pagina molto
intensa, con la quale riassiumeva i suoi primi giorni di vita al fronte e
descriveva in maniera molto articolata le azioni in cui si trovò coinvolto il suo
battaglione.
Il giorno 11 corrente si passò una notte d’agitazione e la notte verso la 1 ½ fu dato l’alarmi e
tutti in piedi alla svelta ci portammo al nostro posto, il 68 regg. Alle trincee, l’artiglieria fu
piazzata, e noi soldati terribili fummo schierati sullo stradale per Edolo. Dico che il nemico
aveva tentato di passare il passo di Monticelli; ma non vi riusci perché il proiettore che sta al
forte d’Aola ha visto le mosse e i soldati che lo […] hanno avvistato il comandante del forte
diede subito ordine di far fuoco e da quelle boche non ebbero un momento riposo per
parecchie ore usciva un fuoco terribile che mise un po’ di spavento a tutti; ma che fece il suo
effetto sui nemici i quali ci lasciarono quieti fino al giorno 26. Verso le 9 ½ del detto giorno
ha cominciato a cadere gli snhapel degli austriaci. Ben abbiamo fatto. Ne son caduti 23; ma
solo 6 raggiunsero la meta, cioe uno a 500 metri ancora lontano dove miravano. Pareva la
danza del diavolo. Questa e opera degli spioni che qui ne è piena l’aria tutti i momenti ne
arrestano. Il nemico mirava a distruggere una batteria di grosso calibro arrivata la notte
prima ma come dissi non arrivavano. Visto che non potevano distruggerli o perché i cannoni
non avevano la portata sufficiente o perché gli artiglieri valgano poco, fatto siè che tacquero
e più non si sentirono. Però appena terminato il fuoco nemico cominciò il nostro forte d’Aola
e laltra batteria posta sulla cima Bleis orientale a battere il forte nemico detto di Stino e il
passo di Monticelli. Non vi vollero 23 colpi per battere il nemico! I nostri artiglieri puntatori
sono precisi e con 7 colpi, 6 dei quali smantellarono il forte e proprio l’ultimo colpo fu così
preciso che cadde sul forte colpendo nel cuore (cioe la polveriera) almeno del grand fumo e
materiale che visto saltare in aria.
A questa descrizione Fornoni faceva seguire quella della sua giornata tipo:
La mia vita Militare e fin troppo quieta sarebbe proprio un peccato a lamentarsi però, però
meglio a casa a lavorare. Il mio lavoro ora che sono alla Sanita del 59 battaglione M.T. ( o
Terribile) consiste nel somministrare i medicinali ai malati o portarli all’infermeria colla
barella e niente più. Alla mattina alle 4 ½ mi alzo e subito alla S. Messa (che persi 2 volte
perché non ci fu) e poi vado a prendere il caffè all’albergo della compagnia (dietro a una
stalla) e alle 7 comincia la visita medica dove alle volte si rida anche un po’ e poi si va ai
distaccamenti delle nostre compagnie a visitare gli ammalati che funge da dottore il caporale
Sign. Pietro Carminati della farmacia Pandini. Quanto e buono con noi! Mentre le altre
compagnie lavorano a preporre le strade per passare le artiglierie, trincee, reticolati,
baracche, e montano le guardie; noi però lavoriamo a disinfettare le ferite che si producono e
a bendarle e anche a mandar giù ai poveri ammalati il saporitissimo Oglio di ricino.
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Nelle sue lunghe e dettagliate lettere emergevano la sua fiducia nel successo
dell’Italia e tutto il suo patriottismo, quel motore che motivava ogni suo
sforzo e rendeva tollerabile ogni sofferenza. Per esempio, dopo avere
descritto i momenti difficili vissuti a causa del freddo e del cattivo tempo che
in montagna attanagliavano i soldati anche in estate, Fornoni aggiungeva con
fierezza:
Ma l’Amor di Patria ci fa dimenticare tutto e si sopporta volentieri; e cosi potremo dire; la
patria ci ha chiamati e noi figli d’Italia forte e bella abbiamo cooperato anche a renderla
grande.
Nei mesi successivi continuò numerose lettere al Tiraboschi e, con alcune di
queste, chiedeva che gli venissero inviati gli oggetti di cui aveva bisogno.
Essendo un uomo molto religioso disponeva di un vademecum del cristiano
che, stando ad una lettera del settembre 1915, riscosse un certo successo tra i
suoi commilitoni:
Alcuni ufficiali e sottoufficiali hanno visto il mio vade Mecum del cristiano e tutti lo vogliono
leggere e ne tessono le lodi per le belle preghiere. Tutti lo vogliono, ed io come faccio per
accontentarli? Ed ecco che io faccio lo sfacciato a chiedere a lei anche soltanto un poco di
libretti Vade Mecum per accontentarli. Farà un gran bene e Dio glielo restituirà.
La corrispondenza si mantenne fitta per tutto il 1915, quando Fornoni spedì
gli auguri a Tiraboschi, sottolineando quanto dispiacere provasse nel non
potere essere a casa con la famiglia:
Speravo per le S. Feste di Natale di essere a casa a festeggiarle in seno alla mia famiglia ed in
mezzo ai cari compagni, invece a causa di certe vaccinazioni che dovremo subire non ci è
concesso. Pazienza e rassegnazione, cercherò il modo di poterle festeggiare il più bene
possibile qui in mezzo ai miei compagni d’armi. Non potendo di presenza augurarle le buone
feste ed il buon fine con un miglior principio a mezzo di questa cartolina con tutto il cuore le
auguro a Lei e alle Signorine e a tutti i compagni le buone feste.
A partire dal 1916, però, Fornoni ridusse progressivamente le sue lettere. Era
sempre più chiaro che la guerra sarebbe durata a lungo e la vita al fronte
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acquisiva per lui i caratteri di una strana normalità, facendo venire meno in
lui il bisogno di raccontare. Le lettere dettagliate dei primi tempi vennero
così sostituite da semplici saluti e auguri, accompagnati da qualche eventuale
comunicazione importante. Fornoni rimase al fronte per tutti e quattro gli
anni in cui durò la guerra, riuscendo a ottenere il grado di Caporale di Sanità
del 59° Battaglione della Prima Compagnia di Sanità.
Storia di vita di Elia Bertulessi
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Elia Quarto Giacomo Giovanni Bertulessi
Data di nascita:
20 novembre 1889
Luogo di nascita:
Bergamo
Luogo di residenza:
Bergamo
Professione:
commesso
Statura:
1,67
Capelli:
castani
Occhi:
castani
Fondi di riferimento: scambio epistolare conservato nel Fondo Marco
Tiraboschi del Museo Storico di Bergamo; ruoli matricolari e fogli matricolari
conservati presso l’Archivio di Stato.
Il 25 agosto del 1916 il soldato Bertulessi scriveva a Mario Tiraboschi:
Dopo diverse tappe sono accampato su una bella collina in un paesotto vicino alla grande
città ora presa in aspettativa di andare in trincea. Godo una magnifica salute il morale e
alto… lo spettacolo del grande movimento è indescrivibile.
La modernità industriale irrompeva insomma nella sua vita in un modo così
sconvolgente da trovarlo privo delle parole necessarie per descrivere quanto
accadeva intorno a lui. Il via vai dei camion, delle auto, dei plotoni che
51
contavano centinaia di soldati lasciavano il Bertulessi a bocca aperta,
dandogli la sensazione di assistere ad uno spettacolo, a qualcosa che avesse a
che fare con l’esibizione, l’intrattenimento e la fantasia, più che con la realtà.
Giunto al fronte da poche settimane, nel settembre del 1916 aveva visto
ancora poco e, certamente, non conosceva ancora la guerra nella sua
dimensione più drammatica. Anche per questo scriveva con toni pieni di una
speranza quasi euforica, cercando di tenere alta il morale a se stesso e al suo
intelocutore:
L’erba cattiva non muore mai ed io pure sono di quella specie. Dopo passato e poter tornare
alla mia occupazione con lena e volonta maggiore di prima per compiere il mio dovere
Con questa lettera al Tiraboschi, che era suo datore di lavoro, voleva certo
riconfermare la sua appartenenza a un mondo del quale asseriva con forza di
volere tornare a far parte, con più impegno e dedizione di prima.
Pochi giorni più tardi, però, Bertulessi si ferì accidentalmente. Inizialmente
chiese a due commilitoni di avvisare proprio il Tiraboschi, invitandolo però a
non comunicare nulla alla famiglia, per evitare inutili preoccupazioni. Fino a
quando,
pochi
giorni
più
tardi,
fu
nelle
condizioni
di
scrivere
autonomamente:
non so se la lettera del mio compagno Gattoni che per mio incarico gli dava notizia della disgrazia toccatemi le sia pervenuta, ad ogni modo gli dò con questa maggiori particolari. Tutto
contento, dopo aver camminato tutta la notte in cerca del sospirato riposo, giuntovi
impiantai la tenda in quel terreno disegnato cioè vicino a un cimitero e mentre l’ultimavo un
compagno mio legava i fucili al palo di sostegno, disgraziatamente da uno di questi fucili
carichi, non messo in posizione di sicurezza partì un colpo ed io fui ferito alla mano sinistra.
Sulle prime non me ne fui nemmeno accorto non accusai nessun dolore, poi vedendo colare
copioso il sangue, a salti mi recai in cerca del posto di medicazione dal quale fui spedito per
la Via Crucis degli ospitali, che sin ora ne passai già 9. Sono a Udine in un magnifico ospitale,
trattamento buonissimo, bei lettini, ora per tanto mi appaiono belli i letti. La mia ferita credo
non sia grave la mia preucupazione è che precipiti troppo la guarigione o appena terminato
la medicazione e avuto la seconda inezione, e come mi hanno detto sono segnato per la
partenza.
52
Per qualche tempo continuarono i trasferimenti da un ospedale all’altro,
lungo un percorso che le lettere spedite al suo datore di lavoro consentono di
ricostruire. Nel mese di ottobre Bertulessi si trovava ricoverato all’ospedale
di Tortona, in attesa di un esame batteriologico. La ferita sembrava guarire
bene e i ricoveri parevano avere la sola funzione di prevenire eventuali
infezioni e cancrene.
Tuttavia, secondo quanto il Bertulessi annunciava, avrebbe potuto durare
ancora qualche settimana, costringendolo a trascorrere altro tempo in
ospedale, in quella che continuava a definire la sua personale “via Crucis” tra
un istituto e un altro. In cuor suo, però, contava sul fatto che questi continui
trasferimenti potessero consentirgli a un certo punto di essere riavvicinato
alla sua città natale, consentendogli di vedere la famiglia.
Nella lettera datata 5 gennaio 1917, Bertulessi dichiarava infine di essere
effettivamente guarito e, con un tono molto vivace, aggiornava Tiraboschi
circa il suo ultimo trasferimento. In attesa che la sua mano si ristabilisse del
tutto era stato assegnato alla Caserma Caprara di Bologna, dove lavorava
come facchino:
La mattina entro alle 7 e sorto alle 5 lavorando tutto il giorno. Ciò mi importa poco, in cambio
ho fatto la quasi certezza di non tornare più lassù. Verso la metà di Gennaio probabilmente
ritornerò a casa ancora in licenza sarà questa licenza invernale, e sarà di 12 giorni, e se Ella
me lo permetterà verrò volentieri a negozio.
Tuttavia, la sua speranza di non essere più rispedito al fronte venne disattesa
e, nel mese di maggio, venne nuovamente spedito in zona dichiarata in stato
di guerra da dove Bertulessi scrisse al Tiraboschi una delle sue lettere più
intense e commoventi:
il cannone mi scuote e il continuo miagolare per ogni direzione dogni calibro il ronzio dei
velivoli il movimento febbrile dogni trasporto e dogni cosa mi sveglia e mi accorgo che fu
appena una piccola nostalgia. Se sapesse Sig. Marco quanto il suo paterno interessamento
verso me mi lega a Lei con un vincolo di riconoscenza e anche solo il momento che terminato
l’orrendo castigo ritornare vicino a Lei e prodigare con tutte le mie povere forze materiali
restate ma con tutte le morali intatte e lavorare per a grande Idea. Passai dei giorni terribili
sotto un bombardamento dei più terribili, patii la sete la fame sofferenze morali materiali
53
indescrivibili e lassù sul Santo fu solo grazia di Dio che non restai con tanti miei compagni
scene che fui testimone che racconterò anche di qui 50 anni.
Il Bertulessi affrontava le difficoltà con grande coraggio, con pazienza e con
molta fede cristiana. Nelle sue lettere, infatti, riconduceva spesso alla grazia e
alla protezione divina la sua buona salute e la fiducia negli esiti positivi che
era convinto avrebbe avuto la guerra per lui. Alla Madonna affidava le sue
sofferenze e in lei cercava la forza di sopportare con la rassegnazione, che lui
considerava santa, la tragedia in cui si sentiva immerso. Anche per questo il
Tiraboschi manteneva viva la corrispondenza e chiedeva che gli venissero
spediti piccoli doni, i quali potevano contribuire a rafforzarlo, grazie alla
convinzione di essere dentro una disegno provvidenziale. Per esempio, come
risulta dai ringraziamenti che Bertulessi metteva in coda alle sue lettere, il
Tiraboschi gli inviò talvolta il bollettino parrocchiale, così da consentirgli di
informarsi su quel che accadeva in città, sognando di essere lì, al sicuro, a
casa propria. La speranza e la fede non offuscavano tuttavia la sua capacità di
riconoscere la portata della tragedia in corso, così come non creavano in lui
illusioni rispetto al futuro, tanto che ancora nell’agosto del diciotto scriveva:
dal canto mio sempre sto bene anche se anelo quel giorno di ritornare tra i miei cari tra le
persone care, ma temo sarà ancora lontano.
Storia di Mansueto Mora
Nome e cognome:
Mansueto Mora
Data di nascita:
24 ottobre 1894
Luogo di nascita:
Schilpario
Luogo di residenza:
Schilpario
Professione:
Muratore
Statura:
1,61
Capelli:
castani
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Occhi:
castani
Fondi di riferimento: Ruoli matricolari e foglio matricolare conservati
presso l’Archivio di Stato di Bergamo.
Mansueto Mora venne arruolato dal distretto di Bergamo come soldato di
leva di prima categoria il 6 maggio del 1914. Come molti altri soldati, in
seguito venne rinviato in congedo illimitato provvisorio, in attesa del
congedamento del fratello Giovanni, classe 1892, anche lui arruolabile presso
il distretto di Bergamo.
Otto giorni più tardi Mora dovette presentarsi presso il distretto militare dal
quale dove si decise che sarebbe stato inviato in territorio dichiarato in stato
di guerra il 14 giugno del 1915, arruolato nel Battaglione Edolo, 5°
Reggimento Alpini.
Nei mesi successivi svolse regolarmente la sua funzione di soldato,
sopravvivendo alle battaglie e ai rigori che la guerra costringeva ad
affrontare, fino a quando,iIl 30 aprile del 1916, risultò disperso dopo la
battaglia di Passo Forgorida.
Riuscì a sopravvivere e ad uscire indenne anche da questa esperienza, tanto
che poche settimane più tardi rientrò. A quel punto, avendo dimostrato di
avere capacità di resistenza, buona salute e tenuta psicologica di fronte alle
avversità, si decise che potesse assumersi un ruolo di responsabilità e venne
nominato caporale e caporal maggiore.
Nell’aprile del 1918 risultava nuovamente prigioniero di guerra, incarcerato
in Austria. Rimase in quella condizione fino alla fine del conflitto ed ebbe la
possibilità di rientrare nel Regno d’Italia il 20 dicembre del 1919. Si presentò
a quel punto al suo distretto e, due giorni dopo, venne mandato in congedo
illimitato. L’esperienza bellica lasciò in Mora un segno profondo, favorendo la
sua politicizzazione a sostegno del fascismo che, nell’immediato dopoguerra
costruiva il proprio consenso facendo riferimento ai reduci della prima
guerra, cavalcando le loro insoddisfazioni, i loro rancori e la loro delusione.
Tanto che Mora, nel 1926 si arruolò nella 14° legione della Milizia Volontaria
per la Sicurezza Nazionale, anche in forza del certificato di buona condotta
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rilasciato dal sindaco del suo paese, il quale garantiva che il Mora “tenne
sempre buona condotta non avendo mai commesse per quanto consta, azioni
passibili colle leggi penali, correzionali e disciplinari non è rissoso, né dedito
al vino ed all’ozio e perciò non gli è scemata quella stima e considerazione di
cui meritatamente sempre godette fra i suoi conterranei”.
Storia di Marco Saverio (Severino) Rota
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Marco Saverio (Severino) Rota
Data di nascita:
29 giugno 1889
Luogo di nascita:
Bergamo
Luogo di residenza:
Bergamo (Fontana)
Professione:
contadino
Statura:
1,61
Capelli:
neri
Occhi:
castani
Fondi di riferimento: scambio epistolare conservato nel Fondo Marco
Tiraboschi del Museo Storico di Bergamo; ruoli matricolari e fogli matricolari
conservati presso l’Archivio di Stato.
Nelle lettere di Severino Rota al Tiraboschi, le prime settimane al fronte
scorrevano scandite da continui riferimenti all’auspiccata fine del conflitto
oppure alle preoccupazioni materiali, come quelle per il cibo o per il clima
rigido.
Non sapendo se a ricevuto la mia lettera li scrivo di nuovo e col darli i miei ringrasiamenti di
quella cioccolata che mia mandato, di qui io non ò niente di nuovo da dirli e nemmeno di
combatte finora solo che si continua a far neracamenti per l’inverno questo si vede che suol
finir presto la guerra…
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Ancora:
Lei mia detti se mi ocorre qualche cosa per il freddo si li dice la verita e che mi occorerebbe
proprio qualche cosa a me mi sara molto gradevole mi occorerebbe proprio qualche cosa a
me mi sara molto gradevole mi occorerebbe paia di calze eduna mallia e una beretta per la
testa se lei crede di mandarmi qualche cosa a me mi sara molto gradevole di piu le dico che
avevo gia avertita la mia Moglie di prepararmi di riparare il freddo
Severino, inoltre, chiede continuamente informazioni sulla salute dei suoi
parenti e, in particolare, si mostra preoccupato per una malattia che aveva
colpito suo padre.
L’insofferenza nei confronti della guerra inizia però a manifestarsi molto
presto, tanto che, già nell’ottobre del 1915, a pochi mesi dal suo inizio gli pare
non finisca più:
[mi consolo] sperando in Dio di questo che faccia cessare questa trista guerra e che faccia
venire quella desiderata pace che e tanta desiderata da tutti molto di piu di noi poverii
soldati che mi tocca sofrir tanti dolori e patimenti di ogni sorte
aggiungeva nella lettera successiva
qui e gia cominciato a nevicareree fa un freddo teribile ne figuri lei dovendo rimanere qui
stinverno di che cosa ne sara di noi poveri Militari io gli dico la verita che non so piu cosa
pensare a vedere una cosa che non cia piu una fine sperando in dio avesse ancora
misericordia di noi si vede che vuole distruggere il mondo in questo senso un Fragello della
guerra non dico altro perche sono troppo dispiacente
e ancora:
o una cosa da dirgli se mi fa questo gran piacere e favore a premura un razoi e un penello da
barba ancora una volta per igeni personale perche qui ce la Cavaleria alle spalle sapra cosa e
la nostra Cavalleria i pidochi dunque mi fara questa gentilessa di farmi avere questo io
desiderio mi rivolgo a lei proprio per un bel razoi e sicuro e buono non guardare a denari che
dovera spendere sola di prendermi un buon razoi e cio che spedira sara sodisfato per messo
di mia Moglie
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I toni di Severino cambiano radicalmente a partire dal mese di novembre del
1915 quando viene coinvolto in operazioni di guerra. Per la prima volta non
mostra più solo sconforto ma anche una rabbia che lo porta ad attaccare
quelli che dal suo punto di vista sono i responsabili della guerra:
due parole della mia bella vita che passo qui Signor Padroneci vorebbe qui quei lazzaroni che
gridava viva la guerra ce li voria qua con noi a vedere coza mi tocca sofrire e patire non
sapendo per ché! E a subire tanti disaggi e Pativoli e sotto una pioggia di granate e fucilate e
sotto tutte le intemperie del mondo e un terribile freddo che continua ogni giorno a
aumentare non li dico altro perche sono troppo disperato a vedere coza mi tocca a Signor
Marco se cio ancora questa grassia di tornare a casa vora dire che ne parleremo più a lungo
di quello che mi acade! E di piu a vedere coza che non cia piu una finissione coza devo
sperare e poi niente se stessi qui in […] si aspetta che le nostre Artiglierie che bombardino le
posisione nemiche posisione cosi fortificate e quelli che ciavrea la grassia di andar su la ce
delle neve in cuantita a godere basta basta perche sapra che ce la censura seno chisa quante
ne avrei di dire.
La frequenza delle lettere spedite al Tiraboschi si riduce a partire dal 1916
quando in compenso aumenta la frequenza delle lettere polemiche:
atendo sue nuove io lio scritto anche unaltra cartolina ma si vede che sia andata persa e
questa spero che la ricevera e mi dara un suo riscontro che io lo gradisco cosi volentieri
vedendo che si ricorda ancora di un suo dipendente che e qui a fare una vita da Cane! Di
nuovo o niente di dire Solo che sono molto stanco di questa vita e di piu vedendo che non cia
più una fine mi dira qualche notissia se si parla di finirla perche qui non sisa piu niente con
questo chiudo questo mio misero…
Credendo che si ricorda ancora di me suo povero dipendente che sofre tanto il distacco da
tanti mesi che sofre gli errori della guerra e pel distacco di sua cara Famiglia e Moglie e Figli,
speriamo che abbia da finire questa immane Fragello con la vitorria Finale delle nostre armi
come i nostri compagni darmi an saputo i nostri nemici della piu cara Gorizia che i nostri
valori an saputo difenderli fino all’ora della Caduta, con sacrifici e spargimento di sangue:
dunque si spera nel seguimento di quei […] e di farla finita con vitoria nostra e le nostre
aleate che combattono con eroismo e valore e pei destini dei proppi diritti
La rabbia di Severino raggiunge il culmine alla fine del 1916, quando i suoi
toni raggiungono il massimo grado di esasperazione e di violenza, mostando
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tutta la sofferenza a cui si può giungere quando si vive quel grado di
precarietà esistenziale:
mi dovra scusare se non ho dato risposta subito ma il tempo non mi permeteva lei sapra coza
abiamo fatto in questi giorni io son sano ancora ma tanti de miei Compagni son andati alaltro
Mondo e tanti son feriti edio dovevo esser in questi anchio ma si vede che il mio destino
nonera questo questa la […] grassia adio e spero sempre in dio che mi conservi sempre cosi
anche andare avanti di questo non li posso dire altro vora dire che se ciavro la grassia di far
ritorno a casa ne palreremo piu a lungo di quello che o passato; ora siamo fermi e spero di
rimanere qui dove siamo al presente, pero sa cosa la guerra che si fa presto a voltar pagina
pero si spera sempre in bene; edio […] ancora in dio che avesse ad aver misericordia ancora
di noi poveri Militari e di far venire quella beata pace che da noi è tanto desiderata
Nel marzo del 1917 per severino la misura è colma.
La mia vita sempre la medesima ma ora la vedo andando peggiorando tutti i giorni di guerra
non pronuncio nemeno una parola altro li dico che se cascasse il mondo intiero vederia
volentieri cosi forse finirebbe anche la guerra basta cosi mi comprendera e vero?
Nonostante tutte le difficoltà, le privazioni e la rabbia, Severino sopravvive a
quatto anni di guerra. A guerra finita attende il congedo illimitato che però
tarda ad arrivare, aumentanto il suo grado di impazienza. Proprio per questo,
all’inizio del 1919, mentre è di stanza a Brescia, chiede a Tiraboschi di essere
aiutato ad accorciare i tempi.
Mi scusera se la disturbo con questa mia lettera la cuale io ci parlo se puo farmi cuesto
grande piacere siccome che lei a grande amicissia del Signor colonello Marrieni se non mi
sballio di pregarllo lei se potesse farmi avere la licensa Agricola cio fare comparire come che
e come lei che a molto bisogno di me per lavorare la sua campagna mancansa di mano
dopera, siccome che vedo tutti i giorni a partire con cueste license lo prego di cuore se lei
potesse far cuesta gentilessa e di far scrivere cui al comando del deposito del 7° Reggimento
Bersaglieri Bresia una dichiarassione fatta dal Signor Colonello con tale richiesta come gli o
detto, richiesta dal Bersagliere Rota Severino dalla 9 Compagnia Comprementare col
seguente motivo.
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Storia di Massimo Antonio Cremaschi
Nome e cognome:
Massimo Antonio Cremaschi
Data di nascita:
13 maggio 1894
Luogo di nascita:
Albano Sant’Alessandro
Luogo di residenza:
Albano Sant’Alessandro
Professione:
Cocchiere
Statura:
1,68
Capelli:
castani
Occhi:
castani
Fondi di riferimento: Ruoli matricolari e foglio matricolare conservati
presso l’Archivio di Stato di Bergamo.
Riconosciuto soldato abile di prima categoria nella primavera del 1914,
Massimo Antonio Cremaschi venne chiamato alle armi e arruolato nel 6°
Reggimento Bersaglieri il 22 settembre dello stesso anno. Inviato in territorio
dichiarato in stato di guerra alla fine del 1915, venne presto denunciato al
Tribunale militare di guerra del 4° corpo d’armata per diserzione con
passaggio al nemico. In un primo tempo venne processato e condannato in
contumacia alla pena di morte per fucilazione nella schiena, previa
degradazione con sentenza del tribunale militare del 4° corpo d’armata in
data 8 aprile 1916. Si scoprirà in seguito al suo rientro, nel marzo del 1919,
che il Cremaschi era stato fatto prigioniero di guerra il 18 settembre del
1915, durante la battaglia di linea di Plezzo. Inviato al nel deposito del sesto
reggimento Bersaglieri di Bologna, viene ricoverato nel Manicomio di
Bergamo l’11 settembre del 1919 per manifestazioni di alienazione. Due
settimane più tardi sarà dimesso, dal medico responsabile che lo dichiarerà
guarito dai disturbi manifestati in precedenza (Procura delle Repubblica,
Dementi, 1919, Busta 1-200). Due giorni più tardi sarà fatto ricoverare dal
manicomio di Mombello di Milano, dove rimarrà fino al 28 aprile del 1920. Il
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giorno dopo la sua dimissione sarà trasferito presso le carceri militari di
Venezia. Il 18 maggio del 1920 il tribunale militare rinuncerà al
procedimento penale per inconsistenza di reato. Messo in libertà sarà
riportato al Deposito dei Bersaglieri di Bologna e quindi inviato in licenza
straordinaria con assegni in attesa dell’esito degli atti medico legali compiuti
per la sopraggiunta infermità provocata dagli anni di servizio militare. Nel
giugno del 1920 verrà inviato in congedo assoluto e gli sarà riconosciuta
un’indennità consistente in due anni di assegni.
Storia di Francesco Luigi Valenghi
Nome e cognome:
Francesco Luigi Valenghi
Data di nascita:
19 giugno 1894
Luogo di nascita:
Sovere
Luogo di residenza:
Sovere
Professione:
Contadino
Statura:
1,62
Capelli:
castani
Occhi:
castani
Fondi di riferimento: Ruoli matricolari e foglio matricolare conservati
presso l’Archivio di Stato di Bergamo.
Francesco Valenghi, un contadino originario di Sovere, venne arruolato nel
22° Reggimento fanteria e partì per la guerra il 23 maggio del 1915. Durante
il combattimento di Zagara del 10 novembre dello stesso anno, l’esplosione di
una bomba a mano gli procurò una ferita al piede che inizialmente venne
sottovalutata. Solo due mesi più tardi, il 30 gennaio del 1916, la situazione si
fece tanto critica da motivarne il trasferimento presso l’ospedale territoriale
di Varzi dove restò fino alla metà di marzo. I tempi della sua ripresa erano
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così lenti che si decise di ricoverarlo all’ospedale territoriale di Bergamo,
dove la sua famiglia avrebbe potuto raggiungerlo più agilmente. La degenza
durò altre due settimane, al termine delle quali ottenne due mesi di licenza. Il
26 luglio Valenghi ritornò in territorio dichiarato in stato di guerra dove,
però, le sue condizioni di salute non consentirono un pieno reintegro nelle
prime linee del fronte, tanto che venne assegnato alla 59° Compagnia
presidiaria del suo reggimento. Solo nel febbraio del 1917, Valenghi riprese il
suo posto tra le prime linee di combattenti, in territorio dichiarato in stato di
guerra. Partecipò così alle campagne di guerra dei due anni successivi,
ottenendo non solo la dichiarazione di buona condotta, ma anche
l’autorizzazione a fregiarsi del distintivo d’onore per ferita di guerra.
Storia di Primo Giacomo Luigi Trapletti
Nome e cognome:
Primo Giacomo Luigi Trapletti
Data di nascita:
2 ottobre 1893
Luogo di nascita:
Brescia
Luogo di residenza:
Lovere
Professione:
Mandriano
Statura:
1,74
Capelli:
castani
Occhi:
castani
Fondi di riferimento: Ruoli matricolari e foglio matricolare conservati
presso l’Archivio di Stato di Bergamo.
Il mandriano Giacomo Trapletti venne arruolato come soldato di prima
categoria dal distretto militare di Bergamo e quindi lasciato in congedo
illimitato nel maggio del 1914. Alla fine dell’anno venne assegnato al 2°
Reggimento artiglieria di montagna, mentre nel gennaio dell’anno successivo
si spese per procurare al fratello Giovanni il ritardo alla chiamata alle armi,
62
come consentiva l’Art. 108 del Testo Unico della legge sul reclutamento. Un
paio di mesi più tardi il Segretariato generale del Ministero della Guerra
decise il suo trasferimento nel 3° Reggimento artiglieria di montagna. Il 22
maggio del 1915 Trapletti era già al fronte, in territorio dichiarato in stato di
guerra. Attraversò indenne i primi due anni del conflitto fino a quando, nel
novembre del 1917 si ammalò. Venne così trasferito in luogo più idoneo alla
somministrazione delle cure necessarie. Nel gennaio del 1919 ottenne un
esonero temporaneo dal servizio effettivo sotto le armi, al quale rinunciò per
essere inviato in congedo illimitato il 27 settembre del 1919. Come risulta
dalla dichiarazione che gli verrà rilasciata alla termine del conflitto, Trapletti
mantenne sempre una buona condotta, ricoprendo il suo incarico con fedeltà
e onore. Partecipò e uscì indenne da quattro anni di campagne di guerra
accumulando solo diciannove giorni di punizione, motivate da inadempienze
di poco conto, piccoli momenti di sfogo di un uomo che per il restò consacrò
gran parte della sua giovinezza sull’altare dell’evento più drammatico e
devastante che la storia umana avesse conosciuto fino a quel momento. In
un’occasione si appese alla coda di un mulo, mentre il battaglione procedeva
in salita. In un’altra finse di essere ammalato, per avere qualche giorno di
riposo. Infine, nella primavera del 1917 si allontanò dall’accampamento,
senza regolare permesso, forse alla ricerca di un’ora di libertà.
Storia di Luigi Foresti
Nome e cognome:
Luigi Foresti
Data di nascita:
20 settembre 1894
Luogo di nascita:
Brembate Sotto
Luogo di residenza:
Brembate Sotto
Professione:
Scalpellino
Statura:
1,65
Capelli:
castani
Occhi:
grigi
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Fondi di riferimento: Ruoli matricolari e foglio matricolare conservati
presso l’Archivio di Stato di Bergamo.
Diverse generazioni di giovani furono costrette dalla guerra a un confronto
quotidiano con una realtà atroce, fatta di disperazione, morte, lontananza
della casa e dagli affetti. Per molti di loro, contadini e operai senza interesse
per le cose della politica e della nazione, poco di quel che accadeva poteva
essere realmente compreso, spiegato, tenuto sotto controllo. Alcuni di questi
giovani non resistevano alla paura, non sopportando l’idea di sacrificare la
vita e la possibilità di rivedere i propri cari sull’altare di una storia che non
sentivano come propria. La diserzione era una via di fuga come, per certi
versi, in forma più estrema, lo era la malattia mentale. Nelle carceri militari e
nei manicomi vennero così reclusi migliaia di questi giovani che non
potevano affrontare e superare le atrocità del conflitto, perché troppo deboli,
troppo sensibili o, semplicemente, troppo coscienti. La storia di Luigi Foresti
è una concreta testimonianza di come negli anni della Grande Guerra
esistessero legami di continuità tra la diserzione e la malattia mentale,
aderenze tra il carcere e il manicomio. Il Foresti venne arruolato nel 6°
Reggimento Bersaglieri nel maggio del 1915 e subito inviato in territorio
dichiarato in stato di guerra. Un anno più tardi, le sue competenze e la buona
condotta tenuta fino a quel momento spinsero i suoi superiori a sceglierlo
come caporale. In quel modo servì l’esercito per un anno intero, fino a
quando, alla fine di ottobre del 1916, tentò di separare la propria sorte da
quella dell’esercito italiano, cercando la fuga e scegliendo la via della
diserzione. Con l’accusa di diserzione aggravata dai gradi che portava, venne
tradotto alle carceri militari preventive dell’XI Corpo d’Armata dove, pochi
giorni più tardi, il Tribunale Militare di Guerra lo condannò a cinque anni di
reclusione, al pagamento delle spese del giudizio ed alla rimozione del grado.
Qualche mese più tardi venne reintegrato nell’esercito, come soldato
semplice, e rispedito al fronte. Riuscì a resistere altri due anni, sopravvivendo
alle campagne di guerra del 1917 e del 1918. Per due volte riportò in
combattimento ferite abbastanza profonde da richiedere periodi di ricovero
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presso l’ospedale da campo e qualche settimana di licenza, per
convalescenza. Al termine del conflitto, però, invece del congedo ottenne il
trasferimento all’ospedale neurologico di Bari. Il ricovero durò parecchi mesi,
a testimonianza della serietà della situazione in cui si era venuto a trovare.
Qualche mese più tardi, gli riconobbe la sopraggiunta infermità “per causa di
servizio”.
Storia di Pietro Mazzoleni
Nome e cognome:
Pietro Mazzoleni
Data di nascita:
20 settembre 1898
Luogo di nascita:
Bedulita
Luogo di residenza:
Bedulita
Professione:
Studente
Statura:
1,74
Capelli:
castani
Occhi:
castani
Fondi di riferimento: Ruoli matricolari e foglio matricolare conservati
presso l’Archivio di Stato di Bergamo.
Subito dopo essere stato arruolato come soldato di prima categoria, lo
studente Pietro Mazzoleni venne mandato in congedo illimitato provvisorio,
nell’attesa che venissero aperti i corsi per allievi ufficiali a cui, dopo le
operazioni di reclutamento, si era ritenuto opportuno partecipasse. Quando
nell’aprile del 1917 si presentò presso la scuola qualcosa non andò come
previsto e Mazzoleni, in un primo tempo, non venne ammesso ai corsi. Giunse
così in territorio dichiarato in stato di guerra, come soldato semplice del 10°
Reggimento Fortezza, dove rimase per un mese soltanto. Il 15 maggio, infatti,
ripartì alla volta di un corso per allievi ufficiali, questa volta presso la scuola
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militare di Modena. Il corso si svolse regolarmente e, già nel mese di agosto,
Mazzoleni poté essere integrato prima nel Deposito dell’86° Reggimento
Fanteria di Belluno, come aspirante ufficiale di complemento, e poi nel 15°
Reggimento Fanteria di Milizia Mobile. Durante una delle prime battaglie che
si trovò a combattere, però, rimase sul campo, con una grave ferita alla
gamba destra. Dopo un breve ricovero presso il più vicino ospedale da
campo, Mazzoleni verrà trasferito nel meglio attrezzato Ospedale militare di
Alessandria e poi mandato il licenza straordinaria per convalescenza.
Rientrerà nell’esercito verso la fine del conflitto, dove continuò a prestare
servizio come sottotenente di complemento fino alla fine. Proprio per questo
l’esercito italiano lo autorizzò, già nel mese di agosto del 1918, a fregiarsi di
un Distintivo d’Onore per ferita di guerra, oltre che della medaglia a ricordo
della Guerra 1915-1918.
Storia di Luigi Buelli
Dati anagrafici:
Nome e cognome:
Luigi Buelli
Data di nascita:
20 novembre 1896
Luogo di nascita:
Bergamo
Luogo di residenza:
Bergamo
Professione:
xxx
Statura:
xxx
Capelli:
xxx
Occhi:
xxx
Fondi di riferimento: lettere conservate presso il Museo Storico
bergamasco.
Sotto questa gente mi sono abituato e ora la vita non mi pare più così dura come i primi
giorni. Le istruzioni cominciano ad essere con un po’ più regolarità e la noiosa scuola a piedi
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si fa solo pochi minuti al giorno. In questi giorni stiamo facendo istruzioni all’obice Campale
da 149 e al Moschetto. Queste istruzioni non sono faticose richiedono soltanto un po’ di
memoria e un po’ d’attenzione. In questa settimana per la prima volta devo montare di
guardia armata alla polveriera, spedo che per la prima non abbiano a fregarmi. A montare a
cavallo mi sono abbituato e di capitomboli ne faccio un po’ più di rafo. Per ora questa vita è
anche divertente con queste belle passeggiate che si fa lungo l’argine del Po’, e inoltre
quando si ritorna in Caserma si ha uno che pulisce il cavallo, ma questa bella vita ho paura
che presto termini perché dovremo andare a raggiungere a Bologna gli altri gruppi del
nostro Reggimento che si dovrà formare cioè il 3° Reg. Art. Campale Pesante.
Come queste poche righe evidenziano, i primi giorni al fronte di Luigi Buelli
furono spesi in addestramenti ed esercizi, che si tradussero presto in una
nuova quotidianità, per certi versi addirittura gradevole. Dopo un primo
periodo arruolato in un battaglione d’artiglieria, venno cambiato di ruole e
divenne carrettiere:
Da artigliere sono diventato carrettiere, ma pazienza, per salvare la pelle e migliore ancora
questo corpo. Sono partito da Piacenza Domenica e sono sttivato quassù a Romans ieri sera.
Nella quotidianità entrarono presto anche i rombi e i colpi dei cannoni che,
uditi costantemente presso il monte San Michele, vennero descritti in una
lettera come una strana e involuta musica:
Alla strana e involuta musica del S.Michele mi pare di essere abbituato, ma però quando mi
avvicino a questo i miei cavalli li faccio volare e nel ritornare all’accampamento non vedo
nemmeno la strada. qui sono quasi tutti i giorni aereoplani Austriaci che di frequente
lasciano cadere qualche […]. Le gambe le tengo sempre preparate a correre quando questi
bei uccelli volano su Romans.
Pochi giorni dopo verrà trasferito a Cormons dove la vita era più tranquilla, si
lavorava meno e, soprattutto, si era meno soggetti al tiro degli aerei militari
austriaci. Nonostante questo i pericoli erano molti e Luigi non si vergognava
di confessare la sua fragilità e le sue paure:
Per ora qui continuo bene e spero che mi abbia a durare un po’ così. Degli aereoplani qui ve
ne sono più pochi e non fanno mai nulla. La paura ne ò sempre specialmente quando per
servizio mi avvicino alle prima linea e quelle notti che ce bombardamenti oppure
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combattimenti. Ci sono ce’ miei compagni che dicono di non avere paura, ma penso che
quando si passa per qui paesi che non cè nemmeno un tesso di una casa e per quelle strade
che si vedono a scopiare granate a duecento metri e che vedono anche sopra le loro teste a
scopiare srapnel io credo che anche a loro gli verra in dosso una certa, non so cosa, che ci da
svegliare e se si può appena si scappa, certo però che ve ne sono molti come me e come ve ne
sono anche di quelli più paurosi.
Il 20 dicembre Luigi scriveva di essere riuscito a scampare all’esplosione di
una granata. Quella, infatti, scoppiò dietro un cumulo di terra che attutì il
colpo, salvando la vita di Luigi. Nella stessa lettera mostrava la sua
preoccupazione per le progressive riduzioni dei viveri a cui stavano
assistendo:
Spero presto di venire in licenza e allora le racconterò qualcosa di più. Anche qui ànno
diminuito tutti i viveri, capo primo la pagnotta, al Venerdì, ci d’anno il baccalà, e si immagina
come ora divento grasso.
Per tutto il 1917 restò di stanza nel Basso Isonzo dove le licenze
scarseggiavano poiché, secondo le informazioni di cui Luigi veniva in
possesso, si stava preparando una grande offensiva. Le incursioni aeree
austriache continuavano a rappresentare il suo problema principale, tuttavia
alla paura reagiva con la resistenza e il desiderio di compiere fino in fondo il
suo dovere:
Sui comunicati di Cadorna in questi giorni si leggeva “incursioni aeree su taluni località del
basso Isonzo” e in queste talune località mi trovo anchio e le dico la verità che la paura che ò
è molta e se qualche volta non mi amazza qualche bomba mi amazza qualche bozzo che
quando bombardano piovono come la grandine, incomma non ci lasciano mai tranquillo e le
corse che mi tocca fare giorno e notte sono una cosa incredibile; giorni fa venivano verso
sera e ora che la luna si alza tardi vengono a farci la sveglia, e qualche volta vendono nel più
bello che si dorme e allora scappo valorosamente in trincea.
Trovandosi sul Basso Isonzo, Luigi ebbe modo di assistere al collasso del
fronte nei giorni di Caporetto. Nella lettera di auguri spedita a fine anno al
Tiraboschi, ricordava quei terribili giorni e le loro conseguenze:
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In questi giorni che abbiamo dovuto ritirarsi sulle nostre nuove linee parecchie volte le
scrissi ma le posso assicurare che non le saranno giunte, perché seppi dalla mia famiglia che
per più di trenta giorni non ebbero mie notizie: io sono stato più di quaranta giorni senza
avere più notizie da nessuno e può immaginarsi in che anzia mi trovavo pure io. Dal 24
ottobre che mi trovavo in marcia sono venuto a fermarmi in questi giorni nella provincia di
Verona, a Zevio. Si figuri che dagli altipiani di Bainsizza din qui siam venuti sempre in marcia
facendo però parecchie tappe sui fiumi e canali d’acqua dove si lavorava facendo posti di
passaggio e ponti di barche: ora qui abbiamo fatto di nuovo i ponti. Senza che stia a
descrivere tutto quello che abbiamo dovuto soffrire in quel tempo perché spero che tutte
queste cose le avrà già apprese dai giornali fino dai primi giorni della ritirata, per parte mia
le dirò solamente che fame, freddo, sonno e acqua causa il cattivo tempo ne abbiamo sofferto
in quantità le dico che non trovando nulla da mangiare perché tutti si scappava abbiamo
mangiato molte volte per levarsi un po’ la fame polenta sola e senza sale e trovandola!
Nei mesi successivi Luigi ebbe vita più facile: le sue lettere a Tiraboschi si
fecero più sintetiche e, in genere, si limitava agli auguri ed ai saluti. In questo
modo superò la terribile prova a cui fu costretto a sottoporsi, conservando la
sua vita e la sua salute fino alla fine della guerra. Ottenne il congedo solo alla
fine del 1919.
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