Gi - Cisaf

Transcript

Gi - Cisaf
GI
Gloria Gualteri
Oggi il sole è tiepido e me ne sto appoggiata al muro caldo con gli occhi socchiusi.
Me lo godo tutto, sento il calore lieve ma penetrante, che mi scalda le ossa e interrompe il gelo di
questo mio undicesimo inverno. Sono stanca, adesso sono veramente stanca.
Non l’ho più sentito né rivisto da quel giorno di inizio autunno, un giorno che è stato freddo,
freddissimo con un sole pallido che non scaldava.
Io e il Dottor Ugo Telari ci siamo conosciuti, come spesso amava raccontare, un febbraio di qualche
anno fa. Dall’auto aveva scorto, al lato della strada, un cartoncino con due “tristi occhioni a palla”
che sbucavano e lo guardavano. Aveva accostato e aveva deciso, dopo qualche istante di esitazione,
di prendere il cartoncino e di portarlo con sé. Era arrivato alla conclusione che mi avessero
abbandonato e avrebbe poi capito che il nostro incontro non era stato del tutto casuale: di lì a poco il
mio predecessore, anziano, acciaccato ed evidentemente molto infastidito dal mio arrivo, se ne
sarebbe andato per sempre. La mia presenza avrebbe aiutato a sopportare il dolore e a ricordare che,
in qualche modo, la vita continua.
Guardavo da lontano la scena che, senza capirne il motivo, mi aveva immobilizzata, distogliendomi
completamente dalla ciabatta che ero intenta a distruggere. Il Dottor Ugo Telari scavava una buca in
un angolo del giardino, con gli occhi velati di lacrime e una forza sovraumana ad ogni palata che
non gli avrei più visto. Quando il mio predecessore se ne è andato per sempre, è proprio lì che se ne
è andato, nella buca profonda.
Si chiamava Skitifirlo, che è un nome che a me è sempre piaciuto e che gli ho sempre invidiato. Un
nome che evocava simpatia e dolcezza. Il suo predecessore, un pastore tedesco bello e buono, “che
così sarà impossibile che ce ne possano essere ancora”, come tutti in famiglia dicevano
guardandomi, chissà poi perché sempre guardando me, si chiamava Zoll, un nome fiero, forte e
pieno di personalità. Ed io, invece, mi chiamo Gi, sì, semplicemente e banalmente Gi, una sillaba,
quasi uno starnuto, una parola mozzata, un nome che si perde intrappolato in migliaia di altre
parole, tanto che inizialmente accorrevo in continuazione perché avevo sempre la sensazione che mi
stessero chiamando. Ovviamente dopo poco ho smesso di accorrere e così ho tuttora in famiglia la
nomea di anarchica e insofferente alle regole.
Il mio nome era stato trovato, dopo una ricerca ardua e non priva di ostacoli, dalla vivace mente
della prima figlia del Dottore, Rachele. L’unico lato apprezzabile del mio nome, concorderete, è che
è impossibile da storpiare né tantomeno trovarne un diminutivo. Sì, teoricamente. Perché sempre
quella vivace mente di Rachele aveva coniato per me, nel tempo, fantastici soprannomi che mi
avevano portato alla conclusione che, dopo tutto, mi era capitato in sorte proprio un bel nome. C’è
stato il periodo in cui mi chiamava Signorina Gi Mugolotti…beh, avevo pur diritto anch’io a un
cognome; seguito dal lungo periodo caratterizzato dal dopo-viaggio in Cina, per cui ero diventata
Ciuki Chan, sempre nome e cognome. Negli ultimi tempi le cose dovevano essersi evidentemente
complicate ed ero diventata addirittura la Professoressa Prucuzza.
Era l’unica figlia non sposata e senza figli, cosa che ho sempre apprezzato perché i vari nipoti del
Dottore per lo più mi infastidivano e puntualmente quando c’erano loro si saltava sia la
passeggiatina di metà mattina che il pisolino pomeridiano sul tappeto dello studio.
Io e Rachele ci somigliavamo molto, avevamo la stessa vena di pazzia, sicuramente ereditata da
qualche antenato, la stessa curiosità per le cose del mondo e lo stesso amore per la letteratura. Lei
prendeva un libro e si lasciava pesantemente cadere nella grande poltrona di velluto verde bosco
della sua camera ed io mi arrotolavo sulle sue ginocchia per ore intere.
La seconda figlia del Dottore si chiamava Ada e il suo unico difetto erano i suoi due diabolici
gemelli, il cui passatempo preferito era volermi parte attiva nei loro innocenti giochi. Ma la
passione che ci accumunava mi faceva dimenticare il suo difettuccio. Ada era la miglior cuoca che
avessi mai conosciuto. I pomeriggi passati in cucina con lei a preparare gli agnolotti per il giorno di
Natale o le torte salate, sua specialità, erano meravigliosi. Mi riempivo le narici di ogni odore,
seguivo attentamente ogni passaggio, la guardavo sminuzzare, amalgamare, impastare, infornare ed
infine assistevo estasiata al risultato finale. E, dopo tanta fatica, avevo l’onore di assaggiare tutte
quelle leccornie per prima. Che giornate!
L’unico figlio maschio del Dottore si chiamava Pietro. Insieme ci siamo sempre divertiti un sacco e
quando si è sposato e se n’è andato di casa mi è molto dispiaciuto. Andavamo spesso in montagna
per rifugi ed era bellissimo quando, arrivati in cima, mi sdraiavo stanca con la testa appoggiata alla
sua gamba mentre lui guardava lontano, soddisfatto per l’impresa, senza parole per la meraviglia
che si apriva davanti a noi.
Non saprei dire quando, ma, un giorno, ci siamo ritrovati soli, io e il Dottor Ugo Telari. Mi piaceva
la nostra vita insieme. In quegli anni ho sempre dormito nella stanza vicino al garage, uno stanzone
pieno di cianfrusaglie che, nella stagione fredda, si riempiva di piante e di mobili di bambù. Si
trasformava in una specie di giardino d’inverno e nel centro, proprio sotto il ficus beniamino,
troneggiava la mia cesta: era la mia stanza!
Il Dottore mi svegliava sempre più o meno al solito orario, salivamo in cucina e la giornata iniziava
con un fragrante biscotto, -“anche se non dovremmo…” diceva prima di lanciarmelo-,
accompagnato dall’aroma del caffè che inondava la stanza. Verso metà mattina arrivava uno dei
momenti più belli della giornata: la passeggiata. Il giro lo conoscevo a memoria: ci dirigevamo
verso la grande villa color rosa cipria di proprietà della vedova Levi che, a quell’ora, usciva per
ritirare la posta, quindi giravamo a destra nel vicolo e poi dritti lungo il viale alberato che ci avrebbe
portati proprio davanti alla chiesa. Il Dottor Ugo Telari si guardava bene dall’entrarci, anzi, mi
sembrava proprio che cercasse di starne alla larga, quasi infastidito solo per il fatto di doverci
passare vicino. Diceva di aver litigato con Dio, che non era più possibile tornare indietro, che la
rottura oramai era irreparabile: Lui sapeva il perché…
Passata la chiesa, la prima tappa era l’edicola per il giornale, poi il fornaio per il pane, profumato e
ancora caldo ed infine ci fermavamo al bar sotto ai portici per un caffè e quattro chiacchiere con gli
amici. Mi piacevano gli amici, erano giocosi e rumorosi. Il Dottore con loro rideva e si divertiva e
io mi sedevo in mezzo al cerchio che formavano e, con la testa all’insù, seguivo i movimenti
repentini delle loro mani che gesticolavano mentre discutevano di politica. Il nostro giro terminava
con un saluto veloce a Pietro che però non aveva mai molto tempo per noi, indaffarato com’era per
via del lavoro.
Rientravamo a casa per l’ora di pranzo e già all’entrata sentivo i profumi che provenivano dalla
cucina, da dove usciva, trafelata e rossa in volto, sostenendo faticosamente tutti i suoi cento chili, la
cameriera Inès, “con l’accento grave, perché sono di origine francese, io!”, che, perennemente in
ritardo, inforcava la porta biascicando qualcosa di incomprensibile.
Il pomeriggio il Dottore lo passava a lavorare alla scrivania dello studio e si interrompeva solo
quando doveva prendere un libro dalla libreria in noce che, imponente, ricopriva tutte le pareti o
quando il suo sguardo incontrava l’immagine della bella signora bionda, circondata da tre bambini
vestiti a festa, che gli sorrideva felice… Allora si alzava, andava al giradischi e metteva un disco
jazz, la sua grande passione. Mi piaceva il jazz, la musica conciliava il mio sonnellino e anche lui
sembrava a poco a poco rasserenarsi e l’espressione cupa in volto sembrava dissolversi.
Non saprei dire quando, ma quel giorno è stato diverso da tutti gli altri. Non ci sono stati né la
passeggiata del mattino né il lavoro nello studio né la musica… Stava appoggiato al tavolo della
cucina con la testa tra le mani, circondato dai suoi figli. Nessuno parlava, mancavano le parole,
mancava il respiro. In quella stanza l’aria era angosciante e soffocante, come capita in certe afose e
apparentemente calme serate estive, proprio appena prima di uno spaventoso temporale. Ada
piangeva, Rachele fissava il vuoto e Pietro se ne stava in piedi, immobile, con le grandi mani
appoggiate sulle spalle del padre, come a volerlo inglobare nel suo corpo sano e invincibile.
Qualche giorno dopo se n’è andato. Ada è venuta a casa, ha portato un borsone e l’ha riempito delle
sue cose: il suo pigiama a righe, le ciabatte di pelle, qualche libro e gli occhiali per leggere di sera.
L’ha preso dolcemente sotto braccio e insieme si sono incamminati lungo il vialetto. Era già seduto
in auto, quando è sceso ed è venuto verso di me, mi ha accarezzato e mi ha sorriso, ma era un
sorriso amaro, appena accennato e i suoi occhi in realtà non mi vedevano, fissavano un punto
lontano dietro di me.
Dopo qualche tempo è ritornato casa. E’ tornato stanco, lento, emaciato e teneva nella mano
trasparente un lungo bastone, con cui mi teneva alla larga e mi impediva di scivolare veloce tra le
sue gambe.
E con lui sono tornati anche i suoi figli. Rachele si era riappropriata della sua vecchia camera,
quella con la poltrona di velluto verde. Anche se con discrezione, come fosse invisibile, gli stava
sempre intorno, lo controllava, lo guardava quasi a voler fissare negli occhi, nella mente, nel cuore
ogni singolo istante di quella straordinaria quotidianità.
Al mattino, dopo la colazione, arrivava Pietro, puntualissimo, sempre di buon umore e sempre con
qualche novità da raccontare. Lo accompagnava in bagno, lo faceva sedere sullo sgabello e gli
spalmava la crema da barba. E lui, con la testa piegata all’indietro e il viso rilassato, si lasciava
radere, si lasciava massaggiare con la crema la pelle diventata sottilissima e dura.
I pomeriggi Ada li passava con noi e se ne andava solo dopo la cena e dopo che con Rachele lo
avevano accompagnato nel salottino in parte alla cucina. Gli portava una tisana dal forte profumo di
anice, ma lui si appisolava dopo averla appena assaggiata. Allora lei si alzava e gli diceva piano
“buonanotte papà, ci vediamo domani, se riesco arrivo un po’ prima”.
Pioveva ininterrottamente da tanti giorni, ma quella mattina di inizio autunno grandi nuvole bianche
solcavano veloci il cielo e un vento freddo soffiava forte sparpagliando ovunque le prime foglie
gialle.
E quella mattina il Dottore Ugo Telari non si è alzato dal letto.
Inès, grondante di sudore e sull’orlo di una crisi nervosa, è arrivata presto, mi ha preso di peso e mi
ha portato via dalla sua camera.
Ha chiuso forte la porta dello stanzone vicino al garage dietro di sé e mi ha lasciata lì. Sentivo
qualcuno che arrivava e che poi se ne andava, sentivo passi non familiari, sentivo salire le scale e
poi ridiscenderle , aprire porte e poi richiuderle, sempre con cautela, cercando di non far rumore.
E poi non ho sentito più nulla, solo il silenzio, un silenzio al tempo stesso rassicurante e
insopportabile, così lungo e così maledettamente troppo breve…
E all’improvviso urla strozzate, disperate, strazianti, infinite…
L’ho cercato in quei giorni, gironzolavo tra mille piedi che si muovevano lenti per la casa, tra quelle
presenze sconosciute che recitavano una nenia angosciante, senza riuscire a sentirlo, senza riuscire a
trovarlo.
Ed ora, qui, appoggiata a questo muro tiepido, mi sembra di rivederlo, lì, in piedi, con il sudore
della fronte che scendendo si mescola alle lacrime, mentre scava senza sosta la buca profonda
nell’angolo del suo amato giardino.