Eguaglianza e libertà nel lavoro.

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Eguaglianza e libertà nel lavoro.
Eguaglianza e libertà nel lavoro.
Politiche del lavoro e movimento sindacale. Il caso italiano
Igor Piotto
a. Evoluzione del concetto di subordinazione
Con la crisi del fordismo anche il concetto di subordinazione subisce una trasformazione
radicale. La condizione di subalternità si trova al crocevia tra due tendenze ambivalenti (Supiot,
1999). Da un lato cresce l’autonomia del lavoro: la diffusione delle tecnologie informatiche,
l’articolazione delle professionalità e del sapere esperto che le presiede, il bisogno manageriale
della cooperazione attiva dei lavoratori e modelli organizzativi sempre più orientati ad una
valutazione dei risultati sono tra gli elementi che incidono profondamente sullo statuto della
condizione lavorativa.
Dall’altro cresce parallelamente il peso della subordinazione in relazione ad un aumento delle
prerogative manageriale sull’utilizzo delle risorse umane. Nella prospettiva del singolo
lavoratore aumentano i fattori di incertezza (continuità del rapporto di lavoro, diritti sociali,
sicurezza previdenziale) nella prospettiva della sua vita lavorativa. Si riduce la dimensione
protettiva che il diritto del lavoro aveva assicurato per decenni a generazioni di lavoratori; anzi,
si assiste a quella che è stata definita la “destrutturazione sistemica” del diritto del lavoro
(Perulli, 2002).
Siamo di fronte a due flessibilità distinte. Nel primo caso la flessibilità riguarda il lavoro, inteso
come attività produttiva esercitata all’interno di un’organizzazione, nel secondo la flessibilità
attiene alla posizione occupazionale del singolo individuo ed al quadro normativo e
contrattuale che regola la relazione con l’impresa. Flessibilità del lavoro e flessibilità
dell’occupazione vengono a divaricarsi; si assiste ad una varietà di posizioni contrattuali che
genera una pluralità di condizioni di subordinazione (temporaneità e precarietà del vincolo
contrattuale e della prestazione). La capacità e la presa dei vincoli del contratto di lavoro
fordista si allentano e questo alleggerimento dilata le prerogative manageriali nell’esercizio
pratico del potere all’interno dell’impresa con una perdita di progettualità del singolo
lavoratore sul suo corso di vita. Entra in crisi uno dei fondamenti del diritto del lavoro, quello
di essere stato capace di armonizzare il lavoro come bene mercantile (quindi lavoro astratto e
quantificabile nelle modalità di espressione) ed il lavoro come espressione di una identità
soggettiva (Supiot, 1994). Nell’architettura dei diritti e delle tutele è costantemente prevalso il
secondo tipo di nozione di lavoro, coagulata intorno alla fattispecie del lavoro subordinato così
come è stato delineato dall’art. 2094 del c.c. L’ordinamento giuridico ha specificato la nozione di
subordinazione come “obbligazione di mezzi” e non di “ risultati” per marcare una specificità
rispetto alle forme di lavoro autonomo, e come fondamento stesso del diritto del lavoro.
La mutazione genetica che si sta producendo dentro il lavoro, per effetto di queste due
tendenze, rivela una crescente permeabilità tra lavoro subordinato e lavoro autonomo;
prestazioni contrattualmente autonome denunciano un alto grado di eterodirezione tecnicoorganizzativa e dipendenza economica, e prestazioni contrattualmente subordinate possono
svolgersi in contesti con un elevato grado di autodeterminazione nella gestione degli strumenti
di lavoro e nel conseguimento degli obiettivi. Sarebbe, dunque, un errore supporre che le
trasformazioni del lavoro investono solo il terreno del lavoro autonomo e non anche la sfera del
lavoro subordinato, che, occorre sottolinearlo, vede sopravvivere ed in aree tutt’altro che
marginali la presenza di prestazioni debolmente qualificate ed organizzate ancora
tayloristicamente.
Il punto che qui interessa discutere è che la crisi della unitarietà del concetto di subordinazione
investe in modo cruciale il suo principale istituto di regolazione, il contratto di lavoro.
Aggiungendo ulteriori elementi di incompletezza, a quelli già ampiamente riconosciuti, che ne
indeboliscono la capacità protettiva.
Nel contratto di lavoro il contenuto dettagliato dell’obbligo di lavoro non viene specificato; tale
contenuto viene definito nel corso della gestione del rapporto, e può essere soggetto ad
influenze normative di natura implicita o legislativa.
Tuttavia, il lavoratore nel contratto cede una quota di autorità all’impresa circa il concreto
svolgersi dell’attività lavorativa; il lavoratore non si impegna solo a fornire una quantità di lavoro
ma si sottopone alla direzione datore di lavoro per un determinato periodo di tempo. Il contratto
di lavoro nella modernità non solo è diseguale, perché fondato su un potere di mercato
asimmetrico, è anche indeterminato. È su questo secondo aspetto, di provenienza marxista, la
scuola giuslavorista austriaca ha sviluppato nel periodo weimariano la sua riflessione (Gierke,
Sinzheimer, Renner), e ripresa recentemente da uno dei più autorevoli studiosi di relazioni
industriali: nel sistema di lavoro salariato «i contratti di lavoro non vengono stipulati in base a
prestazioni definite all’origine in tutti i dettagli ma in base al riconoscimento di un rapporto
autoritativo istituzionalizzato» (Streeck, 1988,). Il contratto è la forma istituzionalizzata di un
dominio, considerato legittimo, nel quale vengono a fondersi in maniera asimmetrica le
reciproche obbligazioni tra prestatore di lavoro e datore di lavoro, lasciando a quest’ultimo il
“potere” di determinare l’oggetto della prestazione, ed in ultima istanza la qualità della
condizione lavorativa. Tale “potere residuale” si trova svincolato dall’impianto contrattuale in
quanto non risulta esplicitato dall’accordo tra le parti; è sulla sopravvivenza della “legittimità di
tale potere direttivo che avviene la saldatura tra il contrattualismo moderno e il tradizionale
rapporto tra maestri ed operai (master/servant). Infatti, con il dissolvimento degli schemi
normativi e dei regolamenti emanati dall’autorità regia nell’ancien regime e successivamente
dalle associazioni professionali per regolare i rapporti tra maestri ed operai, la regolazione
dell’organizzazione del lavoro va “al di là del contratto” (Fox, 1974) ed è lasciata al soggetto
contrattualmente più forte1.
Il contratto di lavoro sancisce la formula dell’accordo tra soggetti formalmente liberi, la natura
limitata dell’impegno alle attività inerenti il processo produttivo (quindi la
deresponsabilizzazione degli obblighi relazionali extralavorativi tra impresa e lavoratori) e la
libertà di scelta, ma incorpora il modello tradizionale di subordinazione che lascia al datore di
lavoro il potere direttivo sul contenuto del lavoro.
Queste considerazioni necessitano di una contestualizzazione storica; a livello micro il potere
direttivo è stato limitato attraverso l’intervento legislativo ed attraverso il consolidamento di
forme di “controbilanciamento dei poteri” con legislazioni di sostegno dell’attività sindacale. Lo
statuto dei diritti dei lavoratori in Italia, come il Wagner Act negli stati Uniti, ha fortemente
delimitato le prerogative manageriali sull’utilizzo delle risorse umane introducendo diritti di
contrattazione collettiva e diritti della personalità. Ed è indicativo che quando il movimento
organizzato dei lavoratori ha avuto la forza, ed aggiungerei anche la sensibilità, attraverso
questa legislazione di sostegno ha avuto la possibilità di intervenire sulle condizioni materiali di
lavoro mettendo in discussione la presunta “oggettività” dei modelli di organizzazione del
lavoro.
Sul versante macro economico tale potere residuale ha svolto un ruolo peculiare nel patto
sociale che ha presieduto il modello economico ed organizzativo fordista.
Il rapporto contrattuale non assolve la sua funzione regolativa e normativa unicamente nelle sue condizioni esplicite;
deve appoggiarsi ad elementi che non sono direttamente riconducibili alle modalità dello scambio - (norme sociali e
rapporti di forza). La transazione che regola lo scambio (retribuzione vs. prestazione) non comprende specificazioni
circa la struttura di comando o il potere tecnico organizzativo nell’impresa, la legittimazione implicita di tale potere
direttivo diventa la precondizione per la gestione della transazione medesima, «consentendo in tal modo una elevata
flessibilità ed adattabilità alle mutevoli circostanze tecnologiche e mercato con la predisposizione di specifiche “zone di
accettazione” entro le quali gli ordini saranno eseguiti senza resistenza» (Perulli, 1989, 255).
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b. Crisi del contratto di lavoro
La forza lavoro ha come tratto distintivo quello di poter essere venduta o acquistata senza però
poter essere separata dalla persona che la produce, e per questo la materia dello scambio più
che una merce, è una relazione sociale (Marx; Goldthorpe, 2000). I contratti di impiego
nell’economia fordista hanno svolto un ruolo di regolazione di tale relazione sociale: il modello
fordista si reggeva sullo scambio politico tra un alto livello di subordinazione e di controllo
disciplinare ed un alto livello di stabilità dell’impiego insieme ad una rete di garanzie sulla
retribuzione (Priestley, 1995). Il patto entra in crisi, e con esso la formula del contratto fordista,
quando vengono a configurarsi nuove forme di subordinazione che travalicano il perimetro
prima tracciato dall’organizzazione tayloristica del lavoro e di un mercato del lavoro
sostanzialmente statico.
Il contratto di lavoro fordista ha rappresentato una sorta di zona franca dalle pressioni del
mercato e dai rischi che questo è in grado di produrre sulla condizione occupazionale. La
contrattualizzazione fordista dei rapporti di lavoro ha garantito diritti associati allo status di
salariato, attraverso un insieme di protezioni sociali che garantivano la socializzazione dei rischi
nel corso di vita (sistema educativo, salute, vecchiaia, disoccupazione, sicurezza). Le istituzioni
del welfare hanno controbilanciato il riconoscimento del rapporto autoritativo esercitato
dall’imprenditore/manager al livello micro della condizione di lavoro.
Nell’economia della produzione di massa capitale e lavoro erano in una condizione di
reciprocità, ed il conflitto rafforzava questo legame; tutti gli attori anche nelle condizioni di più
aspra conflittualità riconoscevano come legittimo il modello di sviluppo economico offerto dal
fordismo. Non è casuale che le esperienze rivoluzionarie del novecento, prime fra tutte quella
sovietica, non misero mai in discussione – se non in casi marginali - il fondamento
organizzativo del fordismo, vale a dire il paradigma tayloristico dell’organizzazione del lavoro.
I nuovi modelli di organizzazione della produzione hanno ridisegnato la mappa dei lavori, dei
profili professionali, dei tempi di vita e di lavoro, delle strutture gerarchiche aziendali. Questa
diversificazione interna all’organizzazione del lavoro ha avuto un riverbero sulle condizioni
contrattuali e sulle politiche regolative.
Ma dentro la pluralità di posizioni contrattuali che caratterizza il mercato del lavoro nelle
società a capitalismo avanzato è rintracciabile un comune orientamento; la logica commerciale
tra cliente e fornitore diventa il criterio regolativo di tutte le transazioni di mercato, investendo
in modo impetuoso anche la gestione dei rapporti di lavoro. Specificatamente si affermano due
tendenze.
Da un lato, si afferma una tendenza alla destrutturazione del contratto fordista di lavoro che fa
leva su una visione del mercato del lavoro fondata sull’egualitarismo dal lato dell’offerta; il
rapporto di lavoro viene configurato come una transazione sempre più simile allo scambio di
merci regolato dal diritto commerciale (scambio paritario tra contraenti), annullando così il
riconoscimento delle asimmetrie di potere che intercorrono tra chi “acquista” il lavoro e chi lo
“vende”. E soprattutto indebolendo fortemente i fondamenti del diritto del lavoro.
è accompagnata da una visione
Dall’altro lato, questa crisi di rappresentatività non delinea solo una condizione di inadeguatezza
giuridica dell’istituto contrattuale rispetto all’evolversi del mondo dei lavori; il progressivo
indebolimento del contratto di lavoro standard, ritagliato su un “rapporto individuale di lavoro
con ascendenze operaie e di matrice industrialista” (Romagnoli, 1999, 88), evidenzia una
strutturale crisi di “rappresentatività”, determinata dalla limitata capacità di adattamento ai
nuovi profili professionali ed alle posizioni contrattuali che si vanno affermando con la crisi del
taylorismo.
La sua è anche una crisi di legittimazione sociale che riflette una contrazione di consenso sociale
da parte di quanti, occupati in nuove forme di lavoro e di impiego, rivendicano l’estensione dei
diritti tradizionali alla loro condizione lavorativa, ma anche da parte di quanti, nell’ambito del
lavoro subordinato regolato da contratti a tempo indeterminato, sollevano nuove domande di
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tutela e riconoscimento; la convergenza di queste due direttrici può costituire la forma
embrionale di una nuova generazione di diritti contrattuali.
L’assottigliamento del consenso cresce quanto più crescono le disuguaglianze nella condizione
di lavoro e di vita; anzi, queste sono strettamente intrecciate e convergono nel determinare
condizioni di incertezza nella gestione dei percorsi professionali ed occupazionali e nella
condizione reddituale. Se il contratto è un patto che internalizza le esternalità negative, ovvero
offre una copertura parziale ai rischi che provengono dalle transazioni di lavoro, la sua
decrescente capacità regolativa determina nuove disuguaglianze ma anche un problema di
legittimazione sociale del dispositivo stesso.
La crisi travolge la concezione economica e giuridica del concetto di lavoro astratto, che ha
rappresentato il nucleo fondativo delle transazioni nel mercato del lavoro, e l’emergere del
lavoratore concreto (Trentin, 1997), il lavoro vivo nella sua complessità ed eterogeneità, impone
un ripensamento delle categorie con le quali si è interpretato il lavoro (autonomia e
subordinazione, diritti individuali e garanzie contrattuali collettive) ed i diritti di status
associati alla condizione lavorativa di salariato. In questo scenario, il rapporto tra libertà ed
eguaglianza fa sorgere interrogativi che non possono eludere il tema di una rimodulazione
dell’architettura contrattuale, in quanto strumento regolativo dei rapporti di lavoro, ma non
possono nemmeno esonerare dal conflitto che nasce da questa rielaborazione, il tema del potere
di comando e delle determinazione unilaterale delle condizioni di lavoro. In altri termini, non si
tratta di rimodulare unicamente il versante delle protezioni sociali, ma anche di riconoscere
nuove libertà nei contesti in cui si svolge materialmente e quotidianamente la prestazione.
I documenti governativi tracciano una direzione opposta. In essi è perfettamente riconoscibile
questo bisogno di innovazione e lo si coglie dalla filosofia sociale che ispira l’intero intervento. Gli
strumenti di politica del lavoro adottati hanno un duplice obiettivo: ridefiniscono i fondamenti
dell’autotutela collettiva e dell’associazionismo sindacale (derogabilità ai contratti nazionali di
lavoro, drastico abbassamento dei vincoli allo scioglimento unilaterale del contratto di lavoro,
annullamento della legge di divieto di intermediazione di manodopera, restaurazione di un
impianto commercialistico nella regolazione delle cessioni di ramo di impresa), allo scopo di
estendere i margini decisionali di gestione unilaterale della forza lavoro, ma allo stesso tempo
propongono una risposta atomistica ed individualistica ai crescenti bisogni individuali che
maturano nel mercato del lavoro.
c.
Le proposta del Libro Bianco e la sua filosofia sociale: un
progetto di egemonia?
I provvedimenti legislativi avanzati dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali del governo
Berlusconi non si propongono solamente di introdurre delle modifiche ad alcuni aspetti inerenti
la regolazione dei rapporti di lavoro. La “dichiarazione di intenti”, raccolta nel Libro Bianco, che
ha preceduto le leggi delega in materia di mercato del lavoro e la L.30/2003, ne ha ispirato
l’architettura e costituisce un progetto culturale che rimanda ad una specifica concezione dei
rapporti sociali ed economici, e propone concretamente un cambiamento di sistema delle
relazioni industriali e degli istituti contrattuali, alternativo a quello sino ad oggi praticato.
Il diritto del lavoro viene sottoposto ad una sorta di “mutazione genetica”, che lo vede
assumere una deriva di tipo commercialistico: il lavoro diventa una merce non dissimile dalle
altre che sono oggetto di transazioni commerciali nel mercato, e la compravendita di lavoro
viene effettuata da partner contrattuali dislocati in una posizione paritaria. Si tratta di una
strumentale finzione giuridica che non trova nessun aggancio con la tradizione giuslavorista,
neanche con quella del buio corporativismo. Con questa declinazione il diritto del lavoro, per
definizione diritto diseguale, va a contraddire profondamente uno dei suoi assunti distintivi e la
sua ragion d’essere, quella di disciplinare la strutturale disuguaglianza che si instaura nei
rapporti tra capitale e lavoro. Il diritto del lavoro assomiglia sempre di più al diritto
commerciale.
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Ma questa finzione giuridica non rimane allo stato di elaborazione astratta; se formalizzata va
ad incidere profondamente sulla costituzione materiale del lavoro, e sulla possibilità di
sottrarre, attraverso il contratto, aspetti del “mondo della vita” individuale dall’intrusione e
dalle pressioni selettive del mercato.
L’obiettivo contenuto nel Libro Bianco è quello di definire un sistema di relazioni tra capitale e
lavoro in grado di far i diritti dal contratto al mercato, proponendo, senza mai avanzare alcuna
evidenza empirica, una sorta di nuovo patto sociale che vede i singoli individui, e non più
soggetti collettivi, scambiare un sistema consolidato di diritti contrattuali con una crescita delle
opportunità occupazionali. I diritti diventano così un vincolo sistemico la cui rimozione innesca
un moto di sviluppo dell’economia; diritti in cambio di occupazione. Al di là dei costi sociali
che questa transizione comporta, è ormai evidente che un modello atomizzato di regolazione
dei rapporti di lavoro, avvia un processo di destrutturazione del sistema di relazioni industriali
basato sulla contrattazione tra soggetti collettivi. Scardina cioè uno degli aspetti fondanti il
diritto del lavoro che individua nell’autotutela collettiva il principio della difesa di diritti
individuali attraverso l’organizzazione collettiva e le sue forme di rappresentanza. Il
movimento sindacale cessa di essere così un attore determinante nella regolazione della politica
economica, a partire dal ruolo che ricopre nella gestione dei rapporti di lavoro. I provvedimenti
sull’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, sul lavoro sommerso sulla cessione di ramo di
impresa, sulla stravolgimento della legge sul caporalato (1369/60), parzialmente modificata dal
“pacchetto Treu”, racchiudono l’esplicito obiettivo di determinare un indebolimento dell’azione
collettiva, a partire dal diritto di sciopero che costituisce ancora uno dei fondamenti
dell’associazionismo sindacale. Rapporti di lavoro destrutturati non garantiscono uno schermo
di protezione dalla mercificazione della condizione lavorativa, piuttosto determinano una
condizione di eguaglianza nelle possibilità di mercificazione. L’egualitarismo dal lato dell’offerta
genera distorsioni sociali difficilmente contenibili.
Lo svuotamento dell’istituto contrattuale e della sua funzione regolativi è connesso ad un forte
ridimensionamento dell’attore sindacale, come attore di giustizia e come regolatore di equità:
ma il progetto di ristrutturazione del diritto del lavoro non mira alla “scomparsa” dell’attore
sindacale, quanto ad un suo ridimensionamento drastico. Il sindacato verrebbe a configurarsi
come il rappresentante di specifiche categorie di lavoratori, quelle la cui condizione contrattuale
e professionale mantiene un riferimento solido nel modello tradizionale sperimentato nella fase
taylor-fordista. Una sorta di fortino a cui vengono tagliati i viveri, determinando così una
profonda frattura nei circuiti di rappresentanza del mondo dei lavori.
Ma guardare questo progetto come ad un ritorno dell’homo hierarchicus ispirato dai settori
confindustriali più insofferenti verso il tema delle regole e delle garanzie potrebbe essere un
errore di valutazione. Proprio per le conseguenze che questo intervento politico genera sul
mercato del lavoro e sui rapporti di cooperazione tra lavoratore ed impresa, nessuna
maggioranza di governo avanzerebbe un tale progetto di destrutturazione contrattuale senza
prefigurare un potenziale blocco sociale di riferimento, nel quale trovare un livello accettabile di
consenso, o quantomeno di non ostilità. Il problema del consenso è indissolubilmente legato al
Libro Bianco ed a cascata alla L.30/2003, e va ricercato nella crisi di legittimazione sociale che ha
investito l’istituto del contratto tradizionale; la crescita di prestazioni di lavoro non
sufficientemente garantite dal contratto di lavoro e sottratte al controllo del sindacato, e la
formazione di profili professionali sempre più caratterizzati da condizioni di autonomia,
quando non di micro-imprenditorialità, hanno esteso la platea di quanti guardano con
diffidenza alla mediazione collettiva nella rappresentanza degli interessi. Una popolazione
lavorativa che comprende lavoratori a tempo determinato, interinali, lavoratori
parasubordinati. In Italia, accanto ai lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato
che riguarda circa 14.000.000 di lavoratori, le nuove forme di impiego e di lavoro raggiungono
la soglia dei 5.000.000 di lavoratori. Tra questi troviamo i lavoratori a part-time (1.650.000),
lavoro temporaneo (1.400.000), lavoro interinale (200.000), e lavoro semi-autonomo (1.700.000)2.
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Fonte: Contini (a cura di), Osservatorio sulla mobilità del lavoro in Italia, (2002).
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Inoltre, non è infatti casuale che nei provvedimenti contenuti nella legge 30/2003 l’unico che
prevede una estensione delle tutela – in particolare malattia, maternità, infortunio,e sicurezza –
è quello riguardante le collaborazioni coordinate e continuative. Cioè un segmento importante
delle nuove posizioni contrattuali emergenti e sulle quali è stata da più parti focalizzata
l’attenzione dell’opinione pubblica.
Questo progetto di destrutturazione del mercato del lavoro individua nei lavoratori più esposti
e con una scarsa tutela offerta dal contratto il terreno di costruzione consenso, proponendo una
soluzione individualistica ritenuta più efficiente ed agendo su uno dei punti più vulnerabili
della contrattazione collettiva; quello che uno studioso inglese di relazioni industriali, O. Kahn
Freund, ha definito come “duplice movimento di subordinazione ed adesione” del lavoratore;
quando un lavoratore entra a far parte di un’organizzazione aziendale si subordina ed aderisce
ad un contratto collettivo, che può non aver contribuito a definire, e si subordina ed aderisce
agli indirizzi espressi dalla direzione dell’impresa. L’idea di contrattazione individuale
contenuta nel Libro Bianco fa leva sull’emergente indisponibilità alla “subordinazione”, non
genericamente verso il contratto collettivo ma, verso un modello di contratto ritenuto
inadeguato rispetto alle finalità di regolazione che si propone. A questo si aggiunge la
propensione di alcune fasce di lavoratori, occupati nelle aziende più innovative, con elevate
risorse professionali ma anche con posizioni contrattuali a termine e precarie, a negoziare
l’organizzazione della prestazione senza il ricorso all’azione collettiva. Nonostante
l’eterogeneità contrattuale ed organizzativa si rafforza l’ostilità verso entrambe le condizioni di
“subordinazione”, senza però che questo si traduca nella costruzione di identità collettive quale
prospettiva di avanzamento di diritti individuali.
È dentro la crisi del contratto, con tutti i ritardi dell’azione sindacale nel rappresentare ed
interloquire con una crescente eterogeneità di posizioni contrattuali ed identità professionali,
che il Libro Bianco e le leggi delega ricercano il consenso verso una concezione atomistica delle
relazioni di lavoro attraverso il ridimensionamento della centralità del contratto collettivo. La
forza egemonica di una proposta di questa portata non è data solo dalle concrete misure che
questa mette in atto, ma dal fatto di offrire una sorta di “ideologia” che innesta queste misure in
una più complessiva ed organica concezione dei rapporti sociali ed economici. Trasforma, cioè,
la precarietà e l’insicurezza in un fattore di consenso alla delegittimazione del contratto
collettivo di lavoro; seguendo la distinzione di Ceri (2003), l’obiettivo neanche tanto implicito
contenuto nel libro Bianco, è quella di far transitare la flessibilità dalla condizione di modello
socialmente prescritto a quella di modello culturalmente definito.
Per questa ragione l’alternativa ad essa non può che misurarsi sulla capacità persuasiva ed
attrattiva di un progetto culturale capace di contrastare questo progetto di destrutturazione
sistemica del diritto del lavoro e che sia in grado di rimodulare la struttura dei contratti di
lavoro e rispondere ai bisogni ed alle identità plurali del lavoratore concreto, in carne ed ossa.
d. Un nuovo contratto di lavoro. Un’agenda di discussione.
La finalità intrinseca del Libro Bianco e della legge 30/2003 è quella di superare il binomio che
oggi ha informato il diritto del lavoro, tra tutela e rigidità.
Il comportamento datoriale verrebbe alleggerito di vincoli nella gestione del rapporto di lavoro,
con il conseguente ridimensionamento del ruolo e della funzione del contratto nazionale di
lavoro. La funzione manifesta di questa proposta è che la vischiosità normativa presente nei
contratti, anche quelli interinali o a tempo determinato, limita la crescita occupazionale;
un’argomentazione che resta, salvo evidenze empiriche di segno contrario che oggi non ci sono,
una sostanziale improvvisazione.
La funzione latente, ben più incisiva sotto il profilo delle conseguenze sociali che genera, è
quella di estendere le prerogative manageriali di gestione delle risorse umane all’interno
dell’impresa. Tutte le misure concretizzatesi nella L. 30/2003 vanno in quella direzione, facendo
regredire il diritto del lavoro sino al punto da metterne in discussione la specificità rispetto al
diritto commerciale.
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Il binomio tutela/rigidità si sviluppa nel quadro di un preciso contesto economico ed
organizzativo, che possiamo ricondurre all’impianto taylor-fordista di organizzazione del
lavoro e della produzione. Trova come punto di massima estensione il rinnovo contrattuale dei
lavoratori metalmeccanici del 1969, che ha rappresentato nella tradizione contrattualistica
italiana una delle esperienze contrattuali più fertili nella direzione del riequilibrio di potere nei
luoghi di lavoro: alla rigidità del lavoro tayloristico il movimento organizzato dei lavoratori
contrappose la rigidità di “regole certe” per limitare l’arbitrio datoriale riguardo scelte e
decisioni in materia di organizzazione del lavoro e di gestione delle risorse umane. Il
riequilibrio di potere si afferma attraverso l’articolazione di rigidità che esercitano una funzione
garantista, sotto il profilo dei diritti sindacali e della personalità. Il contesto tayloristico favorì
questa politica rivendicativa perché rendeva possibile lo scambio di “quantità certe”, ovvero lo
scambio tra risorse misurabili; inoltre, il lavoro taylorizzato non richiede un alto grado di
specificità delle risorse impiegate e consente un monitoraggio aziendale senza una consistente
mobilitazione di risorse umane e materiali.
La crisi del taylorismo e lo sviluppo di forme organizzative “snelle di organizzazione della
prestazione sono basate su obblighi impliciti e sulla responsabilità circa i risultati della
prestazione stessa. La specificità delle risorse necessarie a svolgere una prestazione diventano
specifiche (capacità di operare in rete, sviluppo di competenze trasversali) che richiedono per il
loro monitoraggio un volume consistente di risorse aziendali. Lo scambio che sta alla base dei
processi contrattuali non può avvenire tra quantità certe ma tra “obiettivi” e volontà. Questo
passaggio organizzativo, che è anche il vettore attraverso cui transita un diverso modello
economico, ridisegna la fisionomia del lavoro subordinato ed introduce nuovi profili
professionali, insieme a nuovi interrogativi di tutela e garanzia.
La crisi del taylorismo, come è stato detto, non ha solo fatto maturare nuovi profili professionali
e contrattuali, come i lavori parasubordinati, ma ha intaccato lo stesso lavoro salariato ed in
particolare la struttura stessa della subordinazione. Prospettare nuove garanzie, unicamente
rivolte al lavoro parasubordinato, o autonomo di “seconda generazione”, senza una rinnovata
concettualizzazione del lavoro subordinato potrebbe caratterizzarsi come un’operazione limitata,
e scarsamente efficace verso obiettivi generali di costruzione di tutele e garanzie in grado di
intervenire sull’eterogeneità delle posizioni contrattuali e delle condizioni lavorative.
Il lavoro subordinato non sempre coincide con il lavoro eterodiretto; una parte consistente
lavoratori salariati, specie nelle organizzazioni più innovative, acquista posizioni di autonomia
esecutiva che si svincolano dalla nozione tradizionale del lavoro eterodiretto soggetto al potere
direttivo e disciplinare del datore di lavoro (Roccella, 2002). Lo stesso nel lavoro autonomo;
lavoratori che possono vantare un elevato potere negoziale nel mercato del lavoro hanno lo
stesso “testo contrattuale” di quanti risultano economicamente deboli e subalterni, pur
risultando entrambi formalmente autonomi.
La frammentazione del mercato del lavoro – non solo identitaria e professionale – ma anche
contrattuale impone una riformulazione delle nozioni di lavoro subordinato e di lavoro
autonomo.
Un mutamento radicale di paradigma economico ed organizzativo non poteva lasciare esonerati
gli stessi strumenti di tutela del lavoro, e la perseveranza nel rincorrere strumenti fordisti di
tutela in contesti post-fordisti oltre che inefficace può anche rivelare il consolidamento di
posizioni contrassegnate da pigrizia intellettuale. La storia del movimento operaio è una storia
di resistenza ma anche di innovazione, senza quest’ultima quella vicenda sarebbe stata
contrassegnata da una sostanziale subalternità culturale.
La crisi del taylorismo trascina con sé l’arretramento del contratto di lavoro fordista, e di
conseguenza l’indebolimento delle sue basi di legittimazione sociale, perché mette in
discussione due termini peculiari e fondamentali oggetto della contrattazione: la struttura della
subordinazione (stretta associazione tra la condizione professionale del lavoratore e requisiti
organizzativi, unicità del datore di lavoro), ed una nozione comune (capitale e lavoro) di
stabilità dell’impiego. È a partire da questa consapevolezza che diventa necessaria la
formulazione di una concezione allargata del lavoro subordinato ed autonomo; tale da comprendere
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tutte le forme di lavoro (dipendente, parasubordinato, sociale) e di offrire nuove opportunità
inclusive sul terreno dei diritti sociali.
Su questo punto si fronteggiano diverse prospettive differenti nel merito e nelle conseguenze
che possono generare nel mercato del lavoro. Qui verranno affrontate le proposte della
coalizione del centrosinistra, opposizione al governo Berlusconi, e della CGIL, il maggior
sindacato italiano.
La proposta dell’Ulivo: Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.
Da un lato emerge l’interesse verso la creazione di un tertium genus che vede il lavoro
parasubordinato – cioè quell’arcipelago di posizioni contrattuali contrassegnate dal
riconoscimento di una condizione di autonomia formale sancita dal rapporto di lavoro inserirsi tra il lavoro subordinato ed il lavoro autonomo tradizionale, di “prima generazione”
(Amato, Treu, 2002). Nell’ambito di questo filone la proposta carta dei diritti dei lavoratori
elaborata da Amato e Treu è quella più organica ed individua tre categorie di lavoratori:
lavoratori autonomi, privi cioè di “vincoli di subordinazione”, lavoratori economicamente
indipendenti, e lavoratori subordinati.
La “carta”, tradotta in disegno di legge ed assunta quale proposta legislativa della coalizione
del centrosinistra, si innesta sulla nota L. 300/70 – lo Statuto dei diritti dei lavoratori - ma
introduce due elementi di novità. La prima concerne il riconoscimento di una specificità del
lavoro parasubordinato, con connessi i diritti sindacali e della persona previsti dallo Statuto dei
diritti dei lavoratori e riferiti ai soli lavoratori subordinati; la seconda, come ha sottolineato lo
stesso Treu (2002) prevede un intreccio tra le politiche attive del lavoro e programmi di spesa
sociale. Infatti, vengono introdotti nuovi contratti con finalità di inserimento (per le fasce deboli
del mercato del lavoro) e contratti con finalità formative che in prospettiva dovrebbero esaurire
l’esperienza dei contratti di formazione e lavoro e apprendistato. Per tutte e tre le aree
contrattuali vengono prefigurate forme di sostegno al reddito in caso di interruzione di un
rapporto di impiego; Inoltre, l’orientamento è quello di una riunificazione degli interventi di
sostegno al reddito (indennità di disoccupazione e mobilità) e di estensione della cassa
integrazione alle piccole imprese ed ai settori sino a questo momento esonerati. Per i lavoratori
“economicamente dipendenti” sono previsti interventi di integrazione dei contributi a fini
pensionistici, e l’istituzione di un “conto di sicurezza individuale”, quale strumento di politica
del lavoro e di argine ai rischi di dumping sociale. L’intero progetto è strutturato attorno al
principio della rimodulazione delle tutele in relazione alla fattispecie contrattuale dei singoli
lavoratori.
Alternativa a questa impostazione è quella che si propone di conservare la polarizzazione
tuttora fondante il diritto italiano del lavoro senza però lasciarla invariata (Roccella, 2002).
Rifiuta la costituzione di un “terzo polo” della giurisprudenza lavorista comprendente il lavoro
parasubordinato, - questa prospettiva ha il merito di evitare la progressiva marginalizzazione
del ricorso a contratti a tempo indeterminato, con i rischi di precarizzazione del rapporto di
lavoro -, e propone una rielaborazione del concetto di subordinazione, non più riferito ad uno
stato giuridico di subalternità ma ad una condizione di dipendenza economica. Il merito di
questa proposta consiste nell’indicare un percorso di riscrittura del contratto al fine di proporre
un sistema di regolazione del mercato del lavoro (subordinato, parasubordinato ed autonomo),
adatto ai mutamenti qualitativi intervenuti negli ultimi decenni. A partire da una rielaborazione
dei contenuti che descrivono la condizione di subalternità e di autonomia, il lavoro
parasubordinato verrebbe polarizzato o sul versante del lavoro subordinato o su quello
autonomo, perdendo così la sua specificità giuridica ma non quella organizzativa. Il disegno di
legge introduce anche degli elementi di riforma dei processi di lavoro in modo accelerare la
gestione delle controversie.
Per ragioni di rigorosità espositiva è opportuno citare il disegno di legge, presentato dall’area
“liberal” dei Democratici di sinistra e distinto da quello presentato dalla coalizione dell’Ulivo;
questo progetto condivide con il precedente l’idea di una specificità del lavoro parasubordinato
al quale verrebbero riconosciuti le garanzie essenziali già definite dalla L.300/70 in materia di
8
libertà e dignità del lavoratore e diritti sindacali. Ma il nodo centrale di questa iniziativa
legislativa non riguarda tanto la fattispecie del lavoro “economicamente dipendente”, quanto
una “redistribuzione” delle tutele del lavoro subordinato; in particolare il disegno di legge si
propone di agire sulle “anomalie” determinate dall’apparato sanzionatorio in materia di
licenziamenti individuali illegittimi, confermando un’attenzione ossessiva verso la modifica
dell’articolo 18 L. 300/70. Si attribuisce al giudice la scelta della sanzione più appropriata in
caso di licenziamento “senza giustificato motivo”, rendendo omogeneo il trattamento per tutti i
lavoratori, indipendentemente dalla dimensione dell’impresa in cui sono occupati. Questa
modifica vedrebbe tutti i lavoratori vincolati ad un’unica normativa, che però ripiega verso una
sorta di egualitarismo regressivo.
La proposta della Cgil
La proposta avanzata dalla CGIL si muove su un versante alternativo a quelli sinora esplorati e
si articola su tre fronti: indica modalità di garanzia e protezione per quei lavoratori che sono al
momento esclusi dall’art.18 introducendo l’obbligo di reintegro in caso di licenziamenti
illegittimo salvo che il lavoratore non decida di rinunciare al reintegro in cambio di un
pagamento di quindici mensilità dell’ultima retribuzione, propone un procedimento speciale in
modo da accelerare i tempi dei processi di lavoro. Ma l’innovazione più rilevante riguarda
l’estensione delle tutele e dei diritti del lavoro a tutte le diverse tipologie contrattuali. Il concetto
di subordinazione non viene più ricondotto alla presenza di una condizione di lavoro
eterodiretta determinata da un rapporto di natura gerarchica tra l’imprenditore ed i suoi
dipendenti e collaboratori, ma da una condizione che prevede una relazione di lavoro
continuativa ed all’interno di un contesto organizzativo predisposto da soggetti diversi dal
lavoratore. La direzione è quella di una “unificazione del lavoro alle dipendenze altrui”
attraverso l’istituzione di un contratto unico per tutti i lavoratori, con l’esplicito obiettivo di
trovare una comune formula giuridica per regolare i rapporti di lavoro subordinato e
parasubordinato, individuando come tratto comune il “continuativo coinvolgimento della
personalità” del lavoratore in un progetto di impresa a cui risulta in entrambi i casi estraneo.
Per questa ragione è stato necessario risalire le fonti proponendo una modifica dell’articolo 2094
c.c. (che ha strutturato il concetto di contratto di lavoro e di subordinazione) in modo da
riconfigurare il concetto di contratto di lavoro riconducendo la subordinazione ad una
condizione di dipendenza socio-economica (Alleva, 2003). Questa architettura riafferma la
dicotomia lavoro subordinato/lavoro autonomo ma ne modifica i presupposti concettuali:
la subordinazione estende i criteri di riconoscimento in modo tale da incorporare il lavoro
parasubordinato caratterizzato da “dipendenza economica”, ridefinendo così i concetti di
autonomia ed eterodirezione ed avviando un importante processo di riunificazione di segmenti
della società salariale. L’impianto che presiede questa versione modulare di uguaglianza - sul
versante dimensionale delle imprese e sul versante delle tipologie contrattuali – ha il pregio di
creare i presupposti giuridici per la determinazione di una cultura collettiva comune ai diversi
profili professionali e posizioni contrattuali.
Il documento della Cgil è articolato intorno ad alcune questioni cruciali: agisce sul terreno del
ricollocamento delle fasce deboli del mercato del lavoro e delle garanzie al reddito, ridefinisce il
contratto di apprendistato ed i contratti a causa mista (in cui si intrecciano percorsi formativi e
lavorativi), interviene sul versante della previdenza di base e della previdenza integrativa,
rimodula i contratti di solidarietà e la riforma della Cassa Integrazione Guadagni quali
strumenti attivi di governo della mobilità e delle turbolenze del mercato. Inoltre, il progetto
insiste sulla necessità di valorizzare strumenti di prevenzione in caso di crisi aziendali che non
si riducano a quelli che vengono definiti “ammortizzatori sociali di tipo conservativo” (Cig e
contratti di solidarietà) ma avanza la proposta di rafforzare le relazioni industriali attraverso un
“piano sociale di impresa” la cui finalità è, da un lato, quella di istituire piani aziendali di
aggiornamento professionale e formazione permanente, e dall’altro, di esercitare attraverso i
diritti di informazione e contrattazione un controllo sulla struttura produttiva ed occupazionale
e di monitorarne l’evoluzione. Si tratta di un passaggio di grande interesse perché riporta in
9
superficie il tema della “codeterminazione” declinandolo secondo l’indirizzo che era stato
espresso nel 1979 con la proposta, rimasta allora pressoché inascoltata, del piano d’impresa
(Trentin, Amato, Magno, 1980); ovvero dell’obbligo dell’impresa di fornire informazioni sulle
scelte strategiche dell’impresa consentendo al sindacato di condizionare i processi decisionali
aziendali.
Con questa proposta che si tradurrà in una legislazione di sostegno i diritti di informazione
contenuti nella prima parte dei contratti, opportunità non sempre efficacemente utilizzata dalle
organizzazioni sindacali, ritrovano un terreno di valorizzazione, e diventano lo strumento per
avviare la sperimentazione di percorsi di democrazia industriale, in cui l’intervento sulla
condizione materiale della prestazione di lavoro, e delle opportunità/vincoli che questa
schiude, è inseparabile da un’azione di controllo e verifica sulle traiettorie strategiche di
sviluppo dell’azienda.
Il lavoro come istituto giuridico: la proposta Supiot
Un monito alla necessità di guardare ad una “unificazione” del diritto del lavoro era già stato
avanzato dal gruppo di lavoro europeo coordinato da Alain Supiot (1999) per la la Direzione
generale Lavoro e politiche sociali della Commissione Europea.
Il perno attorno cui ruota l’intera riflessione è che le profonde trasformazioni che hanno
investito il lavoro impongono un nuovo modello di regolazione «non più basato sulla stabilità
dell’impiego ma sulla continuità di uno “status” professionale al di là dei diversi impieghi
detenuti» (Supiot, 2003, 42). Sino a questo momento il diritto del lavoro interviene sulle
modalità di prestazione lavorativa solo se questa è oggetto di un contratto (scomponibile nei
suoi elementi costitutivi, dati da un accordo tra le parti, una causa, un oggetto ed una forma). Il
cambiamento di paradigma suggerito dal gruppo di lavoro di Supiot è quello di porre al centro
della discussione una nozione estesa di lavoro3, sostitutiva di quella di impiego. Non si tratta di
una sostituzione meramente nominalistica; le trasformazioni dell’impresa e del mercato del
lavoro impongono ai singoli lavoratori continue ed articolate richieste di flessibilità. La sfida
non concerne, come è stato in passato, l’introduzione di rigidità nella regolazione della
prestazione lavorativa quanto invece l’introduzione di meccanismi complessi di governo della
flessibilità stessa. La proposta di Supiot accetta questa sfida ed agisce su questo versante con
l’obiettivo di adeguare il diritto al cambiamento; non in termini di adeguamento unilaterale
appiattito sulle richieste datoriali ma con l’esplicito intento di “armonizzare” gli imperativi di
libertà nel lavoro con il «bisogno non meno importante che tutti i lavoratori hanno di fare
affidamento sulla lunga durata di un autentico status professionale che possa permettere loro di
liberare in modo equo la propria capacità di iniziativa individuale» (Supiot, 2003, 41). Lo status
professionale non è più strettamente riconducibile al lavoro retribuito e di mercato ma accorpa
anche i periodi che sono situati al di fuori delle transazioni di mercato. Il lavoro sostituisce
l’impiego come condizione dalla quale esigere nuovi diritti collettivi ed individuali, primi fra
tutti il diritto alla formazione permanente indipendentemente dalla posizione che ciascuno
ricopre nel mercato del lavoro (occupati, disoccupato, pensione). Ne deriva che l’obiettivo di
regolazione delle politiche del lavoro non riguarda solo le condizioni in cui si svolge la
prestazione del lavoratore ma lo status professionale della persona. Il singolo si troverebbe nelle
condizioni di poter determinare un progetto di crescita delle competenze senza soluzione di
continuità sotto il profilo economico, a seguito di interventi di sostegno al reddito nei momenti
di inattività, che qui verrebbero utilizzati quali occasioni di arricchimento professionale.
Lo schema di analisi contenuto nel rapporto Supiot aggredisce quei fattori di incertezza che
hanno determinato la crisi dello scambio fordista tra subordinazione e sicurezza, e che
rappresentano in questa fase del processo di globalizzazione dell’economia una minaccia alle
libertà individuali e collettive nei rapporti di lavoro: si va delineando un profilo di
La nozione di lavoro risponde maggiormente al progetto di Supiot in quanto richiama un’obbligazione
volontariamente sottoscritta o legalmente imposta, senza che questa sia strutturalmente agganciata ad un contesto
organizzativo specifico, come nel caso della nozione di impiego.
3
10
modernizzazione ancorata ad una prospettiva di breve periodo dello sviluppo economico, dei
rapporti sociali e di lavoro, e dove la difficoltà del singolo di esercitare un controllo sulla
progettualità del proprio futuro è all’origine di condizioni di lavoro caratterizzati da una fronda
condizione di insicurezza (posizione, diritti, qualità della vita), di incertezza sulla loro stabilità e
da vulnerabilità.
Si propone di modificare la nozione di subordinazione per ancorarla alla condizione di
“dipendenza economica”, così come è stata prospettata nei disegni di legge precedentemente
discussi.
Lo status professionale è il vettore che consente di porre nell’agenda politica diritti del lavoro di
nuova generazione, ha una natura garantista e largamente inclusiva. Questo impianto
concettuale è certamente riconducibile alla matrice libertaria di del giuslavorismo francese,
tuttavia è possibile rintracciare un legame con la riflessione che negli scorsi decenni attraversò il
giuslavorismo italiano.
Infatti, verso la fine degli anni ’80 si afferma una sensibilità verso il tema della crisi di identità
del diritto del lavoro, parallelamente al consolidamento dei fattori di crisi del modello fordista;
uno dei punti di partenza è il nodo del concetto di subordinazione e la necessità di percorrere
ipotesi di riforma non più rinviabili. Nello specifico, cresce l’attenzione verso una teoria del
lavoro come istituto giuridico: «guardando al lavoro come istituto giuridico, piuttosto che alla
subordinazione come fattispecie, si potrebbe anche affrontare il problema, essenziale in termini
politici, delle garanzie fondamentali che debbono operare verso tutti i lavori e dei principi di
coerenza ed equità che dovrebbero governare le differenziazioni interne all’istituto» (D’Antona,
1989, 48). I lavoratori usufruiscono di questa nuova generazione di diritti per il lavoro
(Romagnoli, 1999) non in quanto “parti” di un rapporto di lavoro, ma in quanto persone che
guardano al lavoro come ad un programma di vita, in cui si coagulano esigenze di sicurezza,
reddito ma anche una dimensione identitaria e professionale.
La discussione intorno ai modelli di tutela ruotava intorno alla necessità di garantire la persona
nel corso delle sue diverse attività senza che il contesto organizzativo determinasse i confini
della tutela stessa; anche qui la persone prevale sulla condizione sociale e giuridica di
lavoratore, e con essa un’idea del lavoro sans phrase che può essere considerata un’anticipazione
delle tesi che dieci anni dopo compariranno nel rapporto Supiot.
In esso la ricerca dei principi di coerenza ed equità viene individuata nell’articolazione di un
diritto sociale che prevede: la continuità del reddito indipendentemente dalla condizione
occupazionale dei singoli e quindi protegge dai rischi di dumping sociali determinati dalle
oscillazioni del mercato del lavoro, diritti sociali strettamente connessi con la nozione di lavoro
e comprendente le forme di mercato e non di mercato dell’attività lavorativa. Tali diritti sociali
riguardano diritti universali rivolti indistintamente a tutte le forze di lavoro indipendentemente
dalla presenza o assenza di un rapporto di lavoro (formazione permanente, sanità), diritti
sociali fondati sul lavoro non retribuito (lavoro di cura, autoformazione, lavoro non di mercato),
diritti comuni dell’attività professionale (igiene e sicurezza) e diritti specifici del lavoro
dipendente e retribuito cioè legato alla condizione di subordinazione nel lavoro (secondo la
definizione unificante della subordinazione come dipendenza economica). Da ultimo si apre
una prospettiva che il gruppo di lavoro definisce con l’espressione di diritti di “prelievo
sociale”; ovvero opportunità di usufruire di “crediti” da utilizzare nel campo della formazione,
dell’autoimprenditorialità e dell’articolazione degli orari di lavoro. Questi diritti sono svincolati
dalla contribuzione e andrebbero agganciati alla fiscalità generale e proiettati su obiettivi di
utilità sociale.
In questo scenario l’impiegabilità del lavoratore assume una valenza specificatamente postfordista, configurandosi come l’asse attorno cui ruota una sorta di diritto attivo alla mobilità
(Ranieri 2002): afferma una visione sostanziale della libertà individuale che risponde alla
domanda di sicurezza e libertà maturata in questi anni nel vissuto e nella percezione di larghe
fasce di lavoratori, verso la regolazione dei rapporti di lavoro imperniata più che sulla sicurezza
del posto, sulla presenza di garanzie impegnate a tutelare il percorso professionale della persona.
I singoli lavoratori verrebbero così dotati di un diritto attivo alla formazione permanente di
rafforzamento della posizione nel mercato del lavoro e di upskilling delle competenze
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professionali individuali. Questo aggancio alla professionalità apre nuovi spazi di
“codecisione” sui criteri che orientano la progettazione organizzativa del lavoro e di
contrattazione del sapere, sia in termini di opportunità di apprendimento sul lavoro sia in termini
di opportunità di formazione non strettamente connessi alle esigenze formative aziendali.
Stabilisce cioè una connessione tra il momento del controllo sul sapere professionale, terreno su
cui si innestano nuove forme di disuguaglianza sociale, ed il percorso lavorativo del singolo.
La regolazione di questa traiettoria professionale, ha come fondamento non il singolo contratto
di impiego, concepito come formalizzazione di una relazione tra due soggetti del diritto
(lavoratore/imprenditore), ma la regolazione di una carriera professionale della persona
collocata su una dimensione temporale di lungo periodo e che può comprendere, oltre a periodi
di inattività, anche diversi contratti di impiego tra imprese autonome o tra imprese
appartenenti allo stesso gruppo.
La novità è che l’oggetto delle politiche del lavoro non comprende unicamente il lavoro oggetto
di transazioni ma l’esperienza professionale del singolo; questo è il cambiamento radicale di
paradigma che il rapporto propone, ma questo è anche il nodo principale della sua debolezza.
Infatti lo statuto professionale diventa l’asse di un diritto di cittadinanza che inevitabilmente ha
delle ricadute, o pone degli interrogativi circa alcune questioni cruciali che il rapporto non
risolve. In primo luogo la definizione dei criteri di riconoscimento di questo “statuto” (analisi
del profilo di competenze) e la natura delle sedi decisionali in cui vengono elaborati tali criteri.
Inoltre si pone nuovamente il problema delle sedi negoziali che presiedono la regolazione di
questa nuova concezione del lavoro – e la contrattazione collettiva proprio perché relativa a
transazioni di mercato non è che una parte del percorso -, il livello negoziale in cui si collocano
tali sedi e gli eventuali raccordi tra essi per evitare sovrapposizioni (sulla stregua dei raccordi
oggettivi tra i livelli contrattuali nazionale, territoriale ed aziendale definiti dal Protocollo del 23
luglio 1993), ed infine quale intreccio si viene a determinare tra le politiche macroeconomiche e
questa nuova configurazione delle politiche del lavoro.
e.
Conclusioni.
Questa breve incursione sulle proposte avanzate in alternativa al progetto destrutturate del
governo di centro-destra aveva esordito con uno sguardo sui dilemmi che attraversano la forma
del contratto di lavoro e la sua intrinseca incompletezza. In particolare, veniva sottolineato
come il venir meno delle condizioni che avevano reso possibile il contratto fordista di lavoro ed
lo scambio politico che lo presiedeva: dato, sinteticamente, dall’indeterminatezza del potere di
comando riconosciuto al datore di lavoro, e le sue ricadute sull’organizzazione del lavoro,
controbilanciata dalla presenza di un sistema di protezioni sociali agganciate alla condizione di
lavoratore salariato. Il venir meno di questo patto deve comprendere la rivisitazione di
entrambe le condizioni del precedente scambio, non solo quella riguardante il sistema di diritti
sociali equamente distribuiti alle posizioni determinatesi nel corso di questi anni con diversi
provvedimenti legislativi che hanno aperto la via a forme diversificate di flessibilità
contrattuale.
Le proposte di legge dell’Ulivo e della Cgil, pur con delle differenze, rispondono ad esigenze
diffuse di regolazione del mercato del lavoro, secondo una duplice prospettiva: si propongono
di intervenire nel mercato del lavoro attraverso nuove forme giuridiche di tutela delle diverse
posizioni contrattuali – introducendo un tertium genus (il lavoro economicamente dipendente)
o modificando la nozione di subordinazione definita dall’art. 2094 del c.c. – ed aggiungono
nuove forme di sicurezza sociale al di fuori del mercato del lavoro (riforma degli
ammortizzatori sociali). La garanzia della continuità di reddito viene assunta quale presupposto
per il governo collettivo ed individuale di una flessibilità sostenibile: garantire un reddito, e
quindi evitare il rischio di esclusione sociale dei soggetti più esposti alle turbolenze del mercato
del lavoro, è lo strumento principe per la gestione dei “mercati transizionali” (Schmid, 1995).
Rispetto alle criticità che si vengono a determinare nel passaggio tra le diverse condizioni
economiche (occupazione, disoccupazione, formazione, pensione), il singolo cittadino conserva
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un pacchetto minimo di diritti sociali che introduce un principio di “sicurezza” ed argina i
rischi di dumping sociale.
Ma la proposta culturale, intesa come concezione di rapporti sociali ed economici, che si
propone di contrastare il progetto egemonico aperto dal libro bianco sino alla legge 30/2003
deve comprendere un intervento sulla organizzazione del lavoro e spingersi alle soglie del
governo dell’impresa. Perché anche questo secondo versante è un fattore non residuale di
“insicurezza”, ora non più assorbito dai termini di uno scambio macroeconomico.
La limitazione dell’autonomia nei luoghi di lavoro non è solo data dalla creazione di
insicurezza contrattuale ma anche dalla contrazione di libertà ed opportunità che condizionano
il quotidiano svolgimento della prestazione di lavoro. Inoltre, affrontare la dimensione tecnicoorganizzativa della prestazione di lavoro è cruciale per poter determinare una inversione di
tendenza rispetto alla crisi di legittimazione del contratto, e per questo rappresenta un
passaggio determinante nella costruzione di un consenso di massa intorno ad un nuovo
progetto di regolazione della condizione di lavoro .
Nella proposta della Cgil la rielaborazione del “piano di impresa” costituisce certamente un
passo avanti verso quella direzione, la valorizzazione dei diritti di informazione, anche se
circoscritta a contesti di crisi, determina sempre una limitazione dei poteri manageriali.
Più radicale è la proposta avanzata dal gruppo di lavoro coordinato da Supiot. Partendo dalla
intrinseca difficoltà di definire uno schema di regolazione dell’organizzazione del lavoro
esportabile alle diverse situazioni aziendali, il gruppo propone un processo inverso. Propone di
riconoscere al singolo una cerchia di diritti pre-contrattuali (di lavoro) relativi allo statuto
professionale della persona. Il tema della valutazione delle competenze e del profilo
professionale individuale diventa un asse strategico del diritto del lavoro medesimo, e non può
lasciare inalterate le modalità con cui si svolge la prestazione ed i meccanismi che favoriscono o
inibiscono la crescita professionale. È questo il punto di forza di tale proposta, soprattutto alla
luce dei limiti evidenti che oggi manifestano le declaratorie professionali contenute nei contratti
di lavoro.
Comprendere nella discussione sulla riforma delle politiche del lavoro il tema della condizione
organizzativa in cui si svolge la prestazione solleva un’ulteriore questione relativa all’idea di
uguaglianza che presiede le proposte, e che riprende due concezioni che hanno attraversato il
movimento organizzato dei lavoratori: il concetto di “ammortizzatore sociale” rimanda sempre
ad una sorta di intervento risarcitorio rispetto a logiche di appropriazione e gestione delle
risorse umane lasciate sostanzialmente immutate. Mentre fatica ad affermarsi una cultura del
“controllo” di tali processi che intervenga non solo sui rischi che derivano da esigenze di
flessibilità dei lavoratori ma anche sulle ragioni della flessibilità del lavoro, sulla sua
organizzazione. Una cultura che si spinga alle soglie del governo dell’impresa, dei suoi processi
decisionali, della socializzazione del sapere. La questione relativa alla collocazione del sapere
nei luoghi di lavoro, e quindi le decisioni che lo presiedono, interseca il tema della distribuzione
del potere interno alle imprese ed il loro bilanciamento.
Il tema del potere nei luoghi di lavoro resta un tassello importante per affermare i diritti delle
persone, e per dare origine, attraverso processi sociali di riconoscimento e di elaborazione
collettiva, ad una prospettiva di “flessibilità condivisa”.
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