Leggi l`articolo di Paolo Rumiz

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Leggi l`articolo di Paolo Rumiz
Nella tana del brigante Musolino
in mezzo ai picchi dell’Aspromonte
Africo è una terra che gode di pessima fama. Racconta Rumiz: “Tra gli infidi
terreni della Locride e corredata di storie di rapimenti, era persa da qualche
parte tra le nubi, chilometri più a monte. Era stata completamente abbandonata
dopo un'alluvione nel 1951”. Oggi è da scovare ma è meno arcigna di quanto
non si dica
Il giorno in cui rischiai di non trovare Africo, paese perduto tra i picchi d'Aspromonte, iniziò con
pioggia giallina di scirocco, nuvoloni lunghi come sgombri e l'urlo della fiumara Amendolea che si
ingrossava nella gola. Quella notte, in valle, era bastato salire di tre chilometri dalla costa per
piombare nel buio più assoluto. Un buio così negro che il gestore dell'alloggio sussurrò: “Se ti
allontani, lascia la luce accesa sulla porta, o rischi di non ritrovare il posto”. L'illuminazione
pubblica era assente e le rupi contorte a picco sulla strada erano intuibili solo perché qualcosa
copriva le stelle.
Con quel nome abrasivo come il vento dello Jonio, Africo aveva pessima fama. Lassù era la tana del
brigante Musolino che nemmeno i Carabinieri erano riusciti a stanare. Contigua agli infidi terreni
della Locride e corredata di storie di rapimenti, era persa da qualche parte tra le nubi, chilometri più
a monte. Era stata completamente abbandonata dopo un'alluvione nel 1951. In un memorabile
reportage di Tommaso Besozzi, pubblicato sull'“Europeo” nel 1948, c'era scritto: “L'asprezza del
terreno ha finito per sopraffare ogni slancio (della gente, n.d.r.)” e generare un “rassegnato e
neghittoso fatalismo”. Le strade pare fossero talmente strette che non si poteva nemmeno aprire
l'ombrello.
Sei ore di mulo ci volevano per arrivarci a quei tempi, e nessun politico s'era sentito di farsele per
quei pochi selvaggi abitanti. Col tempo la sinistra nomea era aumentata, e ora che il paese era
deserto, il rischio – mi era stato detto - era di imbattersi in latitanti. Per capirne qualcosa, prima di
affrontare la salita, non mi restò che passare per Africo Nuova e Bova Marina, “new town” dove gli
abitanti erano stati trasferiti dopo lo sgombero. Era una situazione tipica della Calabria, regione
dove – causa frane, piogge o terremoti – quasi ogni paese a monte finiva per filiare un suo doppio,
ovviamente più brutto, sulla costa.
La memoria di Africo era scesa a valle, e a Bova Marina si incarnò in un'anziana tabaccaia che
dormicchiava su una poltrona presso il bancone. Angela Bruzzaniti si chiamava, e il figlio Pasquale,
che badava ai clienti, la scosse dal torpore spiegando che uno del Nord era sceso fin lì per sentire le
storie del paese. Angela si stropicciò gli occhi, sorrise, poi invece di parlare cantò. Si fece dare una
chitarra, la accordò meticolosamente, poi pigolò: “Nina ti vitti all'acqua che lavavi / e lu me cori si
'nchiu d'amuri”. Era il ritratto di un'innocenza silvestre. Disse: “Era bello lassù. C'era musica e
ballo. Nella banda suonavo l'armonium. Eravamo poveri e allegri”.
Sul retro dormicchiava in poltrona anche il marito di lei, Domenico, anni 94. Era sordo, così il figlio
gli gridò all'orecchio che c'erano visite. Raccontò, sgolandosi anche lui, e a ogni affermazione si
staccava dallo schienale con un colpo di reni che restava a metà. Africo per lui era altra cosa:
miseria, burroni, alluvioni, vita “allo stato primitivo come bestie”. C'era da chiedersi se lui e la
moglie avessero visto lo stesso luogo. “Si mangiava pane e lenticchie, qualche fico, castagne. Il
prete faceva anche da medico, ti dava gli infusi e poi i sacramenti”. Disse che i suoi genitori si
erano difesi dai briganti rotolando pietre dall'alto. Pure lui recitò una filastrocca. “All'armi all'armi
la campana sona // li turchi so' rivati a la marina”.
Congedandomi il figlio sorrise dei miei timori: “Africo? Che problema c'è? Io ci passeggio da solo
anche di notte. Ci vada”. Fu così che presi la strada di Bova, l'anticamera della salita. Arroccata su
un bastione, pareva un'astronave a filo di nubi. E lì, in una locanda dedicata a San Leo trovai un
gruppo di ragazzi che tutto sapevano del monte. Si erano uniti in cooperativa (“Naturaliter” il suo
nome) per condurre i forestieri nelle valli più segrete d'Aspromonte, e uno di loro, Andrea
Laurenzano, spiegò la strada per arrivare al paese dopo aver diviso con me un pezzo di pane
grecanico, olive e un sorso di vino rosso. Trasudava mitezza e passione per la montagna.
Passai tornanti in bilico su calanchi, la brughiera nella nebbia vibrava di fiori gialli e viola. Entrai in
una grande foresta su terreno più dolce e dopo quota 1200 imboccai una discesa fino al bivio per
Roghudi e Casalinuovo. La strada divenne sterrata. Intorno querceti, cinghiali, ginestre, frane,
canaloni. L'indicazione di Africo era scomparsa e la discesa continuava. Dopo una curva tra
pinnacoli danteschi comparve un cimitero abbandonato. Era il luogo indicato da Andrea. Scesi,
spaventai due maiali neri setolosi, presi direzione Est e m'imbattei in una capanna. Pareva quella di
Eumeo a Itaca, tale era l'assembramento di maiali lì attorno. Scapparono, ma subito tornarono a
vedere, curiosi come una scolaresca in gita. Segnalavano inequivocabilmente una presenza umana
che non si mostrava.
Trovai mucche al pascolo, terrazzamenti, scheletri di alberi contorti colpiti dalla folgore, ma il paese
non c'era. “Attento – aveva detto Andrea – non lo vedrai finché non ci sarai sotto”. Così continuai
fino a un promontorio erboso, oltre il quale c'era solo il nulla. Avevo sbagliato strada, o forse era
stato il paese a respingermi. Che ci vieni a fare forestiero, sembravano dirmi le pietre. Per momento
pensai che forse era meglio così, non trovare Africo. Ma intanto le nubi si erano dissolte, così tornai
al cimitero, ne oltrepassai il muretto, scesi a esplorare altri sentieri ma anche questi morirono tra i
querceti. Risalii, tornai indietro, e solo allora vidi un bivio a “U” ben evidente che stranamente mi
era sfuggito due ore prima. Portava nella direzione giusta, in mezzo a ginestre infiammate come
candelabri dal tramonto.
Dopo una curva, Africo si svelò meno arcigna della sua fama. Anche il mio ombrello, tra le case, si
apriva comodamente. Tra i ruderi trovai un macinino, la ruota di una carriola, un pitale, una
cazzuola, un catino, un piatto di metallo smaltato, la pala di una zappa. In fondo alla fiumara,
lontanissimo, un triangolo di mare tra due montagne. Di briganti o malintenzionati neanche l'ombra.
“Quelli di qui – mi aveva detto il poeta Gianni Favasuli – sono spinosi come ricci di castagno, ma
solo per timore degli intrusi malintenzionati. Con i forestieri, invece, sono di un'ospitalità omerica.
Sanno che dietro ogni straniero può nascondersi un dio”.
Cominciavo a capire quella terra malfamata, che si smentiva consegnandomi a gente mite, quasi in
un passaparola, per proteggermi. Tornai sulla costa, ai paesi nuovi di cemento, e intuii che forse,
dietro al male della Calabria c'era anche quel dio Pan delle foreste tradito per un dio marino. Espulsi
dalla montagna e respinti dal mare: ecco cos'erano i figli dell'abbandono. Esuli per sempre, in bilico
tra luoghi. Nuotai quella sera nella Jonio, mentre le ombre si allungavano nelle fiumare.