ANNO XXVII NUOVA SERIE - N. 86 –MAGGIO
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ANNO XXVII NUOVA SERIE - N. 86 –MAGGIO
International RIVISTA TELEMATICA QUADRIMESTRALE - ANNO XXVII NUOVA SERIE - N. 86 –MAGGIO-AGOSTO 2015 This Review is submitted to international peer review ISSN:1121-6530 1 Direzione Giovanni Invitto (Direttore, [email protected]) Daniela De Leo (Co-direttore - [email protected]) Comitato di Redazione Giovanni Invitto, Università del Salento (Editor/Direttore responsabile), Angela Ales Bello, Università Lateranense; Angelo Bruno, Università del Salento; Daniela De Leo, Università del Salento; Antonio Delogu, Università di Sassari; Marisa Forcina, Università del Salento; Elena Laurenzi, Università del Salento; Aniello Montano, Università di Salerno; Paola Ricci Sindoni, Università di Messina. Comitato scientifico Nicola Antonetti, Università di Parma (I); Jean-Robert Armogathe, École Normale Supérieure de Paris (F); Renaud Barbaras, Paris I – Sorbonne (F); Francesca Brezzi, Università di Roma 3 (I); Bruno Callieri, Università di Roma 1 (I); Mauro Carbone, Université Jean Moulin Lyon 3 (F); Gennaro Carilllo, Università di Napoli (I); Giovanni Cera, Università di Bari (I); Claudio Ciancio, Università del Piemonte Orientale (I); Dino Cofrancesco, Università di Genova (I) - Françoise Collin, fondatrice di “Les Cahiers du Grif”(F); Umberto Curi, Università di Padova (I); Roger Dadoun, Université de Paris VII-Jussieu (F); Franco Ferrarotti, Università di Roma 1 (I); Renate Holub, University of California – Berkeley (Usa); Roberto Maragliano, Università Roma Tre (I); William McBride, Purdue University, West Lafayette, Indiana (Usa); Augusto Ponzio, Università di Bari (I); Pierre Taminiaux, Georgetown University (Usa); Christiane Veauvy, Cnrs (F); Sergio Vuskovic Royo, Universidad de Valparaiso (RCH); Chiara Zamboni, Università di Verona (I). Staff di redazione Daniela De Leo (responsabile); Siegrid Agostini, Lucia De Pascalis; Maria Teresa Giampaolo. Sede Comitato Scientifico e Segreteria hanno sede presso il Dipartimento di Studi Umanistici, Università del Salento – Via M. Stampacchia – 73100 Lecce Periodico iscritto al n. 389/1986 del Registro della Stampa, Tribunale di Lecce. 2 Segni e comprensione International Pubblicazione promossa nel 1987 dal Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università degli Studi di Lecce, oggi Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento, con la collaborazione del “Centro Italiano di Ricerche fenomenologiche”con sede in Roma, diretto da Angela Ales Bello. La versione elettronica della rivista Segni e Comprensione è disponibile ai seguenti indirizzi: http://siba-ese.unisalento.it/index.php/segnicompr http: //www.segniecomprensione.it http://dipfil.unisalento.it/ http://www.mannieditori.it/rivista/segni-e-comprensione (1987-2009)” NOTE PER GLI AUTORI I contributi scientifici dal prossimo numero dovranno essere scritti in inglese, si richiede anche la versione in italiano. L’articolo deve riportare, prima del testo, il titolo, Autore e il relativo istituto di appartenenza, indirizzo per la corrispondenza e un abstract (di max 900 battute, scritto in italiano/inglese/francese) con parole-chiave (fino a 5) ed essere redatto secondo le norme redazionali riportate sul sito. Per la sezione “Saggi”i testi non dovranno superare le venti cartelle di 30.000 battute, spazi inclusi e comprese le note bibliografiche. Per le “Note”non si dovranno superare le 10.000 battute, spazi e note inclusi, con le medesime caratteristiche dei Saggi. I testi vanno inviati alla Direzione, indirizzati alla seguente e-mail: segniecomprensione@ libero.it e per conoscenza a [email protected]. I testi, in forma anonima, verranno esaminati da due referees, esterni al Comitato Direttivo, e competenti nelle diverse tematiche trattate dai contributi. Questi forniranno al Comitato Direttivo gli elementi necessari per valutare la correttezza e l’utilità, segnalando la necessità di modifiche o integrazioni per migliorarne le caratteristiche o evidenziando gli aspetti che, se non correttamente modificati, ne potrebbero impedire la pubblicazione. News di Redazione L'Anvur ha classificato la Rivista Segni e Comprensioni come Rivista scientifica nell'Area 11 3 INDICE Editoriale 6 I rintocchi del silenzio Giovanni Invitto 9 Il logo silenzioso Daniela De Leo Materiali 13 Il Venerato Larousse Maria Zambrano Presentato da Elena Laurenzi Saggi 20 L’altra meta’ del silenzio. una riflessione a partire da María Zambrano. Elena Laurenzi 40 David Antin lecteur de John Cage : improvisation orale, silence et récit Pierre Taminiaux 4 Note 49 Ispirazione poetica ed esperienza religiosa Il silenzio nella poesia e nella preghiera Armando Savignano 66 L’Ecloga II. La vita silenziosa di Andrea Zanzotto Marco Gaetani Resoconti 85 Senza il silenzio la voce umana diventa un brusio privo di senso Dino Cofrancesco 89 Reflections on a Silent Nation through the Perspective of the Everyday Suzan Meryem Rosita Recensioni 102 Difficile vivere Antonio Stanca 5 In un con convegno internazionale sul silenzio del 1991, organizzato da Carlo Alberto Augieri nella università salentina, io partecipai e svolsi un tema che poteva sembrare provocatorio, cioè parlai del silenzio come forma di violenza. Naturalmente non includevo tutte le forme di silenzio come forme di violenza, ma cercavo di dire che spesso, nei rapporti umani, il silenzio è una strategia e una manifestazione di rottura del rapporto o, comunque, ne è una minaccia. Il silenzio è stato considerato, in alcuni momenti, non solo una violazione del dialogo, ma anche un esercizio formalmente neutro, però sostanzialmente traumatico, del rapporto tra persone. Spesso, nelle relazioni interpersonali che stanno per deteriorarsi, il silenzio è una forma di ricatto o di segnale: «non ci si parla più». Ma può anche essere una scelta eticamente positiva: io non parlo per non creare dolore o ulteriore dolore all’altro. E così via. L’utilità del silenzio è, comunque, da sempre palese: serve all’ascolto dell’altro quando si è in gruppo e, quando si è soli, serve alla riflessione individuale. In alcuni ordini monastici, spesso, una parte della giornata è dedicata al silenzio per dare spazio alla meditazione e alla propria ricognizione esistenziale. C’è una bella immagine della pittrice Francesca Mele dal titolo Il silenzio del pesciolino d’oro. I pesci sono per antonomasia animali muti, ma è così solo se crediamo che il linguaggio degli uomini sia l’unico linguaggio che faccia testo. I suoni e i rumori degli animali rimangono, nella percezione del soggetto, indecifrabili. Però non è vero: anche loro parlano… stando zitti. Cioè comunicano. Non dimentichiamo che c’è il linguaggio del corpo che può avvenire in condizione di assoluto silenzio. Continuando a parlare del tema oggetto di questo testo, torniamo al silenzio per dire che può avere anche una valenza negativa. Naturalmente si tratta di esperienze e pratiche soprattutto degli adulti, ma anche i bambini e gli adolescenti possono «usare» questo strumento di comunicazione, per quanto sia classico l’uso dolcemente ricattatorio del silenzio dei bambini e il loro battere i piedi a terra. Mi rendo conto che può apparire paradossale chiamare comunicazione il silenzio. Ma è proprio così. Il silenzio può anche essere strumento di purificazione, di meditazione, di misticismo. Pensiamo ad alcuni ordini religiosi, non solo cristiani, per i quali la vita comunitaria e la perfezione sono date anche o soprattutto dal e nel silenzio. Per converso non EDITORIALE I RINTOCCHI DEL SILENZIO Giovanni Invitto 6 dimentichiamo che anche molte forme della malavita sopravvivono utilizzando formalmente il silenzio. Comunque il discorso non va mai radicalizzato: l’acquisizione del linguaggio parlato è ciò che l’essere umano ha conquistato in millenni di vita. Ma l’uomo ha anche creato una pluralità di linguaggi silenziosi o sonori. Anche la parola vive di silenzi, come una melodia musicale vive di pause che la costellano e mettono in risalto i suoni e le melodie sentiti o che si sentiranno in seguito. È quello che i filosofi chiamerebbero la dialettica che ha il dato positivo perché c’è il dato negativo. Se non ci fosse il silenzio non ci sarebbe il nostro parlare. Ma c’è chi dice che molte volte il nostro parlare ha la funzione del silenzio, cioè far capire all’interlocutore che parliamo solo «per dar aria alla bocca», come dicono molti per ironizzare sui discorsi degli altri, ed, in questo caso, anche per far capire che non siamo interessati ad un colloquio con chi abbiamo di fronte. Concludo con un richiamo a ciò che ha detto il cinema su questo tema. I mercati musicale, cinematografico, letterario hanno fatto proprio il tema e hanno parlato del silenzio. E ciò è quasi un ossimoro, cioè la congiunzione di due termini contraddittori: parlare e silenzio, cioè non parlare. È difficile fare una rassegna completa in questa sede. Basta citare solo un caso: ricordiamo I rintocchi del silenzio di Simon e Garfunkel che costituirono la colonna sonora di un pregevole film, Il laureato, del 1967. Qualcuno, negli Stati Uniti, affermava che quel testo era stato scritto dopo l’uccisione di John Kennedy, avvenuta nel 1963. Non lo sapremo mai a meno che non ci siano dichiarazioni degli autori. Ecco la terzultima e l’ultima strofa del testo: E nella luce fredda io vidi diecimila persone, forse più. Persone che parlavano senza dire nulla persone che ascoltavano senza capire persone che scrivevano canzoni che le voci non potevano cantare assieme e nessuno osava disturbare il suono del silenzio ... E la gente si inginocchiava e pregava al dio neon che aveva creato. E l’insegna lampeggiava il suo messaggio con le parole che lo formavano. E il messaggio era: «Le parole dei profeti sono scritte sui muri della metropolitana 7 e negli androni dei palazzi, e diventano sussurro nel suono del silenzio». Impariamo a sentire anche noi i rintocchi dei silenzi. 8 IL LOGOS SILENZIOSO Daniela De Leo Interrogarsi sul silenzio vuol dire circoscriverlo in una spazialità comunicazionale polisemica, vi sono infatti diversi modi di significarlo:“non c’è più niente da dire”, ed altri per i quali “tutto rimane da dire”; c’è il silenzio di colui che “non ha nulla da dire” e quello di chi è giunto ai confini del “dicibile”; vi è il silenzio che “continua” tutte le parole ed un altro che non ne “contiene” nessuna, vi è un silenzio indice di approvazione o condanna ed un silenzio di rispetto e di stima. Una nota accomuna tutti questi diversi significati: il silenzio è sempre comunicazione di vissuti intenzionali che si collocano nella dimensione intersoggettiva dell’ascolto. Riflettere sul silenzio vuol dire individuare i propri limiti di funzione e di epoca, rimanendo lontani dalla chiacchiera, dalla retorica, dai pleonasmi, dalle tautologie, nella consapevolezza che la parola è “il pensiero messo in silenzio” e che la voce del pensiero non coincide con il suono della parola. Silenzio e parola sono in stretta relazione. Ma possono assumere valenze opposte nelle diverse impostazioni filosofiche. Se seguiamo le riflessioni di Michelstaedter la parola e il silenzio assumono due significati opposti, infatti il filosofo goriziano afferma che “al saggio appartiene il silenzio all’illuso la parola”, “colui che è persuaso tace perché non ha più nessun movente a parlare. Colui che non è persuaso tace 1 perché non ha niente da dire” . Il parlare con parole finte che si applicano a cose diverse e da queste poi si attraggono, “tappezza di specchi la stanza della miseria individuale, pei quali mille volte e sempre avanti infinitamente la 2 stessa luce delle stesse cose in infiniti modi è riflessa” . L’angoscia della domanda del contenuto del parlare, l’affannosa ricerca dell’identità della ragione che si confronta con la presenza del mistero nell’esistenza, conduce l’uomo persuaso al silenzio, fino al momento in cui, formulando la domanda dell’essere presente, non conoscerà la parola persuasa. In questa dimensione ermeneutica michelstaedteriana il silenzio rappresenta la sola forma persuasiva. Secondo un approccio fenomenologico il silenzio non risulta essere soltanto un mero atto di tacere per essere nella dimensione della persuasione, ma risulta propedeutico ad ogni forma di comprensione, all’apertura all’altro. Dinanzi a un altro che parla e nell’intimo di sé, è da rinvenire quell’orizzonte di senso dentro cui accogliere la realtà, la relazione tra le cose, il significato di un’esistenza. 9 Il silenzio così significato è una sorta di “epoché”, di sospensione di giudizio, uno spazio di senso in cui lasciare che la datità dell’altro possa essere incontrata. Merleau-Ponty parla di un logos silenzioso che non precede il livello di linguaggio che noi abitualmente ascoltiamo, ma che è anche “al di sotto” , dal momento che, anche quando è “sorpassato”, continua a funzionare, a risuonare e a far sentire la propria eco dentro le formazioni successive del linguaggio. Questo “logos” è descritto come “silenzioso” per sottolineare il fatto che noi normalmente non lo sentiamo. Ma se qualcuno fosse capace di ascoltarlo, forse sentirebbe il suo canto – un melodioso silenzio, fortemente evocativo, che per principio le scienze oggettive del linguaggio non sono in grado di sentire. “La presa di possesso del mondo del silenzio, così come la effettua la descrizione del corpo umano, non è più questo mondo del silenzio, ma è il mondo articolato, innalzato al ‘Wesen’ […] Occorrerebbe un silenzio che avvolga di nuovo la parola, dopo che ci si è accorti che la parola avvolgeva il preteso silenzio della coincidenza psicologica. Che cosa sarà questo silenzio? Come la riduzione, in definitiva, non è per Husserl immanenza trascendentale, ma svelamento della ‘Weltthesis’, così questo silenzio ‘non’ 3 sarà ‘il contrario‘ del linguaggio.” Ma è un passaggio reversibile dal silenzio alla parola, dalla parola al silenzio, in quanto la visione silenziosa cade nella parola, aprendo un campo del nominale e del dicibile, nel momento in cui la parola stessa trasforma le strutture del mondo visibile e si fa intuitus mentis, il silenzio continua ad avvolgere il linguaggio: il rapporto tra i due è dialettico, in quanto rompendo il silenzio, il linguaggio realizza ciò che il silenzio voleva e non otteneva. Ed è nella musica che si rende strutturante questa dialettica. Si legge nel manoscritto vol. VIII f. 189 “la musique comme modèle 4 de la signification. – de ce silence dont le langage est fait“ . Il silenzio in musica è suono. Le pause, l’assenza di suono, sono predeterminate dal compositore, hanno un loro valore che corrisponde esattamente a quello delle note. La pausa è equivalente alla punteggiatura nella scrittura, ma ha una durata prestabilita, alla quale l’esecutore deve con rigore attenersi. Ecco perché il “silenzio” che interrompe il suono continua la trama della frase musicale: “la pausa tra due movimenti di una sinfonia non è pervasa dal movimento, perché è di per sé esclusa dal contesto; mentre quando la struttura d’un brano viene interrotta dal silenzio, sembra che le pulsazioni cardiache della musica si siano arrestate, e l’immobilità di ciò che dovrebbe 5 muoversi crea un senso di attesa” . Il silenzio della pausa non è interruzione dello sviluppo compositivo, che non recide la frase melodica, ma che la sospende, rendendo lontano le 10 note vicine e vicine le note lontane. È quel silenzio che permette il risuonare delle note e il protendere verso l’andamento successivo. È il deserto in cui è reso l’ascolto tra mondo esterno ed interno. Ed è nella musica che parola e silenzio possono entrare in una costruzione dialettica, ed essere considerate in una dimensione ermeneutica completa. L’ascolto riprende l’immagine dell’apertura al mistero. Il silenzio permette alla musica di risuonare come eco della figura-nuda nella profondità aperta del soggetto, che si risveglia alla vita. Questo “suonar dentro a piena orchestra” è la potenza creatrice della musica, è lo spazio in cui si dissolve la logica della sintassi dell’accordo perfetto di tonica, per far di se stesso fiamma, secondo il monito michelstaedteriano. L’uomo persuaso è nel silenzio in attesa del risuonare della parola persuasa: in un costrutto dialogico in cui è traslato direttamente il vissuto, il movimento stesso della melodia entra nella relazione e la stessa relazione è quel “grappolo di vissuto” che si schiude nel momento in cui la comunicazione diviene azione, necessità di trovare la ratio della risonanza. In questo reticolato di parole e di suoni, che è proprio di ogni linguaggio, c’è in gioco una strategia linguistica che la pratica e la imprigiona: la vita. Il discorso musicale è una eloquenza come muta: “è l’esperienza […] ancora muta che ora per la prima volta deve essere portata 6 all’espressione pura del suo proprio senso” . Ed essendo il comprendere una modulazione sincronica della mia esistenza, per comprendere si dovrebbe ritrovare sotto il “brusio delle parole, il silenzio primordiale, finché non descriveremo il gesto che rompe questo 7 silenzio” . Ed è nella gesticolazione dell’uomo che pensa e vive l’essere e gli 8 esseri, presa al suo sorgere l’origine della musica . A questo livello si chiarisce e si rivela il valore dell’arte intesa non come lessico, non come sostituto verbale del mondo, ma come possibilità di condurre ad espressione il silenzio delle cose stesse. In tale costrutto teoretico la composizione musicale parla allo spettatore del mondo, ma lo fa con un linguaggio ricco di suggestioni provenienti da un fondo di verità che l’opera ha catturato attraverso la corporeità del compositore/esecutore ed espresso attraverso le sue mani: questo rapporto così intimo, si instaura nell’ascolto. Prende forma l’equazione formulata da Merleau-Ponty: “L’idée est 9 au langage ce qu’est l’idée musicale aux sons” . Da questo punto di vista, l’opera non dice il mondo rappresentandolo, ma lo manifesta iconizzando l’esperienza unica e singolare dell’artista. Per la pittura, come per la musica, vale la tessa prospettiva messa in atto dal poeta, il quale dalle ceneri della 11 descrizione diretta fa emergere un sovrappiù di senso, una referenza più profonda rispetto a quella del linguaggio rappresentativo, cioè quel logos silenzioso. 1 C. Micheltseadter, Parmenide Eraclito, p. 14; in D. De Leo, Mistero e persuasione in Carlo Michelatsedter. Passando da Parmenide ed Eraclito, Milella, Lecce 2001. 2 Ivi, p. 60. 3 M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1964, trad. It., Bompiani, Milano 1969, p. 196. 4 “La musica come modello della significazione – di quel silenzio di cui è fatto il linguaggio”, C. Merleau-Ponty, Vol. VIII, f, 289 [r], in D. De Leo, La relazione percettiva, Mimesis , Milano 2008. 5 R. Arnheim, Art and Visual Perception: a pschology of the creative eye, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1954, trad. It. Feltrinelli, Milano 1996, p. 311. 6 E. Husserl, Cartesianische Meditationes und Pariser Worträge, a cura di S. Strasser, De Haag, Nijhoff 1950 (Husserliana I); Mediatazioni cartesiane, trad. it. Bompiani, Milano 1960, p. 85. 7 M. Meleau-Ponty, Phènoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945; trad. It., Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 255. 8 “È necessario che qui il senso delle parole sia alla fine indotto dalle parole stesse o, per essere più precisi, che il loro significato concettuale si formi per prelevamento su un significato gestuale, che , a sua volta, è immanente alla parola”, Ivi, p. 256. 9 “L’idea è alla lingua ciò che l’idea musicale è ai suoni”, M. Merleau-Ponty, Manuscrits, Vol. VII, f. 202 [v], in D. De Leo, L’improvvisazione tra dicibile e indicibile, Mimesis, Milano 2013. 12 IL VENERATO LAROUSSE di Maria Zambrano MATERIALI Presentato da Elena Laurenzi Abstract This essay is about the silences of women. In the first section, I discuss the limits of the philosophy of emancipation which takes its roots in the age of Enlightenment and emphasizes women’s silence purely as a result of discrimination and oppression without ever considering the complexity of the issue of women’s freedom — this is not only a matter of rights, but also a matter of symbolic order. In the second section, I refer to the Belgian philosopher Françoise Collin, who suggested that hegemonic historiography (including feminist historiography) is not able to do justice to the contribution of anonymous and silent people to the word. In the third section I analyze the essays of María Zambrano dedicated to the novel Misericordia of Benito Pérez Galdós in order to show how women’s silence(s) can sometimes be a strategic and creative way of action. Il silenzio avvolge il breve scritto di María Zambrano che pubblichiamo in questo volume, Il venerato Larousse. L’articolo tratta del silenzio sotto cui la cultura egemonica (la cultura enciclopedica francese, nella fattispecie) passa le manifestazioni di culture e saperi “periferici”, e al contempo, le circostanze e le vicende della sua apparizione (e sparizione) costituiscono una prova lampante della questione. Ripercorrerne la storia ci permette di esplorare tutte le dimensioni e le ragioni di questo silenzio, da cui esso finalmente emerge, dopo più di quaranta anni dalla sua composizione. La prima traccia dello scritto si trova in una lettera di Zambrano diretta all’amica Elena Croce, datata 29 giugno del 1972, dove la filosofa 13 informa di aver spedito in una busta, assieme ad altri materiali, un 1 «divertissement» concernente «Il Larousse della filosofía». Si riferisce – questo lo si deduce per le date – al volume di Julia Didier, Dictionaire de la philosophie, pubblicato proprio quell’anno dall’editore Larousse di Parigi. L’ironico resoconto della Zambrano circa gli omissis e i silenzi che costellano il compendio di Didier – una sorta di manuale composto con la pretesa di riassumere e mostrare con esempi pregnanti ed eloquenti «le principali nozioni della filosofia» – non poteva non trovare risonanza nelle corde della Croce, e non solo per la clamorosa assenza di Vico e di suo padre Benedetto nella voce dedicata alla «Storia». Lo spirito anticonformista di Elena Croce era naturalmente ostile alla formulazione di idee generali e alla nozione stessa di generalità, in cui coglieva una paradossale manifestazione di provincialismo. Era una studiosa raffinata, capace di restituire in poche battute l’originalità e la particolarità di ogni autore, oltre che cultrice e instancabile promotrice di opere letterarie e filosofiche anche sconosciute o, comunque, normalmente non incluse in ciò che, di volta in volta, viene definito come “il canone”. La sua reazione al testo mandato da Zambrano è, pertanto, entusiasta. Lo definisce «un piccolo capolavoro» e ne annuncia l’immediata pubblicazione nella rivista Settanta, che ella aveva fondato e co-dirigeva, assieme a Leonardo Cammarano. Sorprendentemente, Maria Zambrano – che pure collaborava assiduamente alla rivista, avendone condiviso fin dall’inizio il progetto – si schermisce. In una pronta risposta, il 10 settembre, avverte l’amica di averle spedito un esemplare del Dictionaire, ma di nutrire forti perplessità sulla pubblicazione del proprio scritto: «Quanto alla mia Nota, insisto che forse non riunisce i requisiti necessari per la pubblicazione in Settanta. Mi sono divertita a farla, tutto qui». Elena Croce tuttavia non era facile a lasciarsi scoraggiare nei propri entusiasmi. E mal interpretando la reticenza di Zambrano come una forma di esitazione circa il valore del testo, insiste: «L’articolo su Larousse non ti ho scritto che era un capolavoro? Esce nel numero di ottobre e probabilmente se ne scriverà anche sul Giorno». Ed è a questo punto che la filosofa, acconsentendo alla pubblicazione ma sotto pseudonimo (un ironico pseudonimo, se si pensa che il volume del Larousse pretende in qualche modo di essere l’ABC della filosofia), esplicita le ragioni delle proprie remore: «Penso, cara Elena, che la mia Nota sul Larousse non uscirà firmata con il mio nome, ma con questo A.B.C. che mi è venuto spontaneo. Non bisogna sottovalutare l’estrema suscettibilità francese che impera anche da queste parti. E per la quale potrei apparire io come suscettibile. Per 14 questo ti ho manifestato i miei dubbi sulla pubblicazione, pensando, in quel momento, solamente a Settanta. I vaneggiamenti sono incredibili». La decisione di Zambrano mostra una sorta di autocensura che anticipa l’eventualità, avvertita come incombente, di una censura o comunque di rappresaglie da parte dell’establishment della Cultura ufficiale. La sua prudenza può apparire eccessiva e persino ossessiva, ma non sorprende se si considerano le condizioni di precarietà estrema in cui ella si trovava. Viveva, da esiliata, in un piccolo villaggio di montagna pressoché isolato, situato nel Jurà francese, con un permesso di soggiorno che doveva rinnovare periodicamente. Pochi anni prima, nel settembre del 1964, aveva dovuto abbandonare Roma con un foglio di via del Governo italiano, poiché le sue frequentazioni con gli esuli della Spagna repubblicana erano sospette agli occhi della classe politica democristiana. Espatriata dal 1939, conosceva la fragilità dei sans papiers, e dei papiers facilmente revocabili, concessi a esuli e profughi. Nel corso del suo peregrinaggio per i paesi dell’America Latina e dell’Europa aveva appreso il peso del silenzio imposto all’esiliato: «questo silenzio che a momenti diventa un sudario di morte» – scrive nella 2 sua Lettera sull’esilio . Sapeva che l’esaltazione illuministica della tolleranza 3 – «la parola preferita dall’uomo moderno» occulta l’incapacità di trattare con l’altro, e aveva sperimentato fino a che punto l’accoglienza in terre straniere viene concessa al patto della discrezione e del silenzio, come testimoniano le amare parole che mette in bocca alla sua Antigone: «E io, nel momento in cui entravamo in una città, sapevo già, per molto pietosi che fossero i suoi abitanti, per molto benevolo che fosse il sorriso del suo re, io sapevo bene che non ci avrebbero dato la chiave della nostra casa. [...] C’è stata, sì, gente che ci ha aperto la sua porta e ci ha fatto sedere alla sua tavola, elargendoci anche più di una buona accoglienza. Ma eravamo ospiti, invitati. [...] Nessuno ha voluto sapere cos’è che andassimo chiedendo. Che andassimo chiedendo lo pensavano, perché ci davano molte cose, ci colmavano di doni, ci ricoprivano, come per non vederci, con la loro 4 generosità» . La storia dell’articolo sul Larousse mostra che esiste una coercizione al silenzio più sottile di quella provocata con la forza della legge, della censura e della punizione: è la prevaricazione del sapere che s’impone con l’evidenza dell’autosufficienza e della generalità, cosicché la sua superiorità sul piano sociale, economico, politico diventa una superiorità logica. E questa logica ferrea, osserva Zambrano, è divenuta tanto più insidiosa a partire dall’Illuminismo, poiché si è imposta come prodotto della 15 liberazione: «una cultura della liberazione pagata con la libertà», in cui viene innalzato il vessillo della «libertà soddisfatta che sfugge a ogni ostacolo e a ogni discontinuità». Di questa visione assoluta della cultura è parte integrante il progetto enciclopedico, dove il paradosso della cittadinanza universale ed escludente istituita con la Rivoluzione francese sembra riflettersi dalla sfera politica a quella del sapere, e una moltitudine di manifestazioni di cultura, e «interi popoli» non trovano cittadinanza, appunto, cadendo nella condizione di «gente di seconda o addirittura di nessuna classe». Gente invisibile; ma più che invisibile senza voce, ridotta al silenzio. È il silenzio dei subalterni, spesso autoimposto o comunque mantenuto con una acquiescenza «cresciuta nel terreno della sfiducia in se stessi, nella propria tradizione». Il moto di sdegno che indusse María Zambrano a scrivere di getto questo articolo caustico – un esempio unico nella sua scrittura, dai toni solitamente non polemici – così come l’accoglienza di Elena Croce, sono le manifestazioni di una fede indomita e condivisa nella cultura intesa come «condizione vitale della libertà tutta», e della convinzione che la coscienza europea, frutto di un complesso variegato di culture che nei secoli sono state occultate ed emarginate, oggetto di persecuzioni e di sterminio, dovesse essere riconquistata, «sia pure con molta fatica e lentezza, e anche pazienza 5 nel riannodare le fila». 16 Il Venerato Larousse 6 A.B.C. (alias Maria Zambrano) Come è ben noto, i dizionari, così come le Enciclopedie sono uno dei più potenti generatori di "idee generali" che a loro volta costituiscono l'armatura della cultura ugualmente generale. Queste sono denominazioni antiquate che usiamo espressamente per evidenziare la loro imperturbabile e più che mai minacciosa validità. Questa cultura e la sua armatura di idee, nata in modo diretto dallo spirito dell’Illuminismo, offriva una specie di spazio omogeneo, senza discontinuità, ed in maniera estremamente accessibile, a qualsiasi individuo di mente normale. L'ideale dell'omogeneità ha così preceduto la nascita degli specialismi, e si supponeva che lo studio di qualsiasi specializzazione dovesse considerarsi partito da questa cultura generale, campo comune in cui lo specialismo germogliava. Le specializzazioni, almeno originariamente, nascevano da un'ansia incontenibile di scoprire qualcosa di reale, un frammento, a volte, molto frammentario; e nel perseguimento di questa realtà si sono consumate, non senza eroismo, molte vite, fino al limite del fanatismo; nel senso, cioè, di prendere per assoluto questo pezzo o questo aspetto della realtà. Mentre invece la cultura generale, con le sue idee, continuava ad offrire al non specialista - ed anche e prima di tutto a chi non fosse filosofo, o amico della meditazione solitaria - la sicurezza propria dell'uomo civile: guardare ai fatti ed alle realtà che non rientravano in questa cultura, come a miserie senza diritto di cittadinanza nella stupenda città della civiltà, ed alle persone come a gente di seconda o, addirittura, di nessuna classe. Interi paesi cadevano e continuano a cadere in questa misera condizione per colpa della suddetta cultura e dei suoi cultori che sono capaci di identificare cose come la Filosofia – tutta intera – con l'idea generale che di essa si sono formati e che imperturbabilmente offrono. Inutile dire che il centro privilegiato – dal momento che pare che in questo mondo qualsiasi cosa, per generale che sia, abbia un centro – è stato ed è encore la cultura francese, il che non avrebbe potuto verificarsi se le altre genti, di tradizione culturale più antica e più o meno di tipo occidentale, non avessero accettato di essere il feudo di queste generalità. E se di rimorsi si tratta, è ovvio che devono essere ben più vivi quelli che affliggono i sottomessi che non quelli che insidiano i tanto impavidi, pacifici conquistatori. Non si può far a meno di rilevare una certa noncuranza cresciuta nel terreno della sfiducia in se stessi, nella propria tradizione, da parte di quei sottomessi che accettano una generalità, che lungi dal rivelarli, li occulta e che inoltre rende impossibile l’elementare riconoscimento non già di un filosofo, bensì della filosofia stessa. Così come impedisce anche il riconoscimento di un semplice ramo d’albero che appaia sul sentiero del bosco, quel ramo che può essere anche una “vipère” ma che per la sua forma corrisponde all’ “immagine generale” dì un ramo. Le idee generali trascinano la loro corte di immagini generali. E, pertanto, come riconoscere l'esistenza di un filosofo, per feconda che sia stata la sua opera scritta e la sua attività di cittadino, se non risponde all’immagine generale corrispondente, secondo i centri consacrati della cultura centralista? Ed ogni cosa segue – e prosegue – in questa cultura verbale e logica molto più vuota di quella che è chiamata la “logica formale”, dalla quale Descartes, Bacon ed il positivismo susseguente ci “liberarono”. Giacché si tratta di una cultura dì “liberazione” pagata con la libertà, una libertà soddisfatta che sfugge ad ogni ostacolo, ad ogni discontinuità, convertendosi in un fantasma senza che neppure lo si sospetti. Nella prefazione di questo riassuntivo Dictionnaire de la Philosophie di Larousse, si annuncia l’originalità del metodo, voluta dal suo scopo che «est de montrer que les principales notions de la philosophie rejoignent les problèmes concrètes que l’homme peut se poser au cours de sa vie». Una vera scoperta che, a sua volta, ci viene ancor meglio spiegata con l’enunciato che la segue – dopo un punto e a capo: «Une contribution de ce genre 17 requérait l’emploi d’une méthode originale». Il che ci viene chiarito enunciando che «le principe de notre méthode n'est pas tant d’analyser les notions que de les faire comprendre et de les illustrer par des exemples précis. Par exemple, une notion importante, comme celle d’histoire ou de dialectique, n’est jamais analysée pour elle même, dans ses différentes significations, sans que nous finissions par regrouper toutes ces significations autour d'un problème réel, qui nous intéresse aujourd’hui dans notre vie historique. Bref, il s’agit d'un dictionnaire synthétique de la philosophie». Si comprende, quindi, che in questo “originale” metodo sintetico i quadri sinottici – quelli di sempre – acquistano una evidente originalità. Ed infatti possiamo opportunamente dimostrarlo riferendoci a quello che corrisponde al termine «Historique». Si tratta dì un quadro, in cui la stretta relazione con il termine che viene dato senza essere definito, in quanto riferito a questo quadro, non ci appare tanto chiara come sarebbe da desiderare. In esso appare, con quella specie dì mancanza di pudore che quasi tutti questi quadri manifestano, il generoso, totale dono dello sviluppo storico della filosofia stessa, suddivisa secondo i soli paesi in cui essa si è sviluppata. La Francia occupa la prima colonna, seguita da quella riservata alla «Antiquité» (Grecia - Italia); continua con quella corrispondente ai paesi germanici per concludere con la colonna dei paesi anglosassoni. La colonna greco-italiana coincide in una sola fascia orizzontale con quella adiacente intestata alla Francia; la congiunzione avviene all'altezza dei secoli X e XII: da parte della Francia, la Scolastica e gli umanisti, Abelardo e Tommaso d'Aquino, dando quest'ultimo per francese, e per la colonna che riguarda l'antichità greca ed italiana, la filosofia araba, Avicenna ed Averroè, dando per certo che Cordoba fosse italiana. La Renaissance Italienne – che non sapevamo si fosse verificata nel XII secolo – viene segnalata con i due unici nomi dì Nicola Cusano e di Giordano Bruno. Con essi si apre, e si chiude al tempo stesso, il contributo dell’Italia alla filosofia. Inutile cercare nelle pagine di questo dizionario le voci corrispondenti a G. B. Vico e a Benedetto Croce. La Scienza Nuova non trova posto nel dizionario sintetico, e neppure la concezione crociana della storia, essendo assente ogni riferimento persino nelle voci «Histoire», «Philosophie de l'historie» e poi «de l'Estetique». La stessa sorte tocca al filosofo spagnolo Ortega y Gasset, ed a tutto ciò che la Spagna ha dato al pensiero, nello stesso recinto in cui lo scrittore Albert Camus ha trovato – e nulla abbiamo da obiettare – il suo giusto posto e numerosi riferimenti. Soltanto Unamuno ha trovato un buco in cui alloggiare sinteticamente, e poi il teologo del XII secolo Luis de Molina. Questa generosità, però, resta per aria, dal momento che il problema della libertà e 18 della grazia contenuto nell'opera di Molina avrebbe richiesto di dare notizia per lo meno dei teologi di Trento – solo per esempio – per non parlare della lacuna rappresentata dal non aver neppure menzionato Suárez. A che scopo continuare? In quarantacinque righe ad una colonna viene sintetizzata la filosofia greca vista nel suo complesso, passo per passo. L'importanza che si dà a tutto questo dipende semplicemente dal fatto che il dizionario continua ad essere il Libro per eccellenza, quasi una Bibbia per la massa degli studenti e degli incauti che sono inclini a coltivare una cultura generale fatta di idee generali, di “farsi una idea intorno a ...”. Nel dizionario e nelle Enciclopedie è stata riposta la venerazione nei confronti del libro chiave che apre le vie per la città della cultura. Ad esso ricorrono non soltanto lo studente che non sia divorato dall'ansia del sapere, ma l'uomo medio che si sente sicuro quando lo maneggia, ed anche le persone colte, coloro che sono specializzati in particolari scienze, etc. Anche tra i dotti si è soliti aprire tante discussioni dicendo: «Dopo aver letto l'articolo e dopo aver ascoltato la relazione del mio stimato collega il Dottor o Professor X, ho consultato il dizionario ed ho trovato, o meglio non ho trovato». 1 Cfr. Elena Croce, Maria Zambrano, A presto, dunque, e a sempre. Lettere 1955-1990, a cura di E. Laurenzi, Archinto, Milano, 2015 . Le notizie relative allo scritto e citate in questa Presentazione si trovano nelle pagine 207-222. 2 María Zambrano, Lettera sull’esilio, traduzione di E. Laurenzi, «aut aut», 279, 1997. 3 María Zambrano, Per una storia della pietà, traduzione di E. laurenzi, «aut aut», 279, 1997. 4 María Zambrano, La tomba di Antigone, traduzione di Carlo Ferrucci, La Tartaruga edizioni, Milano, 1995 5 Elena Croce, Dal dopoguerra, «Prospettive settanta», anno II, n. 3-4, lugliodicembre 1980. 6 A.B.C., Il venerato Larousse, «Settanta» (Roma), Anno III, n. 29, ottobre 1972, pp. 55-56. La traduzione è probabilmente da attribuirsi a Elena Croce. 19 Abstract Il saggio affronta il tema del silenzio a partire dal motivo del silenzio delle donne. Nella prima parte, si discute il limite della filosofia dell’emancipazione di stampo illuministico, che ha insistito sul silenzio delle donne in chiave discriminatoria senza considerare la complessità della questione dell’ordine simbolico, non riducibile a quella dell’acquisizione dei diritti. Nella seconda parte, si fa riferimento all’opera di Françoise Collin per analizzare i limiti della storiografia, nella sua incapacità di restituire il contributo delle presenza anonime e silenziose al mondo comune. Nella terza parte si analizzano le pagine di María Zambrano dedicate al romanzo Misericordia di Benito Pérez Galdós, per mettere in luce il silenzio femminile come una forma strategica e creativa dell’agire. SAGGI L’ALTRA METÀ DEL SILENZIO. UNA RIFLESSIONE A PARTIRE DA MARÍA ZAMBRANO. Elena Laurenzi 20 Il lato femminile del silenzio La cultura dell’emancipazione che si è sviluppata dall’Illuminismo ha molto insistito sul «silenzio secolare» delle donne fino a farlo diventare un topico, un leitmotiv che si ripete in modo quasi automatico nella letteratura generalista, frequentemente anche in quella specialistica, e nel dibattito politico. Eppure da sempre e in ogni epoca le donne hanno preso la parola, spesso proprio per denunciare la misoginia vigente nella cultura canonica. Ma ben prima che la Rivoluzione francese rendesse palese ed eclatante il paradosso di un universalismo fondato sulla loro esclusione, le donne colte hanno avuto consapevolezza dell’aporia insita nella loro condizione, obbligate com’erano a servirsi degli «ingredienti testuali» dello stesso discorso di cui questionavano la validità e la legittimità. Già Christine de Pizan – l’iniziatrice di Querelle des femmes che esplose nelle corti d’Europa del 15° secolo e segnò una impressionante presa di parola pubblica da parte delle donne – esprime nell’incipit della sua opera più nota, La cité des dames, questa angoscia delle donne istruite che è «la versione femminile del disprezzo di sé proprio dei colonizzati» (Joan Kelly, 1984, p. 80). [...] in generale in ogni trattato filosofi e poeti, predicatori e la lista sarebbe lunga, sembrano tutti parlare con la stessa bocca, tutti d’accordo nella medesima conclusione, che il comportamento delle donne è incline a ogni tipo di vizio. Profondamente assorta in ciò io, che sono nata donna, presi a esaminare me stessa e la mia condotta, e allo stesso modo pensavo alle altre donne che avevo frequentato, tanto le numerose principesse e le gran dame, come le donne di media e bassa condizione, che avevano voluto graziosamente confidarmi le loro vicende personali e i loro intimi pensieri. [...] e per quanto a lungo e profondamente esaminassi la questione, non riuscivo a riconoscere né ad ammettere il fondamento di questi giudizi contro la natura e il comportamento femminile. Continuai tuttavia a pensare male delle donne: ritenevo che sarebbe stato troppo grave che uomini così famosi, tanti importanti intellettuali di così grande intelligenza, così sapienti in tutto, come sembra che fossero quelli, avessero scritto delle menzogne [...]. Questa unica e semplice ragione mi faceva concludere che, benché il mio intelletto nella sua semplicità e ignoranza non sapesse riconoscere i grandi difetti miei come delle altre donne, doveva essere veramente così. Era in questo modo che mi affidavo più ai giudizi altrui che a ciò che io sentivo e sapevo nel mio essere donna. (Christine De De Pizan 1997) Quando dunque la voce delle donne emerge dal silenzio (e l’ha fatto con maggiore frequenza e competenza di quanto le enciclopedie e i manuali siano disposti a riflettere), questo avviene al prezzo di un’insopprimibile dissonanza tra il fondo ineffabile dell’esperienza e la parola pubblica con cui essa è obbligata ad articolarsi e esprimersi. Se è vero che questa è la condizione di ogni scrittura singolare, all’affrontare lo scarto tra l’individualità irriducibile di chi scrive e la generalità insita nel linguaggio, per le donne tutto ciò assume i connotati di un esercizio scabroso e spesso ingrato. Per questo, la loro assenza dal sapere canonico non è soltanto e anzi non è tanto una conseguenza della loro esclusione – più o meno dichiarata e regolamentata – dagli ambienti che recingono la Cultura, quanto dell’impossibilità di trovare nella cultura gli strumenti per dirsi. Non è solo un problema di diritti, ma una questione di ordine simbolico, come ha argomentato la riflessione delle donne a partire da Carla Lonzi (Carla Lonzi, 1970. Cfr. almeno: Libreria Delle Donne Di Milano, 1987; Luisa Muraro 1991). La marginalità e marginalizzazione delle donne nella cultura egemone si riproduce attraverso 21 un duplice meccanismo. Da una parte, la differenza femminile non viene considerata se non nella sua forma derivata, come una sottrazione o, letteralmente, una menomazione rispetto alla norma maschile che si pone come universale: ragion per cui essa non aggiunge nulla al mondo comune, non arriva a produrre senso o valore per tutti (Cfr. Adriana Cavarero, 1987; Françoise Collin, 1999). Dall’altra, l’estromissione o l’occultamento della presenza delle donne non riguarda soltanto le singole pensatrici, scrittrici o artiste, ma anche e soprattutto il legame possibile tra di loro, quello che le 1 vincolerebbe a una tradizione di pensiero e di creazione “femminile”. Non esiste, nel sapere perpetrato da manuali, enciclopedie e compendi (ma 2 nemmeno negli studi specialistici, salvo poche eccezioni ) alcuna cognizione della trasmissione del sapere tra donne, dei rapporti di filiazione simbolica, delle eredità, delle genealogie. Questo isolamento si ripercuote nella perplessità e nella penuria simbolica di ogni autrice che intraprende un’opera. Come segnalava anni fa Fina Birulés, «In questo ambito sembra che ogni nuova autrice debba riiniziare il discorso, come se non esistesse [...] una tradizione in cui inserirsi, come se lei fosse situata in uno spazio amondano, acosmico, senza passato né futuro» (Fina Birulés 1997, pp. 18-19. Traduzione mia). Se l’assenza di legami con il passato può apparire come una condizione di libertà ideale per la creazione, dobbiamo invece considerare, come ci invita a fare Arendt (1977), che la tradizione fornisce i criteri per giudicare, selezionare, scegliere: anche per scegliere di rifiutarla. Pertanto, la difficoltà di conservare e quella di innovare vanno insieme, e l’isolamento simbolico comporta, «l’impossibilità di aggiungere qualcosa di proprio al mondo, di creare senso» (Fina Birulés, op.cit., p. 19). *** María Zambrano fu una lucida analista delle contraddizioni che una donna deve affrontare quando assume il rischio della parola pubblica. La sua consapevolezza del problema, ma ancor più la sua decisione di scriverne, rappresenta un’anomalia e fa di lei un’eccezione tra le filosofe sue contemporanee. Com’è stato notato, infatti, la maggioranza delle grandi pensatrici dei primi del secolo pagarono il loro ingresso nel santuario maschile della filosofia con l’obolo della scelta del neutro, e quindi facendo silenzio, o almeno sorvolando sulla loro appartenenza al genere femminile, 3 come se questo non avesse alcuna rilevanza per il pensiero . Zambrano, da parte sua, meditò sulla peculiarità e la scabrosità della propria posizione come donna filosofo e, in generale, sulla relazione ambivalente tra le donne e la cultura, e avanzò una critica potremmo dire avanguardistica all’ideologia 22 del neutro-universale, smascherandolo come perpetuazione del potere maschile: “L’umano” è il contenuto della definizione dell’uomo, e la donna ne è rimasta sempre relegata al margine [...] Solo nella dipendenza del maschio la sua vita acquisiva essere e significato; ma appena in lei si affacciava l’impulso verso il proprio destino, si convertiva in uno strano essere senza sede possibile (María Zambrano, 1997, p. 98). L’immagine della mancanza di sede «per portare a compimento il proprio essere» (ivi, p. 99) va letta in rapporto alla questione dell’ordine simbolico di cui abbiamo parlato. Infatti nel saggio dedicato alla figura di Eloisa, l’infelice amante di Pietro Abelardo, Zambrano stabilisce una connessione tra l’impossibilità delle donne di trovare un proprio luogo – una sede – nella «avventura virile» dello spirito e della cultura, e il loro silenzio: un silenzio che non è mancanza di voce ma, più sottilmente, assenza di articolazione: «suono di una voce priva di parola» (ivi, p. 97). L’obiettivo di restituire la voce delle donne nella storia comporta dunque un ripensamento dei criteri della ricerca e della scrittura filosofica. Zambrano ne fu consapevole, e per questo si dedicò all’esplorazione di territori marginali rispetto ai generi filosofici e letterari canonici, come le lettere o i diari, come pure alla sperimentazione di forme di scrittura alternative a quelle dettate dai criteri filologici. Produsse saggi ammirevoli, come la sua splendida riflessione – già ricordata – sulle «gloriose lettere» di Eloisa ad Abelardo, dove mette a fuoco la questione dell’amicizia intellettuale tra una donna e un uomo (questione ancor oggi spinosa, come dimostra Jaques Deridda, 1995) e restituisce «figura e vita propria» alla giovane discepola Eloisa, il cui pensiero fu, anche al parere di uno studioso illustre come Etienne Gilson (1950), molto più avanzato di quello del suo colto amante e maestro. Significativa, sotto il profilo che qui ci interessa, è anche la rivisitazione che Zambrano propone dell’Antigone sofoclea, con la sua proposta di riscrittura del finale della tragedia che vede la protagonista 4 sottratta al silenzio della morte, mentre in un delirio creativo , arriva ad articolare la coscienza del proprio agire fuori dalle norme e dalle leggi del tiranno (María Zambrano, 1995; Ead, 1997). E su questa stessa linea si possono ricordare gli scritti dedicati alla Diotima platonica o le pagine sulla Beatrice dantesca, che Zambrano assume come presenze reali di donne autorevoli e nel ruolo di maestre, in contrasto con gli esegeti di Platone e di Dante, quasi unanimemente concordi nel considerarle figure puramente allegoriche (María Zambrano, 1995; Ead, 2007. Cfr. Elena Laurenzi, 2007). In questi e altri scritti, l’autrice mette in luce l’apporto creativo dato dalle 23 figure femminili – reali o leggendarie che fossero – alla storia di Occidente. In questo senso definisce le protagoniste dei suoi saggi «figure pioniere», poiché esse aprono un cammino nuovo e, suggerendo un modo di essere donne fuori dalla dicotomia tra Eva e Maria, «fondano una specie» (María Zambrano, 1997, p. 100 e p. 86). È anche importante ricordare l’annotazione di Zambrano a proposito delle lettere di Eloisa, quando sottolinea che il sapere femminile può incarnarsi in forme diverse da quelle oggettivate in cui si cristallizza la mente virile. Mentre queste ultime occultano il sentire da cui emergono, rendendo invisibile «la radice» (ivi, p. 72), una parte rilevante della creazione delle donne è «incorporata alla vita», «amalgamata con le ore»; una creazione non eterogenea al sentire, «in cui l’oggetto creato non annienta il sentimento perché consiste nella vita stessa» (ibidem). Quest’idea dell’atto creativo contenuto nella vita è un elemento a mio avviso determinante della originalità della proposta di Zambrano: la pensatrice non si riferisce infatti alle grandi vite esemplari o avventurose, alle figure di sante o guerrigliere, ma alle vite correnti, semplici e anonime. L’attenzione a quanto di creativo, di profondo e di fertile è contenuto in queste vite la induce ad esplorare non solo i terreni dove si articola una parola minore, subordinata o emarginata, ma anche le zone del silenzio, dove la voce dei protagonisti può a mala pena essere «intra-udita» (ivi, p. 135). La storia del non memorabile Cogliere il contributo che i senza-voce hanno dato e danno al mondo comune richiede una dislocazione dello sguardo e un affinamento dell’udito: una mutazione epistemologica che è tanto più necessaria per il pensiero delle donne, dove essa manifesta tutta la sua valenza politica. A questo proposito è utile riprendere alcune considerazioni di Francoise Collin in un saggio del 1993 intitolato Histoire et mémoire ou la marque et la trace. La grande pensatrice belga invita a prendere coscienza di quanto la storiografia – nelle sue diverse varianti ivi compresa la storiografia femminista – perpetuando la dicotomia tra potere e impotenza, dominazione e soggezione, azione e passività, si mostri ancora tributaria della visione illuminista e poi hegeliana del progresso, inteso come presa di possesso e dominio sulla realtà. L’attenzione degli storici appare, infatti, tutta centrata sul cambiamento e dedita ad estrarre dal fluire del tempo l’irruzione di quelle presenze, azioni, eventi che l’hanno prodotto; quasi che il cambiamento stesso, e servizio tim quindi la trasformazione del mondo, fosse concepibile solo in termini epocali, eroici, o comunque “memorabili”. L’agire, l’avere 24 presa sulle cose, il prender parte agli eventi (o a quelli che vengono riconosciuti come tali), il lasciare un segno nei tempi (una marca) appaiono criteri discriminanti che decidono di quali presenze siano suscettibili di entrare nella memoria collettiva, e quindi, di fatto, «di meritare la definizione di umano» (Françoise Collin, 1993, p. 16). Scrive Collin: Il sapere storico è effettivamente strettamente legato a quel che lascia una marca: quel che è determinante, quello che produce effetti, quello che trasforma il dato, quel che viene capitalizzato in segni, oggetti, istituzioni, decreti, trattati e leggi. Anche quando si è cessato di identificare la storia con la storia delle guerre e delle conquiste, persiste il sottinteso che non si possa fare storia dell’invisibile, dell’impalpabile, di tutto quanto viene dissipato. La storia è necessariamente storia di ciò che è durevole [durable], costruito in muratura [en dur], del monumento e del monumentale. (ivi, p. 17). Collin osserva che la storiografia femminista resta per molti versi debitrice della stessa concezione. Sorta con la critica della storia egemonica – laddove le donne non sono contemplate come soggetti sul piano sociale o culturale, ma unicamente come le riproduttrici dell’identico, le «guardiane dell’immutabile» (ivi, p. 14) – essa si è sviluppata secondo due linee principali: da una parte l’analisi dei dispositivi di potere che nei secoli hanno ostacolato o «minorizzato» l’agire delle donne e la loro partecipazione alla sfera pubblica, e, dall’altra, la ricostruzione del contributo delle donne alla storia, esistente ma costantemente obliato, poiché, come sottolinea Collin, «l’assenza delle donne dalla storia significa la loro evizione dal potere piuttosto che la loro mancanza di attività» (ibidem). Dalla seconda metà del secolo scorso, si sono moltiplicati gli studi volti a riscattare le presenze, in ogni epoca storica e pressoché in ogni sfera del sapere, di donne creatrici, innovatrici, inventrici e dunque “memorabili”, anche se ingiustamente rimosse dalla memoria collettiva. Questo lavoro di scavo ha portato alla luce i contributi “rimarchevoli” delle donne: le loro marche, che restarono sconosciute, disattese tanto nel proprio tempo come nel presente, soggette a un «doppio e identico processo di negazione» (ivi, p. 19). Il valore di tale risultato è inestimabile, non solo sul piano della giustizia e della correttezza storiografica – poiché la ricostruzione storica viene integrata nella sua parte mancante, mutilata – ma anche e soprattutto perché, sul piano politico e simbolico, ha generato la cognizione dell’esistenza di figure femminili eccellenti in cui le nuove generazioni possano riconoscersi (come avviene per le «dame» che compongono la cittadella simbolica di Christine de Pizan), favorendo così la formazione di genealogie e di una tradizione al femminile la cui assenza, come abbiamo visto, è una componente significativa se non la 25 più fondamentale del silenzio storico delle donne. Il significato della trasmissione tra donne ne viene completamente stravolto. Laddove sino a ora lo si è inteso solo come un passaggio di consegna alla schiavitù e al silenzio, alla luce dell’eredità delle donne illustri esso appare come «una interpellanza attraverso la quale una donna chiama un’altra ad avvenire e a intervenire [...] una libertà ne risveglia un’altra». Le donne escono così dal silenzio e dalla subordinazione simbolica: autorizzandosi a parlare, ogni donna «assume autorità e autorizza» (ivi, p. 13). Tuttavia, pur riconoscendo questa fondamentale svolta della storiografia femminista, Collin invita a considerare se, limitandoci alle parti “rimarchevoli” dell’eredità delle nostre antepassate, non rischiamo di approfondire la distanza tra le donne «chiamate femministe perché sono agenti di cambio» e la gran massa delle donne senza nome, che non hanno operato nulla di sensazionale nelle loro esistenze: le donne (come anche degli uomini) che appaiono «destinate alla semplice ripetizione, al semplice esercizio della vita», (ivi, p. 18) ma che possono essere e di fatto sono agenti di trasformazione e di sperimentazione nel quotidiano, e spesso motori di un cambiamento più profondo e sostanziale di quello operato attraverso l’intervento nella sfera pubblica. Collin osserva che agire e potere non s’identificano, e che le donne che acquistano una visibilità e una notorietà – le politiche, le scrittrici e artiste, le intellettuali – non potrebbero nemmeno apparire senza «gli innumerevoli spostamenti anonimi effettuati alle svolte più infime della vita pubblica e privata» (ivi, p. 15). Sulla scia di queste considerazioni, la pensatrice belga prende le distanze anche da una filosofa che sente molto affine, Hannah Arendt, che concepiva la politica come lo spazio in cui gli esseri umani intervengono nel mondo attraverso la parola e l’azione, e distingueva nettamente l’azione (per il suo carattere innovatore, di irruzione del nuovo) dal gesto compiuto nell’ambito del lavoro e della vita domestica. Questa distinzione elude infatti la considerazione del valore anche politico di quel tipo di gesto che non si tramuta in azione ma «si esaurisce nella sua gloria di gesto» (Ibidem), e che non lascia una marca, essendo dell’ordine di ciò che si dona, si dissipa, si dissemina. In questo stesso senso, riferendosi all’insistenza del femminismo contemporaneo sull’importanza di stabilire una genealogia femminile di grandi donne (scrittrici, artiste, attiviste, rivoluzionarie, guerrigliere...) spesso in contrasto con l’eredità delle madri biologiche, sentita come mortificante e oppressiva, Collin si domanda: dovremmo allora scartare dalla nostra eredità l’immensa massa delle donne mute, comprese le nostre proprie madri, per trattenere solo ciò che in esse “si è manifestato attraverso la parola e l’azione”, come se il resto 26 1non fosse che il residuo vergognoso dell’umiliazione secolare? [...] Se pretendiamo di costruirci una genealogia siffatta, rischiamo di trascurare la fronda dell’albero (dove cantarono gli uccelli) per ritenere solo i rami. Rifiuteremmo il grande clamore silenzioso, se pretendessimo di far ascoltare solo le voci (ivi, p. 20). Ciò che lascia un segno riconoscibile e nominabile nella scrittura della storia è solo una piccola parte del passato e, in modo particolare del passato delle donne. Il passato anonimo e non memorabile resta un territorio per molti aspetti ancora inesplorato. Di qui la necessità di sperimentare approcci nuovi, altre forme d’indagine che ci permettano di seguire le tracce delle presenze che non hanno lasciato una marca, che non hanno sottoscritto una firma. Presenze apparentemente senza voce, perché la loro voce non ha un timbro riconoscibile, registrato; ma che tuttavia presero parte al “grande clamore silenzioso”. Anche in queste tracce s’inscrive l’eredità che ci unisce alle altre donne – e agli altri esseri umani anonimi– che hanno dato un contributo al mondo, partecipando discretamente di una comunità che – osserva Collin sulla scia di Maurice Blanchot (2002), solo in minima parte è analizzabile o anche solo confessabile: Poiché una comunità umana s’intesse di quel che cambia e di quello che permane, di ciò che si accumula e di ciò che si dissipa [...] e il tempo si deposita e si riattiva anche nelle zone ignorate del gesto e della lingua, nell’incommensurabile estensione di una ritualità familiare attraverso la quale addomestichiamo allegria e dolore, vita e morte, amore e odio» .(Françoise Collin, Histoire et mémoire ou la marque et la trace, op. cit., p. 21) Collin suggerisce che l’arte è l’ambito per eccellenza in cui è possibile trovare la manifestazione di tutto quanto lo sguardo dello storico non coglie; solo l’arte, insinua, può dar forma a questa memoria che passa attraverso le maglie della conoscenza e sfugge alla sua presa, poiché «dà forma senza rappresentare, e delimita al designare l’illimitato» (ibidem). Nell’arte sfumano le frontiere tra il privato e il pubblico, il singolare e il collettivo, e questo permette che quanto non dipende dalla marca lasci costanza della sua presenza nel tempo. In un tempo che non è alieno alla storia, ma appare irriducibile a ciò che “fa” storia. 27 L’agire silenzioso della misericordia Sulla scia delle riflessioni di Francoise Collin, vorrei leggere alcune pagine di María Zambrano che illuminano l’apporto silenzioso delle donne al mondo attraverso l’analisi di una figura letteraria: quella della serva Benina (Nina), protagonista del romanzo Misericordia del grande scrittore spagnolo Benito Pérez Galdós. Galdós è una presenza imponente e controversa nel panorama letterario spagnolo. Nato a Las Palmas nell’isola di Gran Canaria nel 1843, si trasferì a Madrid per realizzare – senza continuità – gli studi di diritto, e vi si stabilì per il resto della vita. Partecipò con passione agli eventi politici che investirono la Spagna nella seconda metà dell’800, e ne narrò i processi di cambiamento sociale e culturale attraverso le sue collaborazioni con i giornali e nei suoi numerosi romanzi. Concepiva il romanzo come uno strumento privilegiato per mantenere la memoria degli eventi storici e per incidere nel presente, documentando le vite e i pensieri dei suoi contemporanei. Le sue narrazioni mostrano la storia denudata della dimensione monumentale: la storia della gente comune, «del popolo di Madrid», che Galdòs penetrava attraverso un metodo di osservazione e partecipazione diretta. Si sa che lavorava in modo metodico, che passava la mattina a scrivere e poi trascorreva i pomeriggi per le strade, i caffè, le stazioni, i ricoveri. Questa prossimità coltivata gli permise di descrivere i suoi personaggi nella loro singolarità individualizzata, senza mai scadere nel costumbrismo o nel sociologismo. Sosteneva che l’arte ha valore solo quando riesce a dare ai personaggi «vita più umana che sociale» (Benito Pérez Galdós, Discorso d’ingresso all’Academia de España, citato in José Luis Mora García, 2000, p. 62). E quest’attitudine speciale a penetrare nella singolarità della persona appare particolarmente evidente e brillante nei suoi personaggi femminili, che egli seppe dotare di personalità singolari ed individualizzate, superando i modelli stereotipati consolidati della narrativa spagnola dell’epoca. Questo era un aspetto particolarmente apprezzato da Zambrano, la quale scriveva: «La donna, fatto raro nella letteratura spagnola, è individualizzata: non è il femminile, né la femminilità, ma questa o quella donna» (María Zambrano, 5 2003, p. 147) . La fortuna letteraria di Galdós fu discontinua e controversa. Incondizionatamente amato dal popolo, che intervenne con una spettacolare fiumana al suo funerale (cfr. José Luis Mora, op. cit., p. 14), fu invece sottovalutato e persino schernito dagli intellettuali suoi contemporanei, presso i quali circolò insistentemente l’anatema, coniato da Valle Inclán (1975), di «garbancero» (letteralmente: commerciante di ceci e, quindi, popolano, rozzo, volgare). Dopo la sua morte, avvenuta nel 1920, fu disdegnato e dimenticato, considerato un “paleorealista” dagli ideologi 28 dell’avanguardia e dell’arte «disumanizzato», e trattato con sufficienza, come un anacronismo, da quelli che, come Ortega y Gasset, aderivano incondizionatamente al progetto della «europeizzazione» della Spagna e della sua entrata nella modernità (cfr. José Luis Mora García, op. cit.). Zambrano nota a questo proposito che il suo attaccamento alla realtà e alla storia della Spagna per restituirle poeticamente trasformate, era controcorrente rispetto a un’epoca in cui gli intellettuali erano piuttosto distanti, rivolti ad altri orizzonti: «quando “le luci dell’Europa” attraevano i migliori che in esse riponevano le loro ingenue speranze e mantenevano in silenzio quelli che nel loro cuore scorgevano le ombre equivoche di tali luci» (MARÍA ZAMBRANO, 2006, p. 82). Galdós fu invece letto e apprezzato da molti dei giovani scrittori della cosiddetta generazione del ’27, quelli che pagarono con la vita o l’esilio il legame profondo con il Paese, e maturarono il sogno di rinnovarlo senza tuttavia disprezzarne la tradizione, da cui piuttosto trassero linfa e ispirazione per le proprie opere. Furono ferventi galdosiani Luis Cernuda, Rafael Alberti, Vicente Aleixandre, Max Aub e Federico García Lorca che, nella sua opera teatrale La casa de Bernarda Alba offre una rilettura dell’opera di Galdós, Doña Perfecta (cfr. Miguel García Posada, 2002). Zambrano gli dedicò diversi saggi nel corso della sua vita, che poi riunì in un volume unico: La Spagna di Galdós. *** In un omaggio intitolato «Un dono dell’oceano. Benito Pérez Galdós» (in María Zambrano, 2003), Zambrano si sofferma, affascinata, sul metodo di lavoro dello scrittore: quella osservazione attenta e serena, partecipante e disincantata al contempo, che gli permise di cogliere la vita che scorreva nelle strade della sua città in tutte le sue manifestazioni, sfumature, timbri, colori. Una forma di attenzione che lo scrittore Leopoldo Alas definiva «callada», silenziosa, assimilandola a quella dei bambini quando sono assorti (Leopoldo Alas “Clarin”, 2010). Anche Zambrano insiste sul silenzio quale substrato fecondo della creatività galdosiana. Annota che egli era «un uomo silenzioso, di poche parole». E che per contro manifestava «la necessità irresistibile di ascoltare», rivolta, più che alle parole, a «un mormorio anteriore alla parola». Così anche la sua opera letteraria appare segnata dal silenzio: «dal silenzio irresistibile, piuttosto amorfo, da cui sorgono quasi spontaneamente i grandi personaggi, che non sempre sono quelli di prima fila». (María Zambrano, 2003, p. 146). Nei romanzi galdosiani, nota ancora Zambrano, è possibile cogliere l’intreccio tra la Storia, che è il racconto dei grandi eventi, spesso sanguinosi, e le storie degli esseri anonimi che vivono vite al margine del tempo storico, che «non generano memoria» (María Zambrano, 2006, p. 83). E questa 29 storia minore che s’intreccia con la grande Storia non si riferisce solo alle presenza socialmente e culturalmente marginali, bensì a un’intera dimensione dell’esistenza che non ha trovato espressione nelle narrazioni storiche. L’oggetto della narrazione di Galdós è il «mondo domestico», considerato «nella sua qualità di fondamento dello storico, di reale soggetto di storia» (ibidem); è la «continuità di ciò che precede e segue il fragore dell’epico, lo splendore dello stato» (ivi, p. 90). Zambrano insinua la contrapposizione tra due possibili registri nella narrazione del passato: quella che ci propongono gli storici di professione, e la narrazione che si svolge attraverso i romanzi di uno scrittore come Galdós: lo studioso di storia solitamente ci ha dato il “fatto storico” che, per essere considerato tale, richiede determinate condizioni: agli occhi di chi lo studiava doveva presentarsi decisivo e trascendente. Il romanzo galdosiano mostra invece quel fondo di vita, quella “sostanza” che trascendono tali fatti: tutto quanto resta occultato sotto questa trascendenza (ivi, p. 83). La grandezza di Galdós consiste nell’aver liberato l’ambito domestico dall’immagine di immobilismo, passività, pura immanenza: come fosse un mondo ripiegato su se stesso e sulla riproduzione dell’identico. Lo scrittore, osserva Zambrano, vi penetra con ansia di conoscenza e si sofferma su di esso fino a scoprire il segreto della sua struttura intima. Così ci restituisce qualcosa che sfugge alla storia evenemenziale: quella «corrente di vita» che dà respiro ai fatti, che crea la coesione tra le dimensioni del tempo, che nutre il cambiamento e la trasformazione (ivi, p. 90). Egli mostra, in definitiva, qualcosa d’inedito: «la trascendenza del quotidiano e dell’anonimo nel fluire del tempo non legato a un avvenimento storico» (ivi, p. 83). *** La protagonista del romanzo Misericordia, («una protagonista che non sembra nemmeno tale»), è «un quasi nessuno» (ivi, p. 5), una serva di quelle che servono «con innumerevoli mestieri senza nome». Il suo nome è Benina, detta Nina, e di lei non conosciamo pressoché nulla, se non l’incrollabile fedeltà nei confronti della sua padrona, donna Francisca Juárez de Zapata, detta donna Paca. Quest’ultima è l’erede decaduta di una famiglia agiata, rovinata dalle proprie manie di grandezza e ormai ridotta nella più completa miseria, ma che vive nel rimpianto delle glorie passate. Spinta da un profondo sentimento di carità e insieme dall’«affetto ardente che portava alla triste signora, come per compensarla a suo modo da tante sventure e amarezze» (Benito Pérez Galdós, 2006, p. 52), Nina si arrabatta con espedienti sempre più estremi per assicurarle cibo e cure, sino a ridursi a 30 mendicare. Tuttavia nasconde a Donna Paca la provenienza degli scarsi denari che riesce a portare a casa, considerando che la vergogna le sarebbe fatale. Il mondo domestico che il romanzo ci rivela attraverso il personaggio di Nina è tutt’altro che la manifestazione di una continuità amorfa e compatta, di una vita che scorre sempre uguale a se stessa. È un mondo complesso, fatto di mestieri che richiedono «agilità, vivacità, perseveranza» e insieme «furbizia, sforzi sfrenati della mente e dei muscoli», «vigilanza costante» «sollecitudine», «squisitezza nelle cure» (ivi, p. 40). Nina corre «come una freccia», e a volte la sua rapidità appare miracolosa, «come se gli angeli l’avessero portata e riportata in volo»; il suo «affannoso andirivieni dietro al miracolo quotidiano» (ivi, p. 50) si conclude nel miracolo che ella stessa opera ad ogni pasto, moltiplicando pani e pesci: Poiché aveva conoscenze nei mercati [...] non le riusciva difficile acquistare commestibili a prezzi infimi e gratuitamente ossi per il brodo, pezzi di cavoli neri e bianchi avariati e altre cosette [...] con pochissimo denaro, e senza alcuno talvolta, prendendo a credito, acquistava uova piccole, rotte o vecchie, pugni di ceci o lenticchie, zucchero scuro da fondi di magazzino [...]con sforzi sovraumani, impiegando l’attività corporea, l’attenzione intensa e l’intelligente birichineria, Benita le dava da mangiare il meglio possibile, talvolta molto bene, con delicate raffinatezze (ivi, p. 52) Donna Paca, i membri della famiglia, i numerosi bisognosi che Nina incontra sul suo cammino, vivono tutti «appoggiati sulla sua fragile schiena, sostenuti dall’instancabile attività dei suoi piedi leggeri» ma anche, e soprattutto «consolati dall’imperturbabile allegria del suo animo» (MARÍA ZAMBRANO, 2006, p. 99). E per assolvere le incombenze sempre nuove che le presenta la sua disposizione alla pietà al di sopra di ogni calcolo, ella si barcamena tra le proprie menzogne, affrontando ogni giorno una situazione sempre più intricata. Le menzogne sono la sua strategia per mantenere in vita la sua signora; e il silenzio è la trama su cui s’intesse l’ordito delle sue storie. Questo silenzio di Nina è altro dall’attitudine passiva di chi subisce soltanto; quella stessa che è stata attribuita alle donne, senza considerare che spesso il tacere delle donne è un modo per mantenere in vita la vita. Il silenzio di Nina non è pura deprivazione, mancanza di parola. È un silenzio 6 attivo, articolato, strategico: una forma dell’agire . Allo stesso modo, le menzogne pietose con cui ella vela il proprio silenzio essenziale sono una forma sottile di accudimento, alimento spirituale, con cui ella trasmette un ingrediente altrettanto vitale del pane: la speranza. 31 Invece se io fossi la signora [...] avrei fiducia in Dio e sarei contenta... Io continuo a credere che, quando meno ci penseremo, ci verrà il colpo di fortuna e avremo tanta ricchezza e ricorderemo questi giorni di ristrettezze mentre ci prendiamo la rivincita con la bella vita che faremo (Benito Pérez Galdos, 2006, p. 36). *** Il romanzo mostra l’intreccio e il conflitto tra due storie. Donna Paca conserva gelosamente la memoria di un passato glorioso, e nel suo attaccamento la storia si rivela nel suo aspetto fantasmagorico, come fosse uno scenario in cui si rappresenta un ballo di maschere. Zambrano insiste in molte opere su questo carattere teatrale della storia umana, in cui gli attori agiscono «come posseduti dal proprio ruolo» e appaiono vittime di un personaggio precostituito che si alimenta a spese della loro persona, e che essi non si risolvono ad abbandonare, a volte anche a costo della vita (cfr. María Zambrano, 2000). Sull’altro fronte, c’è la storia di chi, come Nina, ai margini della grande Storia, difende piuttosto le ragioni della vita, del suo trascorrere e del suo generare e germogliare. Il confronto tra le due visioni si propone, già nelle prime pagine del romanzo, in un dialogo tra Nina e la sua padrona. Laddove quest’ultima proclama il desiderio di morire, piuttosto che affrontare la vergogna della rovina, Nina protesta, enunciando quello che María Zambrano chiama il suo «vangelo»: E chi pensa alla morte? Eh no! Io mi trovo molto a mio agio in questo pazzo mondo, e ho persino un certo affetto per le piccole pene che sopporto. Morire no. [...] Venga pure tutto piuttosto che la morte, e soffriamo pure, a patto che non ci manchi un pezzo di pane, e possiamo mangiarcelo con due buonissime salse: la fame e la speranza. (Benito Pérez Galdós, 2006, p. 37) Donna Paca insiste sul proprio registro: «e tu sopporti la vergogna, tutta questa umiliazione, debiti con tutti, non pagare nessuno, vivere da bari, con mille imbrogli e bugie» (Benito Pérez Galdós, 2006, p. 37). Nina conferma. Ma il registro della sua risposta non è in sintonia con l’accusa. La signora le getta in faccia una verità che consiste in una maschera: fa appello a quell’immagine sociale rispetto a cui hanno peso e rilievo argomenti come la perdita di dignità e l’umiliazione. Ma per Nina dignità e l’umiliazione non sono argomenti: «alto e basso per lei non esistevano. Non la tenevano in 32 mezzo a loro» (María Zambrano, 2006, p. 61). Così ribatte alle accuse spostando il discorso su un altro piano: Io non so se ho [vergogna]. Ma ho una bocca e uno stomaco normali, e so anche che Dio mi ha fatto venire al mondo per vivere, e non per lasciarmi morire di fame. I passeri, mettiamo, hanno vergogna? Macché, quel che hanno è un becco...E guardando le cose come sono, io dico che Dio non ha creato solo la terra e il mare, ma che sono altrettanto opera sua i negozi di coloniali, la Banca di Spagna, le case in cui viviamo e, poniamo, le bancarelle della verdura. (Benito Pérez Galdós, 2006, p. 37). Zambrano mette in risalto la differenza tra la falsità delle maschere sociali di cui è vittima donna Paca e le menzogne pietose e benefiche di Nina. Per il loro vincolo con la vita, quelle di Nina non sembrano menzogne inventate, ma che piuttosto siano nate; proprio come le creature della vita, la quale si tende tra la necessità e la speranza. Nina sa che la verità nuda e cruda, nella sua brutalità, serrerebbe l’orizzonte dell’esistenza della sua padrona schiacciandola sul terreno della necessità, e la farebbe precipitare nell’opacità di un tempo senza speranza: «un tempo compatto che chiude una realtà compatta, senza pori, come una roccia consumata attraverso cui non scorre una sola goccia d’acqua». La verità pura può essere sterile: una dimensione dove nulla può nascere, poiché la sua purezza diamantina «rifiuta la soffice, impura terra dove la vita germoglia». A fronte di questa verità che è «morte che non uccide», l’azione misericordiosa di Nina consiste nel mantenere in vita donna Paca a forza di menzogne, «alimentandola con una chimera». Ella rivela così un dominio sottile del tempo nella sua relazione con la vita: intrattenendo la signora con le sue storie, sempre più rocambolesche, infarcite di dettagli succosi e descrizioni pittoresche, ella non si limita a distrarla e farle passare il tempo, ma la fa sognare e, in questo modo, le apre l’orizzonte, «una modesta chimera del futuro» (María Zambrano, 2006, p. 53). Nel tempo compatto e monotono della necessità senza speranza, Nina produce così una battuta d’arresto: una pausa che Zambrano assimila a «un movimento musicale» (ibidem), e che consente lo 7 sviluppo della melodia. *** Galdós concepiva la religione al margine di ogni ortodossia – lo dimostra, nel romanzo, la relazione di Nina con l’arabo Almudena – come patrimonio inestimabile della vita dei popoli, elemento di coesione sociale e di sviluppo morale. Negli ultimi anni della sua vita – quelli cui risale la 33 composizione di Misericordia –si era avvicinato allo spiritualismo di Lev Tolstoi, il cui eco è chiaramente percepibile nelle pagine del romanzo. I riferimenti evangelici sono numerosi nella narrazione delle vicende e delle imprese della protagonista. Tuttavia la descrizione del personaggio non corrisponde alle vite esemplari dei santi. Nina lo dichiara esplicitamente e lo ripete in vari episodi del romanzo: «Io non sono santa». E nel corso del romanzo scopriamo in lei aspetti caratteriali discutibili, dal punto di vista della morale: gli scatti d’ira; l’abilità nel trattenersi il denaro («faceva la cresta più intrepidamente che qualsiasi altra a Madrid» (40); la stessa agile disposizione alla menzogna, che fa pensare a un esercizio praticato con un certo diletto. E tuttavia ognuno di questi tratti è ambivalente, al punto che, come fa osservare l’autore, «è difficile dire dove confluissero, confondendosi, virtù e vizio» (Benito Pérez Galdós, 2006, p. 43). La stessa disonestà nell’uso del denaro – «l’abitudine di sottrarre una parte grande o piccola di quel che le veniva dato per la spesa, il piacere di metterla via, di vedere come crescesse lentamente il suo fondo di monete» – oltre a essere, per Nina, «una necessità del temperamento e un piacere dell’anima», si confonde con la virtù della prudenza e del risparmio, tanto che ella fa la cresta anche sui suoi stessi averi, quando li svincola dal Monte di Pietà per tappare i debiti di donna Paca. Il suo è un agire che non segue il precetto rigido della morale, ma la guida sapiente del cuore, come indica il titolo dell’opera, Misericordia. E la misericordia è al di là del bene e del male, perché è dell’ordine della relazione, ed è sapienza e conoscenza della particolarità di ogni essere vivente, nella sua miseria e nelle sua gloria, nel suo specialissimo dolore e nella sua potenzialità di resurrezione. *** Finalmente, scoperta nelle sue trame, Nina si risolve a parlare. Confessa quella che, agli occhi del mondo, è la sua abiezione. La mendicità, la prigione, la vergogna, l’amicizia con un moro. È interessante notare, con Zambrano, che la difesa di Nina si produce solo davanti all’interpellanza della sua signora: anche se lo sguardo di donna Paca e la sua condanna poggiano sugli stessi argomenti del «mondo», è solo di fronte a lei, e non di fronte al mondo, che Nina sente di dover rispondere. «Ma la signora le ha parlato come avrebbe fatto tutto il mondo: Nina al mondo intero, o in parte, non risponde, ma alla sua signora sì, proprio perché è la sua signora, nonostante parli come farebbe tutto il mondo» (María Zambrano, 2006, p. 46). Quel che conta è la relazione, non il giudizio della società; solo la relazione interpella. Tuttavia, su una cosa essenziale, proprio sull’unica cosa che la riscatterebbe, Nina mantiene il silenzio. Tace cioè sulla ragione del proprio agire: sul fatto che tutto quanto la signora le rinfaccia, lei lo ha sopportato e 34 continuerebbe a sopportarlo per amore suo. Nina, in altre parole, non si giustifica. Non pronuncia «la parola legittimante, giustificatrice» che la trarrebbe in salvo, perché il suo riscatto avverrebbe, in questo caso, a costo della condanna dell’altra, di colei che invece ella vuole a tutti i costi proteggere. La rivelazione della ragione ultima del suo sacrificio ne annullerebbe l’effetto: il sacrificio dichiarato si converte automaticamente in reclamo, genera, anche non volendo, rimordimento. Inacidisce il cibo elargito, indurisce il cuore alleviato, impantana la comunicazione. Così commenta Zambrano: Le argomentazioni giustificatrici mettono in salvo un individuo, un popolo. Ma... e gli altri? No; lei non poteva. La parola non si concedeva a lei per questo scopo. La verità di cui lei viveva non lasciava uscire queste verità. Poiché la verità che fa vivere trattiene quello a cui dà alimento [...] Così si mostra digiuno di verità quando sarebbe il momento di fare una bella figura. Allora si tace la verità e si resta in silenzio. (ivi, p. 60) La ragione profonda del silenzio di Nina è che la giustificazione non appartiene al suo modo di stare nel mondo. Non le appartiene la possibilità di esibire il proprio essere, che è quanto si richiede di fare a chi è sotto accusa, in un momento estremo e critico della vita. Esporsi, con le proprie ragioni: questo «è facile quando l’essere si è rovesciato in un personaggio, in un progetto o anche in una finalità cosciente» (ibidem). È possibile quando l’io resta in primo piano. Ma per coloro che «non dipendono da un’idea da cui nasce la propria stima» (ivi, p. 62), quelli che vivono spossessati dell’io, nella nudità del proprio essere con e per gli altri, esibirsi diventa qualcosa di impudico e persino di pericoloso. Essi sentono, nell’intimo, che «dicendo e dichiarando il proprio essere, può darsi che questo svanisca, si offuschi o si perda in un istante» (ivi, p. 60). I due poli del silenzio e la parola del dialogo L’essere di figure come Nina sfugge dunque alle definizioni e alle ragioni dei più. È tanto semplice quanto impossibile da dichiarare, «come lo è quasi sempre tutto ciò che è semplice» (ivi, p. 61). Per questo solo l’opera d’arte può appressarne la figura sfuggente e restituire il senso del loro silenzio. Tuttavia, quando dalla prospettiva della riflessione politica ci approssimiamo a queste figure tanto semplici quanto ineffabili per cercare di definirne il valore per il nostro presente, dobbiamo evitare l’ingenuità di 35 pensarle come le detentrici della purezza originaria di un femminile senza macchia, dove si esprimerebbe un silenzio privo d’immagini e di significato, libero dalla maledizione della storia. L’attenzione al silenzio avviene sempre nell’orizzonte del linguaggio, e il contributo creativo delle presenze silenziose nel nostro passato non può essere colta che a partire della formulazione delle domande del presente. È la stessa Zambrano ad avvertirci di questo, interrogandoci, in un testo intitolato «La risposta della filosofia»: Può darsi una “notte oscura” senza una illuminazione previa, di quelle che convertono la chiarezza abituale in oscurità? Parimenti non può prodursi un distacco senza qualcosa che venga teso alla mano vuota, né un vuotarsi della mente senza l’indicazione di qualche parola, né un silenzio totale, perché si fa silenzio per attendere a un rumore, fosse anche solo un sussurro. Un silenzio che non si sia creato così è mutismo, caduta nell’ombra. (María Zambrano, 1997) Qual’è dunque la relazione tra il silenzio che ci è stato imposto in quanto donne, quello che subiamo e che ci annulla, e il silenzio che esploriamo alla ricerca di una comunicazione più profonda con quanto sfugge alla colonizzazione del linguaggio con la sua grammatica, le sue gerarchie, i suoi binarismi e i suoi canoni? Zambrano forse risponderebbe richiamandoci alla polarità del silenzio. In un suo scritto, la filosofa distingue due poli del silenzio, identificabili in due situazioni estreme. C’è un silenzio positivo, che si genera quando si produce un sapere immediato, che «non induce, non ragiona, non immagina né propriamente prevede». Un sapere raro, che si offre «in una sorta di innocenza» e di immedesimazione, rasentando il sapere assoluto. Il silenzio deriva, in questo caso, dal fatto che non c’è bisogno di parole, poiché la comunicazione si offre nella pura presenza. Si tratta di una situazione estrema, di uno stato privilegiato ed effimero, anche se, nel suo prodursi, rivela qualcosa dell’essere umano e del suo compimento. Esiste poi il silenzio negativo che stabilisce una distanza spazio-temporale tra chi osserva e il soggetto osservato che si tramuta in oggetto; una distanza che determina l’inaccessibilità, rendendo impossibile, per colui o colei che la subisce, formulare anche solo una parola. La sua vita si vede allora condannata a vagare senza ricettacolo, come «una morte transeunte» (María Zambrano, 2003, p. 36). Quel che genera questo silenzio negativo è la disgiunzione del sapere e del potere dall’amore, come dice Zambrano, o potremmo anche dire, con Weil, dall’attenzione. Il sapere disgiunto dall’amore verso il suo oggetto «si precipita in parole», in una «moltitudine di parole senza possibile eco né risposta» (ivi, p. 37). Parole che sostituiscono il 36 silenzio, lo colonizzano. Da parte sua, il potere assoluto è «il braccio armato» del silenzio negativo. Esso rompe il silenzio con la pretesa di una parola che vuole essere unica, e che annienta tutte le altre, così come annienta lo stesso silenzio, perché lo occupa. Tra i due poli del silenzio assoluto, quello della presenza totale e quello della totale inaccessibilità dell’altro, si tende la parola. La parola che cerca il dialogo, che attende la risposta. La parola che non colonizza il silenzio, piuttosto lo ascolta e s’intreccia con esso. Poiché «la parola del dialogo può restare a lungo senza altra risposta che il silenzio» (ibidem). E dall’ascolto del silenzio, la parola guadagna profondità e orizzonte. 1 Le virgolette indicano che, con questo termine, non mi riferisco ad alcuna caratteristica essenziale quanto alla posizione delle donne nell’ordine del discorso. Cfr. Laurenzi 2015. 2 Vorrei menzionare, a questo proposito, il progetto di ricerca «Redes filosóficas femeninas» realizzato dal Seminario Filosofia i Gènere dell’Università di Barcellona e diretto da Rosa Rius tra il 2010 e il 2012, volto ad indagare le connessioni dirette e indirette tra le pensatrici della prima metà del secolo. L’ipotesi di base della ricerca era che si potessero analizzare queste reti nei termini di una «tradizione occulta», come la concepisce Hannah Arendt nei suoi scritti sugli ebrei nella Germania degli inizi del XX. 3 Di questa scelta del neutro parla Françoise Collin nel suo contributo alla Storia delle donne curata da G. Duby e M. Perrot, al constatare che «prima del femminismo le poche donne filosofo non hanno affrontato il problema dei sessi, né Jeanne Hersch, né Suzanne Langer o Gisèle Brelet, Jeanne Delhomme, Simone Weil o Edith Stein e neppure Hannah Arendt» (Françoise Collin, 1997, p. 306). 4 Delirio viene dal latino delirare, propriamente «uscire dal solco (lira)». Esprime una parola fuori dal solco della logica corrente. 5 Come sostiene Annarosa Buttarelli nella sua Introduzione al volume di María Zambrano, La spagna di Galdós, questa attenzione individualizzata alle donne è uno dei dati più significativi della modernità di Galdós, dal momento che ancora oggi, nel dibattito politico o culturale, appare arduo il passaggio «dalla concezione delle donne come massa sociale indifferenziata – o della donna come contenitore di “essenziali” caratteri di genere – alla presa di coscienza che esistono veramente solo “questa o quella donna”». Buttarelli, XVII). 6 «C’è silenzio e silenzio», osserva Giovanni Gasparini (2012). E ricordando la doppia accezione del verbo tacere, richiama il latino che distingue tra tacere e silere, laddove tacere assume la connotazione negativa della «astensione, dell’assenza e della 37 privazione», mentre silere rimanda a un «fare silenzio che può essere significativamente orientato a certi obiettivi e valori» (Ivi, p. 8). 7 Il movimento musicale qui accennato da Zambrano può essere accomunato al «punto coronato» citato da Marisa Forcina, a proposito della differenza sessuale come «punto fermo» della politica delle donne: «Questo punto fermo [...] non raffigura né è finalizzato a una stasi, ma ha la stesa funzione che nella scrittura musicale ha il punto coronato, che è un segno utilizzato per aumentare il valore di una nota o di una pausa a piacimento» (Marisa Forcina, 2015, p. 9) Riferimenti Bibliografici HANNAH ARENDT, Between Past and Future. Eight Exercises in Political Thought, Penguin, Harmondsworth 1977. 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Silence, here, stresses the human need for hearing oneself as well as the other. The syncopated and non-linear discourse of Antin creates the common narrative space of contemplation, outside of usual social time. Comment parler de soi sans trop donner l’impression de parler de soi ? Cette question n’est pas simple, surtout si l’on veut éviter un subjectivisme exacerbé qui risque de déboucher sur un exercice narcissique. Le cas des talk poems de David Antin, un performer californien très actif et 1 fécond, traduit en français et aujourd’hui octogénaire , me permet d’aborder la question du récit autobiographique sous la forme originale et finalement méconnue de la performance orale improvisée. Si l’on traduit fidèlement ce terme, on pourrait croire qu’il s’agit ici de simples figures poétiques déclamées, ce qui rentrerait somme toute dans une catégorie déjà bien établie et explorée autant par les avant-gardes, 2 depuis Dada , que par le classicisme. A cet égard, le ‘talk’ de talk poem ne renvoie pas seulement à l’idée d’une conférence au sens académique du terme, mais aussi et surtout selon moi à la notion de ‘small talk’, qui signifie en anglais parlottes ou bavardage, c’est-à-dire à une forme de discours apparemment insignifiant et répétitif. Dans cette optique, la performance narrative donne à entendre ici ce que j’appelle un micro-récit. Certes, David Antin donne-t-il parfois l’impression de s’égarer dans son discours indéterminé. Ses performances impliquent toujours l’idée d’une dérive continue à travers le langage, soit d’une forme qui semble ne privilégier aucune direction précise. La référence au poétique découle ici du sentiment et de la perception d’une langue itinérante qui voyage constamment dans les méandres des mots. Son objet n’apparaît pas 40 clairement, dans la mesure où il ne correspond ni à un but ni à une destination particuliers. L’auteur se revendique souvent de l’héritage grec de Socrate, plutôt que de la poésie homérique ou du modèle oral moderne, éminemment américain, de la Beat Generation. La tradition socratique, c’est celle d’une langue destinée à être perdue, non-inscrite et sans trace, une langue parlée qui dialogue avec l’autre et le monde bien qu’elle semble fuir en plein cœur de l’agora. En d’autres termes, la langue ne se garde pas même si elle finit par être publiée : David Antin a ainsi publié une quarantaine de ses talk poems rassemblés dans différents volumes. Le titre du talk poem que je vais considérer est en français John 3 Cage sans cage (John Cage uncaged is still cagey). Il fut présenté publiquement lors d’une manifestation d’hommage au compositeur américain qui se déroula en 1989 au Strathmore Center, dans l’état du Maryland. Le titre original exprime une exigence de liberté, (uncaged) mais aussi de secret et de silence, de non-dit (cagey). Que pourrait bien alors signifier ce ‘nondit’ ? Il renvoie essentiellement selon moi à la perception d’un vide qui est constitutif de la démarche musicale et philosophique de Cage. Pour saisir celle-ci, en effet, il faut nécessairement faire le vide en soi et autour de soi, c’est-à-dire se débarrasser de tous les préjugés et habitudes qui déterminent le rapport à notre environnement sonore. Le manque issu du silence, cependant, mène à une forme de plénitude quasiextatique : il saisit l’identité la plus pure de cet environnement selon un processus très proche de celui qui permet au contemplatif d’atteindre le nirvana dans la tradition bouddhiste. S’il y a de la performance narrative, alors, c’est qu’il y a d’abord du vide, ou plus spécifiquement la reconnaissance et l’acceptation de ce vide dans le silence. Mais nous savons bien que dans la littérature moderniste, l’interruption et la pause au cœur du langage permettent souvent de renforcer celui-ci et de lui procurer une force insoupçonnée (le théâtre de 4 Beckett constitue ainsi un brillant exemple de ce phénomène contradictoire) . Un tel vide renvoie également chez Cage à un espace narratif commun, puisqu’il appelle la nécessité et même l’urgence de l’écoute qui n’est pas seulement l’écoute d’un environnement sonore quelconque, mais l’écoute de soi et de l’autre. Le silence, ainsi, ouvre sur une histoire partagée qu’il s’agit de méditer et de saisir dans la performance narrative comme dans la composition musicale. Le mot même de performance renvoie au travail de la représentation, d’une part, dans le cas du théâtre ou de la danse, et de l’exécution, d’autre part, dans le cas de la musique. De toute façon, la performance, au sens anglo-saxon du terme, exprime la réalisation et la 41 concrétisation d’une forme artistique particulière. J’avoue d’ailleurs avoir souvent été troublé par l’utilisation récurrente de ce mot dans l’art contemporain : dans la langue française, en effet, la performance exprime prioritairement l’idée d’un effort exceptionnel de nature quasi-sportive, une forme d’exploit physique qui me semble mal adaptée à une philosophie esthétique critique. Elle souligne une tension du corps et de l’esprit en direction d’un but à atteindre résolument et traduit donc une conception encore productiviste et activiste de l’art et de l’existence par extension. La démarche cagienne renversa par contraste un certain ordre occidental de l’art même moderniste dans son obstination à privilégier le nonfaire et la non-intervention dans l’œuvre d’art. Avec Cage, le compositeur, comme avant lui Duchamp dans le domaine des arts plastiques, n’était plus au sens strict un producteur ou un créateur d’objets musicaux. Il ne s’agissait même plus de façonner des objets différents ou singuliers comme dans d’autres avant-gardes telles dada et le surréalisme, mais de ne plus produire tout court ou en tout cas de mettre en question de manière radicale le travail de l’artiste orienté dans le sens d’un produit fini, ce que même ces avant5 gardes n’avaient pu ou su renverser malgré leurs ambitions transgressives . L’artiste, soudainement, pouvait très bien être quelqu’un qui ne faisait rien, non pas par paresse ni par simple desoeuvrement, et donc par faiblesse, mais bien par fidélité à une perspective méditative sur l’art et la vie. Regarder fixement un mur blanc pendant de longues minutes, en ce sens, pouvait parfaitement constituer la preuve d’une expérience artistique (j’emploie à dessein le mot d’expérience par opposition à celui d’activité). Cette perspective conceptuelle participait également d’une dédramatisation profonde et de l’existence et de l’œuvre d’art. La performance, en effet, renvoie le plus souvent à la possibilité d’une mise en scène ou d’une incarnation dramatique d’un texte ou d’une partition musicale. John Cage est sans doute le musicien qui aura le plus contesté cette identité dramatique de la musique que même le dodécaphonisme sériel, avant lui, n’avait pu surmonter. Une telle identité hanta de toute évidence la musique romantique et postromantique, mais elle ne fut pas absente non plus de la musique baroque (en particulier la musique d’orgue) ni de la musique médiévale d’essence religieuse. Elle se poursuivra d’ailleurs dans de nombreuses musiques dites populaires, du Fado au tango. J’entends ainsi également par dramatisation une prédominance de l’expression lyrique dans la musique. La question principale associée à ce processus de dédramatisation devient alors celle de l’évènement, de sa présence possible et de son sens pour l’artiste, que celui-ci soit un performer, comme David Antin, ou un compositeur, comme John Cage. Le travail de David Antin, dans 42 sa déambulation autour de Cage, noie en quelque sorte l’évènement dans le discours poétique et narratif. Le récit autobiographique, en quelque sorte, devient le récit de non-événements ou plutôt d’évènements tellement aplatis ou réduits qu’ils en viennent à perdre toute valeur dramatique. Il évoque ainsi la reconstruction de sa maison dans le sud de la Californie, sans qu’on puisse comprendre le rapport de cette anecdote à la musique de Cage. On apprend simplement que pour les habitants de cette région, la présence d’un palmier devant la maison est une exigence constante, une présence naturelle indispensable. Le performer, comme le compositeur, est alors celui qui montre du doigt des trous dans le langage ou dans le monde sonore et prétend qu’il ne faut pas les boucher. Le discours narratif n’existe ainsi que dans des interstices, des fissures, comme la musique destinée à l’expression du silence. La performance associée à ce type de discours doit être ainsi caractérisée par son caractère volatile et éphémère, même si elle peut 6 déboucher sur un texte écrit . La première partie de cette performance narrative est celle qui se concentre le plus sur les écrits et le projet artistique de John Cage. 7 David Antin cite ainsi les entretiens de Cage avec Daniel Charles : Il y a une réflexion qui surgit dans l’un des entretiens avec Daniel Charles le troisième entretien je crois et daniel est manifestement de plus en plus exaspéré par john et john commence à être exaspéré par daniel probablement parce qu’ils vivaient alors une vie de conversation sans fin et que plus le temps passait plus cela devenait difficile et au cours de cette entrevue daniel pose cette curieuse question « est-ce que le silence au sens où vous l’entendez représente le mode de vie auquel vous aspirez » ce à quoi john réplique « c’est la vie poétique » et daniel rétorque alors avec une certaine exaspération « pourquoi insistez-vous sur le mot poésie » et john répond calmement « il y a de la poésie dès que nous nous rendons compte 8 que nous ne possédons rien ». Cette poésie du rien s’applique aussi à l’espace narratif défini et circonscrit par David Antin. Il ne s’agit pas de ne rien raconter, alors, car on raconte toujours quelque chose, car il y a toujours de l’évènement (« le monde est ce qui arrive » disait ainsi Wittgenstein dans une formule reprise par le performer), mais bien de raconter la présence du rien au cœur du langage et de la musique. Le texte écrit de ce talk poem ne possède aucune ponctuation : les signes habituels tels que les points et les virgules sont ici remplacés par de simples blancs. Il faudrait sans doute remonter à l’œuvre de Mallarmé, le premier grand poète moderniste du blanc et de ‘l’entre’, selon l’expression de 43 9 Derrida . Mais la différence entre ces deux formes réside dans le fait que David Antin ne privilégie en aucune manière la forme proprement poétique dans son travail qui oscille entre la réflexion critique et le récit inachevé. Elles partagent cependant le sens de l’indétermination, cette attirance et même cette fascination pour le pouvoir esthétique du hasard. J’évoquerai à cet égard le terme de ‘performance narrative aléatoire’ qui résonne comme une proposition cagienne. Pour Cage comme pour Mallarmé, l’idée précédait toujours la forme et son inscription dans la réalité. Dans la performance narrative de David Antin, cette forme demeure en quelque sorte volontairement inaboutie, à michemin entre l’hypothèse critique et le constat existentiel de nature autobiographique. Le texte de Silence qui inspire le performer est basé sur trois conférences que Cage donna à Darmstadt et qui réfléchirent sur la notion-même de structure dans la composition musicale. Il est clair que Cage privilégia souvent une structure ouverte, imprévisible et que dans ce parti-pris, il s’opposa à d’autres compositeurs bien connus de musique contemporaine, de Boulez à Stockhausen (celui des Klavierstücke, en particulier, des pièces pour piano encore ancrées dans une tradition dodécaphonique). Ces conférences établissent en outre des points de comparaison entre certains morceaux de Cage et de Morton Feldman, d’une part, et entre Bach et Stockhausen, d’autre part, à partir de L’Art de la fugue et des Klavierstücke déjà cités. Le performer ne considère pas ces conférences comme un texte parfait, loin de là. Il avoue en particulier ne pas beaucoup apprécier la prédilection de Cage pour de telles comparaisons. Mais peu importe : ce qui compte pour lui, c’est de parvenir à une lecture qui mette en avant une certaine vertu poétique du texte de Cage. Il conclut cette partie en affirmant que le texte fonctionne comme une machine d’art. Il définit celle-ci de la façon suivante : « une machine d’art est un système dont les parties lorsqu’elles sont mises en marche agissent les unes sur les autres de telle 10 manière qu’elles vous font voir les choses différemment » . Très vite alors, le récit quelque peu chaotique de David Antin bascule dans la réalité quotidienne la plus banale, celle des nombreux centres commerciaux et autoroutes de la région de San Diego. Il offre alors comme exemple de machine d’art un juke-box qui se trouve au deuxième étage du célèbre magasin Saks Fifth Avenue. Le terme de structure, pour le performer, débouche inévitablement sur l’image d’une architecture et d’un bâtiment, soit d’un objet qui est selon ses propres termes ‘tangible et solide’. Le discours de David Antin glisse littéralement sur le projet musical de John Cage pour s’accrocher à un autre projet beaucoup plus terre-à-terre, celui de la reconstruction de sa propre maison afin de la rendre plus vivable. 44 Il décrit ainsi les différentes pièces qui composent la maison qu’il occupe avec son épouse. Il souligne en particulier les effets bénéfiques de la lumière sur le rapport intime et psychologique qu’il entretient avec l’espace domestique : L’apparition du soleil le matin a toujours sur moi un effet formidable nous n’avons pas de stores et le soleil entre et nous réveille le matin et la porte que nous ouvrons pour faire entrer l’air est vitrée et elle diffuse la lumière du soleil dès son lever elle diffuse les premiers rayons de soleil très tôt les jours où le ciel n’est pas couvert et quand cela se produit je me réveille et cela ne me dérange pas je suis enchanté que le soleil me réveille d’un autre côté quand la lumière commence à baisser je me sens déprimé et si je me trouve dans une pièce d’où l’on voit le coucher de soleil je n’y trouve 11 aucun plaisir. On peut évoquer à cet égard « le degré zéro du récit », pour 12 reprendre et quelque peu transformer une célèbre formule de Barthes . Parler de soi, raconter sa propre vie, en ce sens, c’est mettre l’accent sur la banalité-même de son environnement. David Antin parle ainsi de la fadeur qui semble être la tonalité principale de l’Amérique contemporaine, une fadeur qui ouvre cependant sur le sentiment troublant d’une fragilité extrême 13 engendrée par la menace de désastres et de catastrophes de toute sorte. Apres tout, la Californie est aussi une terre de tremblements de terre et de secousses telluriques répétées. Le récit continue de glisser et de dévier de son chemin initial. Le performer commence ainsi à parler de sa mère juive qui vécut ses vieux jours dans un modeste appartement de Brooklyn avec une grande austérité. Il raconte ses nombreux efforts pour améliorer les conditions de vie de sa mère, âgée de 86 ans, qu’il finit par faire venir à San Diego afin d’être plus proche d’elle. Il insiste en particulier sur son rapport compliqué à l’argent, elle qui croit constamment que la banque où elle possède un compte d’épargne tente d’escroquer ses intérêts. Il la loge d’abord dans un petit appartement ensoleillé avant de l’installer dans une sorte de maison de retraite pour sa fin de vie. Le discours narratif, en ce sens, constitue un chemin en zigzag. Il n’avance jamais en ligne droite mais passe d’un sujet à l’autre selon les exigences existentielles du moment. Peut-être devrions nous considérer ce talk poem comme un pur essai expérimental de mise en relation de l’art et de la vie la plus triviale. « J’ai construit ce discours autour de la question de la structure », affirme ainsi l’auteur dans les derniers passages de sa performance. Il pose cette question : « comment puis-je construire quelque 45 chose qui ait une forme articulée et qui résiste pourtant à la clôture alors que 14 tout en moi aspire à clore sur une note formelle je ne le ferai donc pas » . La structure, en ce sens, est bien contradictoire : elle doit obéir à certaines règles formelles tout en demeurant souple et fluide. Il est indiscutable que ce type de travail trouve ses racines dans les divers happenings d’une certaine contre-culture américaine des années soixante qui se situa en marge des circuits traditionnels de l’expression artistique. Ces manifestations soulignèrent la quête acharnée du présent dans l’art et la culture, en contradiction avec le modèle occidental dominant du devenir historique et du progrès caractéristiques de la modernité. Art is now and now is art : telle était l’affirmation implicite contenue dans ces formes radicales. Dans le cas du travail de David Antin, il suffirait alors de paraphraser celle-ci et de dire : The narrative is now and now is the narrative. Mais justement, que se passe-t-il alors ? Et comment réconcilier l’exigence de silence issue du projet cagien avec le développement d’un récit qui par définition rompt avec celui-ci ? Telles sont les tensions qui traversent le discours de David Antin. Le récit repose sur des bases incertaines et en grande partie indéfinies : à bien des égards, en effet, la réflexion de Cage ne constitue ici qu’un prétexte, un point de départ qui conduit l’auteur à retourner à lui-même, à son propre monde circonscrit à des lieux très particuliers et incontestablement limités. Le vide qu’appelle la musique de Cage, alors, se reflète dans le vide d’une existence quotidienne sans envergure ni souffle profond. Le problème plus général est sans doute celui de la transcription en mots de l’expérience musicale et sonore, surtout quand cette expérience est aussi conceptualisée et abstraite que celle de John Cage. Les poètes modernistes et d’avant-garde de la première moitié du XXe siècle ont dans cette perspective rarement commenté la musique alors qu’ils se sont par 15 contraste beaucoup penchés sur la peinture et les arts plastiques. ». La performance essentiellement narrative de David Antin essaie certes de contredire de telles caractéristiques, mais elle n’aboutit pas pleinement dans ses ambitions. Elle abandonne en effet délibérément les formes propres à la poésie pour leur substituer un modèle narratif quelque peu flou et surtout trop marqué par des digressions mal adaptées au sujet initial. Car John Cage chercha lui-même dans le quotidien une dimension extatique que le récit du performer ne parvient guère à exprimer. L’obsession du concret et du monde factuel éloigne en quelque sorte l’image d’un rapport méditatif et en même temps ludique à l’univers que la musique se devait d’éclairer. Un tel ludisme prolongeait à bien des égards l’esprit de dada tout en annonçant celui de Fluxus. 46 La performance de David Antin demeure bien rivée au réel alors que le projet cagien, d’essence profondément spéculative, impliqua nécessairement un détachement par rapport à celui-ci. Le culte et la révélation du silence, en effet, reposèrent sur la conscience d’un envahissement de l’espace sonore quotidien de l’homme moderne par un ensemble de bruits parasitiques issus à la fois de l’organisation sociale quotidienne et de l’ordre musical dominant. En ce sens, ils possédaient une dimension éthique. C’est cette invitation ironique et en même temps insistante à s’éloigner du monde objectif que la performance narrative semble souvent esquiver ici dans son parti-pris essentiellement anecdotique. Une telle quête artistique du silence a acquis ces dernières années une urgence nouvelle, étant donné le développement mondial frénétique de nouvelles technologies telles que l’IPod, l’IPhone ou You Tube. La propagation et la dissémination des sons et des bruits autour de nous ne connaît pratiquement plus de limites : dans ce contexte, l’exigence de silence devient encore plus pressante et radicale. La dimension utopique de la philosophie de Cage, qui s’était inscrite dans une époque dominée par la radio et la télévision, ne peut dès lors que s’accentuer aujourd’hui par la force des choses. Ces nouvelles technologies pervertissent par ailleurs à bien des égards la notion même de récit qui, en Occident, détient une longue tradition remontant à l’Antiquité. Des fragments de récits autobiographiques saturent en effet de manière incessante l’espace de Facebook. Dans cette perspective, tout usager peut produire à n’importe quel moment son propre récit instantané et le diffuser immédiatement sur Internet. La question qu’il faudrait poser en conclusion est alors la suivante : le récit empirique constitué de la sorte peut-il encore faire évènement (être littéralement un happening), comme dans le projet de David Antin, ou est-il au contraire le simple reflet d’un excès entropique des signes et des messages dans la culture contemporaine ? Ce processus très actuel de banalisation de la forme narrative devrait nous préoccuper en raison de son caractère presque irrésistible et omniprésent. A travers l’action des nouvelles technologies, Il lie étroitement le problème de l’existence possible d’un récit chargé de signification à celui du silence. Dans cette optique, le silence devrait constituer par contradiction la condition nécessaire et préalable de tout récit-événement. The narrative is silence and silence is the narrative, faudrait-il dire ainsi pour souligner ces tensions : une proposition conceptuelle que n’aurait sans doute pas désavouée John Cage. 47 1 Il est né à New York en 1932. Il suffit de songer ici à l’affirmation de Tristan Tzara: “la poésie se fait dans la bouche”. 3 Dijon: Les Presses du Réel, 2011. 4 J’ai moi-même étudié cette place importante du vide dans l’écriture moderniste chez Henri Michaux, en particulier dans son récit Misérable Miracle. Voir à ce sujet mon ouvrage Littératures modernistes et arts d’avant-garde, Paris: Honoré Champion, 2013. 5 Une telle philosophie de l’art influença profondément le mouvement Fluxus dans son expression tant plastique que musicale. 6 La question de l’art éphèmère préoccupe d’ailleurs beaucoup David Antin, puisqu’il évoque dans sa performance narrative un article qu’il a publié sur l’architecture éphemère des années soixante. Ce style joua un rôle important dans l’avant-garde californienne de l’époque. 7 Paris : L’Herne, 2014. 8 DAVID ANTIN, op.cit., p. 22. 9 Je veux renvoyer ici à son essai ‘La double séance’, in La Dissémination, Paris: Le Seuil, 1972. 10 ANTIN, Ibid, p. 35. 11 Ibid, p. 53. 12 Je veux faire allusion ici à son célèbre essai critique Le Degré zéro de l’écriture, Paris: Le Seuil, 1972. 13 Ibid, p. 56. 14 Ibid, p. 73. 15 C’est ce qu’un colloque organisé à Paris III en Juin 2011, et auquel j’eus l’honneur de participer, suggéra par son titre : « le silence d’or des poètes surréalistes ». Les actes de ce colloque ont été publiés en 2013 par Aedam Musicae sous la direction de Sébastien Arfouilloux. 2 48 NOTE ISPIRAZIONE POETICA ED ESPERIENZA RELIGIOSA IL SILENZIO NELLA POESIA E NELLA PREGHIERA Armando Savignano Abstract The essay analyzes the Henri Bremond's concept of prayer and poetry psychological, metaphysical , religious and mystical aspects. in 49 Bremond ha tentato di analizzare l'esperienza umana, il cui nucleo egli ritiene di natura 'religiosa' nel senso più ampio del termine, giacché l'uomo è capax Dei nelle diverse forme di vita, partecipando tutti dello slancio mistico anche se a diversi gradi: sotto forma di abbozzo, implicitamente, indirettamente nell'ispirazione poetica, o in pienezza e direttamente nei mistici cristiani. Perciò un ruolo centrale è attribuito alla poesia pura, ritenuta una delle forme espressive più significative di testimonianza in un certo senso 'religiosa' in analogia con l'esperienza mistica, il cui nucleo essenziale è costituito dalla presenza di Dio nello stato di 'preghiera pura' con i relativi contraccolpi sia psicologici sia epistemologici. Per questi scopi Bremond si è cimentato con una teoria della “conoscenza reale” e, in definitiva, a suo modo, con una prospettiva di filosofia della religione. 1. La poesia pura nel progetto Emmaus Se è vero che l'importanza letteraria di Bremond deriva dal ruolo svolto nella celebre quérelle sulla poesia pura , è altrettanto indubitabile che tale fissazione della sua figura ed opera sarebbero gravemente riduttive oltre che storicamente fuorvianti. Tale discutibile prospettiva fa, in effetti, apparire come una fuga in avanti la ricerca della notorietà o di qualche onore accademico, in definitiva, come un tentativo per esprimere altrove la filosofia implicita nell'impresa storica. Ma soprattutto essa prende sul serio la maschera estetica, legge come un'arte poetica ciò che è invece una filosofia religiosa. Il suo errore è certamente scusaabile, perché purtroppo non si può leggere il libro che Bremond avrebbe voluto scrivere. Bisogna dunque ricordare che i testi riguardanti la famosa disputa La poésie Pure, Prière et poésie, Racine et Valery - sono solo dei resti sfuggiti al naufragio di un libro sognato e che :vrebbe intitolato, Emmaus, un "libro di teoria sulle tre 1 esperienze: mistica , religiosa e poetica" . Gran parte dei frammenti che avrebbero dovuto costituire l'oggetto di quel libro, rappresentano un "momento di una riflessione ininterrotta che 2 coincide con la genesi dell’Histoire du sentiment religieux" . Le tappe, se così si può dire, di quel progetto sono in qualche modo riscontrabili: 1) in una introduzione - scritta, ma non pubblicata , nel 1914 – all’Histoire littéraire, in seguito sostanzialmente confluita in Prière et poésie. In quell'introduzione - a cui sarà dato in seguito il titolo di Echelle mystique – Bremond si preoccupa di isolare gli elementi comuni alle tre esperienze fondamentali insinuando, anche se con cautela, che tra di esse sussistono 3 solo differenze di grado , e palesando già, inoltre, un certo pan-misticismo, che concerne per ora "essenzialmente l’universalità del fatto religioso nella 4 storia dell'umanità" , che egli intende delineare a partire dall'antropologia dell'anima ritenuta 'naturalmente' religiosa. 2) La complessa vicenda di un articolo, incompiuto e mai pubblicato, dal significativo titolo: De Virgile à Valéry, da cui emerge che: a) Bremond scoprì il Valéry teorico prima del poeta, e lo conobbe personalmente nel 1922, epoca nella quale aveva pressoché fissato certe sue idee sul sublime e la poesia - che non devono essere, ovviamente, confusi -, oltre ad una teoria estetica, che tuttavia non rappresenta lo scopo delle sue indagini .b) In 5 questa prospettiva, stimolante risultò un importante scritto di Valéry , anche se non sono certe "preoccupazioni teoriche ad interessare Bremond quanto piuttosto l'allusione alla ricerca di un'essenza, di uno stato puro della 6 poesia" , sebbene nell'accademico francese si riscontri - come osservò lo 7 stesso Valéry - un "curioso eccesso di interpretazione" di certe tesi e persino di certe formule. c) Alla sintesi di quell'articolo su De Virgile à Valéry fatta da Brillant - che fece da intermediario per la pubblicazione sulla rivista "La Minerve française"- questi, in una lettera del 24-9-1920, avanzò sin da allora (e non senza preveggenza) perplessità ed obiezioni sia sul rischio di naturalismo sia su un certo riduzionismo della specificità del fatto cristiano 8 rispetto ad altre forme di esperienze . Tale disputa ebbe un seguito in riferimento all'opera di Brillant sui misteri eleusini, dalla cui presentazione 50 Bremond prese lo spunto per definire l'essenza della religione intesa come la relazione dell'uomo integrale con le "potenze sovrumane, invisibili e dominatrici" insistendo nel ricondurre il nocciolo dell'esperienza originaria ad un 'sentimento religioso', germe e rudimento di ogni religione e di ogni forma di vita, dal momento che è vista primariamente e costitutivamente come una 9 dimensione naturale dell'esperienza umana . L’esperienza morale 10 dev’esssere distinta da qualla religiosa che, con Yves de Paris , viene 11 definita come un “sublime commercio dell’anima con Dio” . 3) Fu nell'incontro personale con Valéry che questi , ad una precisa domanda di Bremond sui rapporti tra poesia e mistica, indicò non in se stesso, ma nel simbolismo di Mallarmé, delle peculiari quanto suggestive 12 intonazioni religiose . Grazie alla ricerca di Thibaudet, giudicata "uno dei 13 capolavori, il capolavoro forse dell'estetica moderna" , Bremond si accostò ai risvolti teorici insiti nella poesia di Mallarmé, con particolare riferimento alla poesia pura. Questa ha raggiunto esiti sovente insoddisfacenti nell'opera poetica di Mallarmé ma non sul piano della teoria estetica, anzitutto attraverso ciò che rifiuta: essa non è, infatti, una "eloquenza ritmata di ordine 14 superiore" , né colloca in primo piano gli elementi discorsivi ovvero la ragione ragionante: "Essa cerca non tanto di descrivere l'emozione quanto di ricercarla: è solo in questo senso e con questi limiti che si ha il diritto di 15 affermare che Mallarmé ha conosciuto la poesia come una musica" . All'opera di Thibaudet si richiamerà inoltre Bremond specialmente per affrontare il difficile e controverso tema dei rapporti tra verso e senso e, soprattutto, l'accostamento tra poesia e mistica. Ma proprio su questo punto decisivo sia la posizione di Valéry, sia l'interpretazione di Thibaudet riguardante Mallarmé segnano una netta distinzione e una presa di distanza rispetto alle preoccupazioni bremondiane, giacché siamo agli "antipodi del realismo newmaniano (e blondeliano) di Bremond: per lui i mistici (e i poeti) non creano né inventano, ma si lasciano invadere, 'raccogliere' ed incantare dal reale, da una presenza reale. Il tentativo di Valéry, come il libro di Thibaudet risvegliano intuizioni antiche, hanno potuto stimolare la sua (di 16 Bremond) riflessione: essa persegue sin d'ora però una via propria" . 4) Dai frammenti del progettato libro dal titolo Emmaus emergono importanti riflessioni e precisazioni sui rapporti tra la 'contemplazione profana' e il 'semplice sguardo' dei mistici. Il titolo di quel libro sognato 17 appare per la prima volta in una lettera a Blondel , nella quale Bremond afferma di voler indagare su quella 'conoscenza reale', ultra-intellettuale (ma non irrazionale), su quel contatto nel quale il fondo dell'anima si apre al dono della presenza, in altri termini sulla esperienza mistica; per tale scopo è impellente chiarire la nozione della cosiddetta 'contemplazione filosofica' che rappresenta la forma più elevata della conoscenza profana terminante in una 51 "semplice visione concettuale, vaga e quasi vuota", ovvero in una 'intuizione 18 intellettuale' . Ma è nel saggio del 1926, Le simple regard dans la contemplation profane - nel quale confluiscono anche certe riflessioni dei due anni precedenti alle quali fa allusione nella lettera inviata a Blondel, - che Bremond approfondisce tale tema cruciale con sorprendenti conclusioni rispetto alla Introduzione del 1914 all’Histoire littéraire. Infatti, sebbene si esprimesse in forma ipotetica e pur sottolineando la fugacità strutturale della contemplazione profana, egli tuttavia afferma una "identità di natura con 19 l'esperienza mistica" , essendo Dio ad un tempo "sia l'intermediario sia il termine di ogni contemplazione; così ogni contemplazione, inclusa quella 20 profana, si riconduce all'ordine mistico" . Come osserva Goichot “in nessuna parte pubblicamente il pan-misticismo di Bremond si è espresso in modo così imperioso: non solo il modello mistico orienta ogni preghiera cristiana, ed inoltre ogni esperienza religioso umana, per quanto rudimentale, ma lo si scopre all'origine di ogni incontro autentico con gli esseri ed anche con le 21 cose” . Dal contatto più fugace agli “stati mistici” la conoscenza reale forma una continuità i cui gradi variano all'infinito per intensità e ricchezza, ma non per natura. Non è solo la circostanza o un espediente tattico a suscitare il ricorso ai poeti,si tratta piuttosto di una delle tre “esperienze fondamentali” che dovevano costituire il soggetto del libro intitolato Emmaus. Lo sforzo per costruire una “poetica” sembra molto più circostanziale, esso si improvvisa sull'onda della polemica, nutrito da suggestioni che affluiscono da ogni parte e da letture accattivanti. Il ricorso ai poeti conferma il carattere universale dell'esperienza fondamentale che si origina con una presenza e termina in una presenza prefigurata dalla sospensione delle facoltà di superficie, della volontà e del sentimento.Così, anzitutto i mistici e,a loro modo, anche i poeti, sono testimoni di un'esperienza radicale, in cui il silenzio, che segue alla sospensione delle facoltà intellettuali, delle volizioni ed emozioni, non ha come termine l’annichilimento o il vuoto, pertanto non esclude una presenza, la quale però non apporta alcuna verità o dottrina speciale. "Il silenzio ci inquieta solo come prova di assenza: i mistici hanno dissociato queste due 22 idee: c'è silenzio, ma non c'è assenza" . È qui che Bremond trova una via propria incentrata sulla conoscenza reale, che è stata oggetto di indagine dei maestri Newman e, soprattutto, Blondel, anche se, non ritenendosi filosofo, il futuro accademico francese ha cura di precisare di volgersi 'sperimentalmente al reale assente. Studio da una parte degli esseri che hanno vissuto tale filosofia , anzitutto i mistici e poi i poeti; e, inversamente, coloro che non sono orientati a viverla: gli psitacismi religiosi, letterari, morali, 23 ecc.." . 52 Ma proprio quando si apprestava a lavorare ai ‘capitoli profani’ di 24 Emmaus ricevette l'invito da parte di R.Doumic, segretario perpetuo, a fare la tradizionale 'lettura' a nome dell'Accademia francese, dove pronunciò il celebre discorso sulla 'poesia pura', dopo una lunga e travagliata elaborazione. Quel celebre Discorso fu indubbiamente scritto con l'intento di chiarire la nozione di 'poesia pura', - quale realtà misteriosa e unificante, un quid che trascende gli elementi materiali e formali (ritmo, linguaggio,) e pone in secondo piano, in genere, il senso e la stessa ragione ragionante per concentrarsi sull'ispirazione, in definitiva su quell'esperienza fugace e privilegiata attraverso cui si traduce lo stato d’animo del poeta - ma, in ultima analisi, con lo sguardo volto essenzialmente a porre in luce la connessione tra la conoscenza poetica e i fatti mistici, se è vero che la poesia è essenzialmente una "magia raccogliente, come dicono i mistici, e che invita a 25 lasciarsi fare, ma attivamente da qualcosa di più grande e migliore di noi" . Bremond si propone di descrivere più che definire l’essenza della poesia pura , che è una realtà misteriosa ed unificante, qualcosa che trascende gli elementi materiali e formali (ritmo, linguaggio, ecc.).”Oggi non diciamo più : in un poema vi sono vive raffigurazioni, pensieri o sentimenti sublimi, c’è questo, c’è quello , poi l’ineffabile; diciamo: c’è anzitutto e 26 soprattutto l’ineffabile strettamente unito, d’altronde, a questo o a quello” . La poesia pura prescinde dal senso; infatti “per leggere un poema nel modo giusto, cioè poeticamente, non basta e, d’altronde, non è sempre necessario 27 cogliere il senso” . Nella poesia pura, le facoltà di superficie cedono il passo all’intuizone ed all’ispirazione poetica.In questo contesto è fondamentale precisare ciò che è puro ed impuro. “È pertanto impuro – oh! di un’impurità non reale, ma metafisica! - tutto ciò che in un poema occupa o può occupare immediatamente le attività superficiali,ragione ,immaginazione,sensibilità; tutto ciò che il poeta ci sembra aver voluto esprimere, ha espresso effettivamente; tutto ciò che l’analisi del grammatico o del filosofo deduce da questo poema, tutto ciò che una tradizione ne conserva.E’ impuro, evidentemente , il sosggetto del poema,ma anche il senso di ogni frase,il nesso logico delle idee, l’incedere della recitazione, il dettaglio delle descrizioni […]. Insegnare, raccontare, dipingere, far venire i brividi o 28 provocare il pianto, a tutto ciò basterebbe la prosa…” . Anche in un’opera in cui abbonda il sublime, la qualità propriamente poetica, ‘l’ineffabile è nell’espressione’. La poesia è in stretto rapporto con la musica, anzi è musica in quanto conduttrice di un flusso che si trasmette nel più intimo. Ma se, ogni poesia è musica verbale, non è vero l’inverso.Attraverso la poesia si trasmette lo stato d’animo del poeta. “Le parole della prosa eccitano, 53 stimolano, colmano le attività ordinarie; le parole della poesia le appagano, vorrebbero sospenderle. Esse ci sviano da quelle ombre abbaglianti che il nostro imperialismo anti-mistico, a seguito del primo peccato, ci rende troppo dilettevoli, per trasportarci in quelle felici tenebre, in cui le grinfie delle tre 29 concupiscenze non trovano più dove attaccarsi” . La stessa conclusione, che suona come premessa gravida di futuri 30 sviluppi oltre che di vivaci dispute , conferma le intenzioni di Bremond, allorché inequivocabilmente esplicita quell'analogia tra arte ed sperienza mistica. "Se bisogna credere a Walter Pater: 'tutte le arti aspirano a raggiungere la musica'. No, esse, aspirano tutte, ma ciascun attraverso i magici intermediari che sono loro proprie - le parole, le note, i colori, le linee 31 ,- aspirano tutte a raggiungere la preghiera " . 2. Preghiera e poesia L'analogia tra l'esperienza poetica e quella mistica, come è noto, è 32 descritta nella fondamentale opera, Prière et poésie (1926) , dedicata a 33 Blondel , e incentrata, come ebbe a scrivere Bergson, su una "parentela tra l'arte e la religione -essendo le emozioni provocate in noi dalle diverse arti per il sentimento religioso ciò che le armoniche sono rispetto al suono fondamentale. Credo che ciò sia vero e che non si esiterebbe ad ammetterlo se si comprendeesse pienamente che si tratta dell'essenza artistica allo stato puro, liberato dall'apporto dell'intelligenza e anche del sentimento religioso 34 puro, cioè isolato dall'insegnamento della religione" . Un certo adogmatismo, un declassamento delle attività discorsive per far posto anzitutto all'intuizione intellettuale allo scopo di isolare la preghiera e la poesia allo stato puro costituiscono indubbiamente le linee intorno alle quali ruota la riflessione di Bremond, il quale si richiama a due autorevoli figure per avallare la sua teoria della 'conoscenza reale' e l'analogia tra intuizione mistica e poetica:J. Maréchal – da cui mutua la ben nota teoria del dinamismo intellettuale e del sentimento della presenza - e L.De Grandmaison, col quale situa l'esperienza poetica tra "gli stati naturali, profani, in cui si possono decifrare a grandi linee, riconoscere l'immagine e 35 già l'abbozzo degli stati mistici” . Ma dalle originali attitudini di entrambi l'accademico francese dissente su un punto decisivo concernente l'apporto dell'esperienza mistica a quella poetica; ciò getta luce sulle sue reali intenzioni che lo facevano accostare alla poesia romantica e moderna sia francese sia, e soprattutto, inglese. Di qui l'assioma: "al mistico di spiegarci il 36 poeta" . È dunque attraverso il "disegno psicologico della propria esperienza che il poeta può essere paragonato al mistico. Al di fuori di ciò un abisso di 54 differenze. Ora, questo disegno psicologico, questo meccanismo così complicato si può rinvenire precisamente perché i mistici lo hanno descritto con una penetrazione, un dettaglio che cerchereste invano nelle confidenze 37 dei poeti" . Con questo metodo Bremond delinea tre fasi dell'esperienza poetica: 1) dall'iniziale fecondità ricca e, sovente sofferta, dello spirito; 2) alla gioiosa disponibilità a comunicare certi stati, passando attraverso 3) il momento centrale dell'ispirazione, allorchè siamo dinanzi "ad un mistero, o 38 piuttosto ad un triplice mistero . Anzitutto, essa non apporta un aumento di conoscenza - giacché addirittura si assiste ad una semplificazione delle facoltà discorsive, delle volizioni e del sentimento - bensì una nuova modalità di conoscenza basata sull'intuizione.In secondo luogo, grazie alla quiete dei sensi, pone il soggetto in grado di penetrare la sostanza vera e profonda della realtà. Infine, si esperisce uno stato di passività, di silenzio che ci schiude ed è segno di una presenza. "Abbiamo l'impressione vivissima che quest'esperienza non dipende assolutamente dalla nostra industria, che questa originalità della nostra radice profonda, questo contatto con una presenza reale ci sono dati e da qualcuno che, donandoceli, si dona lui stesso... Unanimemente si considera l'ispirazione come una visita, sovente si 39 nomina anche il visitatore" . Come nel mistico le facoltà e le potenze restano sospese per lasciar posto ad una situazione di passività che apre all'azione divina, così anche nell'ispirazione poetica "tacciono le facoltà esterne (s'intende, solo nel momento dell'ispirazione, non dopo) ma l'anima deve aderire, e attivamente quindi, e con ogni energia anche, al reale che si 40 manifesta e le si svela" . Dal punto di vista, per così dire, epistemologico, l'esperienza mistico-religiosa e l'ispirazione poetica evidenziano una sospensione della ragione ragionante e delle facoltà di superficie (volontà, sentimento, sensazioni, ecc.) per mettere in esercizio l’intuizione intellettuale. Per illustrare tali caratteri 'psicologici', Bremond si richiama qui , a completamento ed esplicitazione della concezione del "nozionale" in Newman, e della ‘conoscenza reale' di Blondel, alla celebre parabola, Animus et anima di P. 41 Claudel , pur avvertendo i limiti del ricorso ad essa e sottolineando, a seguito delle insistenze dell'amico Blondel, la necessaria cooperazione ed interdipendenza di queste due specie di conoscenza nei seguenti termini:” E’ indispensabile che il filosofo, pur facendo sua questa distinzione, metta a sua volta l'accento sulla solidarietà essenziale e costante che unisce l'una all'altra queste due specie di conoscenze. Ciò è indispensabile non solo ad una filosofia della conoscenza, ma anche ad una filosofia della volontà, ed inoltre ad una filosofia della vita interiore e della preghiera. L’ascesi non è la preghiera, ma senza un minimum di ascesi, non c'è assolutamente vera 55 preghiera. Se Animus rifiuta la sua croce, l'estasi d'Anima non sarà che 42 illusione" .L’io profondo e l’io di superficie, pur essendo distinti non possono tuttavia essere separati pena gravi conseguenze anche a livello antropologico con la divisione dell'unità della persona umana. Si tratta, invece, "di una sola ed identica anima indivisibile che ha un centro ed una superficie, che ragiona sul reale e lo possiede; che non potrebbe ragionare su di esso se, in un modo o nell'altro, non avesse iniziato a possederlo; e, se non ragionasse su di esso o, almeno, se in qualche modo non lo razionalizzasse, lo possederebbe invano. Dalla conoscenza poetica alla 43 conoscenza intellettuale vi sono scambi costanti di azione e di reazione" . Nel momento della partecipazione, che segue all'ispirazione poetica e agli alti stati mistici, accanto ad un'identica adesione al reale, si manifestano anche importanti differenze. Alcune sono di natura meramente 44 quantitativa - incentrate sull’intensità del coglimento del reale ,- altre sono rigorosamente qualitative. Tra queste fondamentale è la differenza sul piano della comunicazione; ora, contrariamente agli stati mistici - che sono ineffabili ed irripetibili,- è costitutivo del poeta di tradurre e di far passare in noi la sua esperienza. Infatti è "proprio di una esperienza poetica di essere 44 comunicabile" e di trasmettere nel fruitore quella corrente magica che è il 45 suo stato d'animo ispirato . Per motivazioni di ordine metafisico-teologiche, il mistico non può comunicare i suoi stati, sia perché essi non dipendono da lui in quanto non ne è autore e causa, sia, per conseguenza, perché sono ineffabili, divini, per cui egli può solo in qualche modo descriverli, servendosi a tal fine di metafore ed allegorie.Invece, è proprio dell’espèerienza poetica di essere comunicabile.Il poeta sente in primo luogo il bisogno di farci partecipi della sua esperienza,che è, pertanto, intraducibile ma non incomunicabile .Ma tali precisazioni non eliminarono sospetti e gravi problemi soprattutto dal punto di vista metafisico-teologico, con speciale riguardo al rischio di riduzionismo e di panateismo per tacere del pan-misticismo: altrettante questioni su cui si aprirà un vivace dibattito fino a sconfinare in insinuazioni di attitudine modernista. 3.Catarsi e testimonianza della poesia La poesia presuppone ed è finalizzata alla catarsi, non diversamente dall’esperienza mistica. La catarsi, infatti, non è che la purificazione dalle passioni tumultuose per raccogliersi e disporsi al silenzio che è indizio, apertura ed allusione ad una presenza. "La catarsi non è altro che ciò che i mistici chiamano il passaggio dalla meditazione alla contemplazione, ciò che abbiamo chiaamato la sostituzione delle attività di Anima con le attività di Animus; in breve il passaggio dalla conoscenza 46 razionale alla conoscenza reale e poetica" . La catarsi non è un processo 56 morale della coscienza, perché è essenzialmente religioso e concerne la purgaazione dalle passioni. La catarsi è così la purificazione di Animus. È in questa prospettiva che Bremond interpreta i due famosi passi della Politica e della Poetica di Aristotele, nei quali sottolinea più che il significato e la portata etica, i risvolti psicologico-estetici. "Aristotele si occupa qui certamente di un'attività sui generis, che la scienza non aveva ancora catalogato, di un'attività propriamente estetica: egli analizza l'esperienza poetica di chi assiste ad una tragedia e l'effetto collettivo che egli attribuisce alla catarsi non si distingue dallo stesso piacere poetico. È un piacere come gli altri, ma 47 ha questo di particolare: 'ci purga'" . Di conseguenza, "il male da cui ci purga 48 la catarsi non è più di ordine morale, ma semplicemente psicologico" . La catarsi si realizza sia nell'esperienza estetica che in quella mistico-religiosa, anche se a differenti livelli di profondità. Infatti, il segno distintivo dell'arte è l’incompletezza della purificazione rispetto ai più profondi livelli raggiunti dalla mistica. L'estetica bremondiana concepisce l'opera artistica non come la realizzazione del bello, l'autoelevazione o la trasfigurazione della natura, giacché l'artista è, secondo lui, un mistico mancato, ovvero il paradosso di un mistico senza Dio e l'opera d'arte il 49 paradosso di una preghiera che non prega ma provoca l’orazione . Infatti "Dio non si dà immediatamente al poeta. Di qui una differenza capitale tra esperienza poetica ed esperienza mistica. Ma quale che sia la realtà alla quale si unisce l'anima profonda è sempre attraverso la catarsi che tale unione è prodotta; o piuttosto, questa unione è la catarsi stessa, sia mistica, sia poetica, ispirazione semplificante, liberazione di Anima e messa in 50 secondo piano provvisoriamente di Animus" . Ecco perché "se c'è catarsi, il flusso passa infallibilmente trasmesso dalle parole ad Anima che è disposta ad accoglierlo, se il flusso non passa non c'è stata vera catarsi poetica. Ciò 51 che c'è di intraducibile in un poema è la catarsi" . Ma la catarsi comporta una radicale ed irriducibile distinzione tra l'oggetto dell'ispirazione poetica e quello della contemplazione. Infatti, più i poeti realizzano "l’idea del poeta in sé, più si allontanano dall'idea del mistico in sé. L'infermità che stiamo studiando non ha origine in qualche infermità poetica o artistica, ma è nella natura stessa delle cose, è una sorta di imperfezione metafisica. Il poeta, la cui attività propriamente poetica s'identificaasse con l'attività propriamente 52 mistica, violerebbe l'ordine del mondo" . Ma anche queste ulteriori precisazioni non contribuirono a far luce sulle indubbie quanto radicali differenze tra preghiera e poesia, a tal punto che lo stesso Bremond si preoccupa di precisare che anzitutto il grado e la natura di adesione al reale dal punto di vista psicologico e metafisico è incolmabile. "Da una parte e dall'altra, c'è un certo coglimento, un possesso del reale; senza di ciò né poesia, né mistica; ma nel poeta il coglimento è più 57 superficiale rispetto al mistico; meno solido, meno unificante…. Il poeta, in quanto tale, non può non parlare. Lì è la sua gloria e ad un tempo la sua debolezza... Questo tesoro, nella premura di esplicitarelo e trasmetterlo, il poeta lo possiede male, se ne apropria solo superficialmente: là è la sua 53 debolezza" . Insomma, “il poeta in quanto poeta si unisce al reale ma se ne 54 stacca subito” . Il termine e l'oggetto sperimentato dal mistico e dal poeta è, inoltre, affatto diverso, anche se su questo punto la posizione di Bremond è abbastanza sfumata, ambigua e non priva di problemi in ordine alla riduzione della specificità del fenomeno religioso alla sfera artistica e, soprattutto, alla confusione tra l'ordine teologico soprannaturale con quello naturale fino a sfociare in quel 'misticismo democratico' e in una filosofia del silenzio e dell'incoscienza. Comunque la posizione di Bremond ci sembra sintetizzabile nei seguenti termini: l'oggetto a cui si unisce il poeta non è Dio in modo diretto e cosciente, bensì è Dio colto indirettamente e quasi inconsciamente nella realtà bella. Dio è, per così dire, nascosto sotto il velo della realtà bella. Infatti "essendo Dio la realtà della realtà, il mistico e il poeta si uniscono a Lui, ma questo Dio così posseduto, l'Animus del poeta non lo nomina., l'Animus del mistico lo nomina. E’ certo che non si raggiunge effettivamente la più piccola realtà che passando attraverso Dio, ma è altrettanto certo che non si passa attraverso Dio, se oso parlare così, se non tramite Dio stesso. Ora, passare attraverso Dio è entrare nell'ordine mistico, significa accettare il distacco, la notte dei sensi e dell'intelletto, l'iniziativa gratuita del Padre celeste, la risposta docile alla grazia di carità, l'unione effettiva della nostra volontà alla volontà divina. Senza quest’iniziativa, senza questa sovruumana e speciale infusione di luce e di amore e senza la risposta attiva di Animus a Dio che ha riconosciuto e nominato, vi sono indubbiamente a volte semplici mimetismi, anche abozzi, preparazioni ed anticipazioni ipotetiche, ma non c'è misticismo nel senso proprio e sacro del termine. Eterogeneità dunque e senza confusione possibile: trascendenza assoluta, barriere insormontabili tra le due esperienze che ci occupano: 55 l'esperienza poetica è un abbozzo dell'esperienza mistica “ . La poesia non è, pertanto, preghiera; essa può tuttavia generare, disporre alla preghiera attraverso la catarsi e il processo psicologico di semplificazione e sospensione delle potenze alfine di partecipare al flusso magico dell'ispirazione provocata dalla fruizione di una poesia. Così, "a noi, poeti inferiori, l'esperienza provocata sia dalla vista di un paesaggio, sia dalla lettura dei poeti, niente impedisce che sia arricchente, che si trasformi inesorabilmente in un’esperienza religiosa, a volte anche propriamente mistica... Nello stesso perfetto poeta, l'esperienza poetica tende a raggiungere la preghiera, ma non la raggiunge; in noi, essa la raggiunge 58 senza pena e, grazie al poeta. Strana e paradossale natura della poesia: una preghiera che non prega e che fa pregare. Non è necessario sottolineare che 56 queste sono delle precisazioni metafisiche" . Queste affermazioni suscitarono vivaci dispute oltre a gravi fraintendimenti, che indussero Bremond a chiedere, come sempre , il giudizio autorevole di Blondel, il quale in una lettera scrive tra l'altro: “avete cento volte ragione di dire della poesia che è una preghiera che non prega realmente; che, impiegando alcune risorse dell'anima profonda , offre in appalto - e in ciò sta la sua eccellenza – un Ersatz della soluzione religiosa. Buona come veicolo per de-razionalizzare Animus, essa risveglia e stimola Anima, ma è utile solo per la nostalgia di una soddisfazione piena di cui rimane radicalmente incapace; diventa pericolosa nella misura in cui si considera perfetta, indipendente, capace di raggiungere l'oggetto ad un tempo ideale e reale che solo una soluzione religiosa può presagire o 57 anticipare" . In questa prospettiva ancora più suggestive e chiarificatrici risultano le osservazioni di P.Claudel, il quale nota: " è in questo senso che la poesia raggiunge la preghiera, perché fa emergere dalle cose la loro essenza pura che consiste nell'essere creatura di Dio e sua testimonianza. Ma è in questo senso, inoltre, che essa è infinitamente inferiore alla preghiera, perché l'uomo è fatto per Dio solo e non per le cose, e sebbene sia eccellente andare a Dio per ogni dove, tuttavia la via migliore è quella più 58 diretta" . Pur con tutti i limiti e, sovente, con insoddisfacenti approcci e soluzioni soprattutto a livello teologico, tuttavia è innegabile che il poeta e specialmente la poesia costituiscono,a loro modo, una forma di testimonianza religiosa, giacché il poeta sente l'urgenza di partecipare - in definitiva, di donare - ad altri quell'unione misteriosa e meravigliosa col divino sperimentato fugacemente al contatto con la realtà bella. 1. La religione tra metafisica e poesia Il dibattito e sovente la polemica, a cui non fu estraneo lo stesso temperamento bremondiano, sul rapporto tra estetica e religione diede vita ad uno di quei casi letterari forse senza precedenti per l'ampiezza delle discussioni ed anche per la durata temporale. Indubbiamente le dispute toccarono sia temi di carattere psicologici (oggi diremmo: epistemologici) sia presupposti rigorosamente filosofici e teologici. Ora un indebito slittamento tra questi punti di vista qualitativamente distinti fu, sovente, alla base di certi gravi fraintendimenti anche se non bisogna trascurare le conseguenze che Bremond mutuava dalle sue indagini storiche, specialmente il primato della mistica sulla religione, l'identificazione tra mistica e preghiera e, in questa, la teoria della preghiera pura. La poesia e la mistica tendono al silenzio; così 59 l'accademico francese propone, sotto il nome di poesia pura, uno poesia puramente virtuale o, se si preferisce, una pura virtualità di poesia senza 59 significato ed inutilizzabile nella nostra condizione umana . Quanto all'analogia preghiera-poesia, essa si collega "nella sua teologia, al fatto della creazione sul fatto della caduta, all'adorazione sul pentimento; dal punto di vista della poesia, alla sua adesione appassionata ai principi del 60 romanticismo" . Ora i romantici hanno voluto ricondurre la religione alla poesia,Bremond pretende elevare la poesia fino al piano della religione sicchè il suo tentativo risulta più ambizioso ma anche più pericoloso per entrambe le esperienze. Anche Croce sottolineò non tanto i rischi insiti nella posizione bremondiana quanto la vuotezza a cui era inesorabilmente votata la la disputa sull'arte espressiva e l'arte pura, in definitiva su quella di 'contenuto' e quella di 'mera forma', così come si configurò in Inghilterra ad opera di C.Bell e di Fry, e in Francia ad opera di Bremond "con le vivaci discussioni da lui promosse intorno alla poésie pure e contro la raison in poesia, cioè contro l'Intellettualismo, sempre tenacissimo in Francia e sempre, nonostante la 61 ribellione dei romantici, raccomandato dal gran nome di Boilau " . I rilievi di Maritain sono esemplificativi dell’atteggiamento neoscolastico, allorché osserva che nella posizione di Bremond c'è "molta confusione. Anzitutto conviene protestare in nome della poesia: essa non è qualcosa di mancato; dire che essa è mistica mancata, è attribuirle troppo e non abbastanza onore. Essa non è mistica; ma è un'essenza particolare, un 62 essere avente la sua natura propria, le sue origini e leggi ontologiche" . Ora, proprio l'ontologia è alla base di certe difficoltà in riferimento alla relazione preghiera-poesia; infatti Bremond concepisce il cosmo come un "fluttuante 63 fiume vitale di una realtà religiosa che tutto abbraccia" . Di questo fiume vitale l'uomo è soltanto un'onda. Ma ciò comporta - osserva Heckenbach l'esclusione di un'autentica trascendenza e, in definitiva, un monismo. "Veramente anch'essa conosce una trascendenza, poiché però questa viene pensata essenzialmente dal punto di vista del contenuto, come il tendere di un amore naturale, si tratta sempre e soltanto di una trascendenza immanente, del superamento psicologico-antropologico di livelli della personalità e non, invece, della determinazione essenziale di una realtà 64 assolutamente trascendente la natura" . A causa di questa concezione monistica della vita spirituale, Bremond falsifica il religioso trasformandolo in emozione estetica, e falsifica l’estetico riducendolo ad un processo di catarsi semi-religiosa. L’insufficiente concetto di trascendenza spiega perché Bremond abbia posto fra arte e religione solo una differenza di grado e non una differenza di essenza. Tutto ciò comporta la presenza di un modernismo estetico. 60 L'interesse per la poesia in Bremond è sempre psicologico. Quest'aspetto sfuggì a molti dei suoi oppositori generando gravi fraintendimenti. "Mentre il dibattito si svolge sulla questione se questo o quell'elemento deve dopo tutto essere presente, Bremond si chiedeva in realtà se qualcuno degli elementi che normalmente costituiscono una poesia 65 contribuiscono al suo effetto puramente poetico" . Il ruolo storico nel dibattito culturale dei primi decenni nel nostro secolo in Francia è stato quello di "'Ouvrir la carrière mysqtique”: ecco la funzione della poesia come Bremond la vide e con quella parola egli sfidò un'altra tendenza insita nella tradizione francese del XIX secolo, il tentativo non solo di suscitare un apporto genuinamente poetico con un linguaggio tecnicamente purificato ma anche di assicurare, attraverso tali mezzi puramente estetici, il coglimento delle realtà 66 ultime" . Studiare la nozione di preghiera significa - osserva Moisan - entrare nel cuore delle preoccupazioni bremondiane. "Gli si è rimproverato di conoscere solo una forma di preghiera, l'orazione detta di quiete o di silenzio, 67 e di voler imporre a tutti una preghiera trascendente" , tacciandolo di panmisticismo, anche se ciò equivale "in fondo a restituire al termine mistica il senso originale e a non fare della preghiera e della contemplazione una grazia riservata ad una casta spirituale ma ad estenderla ad ogni anima cristiana, per quanto semplice e modesta, a farne il fondamento di ogni vita 68 soprannaturale" . Bremond si è concentrato sul punto di vista psicologico per istituire l'analogia tra preghiera e poesia, avendo avuto così il "merito di mostrare fin dall'inizio che nel meccanismo dell'io profondo del poeta e del mistico si trova l'analogia ed anche l’identificazione, essendo dato che ci si 69 limita allora ad un puro fenomeni di ordine psicologico ed umano" . Dopo un periodo di grande notorietà oggi l'apporto di Bremond ad una teoria estetica e religiosa è quasi dimenticato e per delle ragioni non tutti eccellenti. Eppure a lui si deve una precisa e rigorosa critica al razionalismo e la scoperta di quella realtà ineffabile del centro dell'anima, dove si 70 elaborano gli stati privilegiati del poeta e del contemplativo . Egli, inoltre, ha posto le basi di certe ricerche esistenzialistiche, dal momento che "si riscontra già una forma di esistenzialismo in questo principio - che Bremond attribuisce al romanticismo - consistente nel non studiare più il poema ma il 71 poeta, nel non cercare le essenze e la natura, bensì le esistenze poetiche" . Tra i rilievi fondamentali formulati contro Bremond non si può trascurare la questione decisiva concernente le differenze tra preghiera e poesie e, in definitiva, tra arte e religione (misticismo). Pur concordando tutti gli interpreti che la differenza di grado nel misitico e nel poeta è meramente quantitativa – pertanto è insufficiente – c’è tuttavia disaccordo nell’individuazione delle differenze qualitative,anche perché su di esse il 61 pensiero di Bremond risulta alquanto sfuggente per non dire ambiguo. Ciò nonostante, si può affermare che l’esperienza mistica, a differenza di quella estetica è incomunicabile , mentre, quanto all’oggetto, il mistico,almeno quello cristiano, ha l’esperienza di Dio trascendente; il poeta, invece, sembra dire Bremond sottovoce,, coglie Dio solo indirettamente, quasi in aenigmate. Solo il mistico,pertanto, prega veramente ed efficacemente, in quanto l’orazione pura si attua tramite la grazia santificante, che è un dono libero e gratuito di Dio. Il poeta, per contro, giammai attua lo stato di orazione,ma si purifica e purifica il fruitore di un’opera d’arte disponendolo all’orazione. La poesia rimane, quindi, un abbozzo della vera preghiera ,che si realizza solo 72 nell’esperienza mistico-religiosa . Pur tra titubanze e espressioni sovente imprecise, Bremond,in ultima analisi,mantiene la distinzione tra ordine naturale e ordine soprannaturale. Per comprendere - non certo condividere totalmente - l'attitudine bremondiana non bisogna dimenticare quel libro sognato sulle 'tre esperienze' che, invero, assumerà vieppiù i tratti di un 'libro impossibile', giacché avrebbe dovuto delineare una rigorosa teoria della 'conoscenza reale' quale base epistemologica per fondare un'antropologia dell'esperienza spirituale nei suoi diversi gradi e forme finalizzata ad esprimere l'ineffabile sia nell'ispirazione poetica che nella preghiera pura - per l'esclusione di ogni intermediario discorsivo, in definitiva, delle facoltà di superficie. E tutto ciò, una volta purificati mediante la catarsi, è finalizzato a disporsi, tramite la nuda via del silenzio e dell'incoscienza, ad accogliere la presenza di Dio o del divino, giudicando inessenziali sia gli apporti intellettuali-sentimentali-volitivi, sia le stesse realtà dogmatico-istituzionali. In questa prospettiva, pur tra deficienze ed esagerazioni, l'analogia tra preghiera e poesia - in definitiva tra estetica, religione ed etica - rappresenta un originale contributo alla stessa filosofia della religione. 62 1 Cfr. E. Goichot, La poésie pure ou Emmaus?, in “Travaux de Linguisitque et de littérature”,XVIIi81980),pp.193-220, in part., pp. 193-194. 2 Ibid., p. 194. 3 bid., pp. 196-197. 4 Ibid., p. 197. 5 Cfr. P. Valéry, Introduction a L.Fabre, Connaissance de la déesse, Paris 1920. 6 Cfr. E. Goichot, La poésie pure ou Emmaus? , cit., p. 199. 7 P. Valéry, Oeuvres, Paris 1964, t. I, p. 1277. 8 E. Goichot, La poésie pure ou Emmaus?, cit., p. 201. 9 Cfr.H.Bremond, Sur la voie sacrée, in Le charme d’Athenas et autres écrits, Paris 1925, 2 ed., pp.55-73. Tale saggio è una presentazione fortemente critica dell’opera di M. Brillant, Les mystères d’Eleusis, Paris 1920.Non vanno trascurate le precisazioni sul rapporto tra religione,equiparata al misticismo, ed esperienza morale,come emerge dalla corrispondenza con Loisy (cfr.lettere del 30.6 e del 11.10 cit. da H.BernardMaitre,Lettres d’H.Bremond à A. Loisy, cit., pp.281-284). 10 H.Bremond, Sur la voie sacrée , cit., pp. 60-61. 11 Ibid., pp. 66-67. Sul pensiero misitico di Yves de Paris, cfr. H.L.,t. I, pp. 421-524. 12 Tutto ciò emerge dalla testimonianza di G. Du Bos, Journal 1921-23, Paris 1946, pp.106-108. 13 Cfr. H.Bremond, Racine et Valéry, Paris 1930,p. XIII. 14 cfr. A.Thibaudet, La poésie de Mallarmé, Paris 1911, pp.161-162. 15 Cfr. E. Goichot, La poésie pure ou Emmaus?, cit., p. 204. 16 Ibid., p. 206. 17 Cfr. H.Bremond-M-Blondel, Correspondance, cit., t.III,p. 163 e 168-170. 18 Ibid., p. 170. 19 Cfr. E.Goichot, La poésie pure ou Emmaus?, cit., p 213. 20 Ibidem. 21 Ibid., p. 213. 22 Testo inedito di Bremond cit., da Goichot, ibid., p. 216. 23 Ibidem. 24 Cfr.H.Bremond-M-Blondel, Correspondance, cit., t.III, p. 205. Alcuni importanti suggerimenti ed annotazioni di Blondel allo scritto bremondiano sulla poesia sono stati pubblicati in appendice (pp.478-483). Cfr. anche R. De Souza, La poésie pure. La génèse d’un livre, in “Grande Revue”,CL(1936),pp.86-105,262-284.:Per le varianti e le varie redazioni del testo definitivo,cfr.E.Goichot, Deux historiens à l’Académie, in “Revue d’Histoire Ecclésiastique”,LXXVIII(1983),pp.34-64,373-396. 25 Cfr. H.Bremond, La poésie pure, Paris 1926, p. 27. 26 Ibid., p. 16. Per un inquadramento storico della visione bremondiana della poesia, cfr. T.Maulaner, Introduction à la poésie française, Paris 1939,pp.7-66. Ed inoltre A.Thibaudet, La place de H.Bremond dans l’histoire de la critique française, in “Les Nouvelles Littéraires”,28.8.1933. Per il pensiero poetico ed il ruolo nella letteratura contemporanea, cfr. H.Hogarth, Bremond. The Life and Worke of a Devote Humanist, London 1950. 27 H.Bremond, La poésie pure, cit., p. 18. 28 Ibid., pp. 21-23. 29 Ibid., pp. 26-27. 63 30 A tal proposito, cfr. Eclaircissements, ibid., pp.31-166, nei quali si affrontano i temi del ruolo della ragione e delle attività di superficie nella poesia (dibattito con P. Souday),la natura dell’ispirazione (lettera di Fagus), i risvolti romantici (dibattito con R. De Souza). 31 Ibid.,p.27.. 32 H.Bremond, Prière et poésie, Paris 1926.Trad. it., Preghiera e poesia, Rusconi,Milano 1983. 33 Blondel giudica l’opera di Bremond “il testo più forte, il più ricco d’erudizione e d’intuizione. È veramente il vostro pensiero sostanziale, costitutivo e canonico ” (H.Bremond-M.Blondel, Correspondance,cit., t.III, p. 247). 34 Lettera di Bergson del 27.11.1926, cit. da E.Goichot, La poésie pure ou Emmaus, cit., p.220. 35 Cfr.H.Bremond, Prière et poésie, cit., pp.83-84.Per la tesi sul dinamisno intellettuale e sull’intuizione intellettuale nel misticismo, Bremnond è debitore di J.Maréchal, A propos du sentiment de présence chez les profanes et chez les mystiques ,1908, in Etudes sur la psychologie des mystiques, Bruxelles-Paris 1924, t.I,pp.69-179. Tale tesi è fatta propria anche da L.De Grandmaison, La religion personnelle, in “Etudes” , I(1913),pp.289-309,601-626;II(1913),pp.33-56,309-335.Per quanto concerne il sentimento di presenza, il richiamo a Maréchal si evince dall’importante testo di H.Bremond, Notes sur la mystique, in H.L, t.II,pp.585-606; e da una lettera a Blondel,nella quale chiede un giudizio sulla posizione mmaréchaliana (cfr.H.BremondM.Blondel,Correspondance, cit., t. II,p. 254) . Purtroppo,non abbiamo la risposta di Blondel, al quale si richiamava il filosofo belga , come emerge da :A.Hayen, Un texte inédit du P. Maréchal: l’Action de Blondel, in “Convivium Estudios Filosoficos”,II(1957),pp.5-41.J.Maréchal, Phénomenologie pure ou philosophie de l’action?, in Mélanges J.Maréchal, Bruxelles-Paris 1950, t.I, pp. 181-206. 36) Cfr: H.Bremond, Prière et poésie, cit., p.89. 37 Ibid., pp. 88-89. 38 Ibid., pp. 105-106. 39 Ibid., pp.108-109. 40 Cfr.G.Forni, L’estetica di Bremond,in AA.VV., Miscellanea A.Gazzana ,Milano 1960, vol:2, pp.261-290, in part., p. 271. 41 Cfr. la celebre parabola di P.Claudel, Parabole d’Animus et d’Animapour faire comprendre certaines pensées de A.Rimbaud, 1925, in Oeuvres Complètes, Paris 1959, 3 ed., vol. XV,pp.36-38. 42 H.Bremond, Prière et poésie, cit., p.139,n.1.Questo testo fu aggiunto su suggerimento di Blondel,che, in una lettera del 10.9.1926, esprimeva forti perplessità sulla separazione tra conoscenza intellettuale e reale , separazione che comprometterebbe l’umanesimo devoto(Cfr.H.Bremond-M-Blondel, Correspondance, cit., t. III, pp.249-250) È ritornato in modo critico sul tema M.Blondel, Emploi et critique du mythe specieux et perfide d’Animus et d’Anima, in La pensée ,Paris 1934, t.II,pp.534-538. Alla luce della disputa con Bremond, qualcuno si è chiesto se Blondel avesse ,in ultima analisi, gradito, la dedica del celebre libro bremondiano (cfr.G.Germain, Prière et poésie, in Entretiens sur Bremond , cit., pp.187-214, in part., p. 191). 43 H.Bremond, Pière et poésie, cit., pp.167-168. 44 Ibid., p. 168. 64 45 Ibid., pp. 170-175. Ibid., p. 180. Ibid., pp. 184-185. 48 Ibid., p. 189. 49 Cfr. F.B. Heckenbach, H.Bremond, eine mystische Philosophie der Kunst, in “Jahrbuch fur Aestetik und allgemeine Kunstwissenschaft”, Ii(1952-54),pp.23-68, in part., pp.57-62. 50 H.Bremond, Prière et poésie, cit., pp.196-197. 51 Ibid., p. 200. 52 Ibid., p. 209. 53 Ibid., pp. 209-210. 54 Ibid., p.213. 55 Ibid., pp.216-217. 56 Ibid., pp. 217-218. 57 Ibid., p. 221. Questo brano è ripreso e fatto proprio da Bremond da una lettera di Blondel (cfr.H.Bremond-M.Blondel, Correspondace, cit., t. III, pp. 256.257). 58 Cfr. P. Claudel, Lettre à Bremond sur l’inspiration poétique, in Oeuvres Complètes, cit., vol. XV, p. 61. ID., La quérelle de la poésie pure, in “Foi et Vie”, XXVIII(1925),pp.1230-1238.ID., Poésie et prière, in “Foi et Vie”, XXX(1927),pp.176185. Cfr. inoltre, A. Fontainas, Dans l’imbroglio de la poésie pure, in “Muse Française”,V(1926),pp.250-264. 59 Cfr.R.Gillouin, Poésie pure et poésie-prière, in Esquisses littéraires et morales , Paris 1926,pp.236-243, in part. pp. 241-242. 60 Ibid., p. 242. 61 B. Croce, La disputa intorno all’arte pura e la storia dell’estetica, in Ultimi saggi, Bari 1935, 2 ed., pp. 201-209, in part., p. 202. 62 Cfr. J. Maritain, Situation de la poésie , Paris 1938, p. 37. Tra i neo-scolastici, cfr. anche i rilievi di J.Lenain, Art et sainteté, Louvain 1927, in cui tra l’altro rileva che il romanticismo bremondiano gli preclude di porsi dal punto di vista oggeittivo per cui l’artista persegue un fine disinteressato (pp.38-39). 63 Cfr.F.B. Heckenbach, Bremond, ein mystische Philosophie der Kunst, cit., p.65. 64 Ibid., p. 66. 65 Cfr. H.W.Decker, Pure Poetry. Theory and Debate, Berkeley and Los Angeles 1962,p. 16. 66 Ibid., p. 116. 67 Cfr. C.Moisan, Henri Bremond et la poésie pure, Paris 1967,p. 75. 68 Ibid., p. 76. 69 Ibid., pp. 130-131. 70 Ibid., p. 195s. 71 Ibid., p. 199.Cfr. M.D.Petre, Poetry end Prayer: A Recent Discussion, in “The Dublien Review”,CLXXXV(1929),pp.177-199. 72 A.Vovard, Le mystère de la poésie, Montréal-Paris 1951.K.R.Dutton, Poésie et mystique dans l’oeuvre de Bremond, in “Revue d’histoire littéraire de la France”,LXX(1970),pp.435-444.A.J.Arnold, La quérelle de la poésie pure: une mise au point, in “Revue d’histoire littéraire de la France”,LXX(1970),pp.445-454, che puntualizza il rapporto Bremond-Valéry. 46 47 65 L’ECLOGA II. LA VITA SILENZIOSA DI ANDREA ZANZOTTO Marco Gaetani Abstract The «Ecloga II. The silent life» is included in one of the most influential books of poetry of the late italian twentieth century, «IX Ecloghe»(1962) by Andrea Zanzotto (19212011). This work is very important because it announces one of the masterpieces of contemporary Italian poetry, «La Beltà», published by Zanzotto in 1968, but also for the great artistic value of many poems that includes. The article analyzes in detail the text of «Ecloga II» and proposes an interpretation substantially different from those now prevalent. Close examination of the poem shows that the expression of the title (“silent life”) has a meaning very articulate and ambivalent axiology. This interpretation considers the most reliable studies on Zanzotto and «IX Ecloghe» and emphasizes the importance (for the Venetian poet between the Fifties and Sixties) of phenomenological existentialist thought. In particular, it is assumed that the poet alludes to an idea of silence (and "silent life") that may be related to some theoretical clarifications of «Phenomenology of Perception» by Merleau-Ponty (but not only). This interpretation differs from the hermeneutics of silence generally offered by the most accredited critics of Zanzotto (from Agosti to Dal Bianco, until the recent book by Luigi Tassoni). Zanzotto believes the “silence” is not only a subjective and objective experience as opposed to the noise (verbal and non-verbal), but it is essentially an ontological dimension connected to give “mute” of Nature and Being ("Physics" and Ontology in the work of the author are closely linked). A dimension pre-linguistic but saturated of Sense, the expression of which is not attributable only to a particular rhetorical (reticence, blank, breaks, etc.) but involves the origin of the transaction poetic. The article also proposes some ideas for a possible re-consideration of the overall character of the different stages of production poetic of Zanzotto, from «Dietro il paesaggio» (1951) to «Conglomerati» (2009). Per quanto s’intenda circoscrivere questo intervento a una riflessione sul tema del silenzio in margine a un testo, l’Ecloga II di Zanzotto, che tanto esplicitamente (e fin dal titolo) sembra sollecitarla, non si potrà non fare un riferimento, quanto meno, al macrotesto – o co-testo che dir si voglia – in cui il componimento si colloca, e alla decisiva importanza che il «libro di 66 ecloghe» riveste all’interno dell’intera produzione poetica dell’autore pievigino. Libro di svolta se mai ve ne furono, che prepara e permette quel La Beltà che a sua volta costituisce – a prescindere ora dall’intrinseco valore, pure enorme – una sorta di termine fisso e inaggirabile per tutta la produzione zanzottiana successiva (e naturalmente per l’intera vicenda della 1 poesia italiana secondo-novecentesca ): lungo gli anni Settanta e Ottanta, col baricentro del Galateo in Bosco e la «pseudo-trilogia» che questo libro inaugura, fino alla fase estrema rappresentata dalla «trilogia 2 dell’oltremondo» . Questa posizione di snodo essenziale – generalmente riconosciuta 3 dalla critica – conferisce alla silloge del 1962 una funzione di “scambio” (nel senso ferroviario, quasi) che si riflette sulla natura ibrida del volumetto e che si manifesta in particolare nella contemporanea presenza, caratteristica delle opere di passaggio, di vecchio e di nuovo (per dir molto superficialmente, perché – come spesso in Zanzotto – le cose sono molto più complesse, e sfumate: soprattutto quando in gioco sia il rapporto tra continuità e innovazione, a tutti i livelli). Erma bifronte entro la «catena» costituita dalla sequenza dei libri zanzottiani, IX Ecloghe guarda a Vocativo, e dunque all’iniziale, peculiarissima, fase post-ermetica o para-ermetica (si semplifica, sempre) che la raccolta del 1958 per molti aspetti sussume e porta a massima tensione, e insieme a quella Beltà che ci restituisce, come già osservato, una voce destinata a rimanere – pur nelle trasformazioni, talora anche assai marcate, cui andrà incontro nei successivi quattro decenni – riconoscibile, caratteristica, originale. Ibridismo della liminarità (posizione di soglia) che si può verificare non solo, e forse non tanto, nella compresenza all’interno di singoli componimenti di IX Ecloghe (alcuni dei quali peraltro memorabili, e infatti sovente antologizzati) di temi e di modi che rinviano alla precedente maniera poetica, quella appunto giunta al suo limite con Vocativo, e di altri (in verità prevalenti) che preludono invece al libro capitale 4 del 1968; ma piuttosto – come osserva particolarmente Curi – nell’alternanza di testi “vecchi” e testi “nuovi”. L’ecloga che qui ci interessa, a dire il vero, più che spiccare per una sua prossimità alla stagione che con qualche indugio ci si accinge a lasciarsi dietro le spalle o per rappresentare al contrario uno specimen dei nuovi modi espressivi, colpisce per un suo tono generale indubbiamente distintivo, per un dettato suo peculiare, evidente fin dalla prima lettura in una scorrevolezza e in una quasi piana intellegibilità che generalmente non appartengono a Zanzotto, alla proverbiale facies impervia della sua poesia – fin nella lettera e 5 in ogni sua stagione difficile, oscura . Sembra infatti che La vita silenziosa escluda per gran parte le ardue concentrazioni semantiche (e corrispettivi dispositivi formali) della fase che si conclude con Vocativo, come pure le 67 innovazioni più clamorose che renderanno poi possibile l’exploit di La Beltà, e che i lettori più acuti delle IX Ecloghe – fin poi ai ricostruttori didascalici del percorso artistico zanzottiano e ai compilatori di manuali scolastici – hanno enucleato come segnali della maggiore discontinuità, della svolta degli anni Sessanta. Non si elencheranno qui nemmeno in via cursoria questi tratti, del 6 resto ben noti a ogni frequentatore della letteratura critica sul poeta veneto ; ma per quanto pertiene al discorso che ora si comincia a svolgere si deve osservare almeno che mancano quasi, nell’Ecloga II, l’istanza metalinguistica e la componente ironica, evidentemente collegate e altrove – invece – tanto nella raccolta pronunciati; come pure minimi appaiono gli altri fenomeni di operatività retorica (l’intarsio, la citazione, la molteplicità dei registri, ecc.) che della nuova disposizione poetica – “aperta” e appunto ironica, nel senso più ampio e profondo – sono parte costitutiva. Ecco: davvero pressoché impercettibile risulta essere in La vita silenziosa (e, ad attentamente osservare, nello stesso testo che la segue, e che con l’Ecloga II fa pendant – secondo lo schema “duale” che, osserva Stefano Dal Bianco, struttura l’intera silloge, con l’eccezione, in re ipsa, 7 8 dell’Intermezzo ) l’elemento ironico . C’è nel testo al contrario, identificabile a vari livelli, una serietà di fondo, e un pur controllato pathos, che rende questo componimento una sorta di unicum non solo all’interno del volumetto del 1962; e che non chiama in causa soltanto quella certa disposizione al sublime che nell’opera zanzottiana deve essere ravvisata costante, anche quando camuffata, “corretta” e/o auto-frustrata; si tratta di un carattere distintivo che fa riferimento alla situazione generativa (forse addirittura all’“occasione”) di questa ecloga, alle armoniche anche storico-biografiche che ne fanno un testo per certi versi speciale per il suo autore. Le ragioni di questo valore speciale, si può anticipare, risiedono in buona parte nel fatto che il testo rappresenta la «notificazione» – uno dei tanti lemmi da Zanzotto riscattati a poesia – di un programma o, molto meglio, di un progetto di vita, con la dichiarazione di un solenne impegno esistenziale (a favore di una «vita silenziosa» il cui senso si cercherà di chiarire seguendo da vicino il testo). Questo impegno ingente e definitivo ha molteplici risvolti, e coinvolge integralmente il soggetto, impegna l’uomo e dunque anche il poeta: dalla quotidianità della mera praxis all’axios più elevato. Il titolo dell’Ecloga II reca un’abbastanza evidente risonanza 9 leopardiana . E si porta dietro, con Leopardi, la tradizione che – per esempio 10 proprio in La vita solitaria – il canto del poeta recanatese ri-prende e risemantizza, e che si sostanzia in una ben precisa (e cospicua) linea della poesia, non solo italiana, che risale fino al Petrarca. Ma egualmente da non trascurare, indugiando in limine all’ecloga e rimanendo nei paraggi del paratesto autoriale, è la pur reticente epigrafe dedicatoria, che in sede di 68 commento Stefano Dal Bianco scioglie rinviando alla figura di Marisa Michieli, 11 moglie del poeta . Ci si apre in tal modo la rilevante portata autobiografica di un componimento che proprio in ragione di questo pur criptico (e come pudico) rinvio alla vicenda privata, intima, dell’Autore prende uno status suo proprio. Per meglio comprendere come all’altezza della composizione delle Ecloghe Zanzotto abbia effettuato, o stia effettuando ed “elaborando”, scelte che chiamano in causa il proprio personale destino – il senso da dare alla propria esistenza nella storia – e come questo personale destino, con le scelte di valore che lo orientano, non sia estraneo al rinnovamento di un’opzione in favore della poesia – nell’inedita forma che essa è costretta ad assumere alla luce delle nuove consapevolezze raggiunte nel contesto storico-esperienziale vissuto tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta – conviene dunque tenere sott’occhio, quanto meno, la biografia 12 del poeta . Alla cui luce, anche, andrà assunta la valenza ancipite della quale più che in altri testi, non solo all’interno di IX Ecloghe, si carica il «tu» cui l’io poetante si rivolge: contemporaneamente interlocutore muto e assoluto (Paesaggio, Natura, Poesia, Verità) e persona “reale”, figura che di quel termine ideale in una certa misura costituisce l’incarnazione e la sigla. Esiste infatti una qualche sovrapposizione o interferenza o comune denominatore tra queste alterità in apparenza tanto divaricate con cui un soggetto dissestato e sgomento si confronta, chiedendo conforto e supporto, 13 cercando un Valore attorno a cui potersi ri-comporre, ri-trovare . Il testo dell’Ecloga II tematizza una situazione di appartato colloquio tra l’io poetante e un «tu» femminile, l’«amica» del v. 5. Colloquio intimo (come chiarisce immediatamente l’avverbio «insieme»), all’insegna di una solidale prossimità che quando la scena si apre al lettore appare già data, pregressa. Il generico pre-testo leopardiano funge da raccordo tra la tradizione letteraria che, come già osservato, il poeta recanatese stesso accoglie e ri-attiva e la grande linea europea di poesia-riflessione cui Zanzotto sempre si riferisce in via privilegiata, e che si riassume 14 naturalmente nel nome di Hölderlin ; ma cui non è estranea – qui – la presenza, del resto coerente, di un Rilke. Attraverso il quale ultimo forse convergono nel nostro testo quelle nuances simboliste o post-simboliste, e al limite addirittura crepuscolari o para-crepuscolari, che s’intravedono sia a livello tonale (l’atmosfera intimistica, pacatamente solenne) sia nella situazione delineata (l’appartato colloquio, in uno scenario naturale, con una 15 figura muliebre amicale, sororale ). Che il colloquio in questione sia di natura amorosa è allusivamente esplicito, per così dire, oltre che nei teneri atti cui sembrano intenti l’«io» e il «tu» quando il sipario sulla scena del componimento si apre, nel rinvio 69 attivato dall’unica zona del testo che evidenzia un fenomeno di plurilinguismo: l’intarsio latino da Virgilio, al v. 7 (Bucoliche X, 69). A essere messa in scena è una promessa amorosa, un impegno di mutua fedeltà, un reciproco impegno che mentre allude alla situazione biografica cui ci si è in precedenza riferiti (l’unione con la compagna della vita) anche costituisce la sanzione di un patto siglato una volta per sempre. L’ecloga testimonia di un punto di svolta seguente a un’opzione esistenziale assoluta, nel senso fin kierkegaardiano dell’espressione. C’è, da parte dell’individuo storico Andrea Zanzotto, la decisione di essere marito e padre di famiglia e – a questa scelta intrinsecamente connessa – quella di radicarsi nel proverbiale paesaggio, «tra colli, nella domestica selva» (si noti, nel v. 2, la funzione anche psicologica dell’aggettivo nei confronti di un sostantivo che è pure lemma 16 tanto letterariamente connotato ; e, dunque, il senso vagamente ossimorico dell’accostamento). E c’è pure, da parte del poeta, la scelta di restare fedele a una Natura come alterità conturbante ma confidente, che implica un legame erotico-sacrale, che sollecita e asseconda un Desiderio nel quale consiste la stessa forza che instaura la parola poetica. L’io poetante accetta, una volta per tutte, di consacrare integralmente la propria esistenza a quel Valore, di siglare un contratto di reciprocità (io/tu, soggetto/alterità) che sarà la poesia, la parola, a mediare, a vidimare sempre di nuovo. Non si tratta dunque propriamente di un rapporto di distanziamento, di un riconoscersi per distinzione, ma del processo di individuazione consistente in un darsi e in un dare, di un reciproco scambio che è reciproca appartenenza e reciproco ri-conoscimento. A questo intreccio, od osmosi, con l’oggetto di desiderio (del resto, come si vedrà, ambivalente e problematico) rinvia – forse non senza qualche pur vaghissimo ricordo della coppia erotica dannunziana, la cui memoria viene ovviamente depotenziata e risemantizzata – l’immagine dell’intreccio/fusione silvestre tra un «io» e un «tu» che son come immersi e confusi nel mondo vegetale (vv. 3-7). Conta più di tutto, a ogni modo, il senso di una scelta di valore non priva dei rischi e delle ambivalenze che si vedranno, ma che si vuole definitiva, e che si corrobora di una staticità che è resistenza al cambiamento, alle possibili minacce che possano incrinare un’unione con i caratteri della sacertà: le «anime» degli amanti (nel quasi frusto v. 10, che ha però la miracolosa virtù, consueta alla poesia di Zanzotto, di non apparire tale) si recludono entro un circuito incantato di estinzione e rinnovamento che neutralizza il tempo, il mutamento che con esso s’identifica (il «volger d’ore e d’acque» al v. 9). Si configura dunque, nella coppia amorosa, una postura coesa ma difensiva e regressiva, una «muta fedele difesa» (nel primo aggettivo un riferimento alla «vita silenziosa») che consiste in una stasi concentrata a escludere la negatività del mondo, a neutralizzare la minaccia 70 di un esterno vitale ma/quindi mutevole, instabile e conturbante. La posizione della prima persona (duale) è quella sedente (cfr. il verbo in apertura, ripreso al v. 11), sedentaria, emblematica di chi ricerchi appunto una sede, una stabilità che non è meramente spaziale ma concerne l’ubi consistam del soggetto e del proprio mondo (in Zanzotto non ha molto senso precisare se 17 esteriore o interiore) . Fin qui parrebbe di essere al cospetto di un’operazione poetica (ma anche psicologica e ideologica) molto tempestivamente ravvisata dalla critica come consueta alla scrittura zanzottiana, quasi un suo segno qualificante: il rifiuto cioè della Storia e l’opzione in favore di una Natura che è anche luogo 18 eterno dell’Origine, dove non si muore mai ma si nasce soltanto . Si tratta tuttavia, anche nel nostro testo, di una dicotomia mai fissata una volta per sempre, mai rigidamente determinata in termini assiologici assoluti. Anzi l’ambivalenza tra i due poli – Natura e Storia – è tale che essi possono reciprocamente compenetrarsi, e scambiarsi dunque di segno, dialettizzarsi. La migliore, o più significativa, poesia di Zanzotto è proprio il frutto del fluidificarsi di questo rapporto, dal suo darsi come ambiguo e segretamente 19 reversibile . Simili fenomeni all’insegna della reversibilità e dell’ambiguità si registrano anche nel testo dell’Ecloga II e impediscono di accogliere pacificamente, a proposito del componimento, un’interpretazione univoca e in linea con il topos della tradizione, non solo poetica (e segnatamente di quell’immaginario bucolico tanto ostentatamente chiamato in causa in IX Ecloghe), che attribuisca il segno del Valore alla «vita silenziosa» della e nella Natura, contrapposta a quella al contrario “strepitante” della e nella 20 Storia . A metà circa della prima delle due sezioni di cui l’Ecloga II si compone, una volta delineata la situazione che si è più sopra richiamata, l’io poetante passa a prefigurare lo scenario futuro della modalità esistenziale prescelta, le conseguenze immediate cioè del patto siglato con il «tu» (sulla cui duplice, o plurima, valenza non si ritorna). I tratti della «vita silenziosa» la qualificano in realtà come una dimensione acusticamente non proprio «muta», non del tutto silente, bensì come un universo quasi “ovattato” – col rischio di far pensare addirittura alla tipica sordina crepuscolare. La voce futura del soggetto aderente alla «vita silenziosa» si preannuncia infatti come «tenera» (significativo che ritorni l’aggettivazione riservata, nel v. 3, alle fronde: alla Natura), sarà una voce «dimessa». Tuttavia – si precisa quasi a prevenire una possibile accusa – «non vile», sibbene «raggiante nella gola | – che mai l’ombra dovrebbe toccare –» (vv. 15-16). Il campo semantico acustico-auditivo qui si contamina sinesteticamente con quello – tanto per la 21 poesia di Zanzotto decisivo, probabilmente più decisivo – visuale : l’ombra 71 che minaccia la voce (metonimicamente: la «gola») del soggetto rinvia al «buio duraturo» comparso (peraltro in un’immagine significativamente ambivalente) al v. 6, per trovare il suo antonimo in quel «raggiante» la cui iterazione (vv. 15 e 17) sembra sancire l’unione tra «io» e «tu», in un unisono all’insegna di una peculiare forza affermativa. Voce doppia in effetti, resa squillante da Eros, non rinunciataria (vile) a onta del suo aspetto tenero (debole) e appartato (dimesso); ma fertile («di sposalizio»: armoniche biografiche), festiva («di domenica»: minima nuance crepuscolare), aurorale e irradiante. In Zanzotto quello del raggio, dell’irradiazione, è motivo importante: forse preannuncio, qui, dell’egualmente nevralgico tema “astrale” (che infatti comparirà nella seconda sezione, e che s’accamperà nel successivo e correlato componimento Nautica celeste); rimanda soprattutto a quell’«aura» che qualifica il petrarchismo ontologico – che non è una semplice forma di (neo)platonismo – dell’Autore. Evoca dunque quel legame tra Beltà (Valore: tema centrale della meditazione poetica zanzottiana) e bellezza femminile cui 22 il poeta ebbe occasione di fare più volte riferimento . Nei versi successivi l’opzione per una vita deliberatamente ai margini di una Storia intesa sostanzialmente come disvalore viene precisandosi attraverso la contrapposizione tra il «noi» costituente ciò che si è detta la coppia amorosa (prima persona potenziata) e «altri»: istanza impersonale di chi, al contrario, accede a una scelta esistenziale diversa ed opposta, appunto storica. La «vita silenziosa» sembra aver valore, innanzi tutto, perché appunto vita, con la sua «biologale» intrinseca dignità. Il soggetto duale dell’ecloga ci appare di nuovo come avviluppato al vivente, in appartenenza quasi panica a esso: «accosteremo i capelli e le fronti | a vivere | foglie, nuvole, nevi», proclamano i vv. 20-22, di sommessa euforia vitalistica, di allusivo erotismo (con i primi due termini del v. 22 che sembrano rimandare, il primo riprendendo le «fronde» del v. 3, all’unione primordiale di terra e di cielo, forse sintetizzata dal senhal del valore – se mai altri ve ne furono, nel Zanzotto poeta elementare – della neve). All’opposto si colloca una dimensione storica che è quella propria del potere, e un’opzione di vita e di senso che viene respinta (o solo distanziata?) in consapevole prefigurazione: «non saremo potenti, non lodati» (v. 19). La seconda parte della sezione I dell’ecloga, fino alla sua conclusione (vv. 23-39), sviluppa questa dicotomia tra «noi» e quanti hanno scelto la vita potente (e “rumorosa”) della Storia: mobilitando modi ipertradizionali, vale a dire ostentatamente riattivando un immaginario di tipo 23 classico, georgico-pastorale . Ma inopinatamente questa campitura – addirittura straniante, nel suo inconcepibile anacronismo premoderno – va incontro a delle incrinature, che contraddicono l’intenzione rassicurante per 72 cui s’era adibita; infatti la vita “depotenziata” che si è scelta come quella che, 24 forse, meglio può realizzare l’«impronta cieca», per dirla con Rorty , di un soggetto in crisi, conferendo senso alla sua postura originaria di spettatore, di 25 non-attore , questa vita dunque si definisce nei versi cui ora si sta guardando attraverso alcune immagini disforiche (e proprio su un’acuta imprevista disforia si conclude la prima sezione), che non sono bilanciate o neutralizzate dalle connotazioni troppo debolmente positive che qualificano un’esistenza appartata, secondo i canoni tradizionali della vita rustica, modesta ma dignitosa (i «fuochi | poveri», la «dolce | legna», il «poco latte»: vv. 29-30, 30-31, 32). E ci si riferisce agli inquietanti «cortili cui già cinge il nulla» del v. 31, alle «mal fiorite aiole» del v. 36 e soprattutto a quella «vecchiezza» che al termine della vita (anche di quella «silenziosa», dunque) coglie «stolti amorosi inutili» (in un verso, il 34, in cui è forse il terzo degli aggettivi a colpire più di tutti, dopo e insieme allo choc complessivo del triplice accostamento). Fino alla clausola cui s’è già alluso, la cui devastante nigredo spiazza definitivamente il lettore: la vita si spegne, nella sofferenza, fino alla morte («la pena | e l’irreversibile stasi»); «del cuore», certamente; ma quindi, nella prospettiva “erotica” (in senso quasi religioso, anche) in cui la «vita silenziosa» si svolge, dell’intera soggettività pure “redenta” e potenziata dall’unione con l’«amica», o perlomeno tramite essa minimamente restaurata. Dalla terrifica «irreversibile stasi» su cui si chiude, come pietra tombale, la prima sezione del testo, deve ripartire la riflessione poetante, per ritessere pazientemente, per ridispiegare e riposizionare, per riaffermare, le ragioni di un valore e di una speranza. E da essa infatti riparte la seconda sezione (più breve della precedente, 32 vv. contro 39; e divisa – al contrario della prima, unitaria – in tre segmenti strofici di lunghezza diseguale). Si tratta di ritrovare altrove e in termini meno netti, meno tradizionalmente univoci, il valore della «vita silenziosa», di legittimare in modo differente lo spessore umano ed etico di un’opzione totalizzante ma non iattante, perché non garantita. Tenendo ora conto del minus che si è rivelato nell’opzione salvifica, e forse anche del plus che cripticamente affiorava nella scelta contraria, a onta di ogni sua implicita stigmatizzazione. Perché – entro quella sorta di “fluidificazione” assiologica, ma anche ontologica, cui ci si è più sopra riferiti – non si può non vedere il lato “buono” della potenza, cioè della capacità tutta umana (ancorché sovente dirazzante) di muovere «storia | e sorte» (vv. 27-28); come pure non si può restare insensibili alla lode (v. 19), che è pur sempre una forma del riconoscimento, un modo per uscire dal 26 solipsismo . Il «ma» che apre la seconda sezione, appena prima che sia chiamato nuovamente in causa il «tu», intende contraddire proprio l’istanza 73 negativa su cui si era chiusa la prima, ricucirne lo strappo imprevisto. A essere più decisamente delineato è ora un programma conoscitivo, un 27 percorso al limite integralmente sapienziale , che implica una consapevolezza più alta del valore ambivalente dell’esperienza stessa del conoscere, e anzi dell’esperienza tout court, che viene adesso assunta nella 28 sua costitutiva ambiguità . Non nel senso, evidentemente, che la «vita silenziosa» si configuri come un’esperienza assimilabile alla tradizionale vita contemplativa, come otium contrapposto (secondo il ben noto topos 29 umanistico) al negotium . Consiste piuttosto, questa forma di esistenza riuscita, nel progetto di mettere sempre meglio a fuoco, e secondo modi e prospettive ognora differenti e anche diacronicamente mutevoli, quella «Beltà» che Zanzotto sta riconoscendo – proprio all’altezza cronologica che ora ci interessa – come compromessa con la Storia, quindi come Tradizione (forma, codice, lingua) esposta, minacciata, assediata; ma che pure è Norma segretamente motivantesi dentro un “tempo” che non è quello storico, che è il 30 «megatempo della natura» , o un tempo prima del tempo. Proprio questa divaricazione, questa paradossale ubiquità (nel tempo e fuori di esso), rende la «Beltà» autentica non assimilabile (né confondibile con, anche se sempre più confusa a) quella «menstrua» della storia inautentica. Ed è in virtù di questa essenziale differenza (sempre meno avvertibile, tuttavia, nell’immane turbinio del falso e nell’avanzare inarrestabile del negativo) che alla violenza della storia potente fa riscontro la delicatezza (cfr. l’aggettivo «lieve» iterato: vv. 44 e 46) di un atteggiamento di ascolto rispetto a un senso che è sempre di più fuori dall’umano e il cui coglimento è precisamente il fine della poesia, di quella parola cioè che continuamente s’incarica di ri-portarlo dentro, di integrarlo ma pure, per non smarrirlo e tradirlo, di tenerlo sospeso in una dimensione intermedia (non tutta Storia, non tutta Natura): che è precisamente la dimensione mentale che tanto sembra infastidire un lettore, pure per altri versi acuto, come Fausto Curi. La parola poetica è per Zanzotto novum assoluto ma anche perenne faticoso ritorno del senso nell’alveo dell’esperienza; tale parola nasce da un conatus, anche doloroso, a conoscere (e dire), e dunque da un’originaria mancanza: «l’implorazione ferma | nei millenni come una ferita» dei vv. 4142. L’«alba» e il «germoglio» (vv. 43 e 44) rinviano a questa prospettiva aurorale (innovativa) sempre di nuovo da ri-trovare, a un’apertura appagante che non è scissa da un presupposto di sofferenza – quella «ferita» che è pure, a ben guardare, appunto un’apertura, una feritoia nella monade dell’individuum. La condizione di debolezza del soggetto («menti e mani molli d’allergie», v. 49: riferimento autobiografico), la sua morbosa fragilità, è 74 anche ciò che meglio lo dispone alla postura di ascolto, all’opera di auscultazione paziente ma non passiva di fenomeni sempre-uguali ma ogni volta nuovi (qui l’avvicendarsi delle stagioni, motivo d’importanza decisiva nella poesia del grande «paesaggista» Zanzotto). Questa è propriamente la «vita silenziosa», dunque, questo intimo contatto con la realtà al di fuori e al di sopra della Storia, questa dedizione a captare la scaturigine del Senso – su cui s’innesta la Storia stessa, per quanto se ne allontani. È questo umile e indefesso atto di leggere il reale muto e portarlo alla parola. Riconoscendovi una parola, se è vero che una simile prassi di donazione di senso, questo dire cose nuove nel sempre uguale di una condizione ontologica data una volta per tutte, è una forma appunto di lettura (vv. 50 e 51); lettura che precede e rende possibile, che motiva, la scrittura, e che – con il MerleauPonty della lezione inaugurale al Collège de France, 1953 – non è altro che 31 intuizione (di un senso da-verbalizzare) . «Vita silenziosa» è quella del poeta in quanto si collochi costantemente nella prospettiva della poesia da-farsi, nella parola da-dirsi, calato nel silenzio del mondo, silenzio ontologico, che pertiene alla Physis – che è il nome dell’Essere fenomenico. In tale dis-posizione ci si es-pone a oltraggi e ustioni, si gode di un privilegio ambiguo: «talvolta» sarà permesso di accogliere un dono ambivalente, quel leopardiano «vero» che è un «frutto armato» (magnifico, più che semplicemente cripto-ossimorico, l’accostamento). Ma non è altro, questo, che il rischio corso da chiunque, nel silenzio del fenomeno o dietro di esso, veda spalancarsi la vertigine incomprensibile dello spazio-tempo assoluto. Quei «massimi cieli» che segnano il perturbante confine tra fisico e metafisico (vv. 54-61), il crinale tra Bene e Male, Essere e Nulla: abisso “pascaliano” che marchia all’origine l’epoca moderna e che instaura per sempre la crisi dell’umano, in una gittata che dall’epoca dei Lumi raggiunge il presente del poeta. La penultima sezione dell’Ecloga II inscena lo scandaloso affrontarsi di umile e assoluto, l’inaudita assurda confidenza tra l’infimo e l’eccelso. Il fenomeno più impercettibile (il caduco: si rimanda alla freudiana – e rilkiana – Vergänglichkeit) è precisamente ciò che lascia intuire, fa leggere, qualcosa di molto prossimo all’eterno, vale a dire l’Essere silenziosamente diveniente 32 entro quella dimensione geologico-siderale tanto nota al lettore di Zanzotto . Il soggetto si dispone nell’umile posizione creaturale, consapevole dell’ineliminabile dislivello esistente rispetto a ciò che lo sopravanza ma forse non trascende – Natura, Essere, Valore –, e verso cui si osa allora non disperare di poter riuscire a innalzarsi: cfr. i vv. 62-63, nei quali «ciglia» è lemma di memoria leopardiana – cfr. il «ciglio» di Alla luna, v. 7 – ma forse anche, di nuovo, segretamente alcyonico: perché in gioco è sempre la spinta, 33 il conatus erotico, verso un Reale di cui il Verbo è copula . E con lo sguardo, 75 infatti, anche la «bocca» del soggetto sarà forse sollevata «fino a te», con locuzione iterativa che – di quello stesso soggetto in tensione – segnala insieme il nobile sforzo e la hybris inaudita. Il destino di dissoluzione che aveva segnato la fine della prima sezione dell’ecloga con un nichilismo più rassegnato che disperato non impedisce ora di guardare con qualche ottimismo alla massima ambizione di un soggetto inopinatamente ardito, quello che ha optato per la vita silenziosa della poesia: il trovamento del Senso, il ripristino del legame con l’Essere, attraverso la parola. Questo riscatto paradossale – attraverso una forma della 34 hölderliniana Untertänigkeit, si direbbe – del caduco e del Nulla (come parte imprescindibile dell’Essere diveniente), e del flebile suono e del silenzio (come via maestra alla parola), è reso attraverso forme che ricordano il finale 35 di Fuisse , con l’io poetante che vede il proprio «ultimo [...] indizio» rifulgere, riscattarsi appunto, col suo stesso semplice disporsi entro la matrice terrestre, per “inazzurrirsi” (l’azzurro, col verde, nel cromografo zanzottiano è costante spia del Valore: fin da Dietro il paesaggio, come vide tempestivamente Fortini) «di stellari entusiasmi, | di veloci convulse speranze» (il motivo celeste si congiunge a quello “leopardiano” della speranza anche nel testo che segue la nostra ecloga, e che come detto vi si 36 connette) . L’immagine della poesia – della «vita silenziosa» come esistenza integralmente consacrata alla ricerca del Senso – si ritrova nelle «lontananze capovolte» che alludono, nell’ultimo segmento del testo, al modo paradossale di avvicinare il Silenzioso e renderlo per verba: captando, quasi fotografando, forme (immagini) che possono essere soltanto «rubate» (strappate al loro inviluppante silenzio) attraverso gli «specchi» fatalmente illusori e qualche volta ustori del linguaggio, dispositivi che colgono talora per 37 accidente ciò che da essi resta «remotissimo» . Allo stesso modo in cui i «massimi cieli» si ritrovano deposti in specchi d’acqua «per profili di colchici e libellule» (di un vivente cioè, sotto la specie vegetale e animale, che rispecchia il macrocosmo). Sono, le parole native della poesia, come «fiori usciti da mura ad adorarti»: l’Essere, attraverso la parola poetica, si affranca per virtù propria da ciò che lo murerebbe nella cattiva storicità e nella disperazione del Negativo, e s’impone per potenza generativa in un gesto che così può essere a un tempo di lode e di collaudo per se stesso (vige infatti sempre in Zanzotto l’equivalenza romantica tra vis generativa della 38 parola poetica e conatus “naturante” della Physis) . È la «vita silenziosa» a permettere questa aurorale scaturigine del Senso, che si fa nella natura e come natura, che prende forma senza prendere congedo dall’informe, che emerge come parola capace di parlare senza urlare e in grado di dis-invischiarsi dal rumore che l’assedia. Una forza 76 affermativa dominata da Eros; che, dunque, non può essere separata dal suo 39 versante annichilente, negativo (Thanatos ): non è un caso se l’unio quasi mistica che l’«io» riesce a conseguire con l’istanza dispensatrice di quella sacra forza vitale nel magnifico verso conclusivo – che riesce miracolosamente a non sembrare retorico – sortisce il medesimo effetto del dolce naufragare leopardiano: in cui il negativo (il dissolvimento dell’io) viene accettato, neutralizzato e quasi “assorbito” in una più inglobante, non ingenua, resiliente positività. In questa arrischiata opzione in favore del Senso e in questo deciso investimento ontologico-assiologico, dal sentore quasi jonasiano, andrebbe cercato l’intimo valore dell’Ecloga II, anche in rapporto al tema del silenzio. Piuttosto che leggere quest’ultimo, nel nostro testo e più in generale nell’opera poetica zanzottiana, riferendosi estrinsecamente a una retorica del silenzio del genere di quella indagata di recente da Mortara Garavelli per «passi esemplari» – retorica che pure, certo, in Zanzotto trova forme plurime e talora originali. E piuttosto che tentare di penetrare da un’indagine empirica sull’immaginario del silenzio (che, seguendo le tracce lessicali, s’imbatte naturalmente anche nell’Ecloga II) entro un’interpretazione più inclusiva e radicale che mostri come il poeta approdi, dopo Filò, a integrare il silenzio 40 alla parola . Perché un silenzio “integrato” alla parola vive per la parola, è esso stesso parola, rappresentazione – e non silenzio. Il silenzio è piuttosto, per Zanzotto, il primum della parola: non solo nel senso che ne costituisce l’origine, ma anche e soprattutto perché è ciò che a essa sta sempre davanti, di fronte. È l’Essere nel suo stare (che non è semplice-presenza), mutamente gravido di senso, in attesa di un «io» il quale – benché debilitato, destituito, a rischio di contaminazione e di osmosi con l’inautentico – proprio così si costituisce e si afferma: nel silenzio “usato simbolicamente”, cioè ponendosi 41 fuori di esso con le parole . In ciò precisamente consiste la zanzottiana vita 42 silenziosa: nell’emergere di quel «Cogito tacito» che assume su di sé, come vocazione di vita e come impegno etico, l’onere del Senso, il compito esaltante quanto azzardato di dire sul fronte del silenzio – al suo enigmatico 43 cospetto . 1 Per un quadro d’insieme si può vedere l’Introduzione (del curatore) a ENRICO TESTA (a cura di), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Torino, Einaudi 2005. 77 2 Si riprende la definizione proposta, per le ultime tre raccolte zanzottiane, da Stefano Dal Bianco nell’Introduzione ad ANDREA ZANZOTTO, Tutte le poesie, a cura di Stefano Dal Bianco, Milano, Mondadori 2011. 3 Cfr. per esempio PIER VINCENZO MENGALDO (a cura di), Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori 1978, p. 872. Mengaldo, che scrive di IX Ecloghe come di «una svolta decisiva nella carriera di Zanzotto», include il testo che qui ci interessa nella sua storica antologia (pp. 882-884). «Importante» (p. 135), anzi «decisiva» (p. 147) appare la svolta delle Ecloghe anche ad ANDREA CORTELLESSA, Andrea Zanzotto, la scrittura, il paesaggio, in ID., La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, Roma, Fazi 2006. 4 Cfr. FAUSTO CURI, La poesia italiana nel Novecento, Roma-Bari, Laterza 1999, pp. 339-340. L’immagine della serie dei libri zanzottiani come una catena, fatta di anelli «intrecciati tra di loro ma ognuno nettamente distinto, dislocato rispetto a quelli precedenti», è tolta da Autoritratto, testo del 1977 incluso in Prospezioni e consuntivi (cfr. ANDREA ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori 1999, pp. 1205-1210; il riferimento che ora interessa è alle pp. 1208-1209). 5 Su questo aspetto cfr. per esempio le parole dello stesso poeta riportate nell’incipit della già citata introduzione (Il percorso della poesia di Andrea Zanzotto) di Dal Bianco al volume con tutte le poesie, p. 7; e recensendo, nel 1980, Storia di Tönle di Rigoni Stern: «io passo per contorto, oscuro, difficile, complicato» (cfr. Aure e disincanti nel Novecento letterario, in ANDREA ZANZOTTO, Scritti sulla letteratura, a cura di Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori 2001, vol. II, p. 181). Inoltre: «Quella di Zanzotto è una poesia difficile (lo è sempre stata, fin dai suoi esordi)» (FERNANDO BANDINI, Zanzotto dalla «Heimat» al mondo, in ANDREA ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, cit., p. LIII). 6 Cfr. per tutti l’ormai canonica disamina di STEFANO AGOSTI, Introduzione alla poesia di Zanzotto, in ANDREA ZANZOTTO, Poesie (1938-1972), a cura di Stefano Agosti, Milano, Mondadori 1973, pp. 14 ss. (si segnala che l’antologia curata da Agosti presenta l’Ecloga II alle pp. 117-119); e, tra le riprese non pedisseque, le puntualizzazioni di PIER VINCENZO MENGALDO, op. cit., p. 873. 7 Cfr. STEFANO DAL BIANCO, Profili dei libri e note alle poesie, in ANDREA ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, cit., p. 1462. 8 A meno che, naturalmente, non si voglia a esso ricondurre la stessa «paradossale ripresa del genere bucolico virgiliano dell’ecloga» (DAL BIANCO, ibidem). Ma l’ostentazione di un referente culturale tanto anacronistico da apparire addirittura inconcepibile corrisponde all’esacerbazione di quella componente (iper)letteraria che è elemento fondativo rispetto alla prassi espressiva zanzottiana, e che quindi sortisce come risultato la trasparenza, un peculiarissimo effetto di massima naturalezza. L’antico genere letterario riesumato da Zanzotto, lungi dal presentarcisi come autonomo vettore di distanziamento ironico, rischia al contrario continuamente di coincidere con quella «“seconda natura”» che nella poesia «sfugge alla storia e alla stessa cultura come fatto storico» (cfr., in Prospezioni e consuntivi, cit., Situazione della letteratura, p. 1094). 9 La decisiva presenza di Leopardi in Zanzotto è stata per tempo riconosciuta dalla critica e rimarcata, con la consueta autocoscienza, dal poeta veneto stesso. Può essere qui osservato che Leopardi opera in Zanzotto costantemente, dalla primissima 78 stagione fino all’estrema (si rinvia per quest’ultimo aspetto all’articolo di Antonio Prete segnalato da ANDREA CORTELLESSA, op. cit., p. 694 nt. 32). 10 Ma «la situazione dei primi versi è quella del Leopardi di Alla luna», osserva DAL BIANCO, Profili dei libri e note alle poesie, cit., p. 1466). Tuttavia cfr. anche La vita solitaria, segnatamente i vv. 23-38 e 70 ss.. Ovviamente non si tratta ora di rintracciare, tra i Canti, un unico e determinato precedente per il nostro testo. Quanto alla tradizione cui Leopardi guarda, fin dal titolo, in La vita solitaria, la si sunteggia efficacemente nel “cappello” al componimento che si legge in GIACOMO LEOPARDI, Canti, a cura di Franco Gavazzeni, Milano, Rizzoli 1998, p. 305. 11 Va ben rimarcato che Zanzotto fu sempre parco di epigrafi dedicatorie, anche per singoli componimenti poetici. A uno spoglio improvvisato del volume che raccoglie Tutte le poesie si contano, salvo sempre possibili errori, soltanto altri due casi, con un’incidenza statistica dunque davvero ridottissima, prossima allo zero. Se non si considerano infatti il «grido dedicatorio» che apre il Recitativo veneziano, in Filò e l’esergo che precede la serie Andar a cucire, in Idioma (in cui quella di Maria Carpèla è «figura emblematica» – Dal Bianco – più che reale, storica), e se si concorda sul fatto che neppure debba rientrare nel computo la dedica – collettiva e “polemica” – «Ai seguaci dell’“Ecole du regard”» preposta a Palpebra alzata, pur essa in IX Ecloghe, restano due soli casi, che sono in realtà uno soltanto: dedicatario sia di E la madrenorma (in La Beltà) che della Postilla all’Ipersonetto (in Il Galateo in Bosco) è quel Franco Fortini la cui già ben nota importanza d’intellettuale e di poeta per Zanzotto riesce in tal modo confermata. 12 Ottima la Cronologia curata da Gian Mario Villalta, in ANDREA ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, cit., pp. XCV-CXXXV (per il sodalizio con Marisa Michieli cfr. in particolare p. CXVIII). 13 STEFANO DAL BIANCO, Profili dei libri e note alle poesie, cit., p. 1466 sembra tuttavia più drastico: «Il tu è [...] da identificare con il personaggio b delle ecloghe dialogate, ossia con la poesia stessa, come Z.[anzotto] fa esplicitamente nell’Ecloga III». 14 L’«hölderlinismo», a molti livelli, del poeta pievigino è cosa ben nota agli studi zanzottiani. Ci si limita qui a rinviare a FERNANDO BANDINI, op. cit., pp. LVIII ss. (e a richiamare l’Introduzione zanzottiana al volume con Tutte le liriche del poeta di Hyperion, Milano, Mondadori 2001). 15 Può rivestire qualche interesse rinviare al “cappello” anteposto da Ferdinando Camon alla sua intervista a Zanzotto inclusa nel fortunato volume Il mestiere di poeta, e in particolare all’«equivoco [...] frequente» per cui la moglie del poeta è scambiata per la sorella, in virtù della somiglianza nei tratti del viso. L’intervista è inclusa in Prospezioni e consuntivi (cfr. ANDREA ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, cit., pp. 1119-1134; si riporta da p. 1119). 16 Cfr. Leopardi, Alla luna, v. 4. 17 A questa tematica si connette evidentemente quella, centrale, della «piccola patria», della irrinunciabile Heimat (per cui cfr. esemplarmente BANDINI, op. cit., passim). Nel 1961, anno che precede la pubblicazione delle IX Ecolghe, Zanzotto rinuncia a trasferirsi a Padova, «ponendo così fine a ogni ipotesi di carriera universitaria» (cfr. la già segnalata Cronologia a cura di Villalta). 18 Si veda per tutti Curi, che accentua – in un giudizio complessivamente severo della poesia di Zanzotto, e non sempre disposto ad affrontarne la complessità senza ricondurla sbrigativamente a una più o meno consapevole (e colpevole) 79 illusione/mistificazione ideologica – la valenza regressiva di questa scelta riferendosi alla «rimozione della storia in favore della natura» da parte di «un poeta per cui non esiste storia ma natura» (cfr. FAUSTO CURI, op. cit., pp. 337-338). Tra i critici meglio disposti verso il poeta pievigino, Fernando Bandini (riferendo a Idioma un giudizio che può essere esteso all’intero arco dell’opera zanzottiana), pur non negando quello che al più si presenta – più propriamente – come un «rifiuto della modernità» (e non dunque della storia tout court), appare sostanzialmente nel giusto quando si riferisce a una «pendolarità del poeta fra natura e storia» (cfr. FERNANDO BANDINI, op. cit., p. XC). 19 Osserva molto opportunamente STEFANO DAL BIANCO, Introduzione, cit., p. IX, che la «legge dell’interscambio oppositivo o della contradictio in terminis [...] interessa da vicino gli stessi rapporti fra Natura e Storia e non risparmia certo la Poesia». 20 La storia penetra violentemente nell’alveo protetto, “silenzioso”, della piccola patria, e lo fa con violento baccano. Un avvenimento infantile, per il poeta «di straordinario valore morale», può essere assunto come scena primaria, o trauma fondativo, di una situazione psicologica destinata a fissarsi: quello occorso quando il poeta aveva «sui quattro-cinque anni», allorché una «squadraccia di provocatori» fascisti si mise «a strepitare e a lanciare insulti» verso il padre dello scrittore, che si trovava in casa con la famiglia. «Io, dentro casa, sentii queste urla e provai un senso di paura, violenza e intimidazione», ricorda molti decenni dopo Zanzotto (cfr. ANDREA ZANZOTTO, In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda, Milano, Garzanti 2009, p. 41, corsivi aggiunti). Attutire «le voci rimbombanti della Storia» (cfr. STEFANO AGOSTI, L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto, in ANDREA ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, cit., p. XVIII), o silenziarle, sarà sempre uno dei propositi del poeta. All’altezza di IX Ecloghe a tale proposito corrisponde forse quella estromissione del tempo, che risulta come «pietrificato», cui si riferisce sempre AGOSTI (ivi, pp. XVI-XVII). 21 L’accostamento sinestetico è tradizionale, si riscontra già nelle Confessiones agostiniane (XII, III) e risale al testo biblico: cfr. BICE MORTARA GARAVELLI, Silenzi d’autore, Roma-Bari, Laterza 2015 (l’incipit del capitolo I). 22 Si vedano per esempio, a titolo riassuntivo, le dichiarazioni dell’ormai anziano poeta sulla «bellezza femminile come punto di arrivo e summa di ogni bellezza della realtà». In una figura come quella dell’omerica Nausicaa, esemplarmente, «tutto sembra ricomporsi e avere un senso», configurarsi nella «verità di un volto-corpo-mente-aura». Aura che si rapporta a quel rayonnement che sollecita e determina a sua volta un «atto di rivelazione». Può forse passare come qualcosa di più che una semplice galanteria, a questo punto, l’affermazione del poeta per la quale «è stata sua moglie Marisa ad ammaliarlo» (cfr. ANDREA ZANZOTTO, In questo progresso scorsoio, cit., pp. 118 ss.). 23 STEFANO AGOSTI in questi versi vede un «palese riferimento alla prima Bucolica virgiliana» (cfr. L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto, cit., p. XV). Si veda allora, di Zanzotto, un intervento più tardo (1981), Con Virgilio (tra le Fantasie di avvicinamento, in ANDREA ZANZOTTO, Scritti sulla letteratura, cit., vol. I, pp. 343-346). In questo breve testo la poesia virgiliana sembra collocarsi tra il «silenzio degli dèi» e un «frastuono delle cose» che è soprattutto «stridore delle armi»: per prendere dimora in una «Heimat» che è «patria storica psichica e culturale, sede di ogni affetto fondante la vita» («poderetto», «orto», non «eden»: p. 344). 24 Cfr. naturalmente RICHARD RORTY, Contingency, irony, and solidarity, Cambridge, Cambridge University Press 1989 (trad. it. di Giulia Boringhieri, La filosofia dopo la 80 filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà, Roma-Bari, Laterza 1989, in particolare il capitolo 2). 25 Si situano dalle parti di questo blocco, di questa impasse originaria, le radici della sensibilità (e poi della formazione) esistenzialistica di Zanzotto, come ben vede ANDREA CORTELLESSA, op. cit., p. 124. Ma in questa condizione d’immobilità e di esclusione (che richiama il senso d’impotenza del soggetto, come il poeta stesso chiarisce riferendosi proprio ai vv. 19 ss. della nostra ecloga in un testo di molto posteriore, del 1972) si colloca anche ciò che permette di forzarla, perché proprio in virtù di quella estraneità aliena e contemplativa sarà consentita l’auscultazione ontologica di cui si dirà infra nel testo, come forma altra di partecipazione alla realtà. Questa dialettica scacco-riscatto è particolarmente evidente nella rievocazione dell’infanzia contenuta nel già richiamato Autoritratto (1977). Per l’auto-commento zanzottiano all’Ecloga II cfr. invece Uno sguardo dalla periferia, in Prospezioni e consuntivi, cit., p. 1152. 26 Vale per Zanzotto ciò che egli stesso scriverà nel 1983 a proposito di Saba, per il quale la poesia può ritrovare il suo senso ritornando, dopo essersene separata, a una vita «che è corpo e corpo sociale» (cfr. Per Saba, in ANDREA ZANZOTTO, Scritti sulla letteratura, cit., vol. I, pp. 357-368; cit. a p. 358). Siamo nei paraggi di quella necessaria Heimkunft cui il poeta si riferisce in un saggio stavolta prossimo a Vocativo (e dunque anche a IX Ecloghe), su Solmi; in cui il poeta si sofferma sul «ritorno a quel terreno su cui è doveroso fermarsi in nome della “continuità” razionale e culturale, di un colloquio coi nostri simili, qui e ora, anche se nel presagio del dopo e dell’altrove» (cfr. Sergio Solmi e Levania, in ANDREA ZANZOTTO, Scritti sulla letteratura, cit., vol. I, pp. 5973; cit. a p. 68). 27 È lo stesso percorso «vitalmente noètico» cui si riferisce STEFANO AGOSTI in apertura del suo saggio su L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto, cit., p. IX. E va detto allora qui, riprendendo un’altra felice formula del critico più “complice” di Zanzotto (e generalizzandone l’oggetto, che per Agosti è soltanto La Beltà), che quello del poeta pievigino è sempre, originariamente, «un gesto di natura noètico-esistenziale» (ivi, pp. XX ss.). 28 Cfr. il riferimento del poeta al «rischio stellare in cui la vita si pone» sempre, nel finale della sua conversazione con Marzio Breda (ANDREA ZANZOTTO, In questo progresso scorsoio, cit., p. 122). 29 E del resto, come osserva NIVA LORENZINI, La poesia italiana del Novecento, Bologna, il Mulino 1999, p. 152, la stessa trasformazione del genere lirico operata dalla poesia di Zanzotto appare «irriducibile a qualsiasi prospettiva “veteroumanistica”». 30 Cfr. di nuovo NIVA LORENZINI, ivi, p. 151. 31 Cfr. MAURICE MERLEAU-PONTY, Éloge de la philosophie, Paris, Gallimard 1953 (ed. it. a cura di Carlo Sini, Elogio della filosofia, Milano, SE 2008, p. 26). 32 Per l’accadere impercettibilmente silenzioso dell’Essere si segue CARLO SINI, Il gioco del silenzio, Milano-Udine, Mimesis 2013, passim. Il testo di Sini è tenuto presente, in generale, in tutta questa zona dell’argomentazione. 33 L’Autore è tornato a più riprese sulla valenza “erotica” (anche nel senso di arazionale, emotiva e desiderante) della poesia. Si veda come esempio in modo particolare significativo – in quanto singolarmente consonante rispetto al testo che ci sta ora interessando – l’intervento su Eluard, degli stessi anni di IX Ecloghe (incluso in Fantasie di avvicinamento: Eluard dopo dieci anni, in ANDREA ZANZOTTO, Scritti sulla 81 letteratura, cit., vol. I, pp. 115-121). Eros, Amore e insomma quella «forza connettiva» cui si riferisce STEFANO DAL BIANCO (nella più volte richiamata Introduzione al volume con Tutte le poesie zanzottiane, cit., p. VIII) e che determina peraltro una qualche equivalenza tra vita e sintassi, composizione. 34 Cfr. Il mestiere di poeta, in Prospezioni e consuntivi, cit., p. 1130. E Hölderlin come si sa per Zanzotto viene prima di Lacan, e di molti altri. È la parola del poeta tedesco che all’adolescente parla della necessità di salvarsi «dall’affanno e dai rumori degli uomini» (cfr. ANDREA ZANZOTTO, In questo progresso scorsoio, cit., p. 19). Postura esistenziale originaria (trauma, impotenza, esclusione, passività) e disposizione alla poesia (ascolto, desiderio, necessità della parola) originano congiuntamente e si sostengono reciprocamente. Io «storico-letterario» e io «nevrotico», «io lirico» e «io psicotico», per riprendere le categorie usate da Bandini a proposito del leopardismo di Vocativo, vanno sì «opportunamente» distinti, ma senza dimenticare che questa distinzione è davvero funzionale soltanto all’esercizio critico, non all’espressione poetica. Ciò che altri validissimi studiosi dell’opera zanzottiana (si pensa ora soprattutto ad Agosti, ma anche a Dal Bianco – nei loro scritti, rispettivamente, del 1999 e del 2011) tendono a circoscrivere alla fase estrema di questa – la disposizione “pascaliana”, la passività di un soggetto esclusivamente recettivo, che si limita ad ascoltare e ad accogliere, nel silenzio del mondo – andrebbe allora considerato in essa, al contrario, come costantemente attivo e decisivo. 35 Cfr. il commento di ANDREA CORTELLESSA a questo componimento di Vocativo, in op. cit., pp. 130-135. Per lo studioso la posizione di Zanzotto, a un’altezza che è all’incirca la stessa di quella della nostra ecloga, si caratterizzerebbe per una negatività integrale contrapposta alla speranza riposta nel futuro dalle prospettive cristiana e marxiana, «che in quegli anni si contendevano il campo». In realtà – come si sostiene alla nota successiva – le due posizioni, negatività radicale e sguardo non completamente disilluso sul futuro, non sembrano in Zanzotto inconciliabili, e anzi rappresentano la cifra “paradossale” (e, se si vuole, “progressiva”) di molta della sua migliore poesia. 36 Evidentemente non si tratta di un rovesciamento tutto euforicamente connotato, non può essere così. E non tanto perché quelle speranze «veloci convulse» hanno riflessi non certamente rasserenanti, ma soprattutto per il riferimento all’“alterazione” del «dire» e dell’«esistere» provocata dall’«attesa», vale a dire dalla condizione dimidiata e “ferita” che, come s’è visto, è indispensabile al soggetto per predisporsi al Valore. Certo il poeta scrive in «anni di speranze deluse», come si legge a conclusione della nota, del 1958, su Onore del vero di Luzi (cfr. Aure e disincanti nel Novecento letterario, cit., p. 23); ma la posizione dell’Autore sarà sempre quella posta a suggello di un intervento del 1979 su Lacan: che «convenga», cioè, sperare nella «nonsperanza» espressa nel pensiero dello psicanalista francese (cfr. Nei paraggi di Lacan, ivi, p. 176). E infatti, tornando agli anni che qui più ci interessano e allo splendido saggio su Solmi (1957) ora in Fantasie di avvicinamento, la speranza sembra divisa e incerta tra le dimensioni teologica e biologica: si prepara qui il celebre, emblematico, conio zanzottiano «biologale», che non a caso verrà riferito anche alla poesia e ai suoi oggetti privilegiati (cfr. ANDREA ZANZOTTO, Scritti sulla letteratura, cit., vol. I, p. 72). Nella «durissima impasse» che l’individuo si trova a vivere nella tarda Modernità, la poesia si ostina a sperare (cfr. Prospezioni e consuntivi, cit., pp. 1095-1099). Può risultare significativo segnalare qui, infine, l’incontro di Zanzotto, nel 1964, con l’autore 82 di Das Prinzip Hoffnung: «Quell’incontro significò qualcosa di basilare, di essenziale, per me» (cfr. ANDREA ZANZOTTO, In questo progresso scorsoio, cit., p. 54). 37 Nel saggio Michaux, il buon combattente, di questi anni (1960; in Fantasie di avvicinamento, cit., pp.101-106), Zanzotto scrive che lo scrittore francese «ha saputo porgere l’occhio e l’orecchio al “grido” difficilissimo dell’“oggettività”», conseguendo la «suprema vendemmia di un logos che permea gli abissi della res extensa» (p. 103). È il «precipitare anonimo, cioè senza nome e prima del nome, che solo l’arte del nominare afferra al transito» («quell’arte di ogni arte che è l’arte della parola») cui si riferisce Carlo Sini, nel capitolo L’arte del silenzio del suo già citato Il gioco del silenzio. 38 Più che richiamare qui la proiezione assiologica effettuata da FAUSTO CURI, op. cit., p. 336, sulla scorta del Leopardi delle Operette, sulla divaricazione tra natura naturans e naturata (forse in Zanzotto non così pronunciata, né davvero determinante), mette conto di sottolineare le istanze narcisistiche e quelle risarcitorie di un simile esito. Per le prime si possono vedere, a partire dal nostro testo, le implicazioni più riposte del motivo “speculare”; le seconde si legano invece all’idea stessa che l’autore veneto detiene della poesia, e in virtù della quale, infatti, con Zanzotto ci si trova sempre in presenza – per usare le parole di NIVA LORENZINI, Il presente della poesia. 1960-1990, Bologna, il Mulino 1991, p. 117 – di «un poeta che millanta crediti sulla realtà». 39 Nella conversazione con Breda, per esempio, lo scrittore si riferisce al «rapporto primario che esiste tra poesia e tema della morte» (cfr. ANDREA ZANZOTTO, In questo progresso scorsoio, cit., p. 89). 40 È quanto fa LUIGI TASSONI nei due capitoli conclusivi della sua monografia zanzottiana, Caosmos. La poesia di Andrea Zanzotto, Roma, Carocci 2002, pp. 149 ss. (peraltro non senza osservazioni interessanti). 41 Cfr. SANDRO BRIOSI, L’uso retorico e l’uso simbolico del silenzio, in Carlo Alberto Augieri (a cura di), La retorica del silenzio, Lecce, Milella 1994, pp. 372-381. 42 Cfr. MAURICE MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard 1945 (trad. it. di Andrea Bonomi, Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani 2003, pp. 515 ss.). 43 Cfr. esemplarmente Alcune prospettive sulla poesia oggi (1966, in Prospezioni e consuntivi, cit., pp. 1135-1142): «un antico postulato iniziale permane: chi scrive, chi scrive poesia, è soltanto qualcuno che vorrebbe parlare e forse spera di poter ascoltare almeno quanto parla, anche se non esclude la possibilità di instaurare una qualche relazione col limite, col nulla, col silenzio, che pure, dialetticamente, mutano in qualche modo il significato di questa apertura monologante» (p. 1139). Riferimenti bibliografici STEFANO AGOSTI, Introduzione alla poesia di Zanzotto, in Andrea Zanzotto, Poesie (1938-1972), a cura di Stefano Agosti, Milano, Mondadori 1973, pp. 5-25. 83 STEFANO AGOSTI, L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto, in Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori 1999, pp. VII-XLIX. FERNANDO BANDINI, Zanzotto dalla «Heimat» al mondo, in Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori 1999, pp. LI-XCIV. SANDRO BRIOSI, L’uso retorico e l’uso simbolico del silenzio, in Carlo Alberto Augieri (a cura di), La retorica del silenzio, Lecce, Milella 1994, pp. 372-381. ANDREA CORTELLESSA, Andrea Zanzotto, la scrittura, il paesaggio, in ID., La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, Roma, Fazi 2006, pp. 123154. FAUSTO CURI, La poesia italiana nel Novecento, Roma-Bari, Laterza 1999. STEFANO DAL BIANCO, Profili dei libri e note alle poesie, in Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori 1999, pp. 1379-1681. STEFANO DAL BIANCO, Il percorso della poesia di Andrea Zanzotto, Introduzione ad Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, a cura di Stefano Dal Bianco, Milano, Mondadori 2011, pp. VII-LXXXV. GIACOMO LEOPARDI, Canti, introduzione di Franco Gavazzeni, note di Franco Gavazzeni e Maria Maddalena Lombardi, Milano, Rizzoli 1998. NIVA LORENZINI, Il presente della poesia. 1960-1990, Bologna, il Mulino 1991. NIVA LORENZINI, La poesia italiana del Novecento, Bologna, il Mulino 1999. PIER VINCENZO MENGALDO (a cura di), Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori 1978. MAURICE MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard 1945 (trad. it. di Andrea Bonomi, Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani 2003). 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Conversazione con Marzio Breda, Milano, Garzanti 2009. ANDREA ZANZOTTO, Tutte le poesie, a cura di Stefano Dal Bianco, Milano, Mondadori 2011. 84 Spazia lo sguardo sulle Highlands mentre il pensiero va ai castelli visti e a quelli che dobbiamo ancora vedere, Urquhart, Eilean Donan, Dunnottar, Elgin. A un certo punto, dal finestrino dell’autobus, vedo due cartelli stradali che indicano Cawdor e Glamis. Un’emozione indicibile, penso alla tragedia di Shakespeare che, assieme al Giulio Cesare, è tra le mie preferite, il Macbeth. Rivedo le streghe che salutano Banquo e Macbeth con ambigue profezie e mi par di udire l’apprensione di Macbeth: «Rimanete, incompiute parlatrici,/ e ditemi di più. Thane di Glamis/ io so già d’essere, erede di Simel;/ ma perché lo sarei anche di Cawdor?» Il mio fantasticare è, però, interrotto dall’anziana signora che mi sta accanto e che ci parla, ininterrottamente, dei suoi appartamenti, delle spese per la casa, dei fortunati acquisti di ori e di altri preziosi, che le è capitato di fare in varie città italiane. Al viaggio in Scozia è stata invogliata da immagini suggestive viste su qualche rotocalco ma, una volta giunta in loco, getta ai paesaggi occhiate fuggitive giacché la mente e il cuore restano tra le mura domestiche, tra le sue cose, tra gli amici ai quali racconterà le intense (!) emozioni vissute tra laghi e boschi così «diversi da quelli italiani, neh?». Neppure nei santuari naturali dell’immaginazione letteraria, sugli altipiani immortalati da Walter Scott, nelle brughiere che ancora echeggiano dei (falsi) canti di Ossian, sulle rive del grande mare dove giungono gli echi delle note di Mendelssohn affascinato dalle Isole Ebridi e dalla Grotta di Fingal, è stato possibile ottenere un po’ di silenzio.Il «piccolo mondo contemporaneo» non ama le pause di riflessione, i momenti di raccoglimento: rimanere in silenzio può essere un segno di maleducazione, la riprova che ci si annoia stando con i vicini, persino la rivelazione di una inaspettata misantropia. «Pisa, città dei silenzi!», diceva D’Annunzio di quella che fu un tempo, per il padre Dante, il «vituperio delle genti». Oggi, se la laude venisse ricordata in un depliant turistico, sarebbe la fine di quel flusso di visitatori che, sulla via di Firenze, fanno sosta a Pisa. E chi vorrebbe mettere piede in quel mortorio, nel caso D’Annunzio avesse ragione! La nostra rischia si essere la civiltà del rumore che si sostituisce al suono, impensabile senza il silenzio. Anni fa un collega della Sapienza di Roma, nostro ospite a Nervi, fuggì inorridito dal suo albergo - una RESOCONTTI SENZA IL SILENZIO LA VOCE UMANA DIVENTA UN BRUSIO PRIVO DI SENSO Dino Cofrancesco 85 elegantissima villa ottocentesca nel verde dell’antiparco - non riuscendo a sopportare il silenzio in cui s’immergeva dopo le 23. I rumori di Roma erano divenuti per lui una droga da cui non riusciva a (né voleva) disintossicarsi. Ogni volta che veniva a Genova, per una conferenza o per una lezione universitaria, il grande Luigi Firpo, al contrario, incaricava il suo più stretto collaboratore di trovargli una stanza d’albergo, da cui si sentisse unicamente il fruscio dei rami mossi dal vento. Ma Firpo, il più grande studioso italiano del Rinascimento, viveva in un’altra dimensione, quella storica, una consuetudine che rendeva le sue lezioni quasi un’evocazione magica dei condottieri, dei principi, dei pontefici che avevano segnato quell’epoca irripetibile. Mai stato un nostalgico della provincia profonda, fosse quella abruzzese di Ignazio Silone o quella veneta di Antonio Fogazzaro o quella emiliana di Guareschi: i grandi progressi tecnologici -dalla chirurgia ai mezzi di comunicazione di massa, dall’automazione, nelle sue varie forme, al computer e al tablet ormai a disposizione di tutti - vanno, a mio avviso, messi all’attivo del secolo breve ma bisogna pur riconoscere che l’euforia del «nuovo» espone al rischio di un ebetismo di massa che ci fa acquistare un dvd solo per il piacere dell’«alta definizione», una moto solo per farci provare l’ebrezza dell’accelerata, col rumore inevitabile che sprigiona, (il fatto di poter raggiungere più facilmente le località amate passa in secondo piano), un frigorifero da laboratori NASA unicamente per mostrarlo agli amici, se è vero che i cibi si conservano altrettanto bene con i frigo comprati al supermarket degli elettrodomestici. Sono i rumori, però, che ci garantiscono la maggiore «visibilità», da quello provocato dall’adolescente che spinge lo scooter a tutto gas (rovinando la marmitta) a quello del gruppo rock che ostenta la sua trasgressività rompendo, fino a tardi, i timpani del prossimo. Per questo il Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità il 2 luglio u.s. ha pubblicato un Appello al Governo, al Parlamento, alle amministrazioni regionali e comunali, alle polizie municipali, ai prefetti, alle forze dell’ordine, per rivendicare «il diritto a riposare tranquillamente all’ora che si preferisce, a concentrarsi nella lettura, ad ascoltare musica di propria scelta, a godere la tranquillità e la bellezza di un parco o di una spiaggia». L’Appello (fra i trenta firmatari ci sono anch’io) esprime un’esigenza sacrosanta ma, a ben riflettere, non affronta (né si proponeva di farlo) l’entità e la gravità della vera e propria tragedia che incomberebbe sul nostro tempo, qualora davvero l’umanità venisse privata del dono prezioso del silenzio. Non sono un filosofo ma qualcosa mi dice, per esprimere in poche parole un concetto ben altrimenti complesso e meritevole di approfondimento, che la perdita del silenzio potrebbe essere la caduta dell’ultimo bastione della 86 Trascendenza rimasto ancora in piedi in un società laica e secolarizzata che s’è resa conto di poter fare a meno delle chiese — luoghi di elezione del silenzio, assieme ai cimiteri -- e di poter fare leggi e stabilire regole di convivenza etsi Deus non daretur. C’è silenzio e silenzio:c’è, ad esempio, quello “ecologico” della Pioggia nel pineto: «Taci. Su le soglie/ del bosco non odo/ parole che dici/ umane; ma odo/ parole più nuove/ che parlano gocciole e foglie/ lontane». Ermione, nei bellissimi versi dell’Immaginifico, è invitata a tacere come si invita a tacere lo spettatore in platea quando sta per iniziare il concerto e si spengono a poco a poco le luci in sala. Il silenzio dura un istante poi, improvvisamente, si apre il sipario e la musica ci trasporta in un’atmosfera “altra”, dove gli uomini e le loro passioni diventano pura poesia, in virtù della catarsi artistica. Nella Pioggia di D’Annunzio - ed è la ragione del suo fascino profondo che, forse, oggi, con i pericoli che minacciano il nostro habitat naturale, sentiamo più di un tempo - il sipario, però, si apre non sull’orchestra e sul suo direttore, ma sulla natura stessa che sembra sfidare Mozart e Rossini con la sua partitura sinfonica eseguita dal vento e dalle acque: «Odi? La pioggia cade/ su la solitaria/verdura/ con un crepitio che dura/ e varia nell’aria/ secondo le fronde/ più rade, men rade è |…| E il pino/ ha un suono, e il mirto/altro suono, e il ginepro/ altro ancora/stromenti diversi/ sotto innumerevoli dita» . Si comprende come il nostro grande pescarese potesse venire tanto apprezzato da un genio musicale come Claude Debussy! E tuttavia, accanto al silenzio «ecologico», ce n’è uno assai più «profondo», se così si può dire, quello «metafisico». Lo si ritrova nel capolavoro di Giacomo Leopardi, L’Infinito, un sonetto sublime che si può solo ascoltare, giacché ogni commento suona quasi come una profanazione: «ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quelle, e sovrumani/ silenzi,e profondissima quiete…». Qui non si tace più per «cedere il microfono» alla natura come nella Pioggia nel pineto ma per “annegare” nell’abisso metafisico, per mollare gli ormeggi dal nostro infelice pianeta e librarsi in una dimensione ai confini tra il Tutto e il Nulla assoluti. Ermione resta saldamente con i piedi sulla terra, e il suo corpo si fa cosa, si fa natura, si fa acqua, si fa albero, si fa frutto — «il cuor nel petto è come pesca/intatta |…| i denti negli alveoli/son come mandole acerbe» -, il solitario del Monte Tabor si lascia decisamente alle spalle la vita nelle sue forme più diverse e l’eco della natura gli rimane dentro solo come il segno, sempre più fioco, dell’incommensurabilità fra il transeunte e l’eterno: «E come il vento/ Odo stormir tra queste piante, io/ quello Infinito silenzio a questa voce vo comparando». Il vento ora serve soltanto come cornice del Silenzio. Che cos’è l’Infinito? Sono le orme fantasmagoriche di un Dio che è morto, lasciando che la sua carcassa in miliardi di frammenti si tramutasse in 87 stelle e galassie e buchi neri? È il baratro insondabile che un Dio epicureo, nel senso dell’assoluta atarassia e dell’indifferenza alle nostre miserie, ha posto tra sé e il mondo umano? In ogni caso, l’infinito resta il mistero per eccellenza, quello che ci richiama alla nostra radicale nullità, che ci fa sentire prigionieri dell’«atomo opaco del male» come a Giovanni Pascoli appariva il nostro mondo. Nell’Idillio maremmano,Giosuè Carducci, si faceva quasi il primo «filosofo della prassi», allorché invitava a «passare oltre», a non alzare gli occhi al cielo: «meglio oprando obliar, senza indagarlo,/ questo enorme mister de l'universo!». Il suo consiglio è stato seguito dai protagonisti (intellettuali e politici) del secolo scorso, con gli esiti che stanno ancora davanti a noi! Recuperare il silenzio “metafisico”, in realtà, può significare, non solo la preservazione dell’ultimo anello che ancora ci lega all’esperienza religiosa, ma, altresì, una grande lezione di umiltà per quel Prometeo in sedicesimo che rischia di diventare l’uomo del nostro tempo -- un Prometeo che, a differenza dell’eroe mitologico, non si prende più la briga di sottrarre il fuoco agli dei ma pretende che siano gli dei a consegnarglielo, riconoscendolo come un suo inalienabile «diritto sociale». Forse non abbiamo più tanto tempo davanti a noi per riorientare le nostre vite, ma se ne avessimo ancora un po’, dovremme investirlo proprio nel recupero del silenzio, la nostra paradossale ultima spiaggia. E il silenzio, tra l’altro, potrebbe insegnarci a guardare, con virgiliana pietas alla storia, ai suoi errori, ai suoi insegnamenti che gli spiriti superficiali non sono mai stati in grado di apprendere. Dalla finestra sull’infinito, non sarebbe più così difficile riflettere,senza boria, sul passato e sul presente: «e mi sovvien l’eterno,/ e le morte stagioni, e la presente/ e viva e il suon di lei» e, trovandoci nei pressi di Cawdor e di Glamis, ci ritroveremmo con la capacità di risentire, nel silenzio, le voci del genio immortale di Stratford-upon-Avon: «giungono dal re dei messaggeri/ che mi salutano Thane di Cawdor»… A patto che non sia seduta accanto a noi la signora ciarliera che non riesce a stare in silenzio neppure per pochi minuti! 88 REFLECTIONS ON A SILENT NATION THROUGH THE PERSPECTIVE OF THE EVERYDAY Suzan Meryem Rosita The carpet sellers at the Grand Bazaar in Istanbul count among the best storytellers of the world. Whether they are Armenian or Turkish, each has told the story about the missing colour. Legend has it that – since 1915 – one colour is missing in 1 all of the designs. The visitor’s brochure for Anıtkabır, Atatürk’s final resting place, tells us that the marble stones leading up to Atatürk’s tomb are decorated with the designs of ancient Anatolian carpets. But there is no colour; just grey lines on 2 white marble. In recent years, it has become increasingly popular to write Armenians back into the national history of Turkey, and to explain why genocidal violence has not been acknowledged at a state level. So far, these 3 studies have been either micro-histories about Armenians or meta-narratives of the Turkish nation state writ large, as if these two narratives are 4 incompatible. In my dissertation, I bring these recent debates together and explore the different ways in which Turks and Armenians express and fashion their selfhood within the very restricted and severely muted narrative space of modern Turkish nationhood in their daily lives during 1923-1953. The entry points for such an exploration are two historically entangled and contested questions: (1) What made the Turks so Turkish?; and (2) what happened to 5 the Armenians in Turkey? These questions constitute the core of my thesis and will be explored through a narration of the everyday as found in recorded interviews, memoirs, diaries, biographies, literary works, films (and to a lesser extent photography) and traveller/foreign observer accounts. Schoolbooks, adult educational material and selected newspaper articles from 1930-1950 will provide the necessary background to official narratives. In this way I wish to demonstrate how national identity in Turkey both coheres and fragments in the everyday practices that represent citizenhood, and it is enforced through the mnemonic practices, institutionalized or not, which are both present in (e.g. Atatürk cult) and absent from (genocide un-recognition) official narratives. These mnemonic practices, I argue, stem from a culture of silence that has developed in the climate of post-genocidal Turkey. A break with the past during Turkey’s post-ottoman republican era, I claim, did not happen in terms of state policies or political strategies but in the realms of identity formation and remembrance. This ‘affective’ – we could 89 even call it ‘emotional’ – break with the past brought about feelings of orphanhood and abandonment that characterized the atmosphere of postgenocidal Turkey. While in the Turkish case the absence of the Ottoman ancestry was immediately filled with a rampant version of Turkishness and the new father/ancestor figure of Atatürk, the Armenians’ survival bears witness to a different type of self-fashioning that lacks even the slightest attempt to bestow an autochthonous presence to their territorial self-identity or to develop a politicized agency in their everyday interaction with the Turkish state or fellow Turkish citizens. Theirs was an existence that was at once censored but, as their literary and artistic output shows, resisted “by continuing to live”, not unlike their fellow Armenians in Soviet Armenia. In my study of everyday life and identity formation in post-genocidal Turkey, I try to recover their narration of a multi-faceted, yet precarious, selfhood within what Gayatri Chakravorty Spivak calls a “reterritorialized” and “recoded” experiential space that is at once thoroughly Turkish yet also a place of a common and shared everydayness, issuing a sharing of material practices and social structures in everyday life. Turkey is what I call a ‘silent nation’. In the following section, I will provide the reader with a glimpse at how a reflection on silence cannot only empower stories of history that are were unheard, or unwanted, but also unravel these other stories that have fanfared so loudly that most of the time 6 they were hard to understand. At the core of my reflection stand the earlier stated questions of ‘what made the Turks so Turkish?’ and ‘what happened to the Armenians’ in post-genocidal Turkey. What Made the Turks so Turkish? The Turkish experience of identity formation was fashioned from a discontinuous past and it is an experience that is anything but silent. It is 7 loud, outrageous, modern and extreme. And it is Atatürk’s. Erich Auerbach, a Jewish émigré living in Istanbul in the 1930s, described Atatürk’s Turkey in a letter to Walter Benjamin with the words “Atatürk had to force through everything (…) the result is a fanatically anti-traditional nationalism: [with] rejection of all existing Mohammedan cultural heritage” and a “fantastic relation to a primal Turkish identity” that is “accompanied by the simultaneous 8 destruction of [any] historical character.” Underneath a surface of monochrome and hyper-modern subjectivities, Turkish people longed for recognition, ancestry and a sense of belonging. They were lost, confused and overwhelmed in the process. The contemporary Turkish novelist Hamdi Tanpinar writes: “Similar to the new, modernist buildings [in Ankara], Atatürk’s legacy is like a newspaper, that nobody knew where it was published, you never once saw, 90 9 but everyone else had read and recited to you in chorus.” What Tanpinar describes here so pointedly, is a certain uncanniness of the reforms (with no explainable origins to hold on to), a subsequent/synchronous alienation of the citizens from them (making them into mere mouthpieces), and a standardization or serialization of dominant narratives and discourses that people knew about but did not understand. All of these, according to Tanpinar, were lived out in a new experiential spatiality, or lifescape, that was provided for by the modernist architecture/buildings that were rising above and beyond people’s imagination. It is impossible to ignore the parallel with Lefevbre’s description of French towns in the 1930s and 1940s in his Critique of the Everyday Life. Lefevbre writes: Our towns may be read like a book (the comparison is not completely exact: a book signifies, whereas towns and rural areas 'are' what they signify). Towns show us the history of power and of human possibilities which, while becoming increasingly broad, have at the same time been increasingly taken over and controlled, until that point of total control, set up 10 entirely above life and community, which is bourgeois control. Like Lefevbre, Tanpinar refers to a new age of social realities, cultural consciousness and political control. This standardization of external life, whether in France or Turkey, stood in stark contrast to the mentalities of people living in these new orders. While Tanpinar described a total disparity between what people say (“recite in chorus”) and know or understand, Lefevbre worries about decadence, or a total withdrawal from life starting to 11 characterize daily life in France. In both situations, the life that was “lived” 12 and the life that was ‘imagined’ were very different from each other. Recent studies in political and urban geography have theorized how exterior or spatial forms of modernity often narrated a utopian vision of Turkish nationhood that despite visually communicating the ideal and values of the new Republic (“aesthetic modernism”) did not necessarily match the 13 mentalities of its people at the time (“societal modernism”). These studies have thus placed Turkey’s modernization paradigm outside of what older, and more orientalist, scholarly works on modern Turkey have – inspired by the image of the ‘sick man of Europe’ – often celebrated as a successful 14 attempt at westernization and called into question the singularity and 15 revolutionary character of these modernizing reforms. While this scholarship has shown that the modernist Turkish spatiality, ideologically and publicly overwrote the Ottoman past and concurrently became a contested site of standardization and alienation, the nature of the topoi in these studies 91 also limits their analysis to external and state-level aspects of the Turkish experience in the early Republican years. However, as the editors of the recently published book Everyday Life in Russia, Past and Present (2015) remind us, “[i]deologues and politicians may project a mythologized or utopian future, but human beings inhabit the world in the units of quotidian time that serve as commentary of 16 historical change.” And it is in “the principle of the quotidian – in the th constant repetition of the same act though it is a different day,” the early 20 century Japanese theorist Tosaka Jun argues, that lies “the secret of 17 history”. Turkey in the 1920s and 1930s, not unlike the Japan that Tosaka Jun wrote about in another brilliant essay entitled “The Fate of Japanism: From Fascism to Emperorism” (1935) followed an “agenda of having to attribute meaning to the incorporation of Western culture into their personal 18 lives.” Western culture, in modern Turkey, became the bedrock of everyday life. It invaded all material and social spheres, space and time included. Submerged in a – as Auerbach remarks so accurately – “fantastic relation to a primal Turkish identity”, identity formation was negotiated on shaky grounds. Having performed a complete break with the Ottoman past and moved into a future too utopian to understand, the Turkish citizens of Turkey were finding their voices and selves in a climate that did not allow for much questioning but was all about the questions. Surprisingly little research has been done on the everyday life in the 1920s and 1930s of Turkey, although historical material is plentiful. For example, we know practically every single detail about Atatürk’s life: what time he woke up after 1933 (usually after 2pm), what he drank and ate (very much and very little), when he slept (usually between 3 and 5am what did he do till 2pm?), who he met (and did not want to meet), with whom he corresponded (he was a prolific letter writer), what clothes he wore (some even from Chanel), and which restaurants he went to (Karpiç in Ankara and Eden in Istanbul). Fashioning himself as the father, or true ancestor, of the Turks, Atatürk created an image, and a quickly developing cult around him, which was instrumental to identity formation in Turkey. Within the modernist, superimposed spatiality, Turkish citizens were looking for someone, something tangible to identify with. Mustafa Kemal became what they wanted: a paternal figure that could lead them through what Ernst Bloch 19 would have described as “the darkness of the moment”. He became a model for Turkishness. Despite expectations, many of his reforms were outcomes from experiments at home or from ideas conceived at his famous dinners, which often lasted until the early morning hours. They were erratic and put into place almost immediately. Sometimes an evening party would board a 92 special train the very next morning to set about reforms in the countryside. Life with Atatürk was unpredictable, exhausting and mandatory for all members of his government. Women were his passion and the true force majeure of his reforms. They became the poster children for his reforms and his way of invading everyone’s private affairs. After a failed marriage with Latife Uşak, the adoption and education of young women as role models for the young Republic became his obsession. It is through their memoirs, letter exchanges with Atatürk and numerous TV interviews that we get the most intimate glimpse into the private quarters of Kemal Mustafa Atatürk. From Afet Inan, Sabiha Gokcen 20 and Ülkü Adatepe, we hear how it was to grow up so close to Atatürk. Dressed and educated by Atatürk himself, we see the lives of these three adopted daughters – from babyhood until early womanhood – being not only constantly monitored but also exploited for positive publicity for the regime. Especially Ülkü – who was already appropriated for Atatürk’s purposes when still in her mother’s womb, and who moved in with Atatürk at the age of six months – was instrumental for the propaganda machinery of an ailing and heavily alcoholic Atatürk in presenting him as a caring father figure and role model to the Turkish nation. Here, in the Cankaya palace and Florya Köshk, we are able trace the origins of Atatürk’s new modern state but also observe Turkey’s difficult road to nationhood. And a difficult road it was, as a look in the sources reveal. Turkish people – whether from the cities or from the countryside – were walking unsteadily on the uneven terrain of modern-day Turkey. Even so, it was all about them. The narrative of the Turkish nation was “loud, outrageous, modern and extreme”. In fact, it was so loud that people often could not hear or understand each other. Indeed, it seems possible to compare it with a very loud room in which everyone is trying to speak, but no one can hear what the others are saying yet sees their mouths opening and closing in speech. Hamdi Tanpinar’s previously cited description of Atatürk’s legacy (“nobody knew where it was published, you never once saw it, but everyone else had read and recited it to you in chorus”) is very expressive in this context. Nevertheless, in my understanding there is no meaning in speech if there is no one to listen – if there is no one to hear or understand what has been spoken. My specific interest in the contemporary presence of silence and ‘noise’ in modern-day Turkey is rooted in a reflection on what lies at the very foundation of her nation-building project. At the base of this reflection must stand the irrevocable acceptance that Turkey is a post-genocidal society. Previously, I have charted my understanding of silence through a discussion of the very absence of certain mnemonic narratives and the exuberant noise of others. Silence in the Turkish context is characterized – I have suggested 93 above – by memory practices that are both very present in and very absent from official narratives. Atatürk’s legacy is the most enduring; Genocide denial the most blatant. Both provide windows into the psyche of the Turkish nation. In his book Writing in the Dark, David Grossmann describes the inability of Israelis to talk about their current affairs with a metaphor from Kafka. He writes: The constant – and very real – fear of being hurt, the fear of death, of intolerable loss, or even of mere humiliation, leads each of us, the citizens and prisoners of the conflict, to dampen our own vitality, our emotional and intellectual range, and to cloak ourselves in more and more protective layers until we suffocate. Kafka's mouse was right: when your predator closes in on 21 you, your world does get smaller. So does the language that describes it. In this passage, Grossmann implies that the Israeli identity is characterized by fear and paranoia of the other. Onstructing the Other as a mechanism of identity formation has long been described by scholars following Edward Said and others. In the Turkish context, as we will see below, it is the Armenians who are the ultimate other. Turkey’s inability to speak about the Genocide, among many other human tragedies that have flecked the pages of its history with blood, is not just a matter of denial or political calculation, it is – as I aim to contend – a matter of its very identity. A proper understanding of identity, or identity formation, in Turkey therefore requires not only an analysis of dominant narratives prior to the foundation of the nation, and a closer look at the 1915 genocide and its aftermath but also an inquiry into the question of “what made the Turks so Turkish”. 22 What Happened to the Armenians? “What was it that made the Turks so Turkish?” an Armenian revolutionary, asks in the novel Remnants/Mnatsortats. Written by the Western-Armenian writer Hakob Oshagan (1883-1948), Remnants/Mnatsortats was originally envisioned in three parts (Part I: The Way of the Womb; Part II: The Way of Blood; Part III: Hell), but was left unfinished. Set in an unnamed Armenian village in Ottoman Turkey and is a masterful reflection on Armenian-Turkish relations through the lens of racism. Oshagan – like the narrator in his novel – could be considered a “major racist” himself. For him, the concept of ‘Turkishness is not only a racist category but also constitute the core problem in the relationship between Turks and Armenians. At the middle of his novel stands a hundred-page-long conversation between an Armenian revolutionary and the Turkish chief of the prison in which he is incarcerated. Here, the author tries to answer his own 94 questions regarding the identity of the Turks from Anatolia. His quest, in a time ‘before the nation’, was justified, as not many of the Anatolian Muslims 23 identified themselves ethnically as Turkish. Oshagan barely escaped the massacres in 1915, and fled to Bulgaria disguised as a German officer. After the end of the war, like so many Armenian survivors, he returned to Ottoman Turkey and settled in Constantinople, where he started writing his novel. His return was short-lived, and in 1922 Oshagan again had to escape (this time to Cairo and then Palestine) when the Kemalist forces entered the imperial city. In the post-war climate of the independence struggle led by Mustafa Kemal Pasha, as Atatürk was still called at the time, Oshagan’s questions regarding Turkishness were duly answered. Mustafa Kemal Pasha had positioned his struggle against the occupying forces of the Allies in Anatolia as an ethnic liberation war and the birth hour of a new nation that was to be called Turkey. Oshagan did not finish his novel; he could not bear writing about the unspeakable. Nor did he come back to his homelands – he would not have recognized or be able to live in it anyhow. And Remnants did not become the novel of the Meds Yeghern (the Big Catastrophe) as planned, and instead metamorphosed/transformed itself into a callously intrusive yet stunningly beautiful homage to a temps perdu of Armenian life in Anatolia. It became, as Oshagan says during an interview in 1934, the same year Auerbach writes his letter to Benjamin, an inheritance to the future generations of Armenians in its narration of “a people’s collective sensibility” and in its attempt “to 24 salvage the remnants of our people (…).” Where Remnants describes and questions the social and political realities of Ottoman-Armenian subjecthood, thereby exposing a 600-yearlong master-slave narrative, and an often (in scholarship) neglected asymmetry between ruler and ruled during Ottoman times, novels by those Armenians who survived and continued to live in their ancestral homelands in post-genocidal Turkey bear witness to a different type of self-fashioning that lack even the slightest attempt to bequest an autochthonous presence to their own territorial self-identity or develop a politicized agency in their quotidian interactions with the Turkish state or fellow citizens. Mıgırdiç Margosyan’s novels Gavur Mahellesi (‘Infidel Neighbourhood’) and Bizim Oraları (‘Where we live’) present us with an account of what it was like to live as an “infidel” in a Turkish village in the 1940s and 1950s. His novels simply describe the daily life of an Armenian in a Turkish village; yet they are profoundly political in doing so. Where we live is not a question but a claim on the very existence of Armenians within the new Turkish spatiality. Muted towards their own silenced presence in Turkish lands, his characters neither mention their traumatic past nor have overt 95 demands for their futures, but instead describe the social and political realities of Turkish-Armenian subjecthood within the newly-formed Turkish nation. I argue that Margosyan’s inability to write out the differences of his characters within the narrational space of his novels does not imply an insistence on his part on portraying the Armenian people through mechanisms of self-denial and self-censorship, but rather constitutes an attempt to challenge the “generative space” of Turkish nationalism with their 25 very own existence within this space. Margosyan was writing from within a socially constructed space in which certain subjects and words, as Jay Winter puts it in his seminal essay “Thinking about Silence”, have been deemed 26 taboo. These subjects – and here I want to intervene and add subjectivities to Winter’s theory of silence – are not politically accepted (or socially demanded) ingredients in the narrative of the Turkish nation, yet they are 27 essential components of Armenian identity (of the time). Adding subjectivities to Winter’s theory of silence, in my opinion, is useful in order to enable his otherwise ground-breaking theory to function as a methodological tool to give voice, and agency, to those who live muted existences. For there 28 is no silence in silence. Margosyan was well-aware of the precariousness of his societal 29 location, like other Armenian writers of his time. His narrative space unavoidably overlaps with the narration of the Turkish nation as he experienced it as an Armenian. Through his novels he thus not only describes the life of Armenians in modern Turkey in the 1930s and 1940s but he also defines and ultimately adds his voice to the narrative layer(s) of the nation. Margosyan is writing in the late 1950s about his childhood in Anatolia in the 1930s. His is also the perspective of a grandchild mourning the tragedy lived by his grandparents, salvaging and writing about the remains of a temps perdu of Armenian life in Anatolia which he – in the end – also leaves for greater protection in Istanbul. Often, according to Alexander Etkind in his book Warped Mourning, the grandchildren of victims “produce the work of mourning for their grandparents” – this could not have been truer for the 30 (third-generation) Armenian writers of the time. From within, what Jay Winter has defined as a ‘circle of silence’, the Armenian experience speaks to us from a place of resistance and acute understanding of self-identity inside this circle but not from a place of defeat. Silence, I hold, hints at the hidden sublime contestation that is still present. In other words, if there is no one to speak, there is no one to silence either. Concluding Words For me, silence can be full of words and words full of silence. The nation-building process in post-Ottoman Turkey, as we have seen above, 96 exhibits it all. Up-rooted in a complete break with the its Ottoman past, the nation is performed in a culture of silence. Here, “Turkey for the Turks” – an expression coined by the mastermind of the Armenian Genocide Talaat Pasha - becomes a modernist experiment that is lived out and performed on rather shaky grounds. The narrative of the Turkish nation was “loud, outrageous, modern and extreme”. In fact, so I claimed above, it was so loud that people often could not hear or understand each other. In the process, Atatürk, the Father of the Turks, became a much-needed paternal figure that lead the Turks through what Ernst Bloch would have described as “the darkness of the moment”. People who did not identify with Atatürk were left in the dark. It is from this darkness, however, that we inherited some of the most powerful th literary testimonies of 20 century. Migirdiç Margosyan’s novels are exemplary for a long forgotten Western Armenian literary tradition that revenges and commemorates their ancestors simply by continuing to live. Often forgotten and left in the dark, it is from their darkness, so I hold, that we th can truly grasp the nation-building process of Turkey in the 20 century and the power of silence. This short essay is dedicated to the victims of the Armenian Genocide of 1915. 1 The following text is taken from my dissertation “The Silent Nation: Identity Formation and the Everyday in Post-Genocidal Turkey” written at the European University Institute (Florence). I am grateful to my advisors Luisa Passerini and Alexander Etkind for their valuable comments and questions. 2 This was relayed to me in conversations and interviews with several carpet sellers during January and February 2015. Also see the chapter in my grand-aunt’s book about the carpet industry where she argues that the carpet industry was motly in the hands of the Christian population of the Ottoman empire: “Charlotte Lorenz, Die Frauenfrage im Osmanischen Reiche mit besonderer Berücksichtigung der arbeitenden Klasse, Die Welt des Islams, Bd. 6, H. 3/4 (Dec. 31, 1918), pp. 136-177. On a personal note, parts of my childhood were spent in the covered halls of the Grand Bazaar, where my mother learned how to weave, dye and sell carpets. 3 Seen during my visit to Anıtkabır with the staff members of the Atatürk Archives at the National Library of Turkey. I want to take this opportunity to thank the director of these archives, Kemal Yentürk, for his kind assistance during my six-week research stay at these archives and for accompanying me with his staff to Anıtkabır on February 27, 97 2014. In a book about Atatürk, his death and legacy, we learn that the interior designer Orhan Arda who looked at “over 10000 carpets and kelims” to design the right motives chose the carpet motives. See in: Vedat Demirci, O’nun Çocukları (His Children) (Ankara, 1983), 73-74. 4 Ahmet Abakay, Hoşana’nın Son Sözü [Last Words from Hoshana] (Istanbul, 2013); Ayşe Gül Altınay, "Gendered Silences, Gendered Memories: New Memory Work on Islamized Armenians in Turkey," Eurozine (2014), and Altinay & Fethiye Çetin, The Grandchildren: The Hidden Legacy of 'Lost'Armenians in Turkey (Piscataway, 2014); İbrahim Ethem Atnur, Türkiye’de Ermeni Kadınları ve Çocuklari Meselesi (1915-1923) [The Issue of Armenian Women and Children in Turkey (1915-1923)] (Ankara, 2005); Helin Anahit, "‘He is Armenian but he was born that way; there isn't much he can do about it’: Exploring Identity and Cultural Assumptions in Turkey," Patterns of Prejudice 48.2 (2014): 201-222; Yusuf Baği, Ermeni Kızı Ağçik [The Armenian Girl Agcik] (Istanbul, 2007); Erhan Başyurt, Ermeni Evlatlıklar: Saklı Kalmış Hayatlar (Hidden Lives) (Istanbul, 2006); Melissa Bilal, "The lost lullaby and other stories about being an Armenian in Turkey," New Perspectives on Turkey 34 (2006): 67-92, and Bilal "Longing for Home at Home: Armenians in Istanbul," Thamyris/Intersecting: Place, Sex and Race 13.1 (2006): 55-65; Fethiye Çetin, Anneannem [My Grandmother] (Istanbul, 2004);; Oran Baskin, MK Adlı Çocuğun Tehcir Anılar: 1915 ve Sonrası [The Story of the Kid called MK: 1915 and After] (Istanbul, 2005) and Baskin "The Reconstruction of Armenian Identity in Turkey and the Weekly Agos," Nouvelles d'Armenie Magazine 17 (2006): 12; Rubina Peroomian, And those Who Continued Living in Turkey after 1915: the Metamorphosis of the Post-Genocide Armenian Identity as Reflected in Artistic Literature (Yerevan, 2008); Vahe Tachjian, “Gender, Nationalism, Exclusion: the Reintegration Process of Female Survivors of the Armenian Genocide,” Nations and Nationalism, 15 (1): 60-80; Gülçiçek Günel Tekin, “Une Reconstruction Nationale: Réinsertion des Filles et des Femmes Arméniennes Apres 1918” in Trames d’Arménie. Tapis et Broderies sur les Chemins de l’Exile 1900-1940 (Marseille, 2007), 107-115; Kemal Yalcın, Sarı Gelin – Sarı Gyalın[Yellow Bride – Yellow Bride] (Istanbul, 2005) and Yalcın, Seninle Güler Yüreğim [My Heart is with you] (Istanbul 2006). 5 Taner Akçam, The Genocide of the Armenians and the Silence of the Turks (New York, 1999), and Akçam, From Empire to Republic: Turkish Nationalism and the Armenian Genocide (London, 2004), and Akçam, A Shameful Act: The Armenian Genocide and the Question of Turkish Responsibility (London, 2006); Vahakn N. Dadrian, The Key Elements in the Turkish Denial of the Armenian Genocide: a Case Study of Distortion and Falsification (Toronto, 1999); Bedrossian Der Matossian, “Venturing into the Minefield: Turkish Liberal Historiography and the Armenian Genocide” in The Armenian Genocide: Cultural and Ethical Legacies, ed. Richard G. Hovannisian (New Brunswick, 2011), 369–88; Mneesha Gellman, "Remembering Violence: the Role of Apology and Dialogue in Turkey's Democratization Process," Democratization 20.4 (2013): 771-794; Fatma Müge Göçek, “Turkish Historiography and the Unbearable Weight of 1915,” in The Armenian Genocide: Cultural and Ethical Legacies, ed. Richard G. Hovannisian (New Brunswick, 2011), 337–68, and Göçek, Denial of Violence: Ottoman Past, Turkish Present, and Collective Violence Against the Armenians, 1789-2009 (Oxford, 2014); Richard G. Hovannisian, Remembrance and Denial: the Case of the Armenian Genocide (Detroit, 1998). 98 6 These are questions that the Western Armenian writer Hagop Oshagan (1883-1948) raises in his novel Remnants/Mnatsortats (unfinished; written between 1928 – 1934). I will discuss the novel and its relevance to the present study in depth in Chapter Four. I have used the English translation by Michael Goshgarian of Remnants/Mnatsortats (London, 2013). Also see March Nichanian, Le Roman de la Catastrophe (Geneva/Yerevan, 2008). I would like to thank Michael Goshgarian for introducing me to Oshagan’s novels and many vibrant discussions about Armenian literature in the past three years. 7 In my artistic work, I compare these distinctly different yet affectively similar silences with two rooms or spaces. I invite the reader to close her eyes and imagine two situations and ‘feel’ the two different silences: In one situation you find yourself sitting in a very loud café or restaurant with a group of people. Everyone talks, you look around and you realize that you don’t understand anything anyone is saying; you just see their mouths moving. In the second situation, you have just listened to a fascinating talk at a conference. The speaker invites the audience to ask questions or comment on the talk. You have many questions and comments but you don’t want to be the first one to ask. For one minute, or two, is is completely silent until someone breaks the silence. 8 There are countless studies placing Atatürk at the center of Turkey’s ‘westernization project’, see for example: Jacob M. Landau (ed.) Atatürk and the Modernization of Turkey (Leiden, 1984); Suna Kili, Atatürk Devrimi: bir Çağdaşlaşma Modeli [The Atatürk Revolution: a Model for Westernization] (Ankara, 1981); Walter F. Weiker The Modernization of Turkey: From Ataturk to the present day (Teaneck, 1981). And even more biographies of him, here selected historical biographies in English: M. Şükrü Hanioğlu Ataturk: An Intellectual Biography (Princeton, 2011); Patrick Balfour Kinross, Ataturk: A Biography of Mustafa Kemal, Father of Modern Turkey (Fort Mill, 1964); Andrew Mango, Atatürk: The Biography of the Founder of Modern Turkey (London, 2000); Volkan, Vamik D., and Norman Itzkowitz. The Immortal Atatürk: A Psychobiography (Chicago, 1984). 9 Karlheinz Barck, “Walter Benjamin and Erich Auerbach: Fragments of a Correspondence”, Diacritics 22, No. 3 (1992). 10 Cited from Hamdi Tanpınar, “Beş sehir [Five Cities]” in Ülkü (September 1942), 1015. 11 Henri Lefebvre, Critique of Everyday Life, Vol. 1. (London, 2002 [1947]), 233. 12 LeFevbre, Critique of Everyday Life, 251. 13 Tanpinar’s metaphor of the newspaper thus also imbricates other layers of meaning: that of print capitalism, modernity and mass production of culture, which were defined by Benedict Anderson in his seminal work Imagined Communities as key components/ingredients for forming a national identity See in Benedict Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism (London, 2006 [1983]). 14 Bozdoğan, Modernism and Nation building: Turkish Architectural Culture, 297. “Aesthetic modernism” – a term originally argued for by Habermas in similar contexts – often overshadows an abstract appropriation of the past by the elites when“[h]istorical memory is replaced by the heroic affinity of the present” and lingers like Ernst Bloch would argue as an “utopian category” in the “darkness of the lived moment” and “immediate nearness”. Habermas and Seyla Ben-Habib, “Modernity versus 99 Postmodernity”, New German Critique, no. 22, Special Issue on Modernism (Winter, 1981), pp. 3-14 and Ernst Bloch, The Principle of Hope (Boston, 1986), 288. For the original contribution of “narrating the nation”, refer to Homi K. Bhabha , “Introduction, Narrating the Nation” in Homi K. Bhabha (ed.), Nation and Narration (London, 2013). 15 See for example: Bernhard Lewis, The Emergence of modern Turkey (Oxford, 1961); a book that has inspired generations of scholars arguing along the same narrative lines: Ahmad Feroz, The Making of Modern Turkey (London, 1993);Nuri Eren, Turkey Today and Tomorrow: An Experiment in Westernization (London, 1963); Stanford J. Shaw, and Ezel Kural Shaw, History of the Ottoman Empire and Modern Turkey: Volume 2, Reform, Revolution, and Republic: The Rise of Modern Turkey 1808-1975, Vol. 11, (Cambridge, 1977). 16 Bulent Batuman, “’Early Republican Ankara’: Struggle over Historical Representation and the Politics of Urban Historiography,” Journal of Urban Studies 37, (2011): 661679; Reşat Kasaba and Sibel Bozdoğan, eds., Rethinking Modernity and National Identity in Turkey (Seattle, 1997) and Bozdoğan, Modernism and Nation building: Turkish Architectural Culture in the Early Republic (Seattle, 2001); Zeynep Kezer, "An Imaginable Community: the Material Culture of Nation-building in Early Republican Turkey," EPD, Society and Space, 27. 3 (2009): 508- 530. 17 See “Introduction” in Choi Chatterjee, et al., eds., Everyday Life in Russia Past and Present (Indianapolis, 2015), 4. 18 Tosaka Jun, “The Principle of Everydayness and Historical Time [1930],” in Tosaka Jun: A Critical Reader (Ithaca, 2013), 12. 19 Selçuk Esenbel, “The Anguish of Civilized Behavior: The Use of Western Cultural Forms in the Everyday Lives of the Meiji Japanese and the Ottoman Turks During the 19th century,” Japan Review, no. 5 (1994), 174. Note: while this article describes an earlier time period than discussed here, it gives an outlook on the mentalities of the Kemalist era as well. We also know that there was frequent contact between the Japanese emperor and Atatürk, either through the Japanese ambassador to Ankara, Yoshida and later Kintona Mushkoji, or the crown prince Takamatsu and his wife. Takamatsu and his wife, for example, came to Atatürk’s Cankaya residence in Ankara, on 13 January 1931, and were given a ball on 14.01.1931, or through congratulatory letters as for example the letter on the occasion of Turkey 10th anniversary by Emperor Hirohito shows (“new wind for Turkey”). Cited in Utkan Kocatürk, Kaynakçalı Atatürk Günlük (Atatürk’s Diary with Sources), available online for download at: www.ataturk.de (last accessed 01.08.2015). 20 Ernst Bloch, The Principle of Hope, 288 21 Afet Uzmay was 17 years old when she met Atatürk, and 30 years old when he died. Sabiha (Gökçen) was 12 years old when she met Atatürk, and 25 years old when he died. Ülkü was not born yet when Atatürk decided to adopt her, and 6 years old when he died. 22 David Grossman, Writing in the Dark: Essays on Literature and Politics (Farrar, Straus and Giroux, 2008). 61. 23 Note to supervisors: this part will be expanded when I have written Chapters Four and Five. Please also refer to my time table at the end of this introduction. 24 See, for example, Nicholas Doumanis, Before the Nation, (Oxford: Oxford University Press, 2013), 9 ff. 25 Oshagan, Remnants/Mnatsortats (Gomidas Institute, 2013), v. 100 26 For a discussion of this term in the context of the unwritten, yet textual quality of nationalism within the context of post-colonialism please refer to Robert J.C. Young, “The Overwritten Unwritten: Nationalism and its Doubles in Post-Colonial Theory” in The Silent Word: Textual Meaning and the Unwritten, ed. Robert J.C. Young, Ban Kah Choon and Robbie B.H. Goh (Singapore, 1998), 1-16. Note to myself: this part could maybe be expanded with references to Derrida and Voloshinov. 27 Jay Winter, “Reflection on Silence,” (2009, unpublished), 4. I extend my gratitude to Jay Winter for introducing me to his concept of silence during my time at Yale University in 2009. 28 Ibid., 4. 29 Georg Steiner writes in this context: “ Silence is an alternative. When the city is full of savagery and lies, nothing speaks louder than the unwritten poem. ‘Now the Sirens have a still more fatal weapon,’ wrote Kafka in his Parables, ‘namely their silence. And though admittedly such a thing has never happened, still it is conceivable that someone might possibly have escaped from their singing; but from their silence certainly never.’” All from: Georg Steiner, Language and Silence (New Haven, 1998 [1958], 54. 30 Peroomian, Those Who Continued, 55-71. 31 Alexander Etkind, Warped Morning, (Stanford, 2013), 3. Jay Winter argues in a similar context that it is often over the heads of the parents (the middle generation) that grandparents confide to their grandchildren and break their silence about traumatic experiences. See: Ibid., 36ff. 101 Peter Stamm è nato in Svizzera, a Scherzingen, nel 1963, ha cinquantadue anni ed è considerato uno dei maggiori scrittori in lingua tedesca. Prima di approdare definitivamente alla scrittura narrativa si è impegnato in diverse direzioni: agli inizi, da giovane, ha lavorato come ragioniere, poi si è dedicato, presso l’Università di Zurigo, agli studi di anglistica e in seguito a quelli di psicologia, psicopatologia e informatica. Lascerà questi studi e dopo essere stato all’estero per parecchio tempo nel 1990 si fermerà in Svizzera, a Winterthur, dove farà giornalismo per diverse testate. Tornerà a Zurigo nel 1998 e vi rimarrà fino al 2003 per poi rientrare a Winterthur e stabilirvisi per sempre. Aveva già cominciato a scrivere romanzi ma non gli era stato facile trovare un editore disposto a pubblicarli ed aveva dovuto attendere parecchio tempo prima che fosse possibile. Anche per Agnes1), suo quarto romanzo, aveva atteso molto per la pubblicazione. Quando avvenne, nel 1998, tanto grande fu il successo di pubblico e di critica da convincere Stamm ad applicarsi quasi esclusivamente alla narrativa ed a tralasciare altri interessi quali il giornalismo, i drammi radiofonici e le opere teatrali. Altri romanzi sarebbero seguiti e molti riconoscimenti avrebbe ottenuto lo scrittore. La sua è stata una scoperta tardiva che, come generalmente succede, una volta avvenuta non finisce mai di interessare. Singolare è la narrativa dello Stamm sia per i contenuti sia per i modi espressivi. Questi sono semplici, elementari, ridotti all’essenziale perché, secondo lo scrittore, così la vicenda narrata prende rilievo, acquista importanza. Tuttavia neanche i temi sono eccezionali, sorprendenti ché anch’essi rientrano nella quotidianità. Di persone comuni con un linguaggio comune scrive Stamm e fa quelle persone interpreti di problemi estesi, attraverso esse mostra come anche nella vita di ogni giorno i rapporti, gli scambi si siano guastati, come sia diventato difficile comunicare, come non ci sia più posto per i sentimenti, come la realtà sia ormai cambiata. Questa la particolarità dello Stamm scrittore, questo il motivo che lo ha fatto accogliere favorevolmente dal pubblico e dalla critica. Di quanto si RECENSIONI DIFFICILE VIVERE Antonio Stanca 102 cela dietro le apparenze egli scrive, della vita che avviene oltre quel che si vede, degli ostacoli interiori che impediscono di sentirsi liberi, di vivere come si vorrebbe. Le curiosità, le scoperte dello scrittore sono anche quelle volute dai lettori e così Stamm è diventato uno degli autori più letti. Anche in Agnes si dice di ambienti quotidiani, di persone comuni, di due giovani che s’incontrano in una biblioteca di Chicago e cominciano a frequentarsi, ad uscire insieme, a vivere insieme. Lui è svizzero e sta facendo una ricerca perché incaricato di scrivere un libro sulle locomotive americane di lusso. Lei, Agnes, è americana, ha venticinque anni, è più giovane di lui, è laureata in Fisica ed è impegnata, per conto dell’Università di Chicago, in uno studio di carattere scientifico. Vive sola a Chicago, ha avuto un pessimo rapporto con il padre che da quando è andato in pensione si è stabilito con la moglie in Florida. I due giovani vivono insieme, conducono una vita in comune ma non sembrano convinti l’uno dell’altro. Entrambi hanno avuto in precedenza esperienze amorose e dal fallimento di queste è derivato loro un carattere sospettoso, hanno avuto origine i loro timori, le loro paure nei confronti degli altri. E’ soprattutto Agnes ad immergersi in lunghi silenzi, a lasciarsi andare in affermazioni strane, ad apparire incerta, inquieta senza che si sappia mai il motivo, a chiedere al suo compagno di scrivere un racconto dal quale possa capire cosa pensa di lei, come la considera. E’ Agnes ad aver bisogno di un giudizio, a voler sapere chi è per gli altri. Lui comincerà a scrivere, a riportare per iscritto quanto era accaduto e accadeva tra loro. Quasi ogni giorno leggeranno insieme quel che veniva scritto e lei, in particolare, attenderà ogni volta il seguito. Si creerà una situazione strana, equivoca perché non sapranno più se possono muoversi, agire, vivere come occorre, come le circostanze richiedono o in virtù di quanto sarà scritto nel racconto, non capiranno più se sono liberi o vincolati, non distingueranno più tra le due condizioni. Continueranno ad andare avanti senza, però, che Agnes riesca, pur dopo molto tempo, a chiarirsi quel che desidera. Lo scoprirà da sola, di nascosto, e farà come troverà scritto: abbandonerà la casa, s’inoltrerà nel bosco vicino e si lascerà morire per il freddo tra gli alberi coperti di neve. Questa conclusione lui aveva preparato per il racconto perché pensava che Agnes non sarebbe mai riuscita a liberarsi da quanto la opprimeva, dai dubbi, dai sospetti, dai terrori che le provenivano dal passato e la perseguitavano. Mai sarebbe giunta a sentirsi sicura, ad avere una sua identità, a riconoscersi in una famiglia, una casa, una persona, un luogo. Lui lo aveva capito, aveva capito perché gli aveva chiesto di scrivere un racconto dove dicesse di come la giudicava. Una volta saputo Agnes non aveva esitato a far coincidere il pensiero di lui con la propria realtà, la fine del racconto con quella della sua vita. «Sono sempre 103 triste quando finisco di leggere un libro. - disse Agnes - E’ come se fossi diventata un personaggio del libro. E con la storia finisce anche la vita di questo personaggio»2). Due persone semplici erano sembrate agli inizi ma tanto si celava dietro di loro, tanto era stato patito da Agnes da segnarla in modo irreversibile, da non permetterle di vivere ancora. Abile è stato Stamm a giungere alla fine del romanzo tenendo fin dall’inizio il lettore legato ad una vicenda che sembra svolgersi da sola, che procede in maniera naturale, che tanto diventa vera da lasciarsi prevedere. 1 In Italia il romanzo è stato pubblicato nel 2001 da Neri Pozza e a Settembre del 2014 dalla Casa Editrice BEAT di Padova. La traduzione è di Francesca Gimelli (pp.155). 2 Ivi, p.121. 104