ANNO XXVII NUOVA SERIE - N. 86 –MAGGIO

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ANNO XXVII NUOVA SERIE - N. 86 –MAGGIO
International
RIVISTA TELEMATICA QUADRIMESTRALE - ANNO XXVII
NUOVA SERIE - N. 86 –MAGGIO-AGOSTO 2015
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ISSN:1121-6530
1
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Segni e comprensione International
Pubblicazione promossa nel 1987 dal Dipartimento di Filosofia e Scienze
sociali dell’Università degli Studi di Lecce, oggi Dipartimento di Studi
Umanistici dell’Università del Salento, con la collaborazione del “Centro
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News di Redazione
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scientifica nell'Area 11
3
INDICE
Editoriale
6
I rintocchi del silenzio
Giovanni Invitto
9
Il logo silenzioso
Daniela De Leo
Materiali
13
Il Venerato Larousse
Maria Zambrano
Presentato da
Elena Laurenzi
Saggi
20
L’altra meta’ del silenzio. una riflessione
a partire da María Zambrano.
Elena Laurenzi
40
David Antin lecteur de John Cage : improvisation orale, silence et récit
Pierre Taminiaux
4
Note
49
Ispirazione poetica ed esperienza religiosa
Il silenzio nella poesia e nella preghiera
Armando Savignano
66
L’Ecloga II. La vita silenziosa di Andrea Zanzotto
Marco Gaetani
Resoconti
85
Senza il silenzio la voce umana
diventa un brusio privo di senso
Dino Cofrancesco
89
Reflections on a Silent Nation through
the Perspective of the Everyday
Suzan Meryem Rosita
Recensioni
102
Difficile vivere
Antonio Stanca
5
In un con convegno internazionale sul silenzio del 1991, organizzato
da Carlo Alberto Augieri nella università salentina, io partecipai e svolsi un
tema che poteva sembrare provocatorio, cioè parlai del silenzio come forma
di violenza. Naturalmente non includevo tutte le forme di silenzio come forme
di violenza, ma cercavo di dire che spesso, nei rapporti umani, il silenzio è
una strategia e una manifestazione di rottura del rapporto o, comunque, ne è
una minaccia. Il silenzio è stato considerato, in alcuni momenti, non solo una
violazione del dialogo, ma anche un esercizio formalmente neutro, però
sostanzialmente traumatico, del rapporto tra persone. Spesso, nelle relazioni
interpersonali che stanno per deteriorarsi, il silenzio è una forma di ricatto o
di segnale: «non ci si parla più». Ma può anche essere una scelta eticamente
positiva: io non parlo per non creare dolore o ulteriore dolore all’altro. E così
via.
L’utilità del silenzio è, comunque, da sempre palese: serve
all’ascolto dell’altro quando si è in gruppo e, quando si è soli, serve alla
riflessione individuale. In alcuni ordini monastici, spesso, una parte della
giornata è dedicata al silenzio per dare spazio alla meditazione e alla propria
ricognizione esistenziale.
C’è una bella immagine della pittrice Francesca Mele dal titolo Il
silenzio del pesciolino d’oro. I pesci sono per antonomasia animali muti, ma è
così solo se crediamo che il linguaggio degli uomini sia l’unico linguaggio che
faccia testo. I suoni e i rumori degli animali rimangono, nella percezione del
soggetto, indecifrabili. Però non è vero: anche loro parlano… stando zitti.
Cioè comunicano. Non dimentichiamo che c’è il linguaggio del corpo che può
avvenire in condizione di assoluto silenzio.
Continuando a parlare del tema oggetto di questo testo, torniamo al
silenzio per dire che può avere anche una valenza negativa. Naturalmente si
tratta di esperienze e pratiche soprattutto degli adulti, ma anche i bambini e
gli adolescenti possono «usare» questo strumento di comunicazione, per
quanto sia classico l’uso dolcemente ricattatorio del silenzio dei bambini e il
loro battere i piedi a terra.
Mi rendo conto che può apparire paradossale chiamare
comunicazione il silenzio. Ma è proprio così. Il silenzio può anche essere
strumento di purificazione, di meditazione, di misticismo. Pensiamo ad alcuni
ordini religiosi, non solo cristiani, per i quali la vita comunitaria e la perfezione
sono date anche o soprattutto dal e nel silenzio. Per converso non
EDITORIALE
I RINTOCCHI DEL SILENZIO
Giovanni Invitto
6
dimentichiamo che anche molte forme della malavita sopravvivono
utilizzando formalmente il silenzio.
Comunque il discorso non va mai radicalizzato: l’acquisizione del
linguaggio parlato è ciò che l’essere umano ha conquistato in millenni di vita.
Ma l’uomo ha anche creato una pluralità di linguaggi silenziosi o sonori.
Anche la parola vive di silenzi, come una melodia musicale vive di pause che
la costellano e mettono in risalto i suoni e le melodie sentiti o che si
sentiranno in seguito. È quello che i filosofi chiamerebbero la dialettica che
ha il dato positivo perché c’è il dato negativo. Se non ci fosse il silenzio non ci
sarebbe il nostro parlare. Ma c’è chi dice che molte volte il nostro parlare ha
la funzione del silenzio, cioè far capire all’interlocutore che parliamo solo «per
dar aria alla bocca», come dicono molti per ironizzare sui discorsi degli altri,
ed, in questo caso, anche per far capire che non siamo interessati ad un
colloquio con chi abbiamo di fronte.
Concludo con un richiamo a ciò che ha detto il cinema su questo
tema. I mercati musicale, cinematografico, letterario hanno fatto proprio il
tema e hanno parlato del silenzio. E ciò è quasi un ossimoro, cioè la
congiunzione di due termini contraddittori: parlare e silenzio, cioè non
parlare. È difficile fare una rassegna completa in questa sede. Basta citare
solo un caso: ricordiamo I rintocchi del silenzio di Simon e Garfunkel che
costituirono la colonna sonora di un pregevole film, Il laureato, del 1967.
Qualcuno, negli Stati Uniti, affermava che quel testo era stato scritto dopo
l’uccisione di John Kennedy, avvenuta nel 1963. Non lo sapremo mai a meno
che non ci siano dichiarazioni degli autori.
Ecco la terzultima e l’ultima strofa del testo:
E nella luce fredda io vidi
diecimila persone, forse più.
Persone che parlavano senza dire nulla
persone che ascoltavano senza capire
persone che scrivevano canzoni
che le voci non potevano cantare assieme
e nessuno osava
disturbare il suono del silenzio
...
E la gente si inginocchiava e pregava
al dio neon che aveva creato.
E l’insegna lampeggiava il suo messaggio
con le parole che lo formavano.
E il messaggio era: «Le parole dei profeti
sono scritte sui muri della metropolitana
7
e negli androni dei palazzi,
e diventano sussurro nel suono del silenzio».
Impariamo a sentire anche noi i rintocchi dei silenzi.
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IL LOGOS SILENZIOSO
Daniela De Leo
Interrogarsi sul silenzio vuol dire circoscriverlo in una spazialità
comunicazionale polisemica, vi sono infatti diversi modi di significarlo:“non
c’è più niente da dire”, ed altri per i quali “tutto rimane da dire”; c’è il silenzio
di colui che “non ha nulla da dire” e quello di chi è giunto ai confini del
“dicibile”; vi è il silenzio che “continua” tutte le parole ed un altro che non ne
“contiene” nessuna, vi è un silenzio indice di approvazione o condanna ed
un silenzio di rispetto e di stima. Una nota accomuna tutti questi diversi
significati: il silenzio è sempre comunicazione di vissuti intenzionali che si
collocano nella dimensione intersoggettiva dell’ascolto.
Riflettere sul silenzio vuol dire individuare i propri limiti di funzione e
di epoca, rimanendo lontani dalla chiacchiera, dalla retorica, dai pleonasmi,
dalle tautologie, nella consapevolezza che la parola è “il pensiero messo in
silenzio” e che la voce del pensiero non coincide con il suono della parola.
Silenzio e parola sono in stretta relazione. Ma possono assumere
valenze opposte nelle diverse impostazioni filosofiche.
Se seguiamo le riflessioni di Michelstaedter la parola e il silenzio
assumono due significati opposti, infatti il filosofo goriziano afferma che “al
saggio appartiene il silenzio all’illuso la parola”, “colui che è persuaso tace
perché non ha più nessun movente a parlare. Colui che non è persuaso tace
1
perché non ha niente da dire” . Il parlare con parole finte che si applicano a
cose diverse e da queste poi si attraggono, “tappezza di specchi la stanza
della miseria individuale, pei quali mille volte e sempre avanti infinitamente la
2
stessa luce delle stesse cose in infiniti modi è riflessa” .
L’angoscia della domanda del contenuto del parlare, l’affannosa
ricerca dell’identità della ragione che si confronta con la presenza del mistero
nell’esistenza, conduce l’uomo persuaso al silenzio, fino al momento in cui,
formulando la domanda dell’essere presente, non conoscerà la parola
persuasa. In questa dimensione ermeneutica michelstaedteriana il silenzio
rappresenta la sola forma persuasiva.
Secondo un approccio fenomenologico il silenzio non risulta essere
soltanto un mero atto di tacere per essere nella dimensione della
persuasione, ma risulta propedeutico ad ogni forma di comprensione,
all’apertura all’altro. Dinanzi a un altro che parla e nell’intimo di sé, è da
rinvenire quell’orizzonte di senso dentro cui accogliere la realtà, la relazione
tra le cose, il significato di un’esistenza.
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Il silenzio così significato è una sorta di “epoché”, di sospensione di
giudizio, uno spazio di senso in cui lasciare che la datità dell’altro possa
essere incontrata.
Merleau-Ponty parla di un logos silenzioso che non precede il livello
di linguaggio che noi abitualmente ascoltiamo, ma che è anche “al di sotto” ,
dal momento che, anche quando è “sorpassato”, continua a funzionare, a
risuonare e a far sentire la propria eco dentro le formazioni successive del
linguaggio. Questo “logos” è descritto come “silenzioso” per sottolineare il
fatto che noi normalmente non lo sentiamo. Ma se qualcuno fosse capace di
ascoltarlo, forse sentirebbe il suo canto – un melodioso silenzio, fortemente
evocativo, che per principio le scienze oggettive del linguaggio non sono in
grado di sentire.
“La presa di possesso del mondo del silenzio, così come la effettua
la descrizione del corpo umano, non è più questo mondo del silenzio, ma è il
mondo articolato, innalzato al ‘Wesen’ […] Occorrerebbe un silenzio che
avvolga di nuovo la parola, dopo che ci si è accorti che la parola avvolgeva il
preteso silenzio della coincidenza psicologica. Che cosa sarà questo
silenzio? Come la riduzione, in definitiva, non è per Husserl immanenza
trascendentale, ma svelamento della ‘Weltthesis’, così questo silenzio ‘non’
3
sarà ‘il contrario‘ del linguaggio.”
Ma è un passaggio reversibile dal silenzio alla parola, dalla parola al
silenzio, in quanto la visione silenziosa cade nella parola, aprendo un campo
del nominale e del dicibile, nel momento in cui la parola stessa trasforma le
strutture del mondo visibile e si fa intuitus mentis, il silenzio continua ad
avvolgere il linguaggio: il rapporto tra i due è dialettico, in quanto rompendo il
silenzio, il linguaggio realizza ciò che il silenzio voleva e non otteneva.
Ed è nella musica che si rende strutturante questa dialettica.
Si legge nel manoscritto vol. VIII f. 189 “la musique comme modèle
4
de la signification. – de ce silence dont le langage est fait“ . Il silenzio in
musica è suono. Le pause, l’assenza di suono, sono predeterminate dal
compositore, hanno un loro valore che corrisponde esattamente a quello
delle note. La pausa è equivalente alla punteggiatura nella scrittura, ma ha
una durata prestabilita, alla quale l’esecutore deve con rigore attenersi. Ecco
perché il “silenzio” che interrompe il suono continua la trama della frase
musicale: “la pausa tra due movimenti di una sinfonia non è pervasa dal
movimento, perché è di per sé esclusa dal contesto; mentre quando la
struttura d’un brano viene interrotta dal silenzio, sembra che le pulsazioni
cardiache della musica si siano arrestate, e l’immobilità di ciò che dovrebbe
5
muoversi crea un senso di attesa” .
Il silenzio della pausa non è interruzione dello sviluppo compositivo,
che non recide la frase melodica, ma che la sospende, rendendo lontano le
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note vicine e vicine le note lontane. È quel silenzio che permette il risuonare
delle note e il protendere verso l’andamento successivo. È il deserto in cui è
reso l’ascolto tra mondo esterno ed interno.
Ed è nella musica che parola e silenzio possono entrare in una
costruzione dialettica, ed essere considerate in una dimensione ermeneutica
completa.
L’ascolto riprende l’immagine dell’apertura al mistero. Il silenzio
permette alla musica di risuonare come eco della figura-nuda nella profondità
aperta del soggetto, che si risveglia alla vita. Questo “suonar dentro a piena
orchestra” è la potenza creatrice della musica, è lo spazio in cui si dissolve la
logica della sintassi dell’accordo perfetto di tonica, per far di se stesso
fiamma, secondo il monito michelstaedteriano. L’uomo persuaso è nel
silenzio in attesa del risuonare della parola persuasa: in un costrutto
dialogico in cui è traslato direttamente il vissuto, il movimento stesso della
melodia entra nella relazione e la stessa relazione è quel “grappolo di
vissuto” che si schiude nel momento in cui la comunicazione diviene azione,
necessità di trovare la ratio della risonanza.
In questo reticolato di parole e di suoni, che è proprio di ogni
linguaggio, c’è in gioco una strategia linguistica che la pratica e la imprigiona:
la vita.
Il discorso musicale è una eloquenza come muta: “è l’esperienza
[…] ancora muta che ora per la prima volta deve essere portata
6
all’espressione pura del suo proprio senso” .
Ed essendo il comprendere una modulazione sincronica della mia
esistenza, per comprendere si dovrebbe ritrovare sotto il “brusio delle parole,
il silenzio primordiale, finché non descriveremo il gesto che rompe questo
7
silenzio” . Ed è nella gesticolazione dell’uomo che pensa e vive l’essere e gli
8
esseri, presa al suo sorgere l’origine della musica .
A questo livello si chiarisce e si rivela il valore dell’arte intesa non
come lessico, non come sostituto verbale del mondo, ma come possibilità di
condurre ad espressione il silenzio delle cose stesse. In tale costrutto
teoretico la composizione musicale parla allo spettatore del mondo, ma lo fa
con un linguaggio ricco di suggestioni provenienti da un fondo di verità che
l’opera ha catturato attraverso la corporeità del compositore/esecutore ed
espresso attraverso le sue mani: questo rapporto così intimo, si instaura
nell’ascolto.
Prende forma l’equazione formulata da Merleau-Ponty: “L’idée est
9
au langage ce qu’est l’idée musicale aux sons” . Da questo punto di vista,
l’opera non dice il mondo rappresentandolo, ma lo manifesta iconizzando
l’esperienza unica e singolare dell’artista. Per la pittura, come per la musica,
vale la tessa prospettiva messa in atto dal poeta, il quale dalle ceneri della
11
descrizione diretta fa emergere un sovrappiù di senso, una referenza più
profonda rispetto a quella del linguaggio rappresentativo, cioè quel logos
silenzioso.
1
C. Micheltseadter, Parmenide Eraclito, p. 14; in D. De Leo, Mistero e persuasione in
Carlo Michelatsedter. Passando da Parmenide ed Eraclito, Milella, Lecce 2001.
2
Ivi, p. 60.
3
M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1964, trad. It., Bompiani,
Milano 1969, p. 196.
4
“La musica come modello della significazione – di quel silenzio di cui è fatto il
linguaggio”, C. Merleau-Ponty, Vol. VIII, f, 289 [r], in D. De Leo, La relazione percettiva,
Mimesis , Milano 2008.
5
R. Arnheim, Art and Visual Perception: a pschology of the creative eye, University of
California Press, Berkeley and Los Angeles 1954, trad. It. Feltrinelli, Milano 1996, p.
311.
6
E. Husserl, Cartesianische Meditationes und Pariser Worträge, a cura di S. Strasser,
De Haag, Nijhoff 1950 (Husserliana I); Mediatazioni cartesiane, trad. it. Bompiani,
Milano 1960, p. 85.
7
M. Meleau-Ponty, Phènoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945; trad. It.,
Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 255.
8
“È necessario che qui il senso delle parole sia alla fine indotto dalle parole stesse o,
per essere più precisi, che il loro significato concettuale si formi per prelevamento su
un significato gestuale, che , a sua volta, è immanente alla parola”, Ivi, p. 256.
9
“L’idea è alla lingua ciò che l’idea musicale è ai suoni”, M. Merleau-Ponty, Manuscrits,
Vol. VII, f. 202 [v], in D. De Leo, L’improvvisazione tra dicibile e indicibile, Mimesis,
Milano 2013.
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IL VENERATO LAROUSSE di
Maria Zambrano
MATERIALI
Presentato da
Elena Laurenzi
Abstract
This essay is about the silences of women. In the first section, I discuss the limits of the
philosophy of emancipation which takes its roots in the age of Enlightenment and
emphasizes women’s silence purely as a result of discrimination and oppression
without ever considering the complexity of the issue of women’s freedom — this is not
only a matter of rights, but also a matter of symbolic order. In the second section, I
refer to the Belgian philosopher Françoise Collin, who suggested that hegemonic
historiography (including feminist historiography) is not able to do justice to the
contribution of anonymous and silent people to the word. In the third section I analyze
the essays of María Zambrano dedicated to the novel Misericordia of Benito Pérez
Galdós in order to show how women’s silence(s) can sometimes be a strategic and
creative way of action.
Il silenzio avvolge il breve scritto di María Zambrano che
pubblichiamo in questo volume, Il venerato Larousse. L’articolo tratta del
silenzio sotto cui la cultura egemonica (la cultura enciclopedica francese,
nella fattispecie) passa le manifestazioni di culture e saperi “periferici”, e al
contempo, le circostanze e le vicende della sua apparizione (e sparizione)
costituiscono una prova lampante della questione. Ripercorrerne la storia ci
permette di esplorare tutte le dimensioni e le ragioni di questo silenzio, da cui
esso finalmente emerge, dopo più di quaranta anni dalla sua composizione.
La prima traccia dello scritto si trova in una lettera di Zambrano
diretta all’amica Elena Croce, datata 29 giugno del 1972, dove la filosofa
13
informa di aver spedito in una busta, assieme ad altri materiali, un
1
«divertissement» concernente «Il Larousse della filosofía». Si riferisce –
questo lo si deduce per le date – al volume di Julia Didier, Dictionaire de la
philosophie, pubblicato proprio quell’anno dall’editore Larousse di Parigi.
L’ironico resoconto della Zambrano circa gli omissis e i silenzi che costellano
il compendio di Didier – una sorta di manuale composto con la pretesa di
riassumere e mostrare con esempi pregnanti ed eloquenti «le principali
nozioni della filosofia» – non poteva non trovare risonanza nelle corde della
Croce, e non solo per la clamorosa assenza di Vico e di suo padre Benedetto
nella voce dedicata alla «Storia». Lo spirito anticonformista di Elena Croce
era naturalmente ostile alla formulazione di idee generali e alla nozione
stessa di generalità, in cui coglieva una paradossale manifestazione di
provincialismo. Era una studiosa raffinata, capace di restituire in poche
battute l’originalità e la particolarità di ogni autore, oltre che cultrice e
instancabile promotrice di opere letterarie e filosofiche anche sconosciute o,
comunque, normalmente non incluse in ciò che, di volta in volta, viene
definito come “il canone”.
La sua reazione al testo mandato da Zambrano è, pertanto,
entusiasta. Lo definisce «un piccolo capolavoro» e ne annuncia l’immediata
pubblicazione nella rivista Settanta, che ella aveva fondato e co-dirigeva,
assieme a Leonardo Cammarano. Sorprendentemente, Maria Zambrano –
che pure collaborava assiduamente alla rivista, avendone condiviso fin
dall’inizio il progetto – si schermisce. In una pronta risposta, il 10 settembre,
avverte l’amica di averle spedito un esemplare del Dictionaire, ma di nutrire
forti perplessità sulla pubblicazione del proprio scritto: «Quanto alla mia Nota,
insisto che forse non riunisce i requisiti necessari per la pubblicazione in
Settanta. Mi sono divertita a farla, tutto qui». Elena Croce tuttavia non era
facile a lasciarsi scoraggiare nei propri entusiasmi. E mal interpretando la
reticenza di Zambrano come una forma di esitazione circa il valore del testo,
insiste: «L’articolo su Larousse non ti ho scritto che era un capolavoro? Esce
nel numero di ottobre e probabilmente se ne scriverà anche sul Giorno». Ed
è a questo punto che la filosofa, acconsentendo alla pubblicazione ma sotto
pseudonimo (un ironico pseudonimo, se si pensa che il volume del Larousse
pretende in qualche modo di essere l’ABC della filosofia), esplicita le ragioni
delle proprie remore:
«Penso, cara Elena, che la mia Nota sul Larousse non uscirà
firmata con il mio nome, ma con questo A.B.C. che mi è venuto spontaneo.
Non bisogna sottovalutare l’estrema suscettibilità francese che impera anche
da queste parti. E per la quale potrei apparire io come suscettibile. Per
14
questo ti ho manifestato i miei dubbi sulla pubblicazione, pensando, in quel
momento, solamente a Settanta. I vaneggiamenti sono incredibili».
La decisione di Zambrano mostra una sorta di autocensura che
anticipa l’eventualità, avvertita come incombente, di una censura o
comunque di rappresaglie da parte dell’establishment della Cultura ufficiale.
La sua prudenza può apparire eccessiva e persino ossessiva, ma non
sorprende se si considerano le condizioni di precarietà estrema in cui ella si
trovava. Viveva, da esiliata, in un piccolo villaggio di montagna pressoché
isolato, situato nel Jurà francese, con un permesso di soggiorno che doveva
rinnovare periodicamente. Pochi anni prima, nel settembre del 1964, aveva
dovuto abbandonare Roma con un foglio di via del Governo italiano, poiché
le sue frequentazioni con gli esuli della Spagna repubblicana erano sospette
agli occhi della classe politica democristiana. Espatriata dal 1939, conosceva
la fragilità dei sans papiers, e dei papiers facilmente revocabili, concessi a
esuli e profughi. Nel corso del suo peregrinaggio per i paesi dell’America
Latina e dell’Europa aveva appreso il peso del silenzio imposto all’esiliato:
«questo silenzio che a momenti diventa un sudario di morte» – scrive nella
2
sua Lettera sull’esilio . Sapeva che l’esaltazione illuministica della tolleranza
3
– «la parola preferita dall’uomo moderno» occulta l’incapacità di trattare con
l’altro, e aveva sperimentato fino a che punto l’accoglienza in terre straniere
viene concessa al patto della discrezione e del silenzio, come testimoniano le
amare parole che mette in bocca alla sua Antigone:
«E io, nel momento in cui entravamo in una città, sapevo già, per
molto pietosi che fossero i suoi abitanti, per molto benevolo che fosse il
sorriso del suo re, io sapevo bene che non ci avrebbero dato la chiave della
nostra casa. [...] C’è stata, sì, gente che ci ha aperto la sua porta e ci ha fatto
sedere alla sua tavola, elargendoci anche più di una buona accoglienza. Ma
eravamo ospiti, invitati. [...] Nessuno ha voluto sapere cos’è che andassimo
chiedendo. Che andassimo chiedendo lo pensavano, perché ci davano molte
cose, ci colmavano di doni, ci ricoprivano, come per non vederci, con la loro
4
generosità» .
La storia dell’articolo sul Larousse mostra che esiste una
coercizione al silenzio più sottile di quella provocata con la forza della legge,
della censura e della punizione: è la prevaricazione del sapere che s’impone
con l’evidenza dell’autosufficienza e della generalità, cosicché la sua
superiorità sul piano sociale, economico, politico diventa una superiorità
logica. E questa logica ferrea, osserva Zambrano, è divenuta tanto più
insidiosa a partire dall’Illuminismo, poiché si è imposta come prodotto della
15
liberazione: «una cultura della liberazione pagata con la libertà», in cui viene
innalzato il vessillo della «libertà soddisfatta che sfugge a ogni ostacolo e a
ogni discontinuità». Di questa visione assoluta della cultura è parte integrante
il progetto enciclopedico, dove il paradosso della cittadinanza universale ed
escludente istituita con la Rivoluzione francese sembra riflettersi dalla sfera
politica a quella del sapere, e una moltitudine di manifestazioni di cultura, e
«interi popoli» non trovano cittadinanza, appunto, cadendo nella condizione
di «gente di seconda o addirittura di nessuna classe». Gente invisibile; ma
più che invisibile senza voce, ridotta al silenzio. È il silenzio dei subalterni,
spesso autoimposto o comunque mantenuto con una acquiescenza
«cresciuta nel terreno della sfiducia in se stessi, nella propria tradizione».
Il moto di sdegno che indusse María Zambrano a scrivere di getto
questo articolo caustico – un esempio unico nella sua scrittura, dai toni
solitamente non polemici – così come l’accoglienza di Elena Croce, sono le
manifestazioni di una fede indomita e condivisa nella cultura intesa come
«condizione vitale della libertà tutta», e della convinzione che la coscienza
europea, frutto di un complesso variegato di culture che nei secoli sono state
occultate ed emarginate, oggetto di persecuzioni e di sterminio, dovesse
essere riconquistata, «sia pure con molta fatica e lentezza, e anche pazienza
5
nel riannodare le fila».
16
Il Venerato Larousse
6
A.B.C. (alias Maria Zambrano)
Come è ben noto, i dizionari, così come le Enciclopedie sono uno
dei più potenti generatori di "idee generali" che a loro volta costituiscono
l'armatura della cultura ugualmente generale. Queste sono denominazioni
antiquate che usiamo espressamente per evidenziare la loro imperturbabile e
più che mai minacciosa validità. Questa cultura e la sua armatura di idee,
nata in modo diretto dallo spirito dell’Illuminismo, offriva una specie di spazio
omogeneo, senza discontinuità, ed in maniera estremamente accessibile, a
qualsiasi individuo di mente normale. L'ideale dell'omogeneità ha così
preceduto la nascita degli specialismi, e si supponeva che lo studio di
qualsiasi specializzazione dovesse considerarsi partito da questa cultura
generale, campo comune in cui lo specialismo germogliava. Le
specializzazioni, almeno originariamente, nascevano da un'ansia
incontenibile di scoprire qualcosa di reale, un frammento, a volte, molto
frammentario; e nel perseguimento di questa realtà si sono consumate, non
senza eroismo, molte vite, fino al limite del fanatismo; nel senso, cioè, di
prendere per assoluto questo pezzo o questo aspetto della realtà. Mentre
invece la cultura generale, con le sue idee, continuava ad offrire al non
specialista - ed anche e prima di tutto a chi non fosse filosofo, o amico della
meditazione solitaria - la sicurezza propria dell'uomo civile: guardare ai fatti
ed alle realtà che non rientravano in questa cultura, come a miserie senza
diritto di cittadinanza nella stupenda città della civiltà, ed alle persone come a
gente di seconda o, addirittura, di nessuna classe. Interi paesi cadevano e
continuano a cadere in questa misera condizione per colpa della suddetta
cultura e dei suoi cultori che sono capaci di identificare cose come la
Filosofia – tutta intera – con l'idea generale che di essa si sono formati e che
imperturbabilmente offrono. Inutile dire che il centro privilegiato – dal
momento che pare che in questo mondo qualsiasi cosa, per generale che
sia, abbia un centro – è stato ed è encore la cultura francese, il che non
avrebbe potuto verificarsi se le altre genti, di tradizione culturale più antica e
più o meno di tipo occidentale, non avessero accettato di essere il feudo di
queste generalità. E se di rimorsi si tratta, è ovvio che devono essere ben più
vivi quelli che affliggono i sottomessi che non quelli che insidiano i tanto
impavidi, pacifici conquistatori. Non si può far a meno di rilevare una certa
noncuranza cresciuta nel terreno della sfiducia in se stessi, nella propria
tradizione, da parte di quei sottomessi che accettano una generalità, che
lungi dal rivelarli, li occulta e che inoltre rende impossibile l’elementare
riconoscimento non già di un filosofo, bensì della filosofia stessa. Così come
impedisce anche il riconoscimento di un semplice ramo d’albero che appaia
sul sentiero del bosco, quel ramo che può essere anche una “vipère” ma che
per la sua forma corrisponde all’ “immagine generale” dì un ramo. Le idee
generali trascinano la loro corte di immagini generali. E, pertanto, come
riconoscere l'esistenza di un filosofo, per feconda che sia stata la sua opera
scritta e la sua attività di cittadino, se non risponde all’immagine generale
corrispondente, secondo i centri consacrati della cultura centralista?
Ed ogni cosa segue – e prosegue – in questa cultura verbale e
logica molto più vuota di quella che è chiamata la “logica formale”, dalla
quale Descartes, Bacon ed il positivismo susseguente ci “liberarono”.
Giacché si tratta di una cultura dì “liberazione” pagata con la libertà, una
libertà soddisfatta che sfugge ad ogni ostacolo, ad ogni discontinuità,
convertendosi in un fantasma senza che neppure lo si sospetti.
Nella prefazione di questo riassuntivo Dictionnaire de la Philosophie
di Larousse, si annuncia l’originalità del metodo, voluta dal suo scopo che
«est de montrer que les principales notions de la philosophie rejoignent les
problèmes concrètes que l’homme peut se poser au cours de sa vie». Una
vera scoperta che, a sua volta, ci viene ancor meglio spiegata con l’enunciato
che la segue – dopo un punto e a capo: «Une contribution de ce genre
17
requérait l’emploi d’une méthode originale». Il che ci viene chiarito
enunciando che «le principe de notre méthode n'est pas tant d’analyser les
notions que de les faire comprendre et de les illustrer par des exemples
précis. Par exemple, une notion importante, comme celle d’histoire ou de
dialectique, n’est jamais analysée pour elle même, dans ses différentes
significations, sans que nous finissions par regrouper toutes ces
significations autour d'un problème réel, qui nous intéresse aujourd’hui dans
notre vie historique. Bref, il s’agit d'un dictionnaire synthétique de la
philosophie».
Si comprende, quindi, che in questo “originale” metodo sintetico i
quadri sinottici – quelli di sempre – acquistano una evidente originalità. Ed
infatti possiamo opportunamente dimostrarlo riferendoci a quello che
corrisponde al termine «Historique». Si tratta dì un quadro, in cui la stretta
relazione con il termine che viene dato senza essere definito, in quanto
riferito a questo quadro, non ci appare tanto chiara come sarebbe da
desiderare. In esso appare, con quella specie dì mancanza di pudore che
quasi tutti questi quadri manifestano, il generoso, totale dono dello sviluppo
storico della filosofia stessa, suddivisa secondo i soli paesi in cui essa si è
sviluppata.
La Francia occupa la prima colonna, seguita da quella riservata alla
«Antiquité» (Grecia - Italia); continua con quella corrispondente ai paesi
germanici per concludere con la colonna dei paesi anglosassoni. La colonna
greco-italiana coincide in una sola fascia orizzontale con quella adiacente
intestata alla Francia; la congiunzione avviene all'altezza dei secoli X e XII:
da parte della Francia, la Scolastica e gli umanisti, Abelardo e Tommaso
d'Aquino, dando quest'ultimo per francese, e per la colonna che riguarda
l'antichità greca ed italiana, la filosofia araba, Avicenna ed Averroè, dando
per certo che Cordoba fosse italiana. La Renaissance Italienne – che non
sapevamo si fosse verificata nel XII secolo – viene segnalata con i due unici
nomi dì Nicola Cusano e di Giordano Bruno. Con essi si apre, e si chiude al
tempo stesso, il contributo dell’Italia alla filosofia. Inutile cercare nelle pagine
di questo dizionario le voci corrispondenti a G. B. Vico e a Benedetto Croce.
La Scienza Nuova non trova posto nel dizionario sintetico, e neppure la
concezione crociana della storia, essendo assente ogni riferimento persino
nelle voci «Histoire», «Philosophie de l'historie» e poi «de l'Estetique». La
stessa sorte tocca al filosofo spagnolo Ortega y Gasset, ed a tutto ciò che la
Spagna ha dato al pensiero, nello stesso recinto in cui lo scrittore Albert
Camus ha trovato – e nulla abbiamo da obiettare – il suo giusto posto e
numerosi riferimenti. Soltanto Unamuno ha trovato un buco in cui alloggiare
sinteticamente, e poi il teologo del XII secolo Luis de Molina. Questa
generosità, però, resta per aria, dal momento che il problema della libertà e
18
della grazia contenuto nell'opera di Molina avrebbe richiesto di dare notizia
per lo meno dei teologi di Trento – solo per esempio – per non parlare della
lacuna rappresentata dal non aver neppure menzionato Suárez. A che scopo
continuare? In quarantacinque righe ad una colonna viene sintetizzata la
filosofia greca vista nel suo complesso, passo per passo. L'importanza che si
dà a tutto questo dipende semplicemente dal fatto che il dizionario continua
ad essere il Libro per eccellenza, quasi una Bibbia per la massa degli
studenti e degli incauti che sono inclini a coltivare una cultura generale fatta
di idee generali, di “farsi una idea intorno a ...”. Nel dizionario e nelle
Enciclopedie è stata riposta la venerazione nei confronti del libro chiave che
apre le vie per la città della cultura. Ad esso ricorrono non soltanto lo
studente che non sia divorato dall'ansia del sapere, ma l'uomo medio che si
sente sicuro quando lo maneggia, ed anche le persone colte, coloro che
sono specializzati in particolari scienze, etc. Anche tra i dotti si è soliti aprire
tante discussioni dicendo: «Dopo aver letto l'articolo e dopo aver ascoltato la
relazione del mio stimato collega il Dottor o Professor X, ho consultato il
dizionario ed ho trovato, o meglio non ho trovato».
1
Cfr. Elena Croce, Maria Zambrano, A presto, dunque, e a sempre. Lettere
1955-1990, a cura di E. Laurenzi, Archinto, Milano, 2015 . Le notizie relative allo scritto
e citate in questa Presentazione si trovano nelle pagine 207-222.
2
María Zambrano, Lettera sull’esilio, traduzione di E. Laurenzi, «aut aut»,
279, 1997.
3
María Zambrano, Per una storia della pietà, traduzione di E. laurenzi, «aut
aut», 279, 1997.
4
María Zambrano, La tomba di Antigone, traduzione di Carlo Ferrucci, La
Tartaruga edizioni, Milano, 1995
5
Elena Croce, Dal dopoguerra, «Prospettive settanta», anno II, n. 3-4, lugliodicembre 1980.
6
A.B.C., Il venerato Larousse, «Settanta» (Roma), Anno III, n. 29, ottobre
1972, pp. 55-56. La traduzione è probabilmente da attribuirsi a Elena Croce.
19
Abstract
Il saggio affronta il tema del silenzio a partire dal motivo del silenzio delle
donne. Nella prima parte, si discute il limite della filosofia dell’emancipazione di stampo
illuministico, che ha insistito sul silenzio delle donne in chiave discriminatoria senza
considerare la complessità della questione dell’ordine simbolico, non riducibile a quella
dell’acquisizione dei diritti. Nella seconda parte, si fa riferimento all’opera di Françoise
Collin per analizzare i limiti della storiografia, nella sua incapacità di restituire il
contributo delle presenza anonime e silenziose al mondo comune. Nella terza parte si
analizzano le pagine di María Zambrano dedicate al romanzo Misericordia di Benito
Pérez Galdós, per mettere in luce il silenzio femminile come una forma strategica e
creativa dell’agire.
SAGGI
L’ALTRA METÀ DEL SILENZIO. UNA RIFLESSIONE A PARTIRE
DA MARÍA ZAMBRANO.
Elena Laurenzi
20
Il lato femminile del silenzio
La cultura dell’emancipazione che si è sviluppata dall’Illuminismo ha
molto insistito sul «silenzio secolare» delle donne fino a farlo diventare un
topico, un leitmotiv che si ripete in modo quasi automatico nella letteratura
generalista, frequentemente anche in quella specialistica, e nel dibattito
politico. Eppure da sempre e in ogni epoca le donne hanno preso la parola,
spesso proprio per denunciare la misoginia vigente nella cultura canonica.
Ma ben prima che la Rivoluzione francese rendesse palese ed eclatante il
paradosso di un universalismo fondato sulla loro esclusione, le donne colte
hanno avuto consapevolezza dell’aporia insita nella loro condizione,
obbligate com’erano a servirsi degli «ingredienti testuali» dello stesso
discorso di cui questionavano la validità e la legittimità. Già Christine de
Pizan – l’iniziatrice di Querelle des femmes che esplose nelle corti d’Europa
del 15° secolo e segnò una impressionante presa di parola pubblica da parte
delle donne – esprime nell’incipit della sua opera più nota, La cité des
dames, questa angoscia delle donne istruite che è «la versione femminile del
disprezzo di sé proprio dei colonizzati» (Joan Kelly, 1984, p. 80).
[...] in generale in ogni trattato filosofi e poeti, predicatori e la lista
sarebbe lunga, sembrano tutti parlare con la stessa bocca, tutti d’accordo
nella medesima conclusione, che il comportamento delle donne è incline a
ogni tipo di vizio. Profondamente assorta in ciò io, che sono nata donna,
presi a esaminare me stessa e la mia condotta, e allo stesso modo pensavo
alle altre donne che avevo frequentato, tanto le numerose principesse e le
gran dame, come le donne di media e bassa condizione, che avevano voluto
graziosamente confidarmi le loro vicende personali e i loro intimi pensieri. [...]
e per quanto a lungo e profondamente esaminassi la questione, non riuscivo
a riconoscere né ad ammettere il fondamento di questi giudizi contro la
natura e il comportamento femminile. Continuai tuttavia a pensare male delle
donne: ritenevo che sarebbe stato troppo grave che uomini così famosi, tanti
importanti intellettuali di così grande intelligenza, così sapienti in tutto, come
sembra che fossero quelli, avessero scritto delle menzogne [...]. Questa
unica e semplice ragione mi faceva concludere che, benché il mio intelletto
nella sua semplicità e ignoranza non sapesse riconoscere i grandi difetti miei
come delle altre donne, doveva essere veramente così. Era in questo modo
che mi affidavo più ai giudizi altrui che a ciò che io sentivo e sapevo nel mio
essere donna. (Christine De De Pizan 1997)
Quando dunque la voce delle donne emerge dal silenzio (e l’ha fatto
con maggiore frequenza e competenza di quanto le enciclopedie e i manuali
siano disposti a riflettere), questo avviene al prezzo di un’insopprimibile
dissonanza tra il fondo ineffabile dell’esperienza e la parola pubblica con cui
essa è obbligata ad articolarsi e esprimersi. Se è vero che questa è la
condizione di ogni scrittura singolare, all’affrontare lo scarto tra l’individualità
irriducibile di chi scrive e la generalità insita nel linguaggio, per le donne tutto
ciò assume i connotati di un esercizio scabroso e spesso ingrato. Per questo,
la loro assenza dal sapere canonico non è soltanto e anzi non è tanto una
conseguenza della loro esclusione – più o meno dichiarata e regolamentata –
dagli ambienti che recingono la Cultura, quanto dell’impossibilità di trovare
nella cultura gli strumenti per dirsi. Non è solo un problema di diritti, ma una
questione di ordine simbolico, come ha argomentato la riflessione delle
donne a partire da Carla Lonzi (Carla Lonzi, 1970. Cfr. almeno: Libreria Delle
Donne Di Milano, 1987; Luisa Muraro 1991). La marginalità e
marginalizzazione delle donne nella cultura egemone si riproduce attraverso
21
un duplice meccanismo. Da una parte, la differenza femminile non viene
considerata se non nella sua forma derivata, come una sottrazione o,
letteralmente, una menomazione rispetto alla norma maschile che si pone
come universale: ragion per cui essa non aggiunge nulla al mondo comune,
non arriva a produrre senso o valore per tutti (Cfr. Adriana Cavarero, 1987;
Françoise Collin, 1999). Dall’altra, l’estromissione o l’occultamento della
presenza delle donne non riguarda soltanto le singole pensatrici, scrittrici o
artiste, ma anche e soprattutto il legame possibile tra di loro, quello che le
1
vincolerebbe a una tradizione di pensiero e di creazione “femminile”. Non
esiste, nel sapere perpetrato da manuali, enciclopedie e compendi (ma
2
nemmeno negli studi specialistici, salvo poche eccezioni ) alcuna cognizione
della trasmissione del sapere tra donne, dei rapporti di filiazione simbolica,
delle eredità, delle genealogie. Questo isolamento si ripercuote nella
perplessità e nella penuria simbolica di ogni autrice che intraprende un’opera.
Come segnalava anni fa Fina Birulés, «In questo ambito sembra che ogni
nuova autrice debba riiniziare il discorso, come se non esistesse [...] una
tradizione in cui inserirsi, come se lei fosse situata in uno spazio amondano,
acosmico, senza passato né futuro» (Fina Birulés 1997, pp. 18-19.
Traduzione mia). Se l’assenza di legami con il passato può apparire come
una condizione di libertà ideale per la creazione, dobbiamo invece
considerare, come ci invita a fare Arendt (1977), che la tradizione fornisce i
criteri per giudicare, selezionare, scegliere: anche per scegliere di rifiutarla.
Pertanto, la difficoltà di conservare e quella di innovare vanno insieme, e
l’isolamento simbolico comporta, «l’impossibilità di aggiungere qualcosa di
proprio al mondo, di creare senso» (Fina Birulés, op.cit., p. 19).
***
María Zambrano fu una lucida analista delle contraddizioni che una
donna deve affrontare quando assume il rischio della parola pubblica. La sua
consapevolezza del problema, ma ancor più la sua decisione di scriverne,
rappresenta un’anomalia e fa di lei un’eccezione tra le filosofe sue
contemporanee. Com’è stato notato, infatti, la maggioranza delle grandi
pensatrici dei primi del secolo pagarono il loro ingresso nel santuario
maschile della filosofia con l’obolo della scelta del neutro, e quindi facendo
silenzio, o almeno sorvolando sulla loro appartenenza al genere femminile,
3
come se questo non avesse alcuna rilevanza per il pensiero . Zambrano, da
parte sua, meditò sulla peculiarità e la scabrosità della propria posizione
come donna filosofo e, in generale, sulla relazione ambivalente tra le donne
e la cultura, e avanzò una critica potremmo dire avanguardistica all’ideologia
22
del neutro-universale, smascherandolo come perpetuazione del potere
maschile:
“L’umano” è il contenuto della definizione dell’uomo, e la donna ne è
rimasta sempre relegata al margine [...] Solo nella dipendenza del maschio la
sua vita acquisiva essere e significato; ma appena in lei si affacciava
l’impulso verso il proprio destino, si convertiva in uno strano essere senza
sede possibile (María Zambrano, 1997, p. 98).
L’immagine della mancanza di sede «per portare a compimento il
proprio essere» (ivi, p. 99) va letta in rapporto alla questione dell’ordine
simbolico di cui abbiamo parlato. Infatti nel saggio dedicato alla figura di
Eloisa, l’infelice amante di Pietro Abelardo, Zambrano stabilisce una
connessione tra l’impossibilità delle donne di trovare un proprio luogo – una
sede – nella «avventura virile» dello spirito e della cultura, e il loro silenzio:
un silenzio che non è mancanza di voce ma, più sottilmente, assenza di
articolazione: «suono di una voce priva di parola» (ivi, p. 97).
L’obiettivo di restituire la voce delle donne nella storia comporta
dunque un ripensamento dei criteri della ricerca e della scrittura filosofica.
Zambrano ne fu consapevole, e per questo si dedicò all’esplorazione di
territori marginali rispetto ai generi filosofici e letterari canonici, come le
lettere o i diari, come pure alla sperimentazione di forme di scrittura
alternative a quelle dettate dai criteri filologici. Produsse saggi ammirevoli,
come la sua splendida riflessione – già ricordata – sulle «gloriose lettere» di
Eloisa ad Abelardo, dove mette a fuoco la questione dell’amicizia intellettuale
tra una donna e un uomo (questione ancor oggi spinosa, come dimostra
Jaques Deridda, 1995) e restituisce «figura e vita propria» alla giovane
discepola Eloisa, il cui pensiero fu, anche al parere di uno studioso illustre
come Etienne Gilson (1950), molto più avanzato di quello del suo colto
amante e maestro. Significativa, sotto il profilo che qui ci interessa, è anche
la rivisitazione che Zambrano propone dell’Antigone sofoclea, con la sua
proposta di riscrittura del finale della tragedia che vede la protagonista
4
sottratta al silenzio della morte, mentre in un delirio creativo , arriva ad
articolare la coscienza del proprio agire fuori dalle norme e dalle leggi del
tiranno (María Zambrano, 1995; Ead, 1997). E su questa stessa linea si
possono ricordare gli scritti dedicati alla Diotima platonica o le pagine sulla
Beatrice dantesca, che Zambrano assume come presenze reali di donne
autorevoli e nel ruolo di maestre, in contrasto con gli esegeti di Platone e di
Dante, quasi unanimemente concordi nel considerarle figure puramente
allegoriche (María Zambrano, 1995; Ead, 2007. Cfr. Elena Laurenzi, 2007).
In questi e altri scritti, l’autrice mette in luce l’apporto creativo dato dalle
23
figure femminili – reali o leggendarie che fossero – alla storia di Occidente. In
questo senso definisce le protagoniste dei suoi saggi «figure pioniere»,
poiché esse aprono un cammino nuovo e, suggerendo un modo di essere
donne fuori dalla dicotomia tra Eva e Maria, «fondano una specie» (María
Zambrano, 1997, p. 100 e p. 86).
È anche importante ricordare l’annotazione di Zambrano a proposito
delle lettere di Eloisa, quando sottolinea che il sapere femminile può
incarnarsi in forme diverse da quelle oggettivate in cui si cristallizza la mente
virile. Mentre queste ultime occultano il sentire da cui emergono, rendendo
invisibile «la radice» (ivi, p. 72), una parte rilevante della creazione delle
donne è «incorporata alla vita», «amalgamata con le ore»; una creazione non
eterogenea al sentire, «in cui l’oggetto creato non annienta il sentimento
perché consiste nella vita stessa» (ibidem). Quest’idea dell’atto creativo
contenuto nella vita è un elemento a mio avviso determinante della originalità
della proposta di Zambrano: la pensatrice non si riferisce infatti alle grandi
vite esemplari o avventurose, alle figure di sante o guerrigliere, ma alle vite
correnti, semplici e anonime. L’attenzione a quanto di creativo, di profondo e
di fertile è contenuto in queste vite la induce ad esplorare non solo i terreni
dove si articola una parola minore, subordinata o emarginata, ma anche le
zone del silenzio, dove la voce dei protagonisti può a mala pena essere
«intra-udita» (ivi, p. 135).
La storia del non memorabile
Cogliere il contributo che i senza-voce hanno dato e danno al
mondo comune richiede una dislocazione dello sguardo e un affinamento
dell’udito: una mutazione epistemologica che è tanto più necessaria per il
pensiero delle donne, dove essa manifesta tutta la sua valenza politica. A
questo proposito è utile riprendere alcune considerazioni di Francoise Collin
in un saggio del 1993 intitolato Histoire et mémoire ou la marque et la trace.
La grande pensatrice belga invita a prendere coscienza di quanto la
storiografia – nelle sue diverse varianti ivi compresa la storiografia
femminista – perpetuando la dicotomia tra potere e impotenza, dominazione
e soggezione, azione e passività, si mostri ancora tributaria della visione
illuminista e poi hegeliana del progresso, inteso come presa di possesso e
dominio sulla realtà. L’attenzione degli storici appare, infatti, tutta centrata sul
cambiamento e dedita ad estrarre dal fluire del tempo l’irruzione di quelle
presenze, azioni, eventi che l’hanno prodotto; quasi che il cambiamento
stesso, e servizio tim quindi la trasformazione del mondo, fosse concepibile
solo in termini epocali, eroici, o comunque “memorabili”. L’agire, l’avere
24
presa sulle cose, il prender parte agli eventi (o a quelli che vengono
riconosciuti come tali), il lasciare un segno nei tempi (una marca) appaiono
criteri discriminanti che decidono di quali presenze siano suscettibili di
entrare nella memoria collettiva, e quindi, di fatto, «di meritare la definizione
di umano» (Françoise Collin, 1993, p. 16). Scrive Collin:
Il sapere storico è effettivamente strettamente legato a quel che
lascia una marca: quel che è determinante, quello che produce effetti, quello
che trasforma il dato, quel che viene capitalizzato in segni, oggetti, istituzioni,
decreti, trattati e leggi. Anche quando si è cessato di identificare la storia con
la storia delle guerre e delle conquiste, persiste il sottinteso che non si possa
fare storia dell’invisibile, dell’impalpabile, di tutto quanto viene dissipato. La
storia è necessariamente storia di ciò che è durevole [durable], costruito in
muratura [en dur], del monumento e del monumentale. (ivi, p. 17).
Collin osserva che la storiografia femminista resta per molti versi
debitrice della stessa concezione. Sorta con la critica della storia egemonica
– laddove le donne non sono contemplate come soggetti sul piano sociale o
culturale, ma unicamente come le riproduttrici dell’identico, le «guardiane
dell’immutabile» (ivi, p. 14) – essa si è sviluppata secondo due linee
principali: da una parte l’analisi dei dispositivi di potere che nei secoli hanno
ostacolato o «minorizzato» l’agire delle donne e la loro partecipazione alla
sfera pubblica, e, dall’altra, la ricostruzione del contributo delle donne alla
storia, esistente ma costantemente obliato, poiché, come sottolinea Collin,
«l’assenza delle donne dalla storia significa la loro evizione dal potere
piuttosto che la loro mancanza di attività» (ibidem). Dalla seconda metà del
secolo scorso, si sono moltiplicati gli studi volti a riscattare le presenze, in
ogni epoca storica e pressoché in ogni sfera del sapere, di donne creatrici,
innovatrici, inventrici e dunque “memorabili”, anche se ingiustamente rimosse
dalla memoria collettiva. Questo lavoro di scavo ha portato alla luce i
contributi “rimarchevoli” delle donne: le loro marche, che restarono
sconosciute, disattese tanto nel proprio tempo come nel presente, soggette a
un «doppio e identico processo di negazione» (ivi, p. 19). Il valore di tale
risultato è inestimabile, non solo sul piano della giustizia e della correttezza
storiografica – poiché la ricostruzione storica viene integrata nella sua parte
mancante, mutilata – ma anche e soprattutto perché, sul piano politico e
simbolico, ha generato la cognizione dell’esistenza di figure femminili
eccellenti in cui le nuove generazioni possano riconoscersi (come avviene
per le «dame» che compongono la cittadella simbolica di Christine de Pizan),
favorendo così la formazione di genealogie e di una tradizione al femminile la
cui assenza, come abbiamo visto, è una componente significativa se non la
25
più fondamentale del silenzio storico delle donne. Il significato della
trasmissione tra donne ne viene completamente stravolto. Laddove sino a
ora lo si è inteso solo come un passaggio di consegna alla schiavitù e al
silenzio, alla luce dell’eredità delle donne illustri esso appare come «una
interpellanza attraverso la quale una donna chiama un’altra ad avvenire e a
intervenire [...] una libertà ne risveglia un’altra». Le donne escono così dal
silenzio e dalla subordinazione simbolica: autorizzandosi a parlare, ogni
donna «assume autorità e autorizza» (ivi, p. 13).
Tuttavia, pur riconoscendo questa fondamentale svolta della
storiografia femminista, Collin invita a considerare se, limitandoci alle parti
“rimarchevoli” dell’eredità delle nostre antepassate, non rischiamo di
approfondire la distanza tra le donne «chiamate femministe perché sono
agenti di cambio» e la gran massa delle donne senza nome, che non hanno
operato nulla di sensazionale nelle loro esistenze: le donne (come anche
degli uomini) che appaiono «destinate alla semplice ripetizione, al semplice
esercizio della vita», (ivi, p. 18) ma che possono essere e di fatto sono agenti
di trasformazione e di sperimentazione nel quotidiano, e spesso motori di un
cambiamento più profondo e sostanziale di quello operato attraverso
l’intervento nella sfera pubblica. Collin osserva che agire e potere non
s’identificano, e che le donne che acquistano una visibilità e una notorietà –
le politiche, le scrittrici e artiste, le intellettuali – non potrebbero nemmeno
apparire senza «gli innumerevoli spostamenti anonimi effettuati alle svolte più
infime della vita pubblica e privata» (ivi, p. 15). Sulla scia di queste
considerazioni, la pensatrice belga prende le distanze anche da una filosofa
che sente molto affine, Hannah Arendt, che concepiva la politica come lo
spazio in cui gli esseri umani intervengono nel mondo attraverso la parola e
l’azione, e distingueva nettamente l’azione (per il suo carattere innovatore, di
irruzione del nuovo) dal gesto compiuto nell’ambito del lavoro e della vita
domestica. Questa distinzione elude infatti la considerazione del valore
anche politico di quel tipo di gesto che non si tramuta in azione ma «si
esaurisce nella sua gloria di gesto» (Ibidem), e che non lascia una marca,
essendo dell’ordine di ciò che si dona, si dissipa, si dissemina. In questo
stesso senso, riferendosi all’insistenza del femminismo contemporaneo
sull’importanza di stabilire una genealogia femminile di grandi donne
(scrittrici, artiste, attiviste, rivoluzionarie, guerrigliere...) spesso in contrasto
con l’eredità delle madri biologiche, sentita come mortificante e oppressiva,
Collin si domanda:
dovremmo allora scartare dalla nostra eredità l’immensa massa
delle donne mute, comprese le nostre proprie madri, per trattenere solo ciò
che in esse “si è manifestato attraverso la parola e l’azione”, come se il resto
26
1non fosse che il residuo vergognoso dell’umiliazione secolare? [...] Se
pretendiamo di costruirci una genealogia siffatta, rischiamo di trascurare la
fronda dell’albero (dove cantarono gli uccelli) per ritenere solo i rami.
Rifiuteremmo il grande clamore silenzioso, se pretendessimo di far ascoltare
solo le voci (ivi, p. 20).
Ciò che lascia un segno riconoscibile e nominabile nella scrittura
della storia è solo una piccola parte del passato e, in modo particolare del
passato delle donne. Il passato anonimo e non memorabile resta un territorio
per molti aspetti ancora inesplorato. Di qui la necessità di sperimentare
approcci nuovi, altre forme d’indagine che ci permettano di seguire le tracce
delle presenze che non hanno lasciato una marca, che non hanno
sottoscritto una firma. Presenze apparentemente senza voce, perché la loro
voce non ha un timbro riconoscibile, registrato; ma che tuttavia presero parte
al “grande clamore silenzioso”. Anche in queste tracce s’inscrive l’eredità che
ci unisce alle altre donne – e agli altri esseri umani anonimi– che hanno dato
un contributo al mondo, partecipando discretamente di una comunità che –
osserva Collin sulla scia di Maurice Blanchot (2002), solo in minima parte è
analizzabile o anche solo confessabile:
Poiché una comunità umana s’intesse di quel che cambia e di quello
che permane, di ciò che si accumula e di ciò che si dissipa [...] e il tempo si
deposita e si riattiva anche nelle zone ignorate del gesto e della lingua,
nell’incommensurabile estensione di una ritualità familiare attraverso la quale
addomestichiamo allegria e dolore, vita e morte, amore e odio» .(Françoise
Collin, Histoire et mémoire ou la marque et la trace, op. cit., p. 21)
Collin suggerisce che l’arte è l’ambito per eccellenza in cui è
possibile trovare la manifestazione di tutto quanto lo sguardo dello storico
non coglie; solo l’arte, insinua, può dar forma a questa memoria che passa
attraverso le maglie della conoscenza e sfugge alla sua presa, poiché «dà
forma senza rappresentare, e delimita al designare l’illimitato» (ibidem).
Nell’arte sfumano le frontiere tra il privato e il pubblico, il singolare e il
collettivo, e questo permette che quanto non dipende dalla marca lasci
costanza della sua presenza nel tempo. In un tempo che non è alieno alla
storia, ma appare irriducibile a ciò che “fa” storia.
27
L’agire silenzioso della misericordia
Sulla scia delle riflessioni di Francoise Collin, vorrei leggere alcune
pagine di María Zambrano che illuminano l’apporto silenzioso delle donne al
mondo attraverso l’analisi di una figura letteraria: quella della serva Benina
(Nina), protagonista del romanzo Misericordia del grande scrittore spagnolo
Benito Pérez Galdós.
Galdós è una presenza imponente e controversa nel panorama
letterario spagnolo. Nato a Las Palmas nell’isola di Gran Canaria nel 1843, si
trasferì a Madrid per realizzare – senza continuità – gli studi di diritto, e vi si
stabilì per il resto della vita. Partecipò con passione agli eventi politici che
investirono la Spagna nella seconda metà dell’800, e ne narrò i processi di
cambiamento sociale e culturale attraverso le sue collaborazioni con i giornali
e nei suoi numerosi romanzi. Concepiva il romanzo come uno strumento
privilegiato per mantenere la memoria degli eventi storici e per incidere nel
presente, documentando le vite e i pensieri dei suoi contemporanei. Le sue
narrazioni mostrano la storia denudata della dimensione monumentale: la
storia della gente comune, «del popolo di Madrid», che Galdòs penetrava
attraverso un metodo di osservazione e partecipazione diretta. Si sa che
lavorava in modo metodico, che passava la mattina a scrivere e poi
trascorreva i pomeriggi per le strade, i caffè, le stazioni, i ricoveri. Questa
prossimità coltivata gli permise di descrivere i suoi personaggi nella loro
singolarità individualizzata, senza mai scadere nel costumbrismo o nel
sociologismo. Sosteneva che l’arte ha valore solo quando riesce a dare ai
personaggi «vita più umana che sociale» (Benito Pérez Galdós, Discorso
d’ingresso all’Academia de España, citato in José Luis Mora García, 2000, p.
62). E quest’attitudine speciale a penetrare nella singolarità della persona
appare particolarmente evidente e brillante nei suoi personaggi femminili, che
egli seppe dotare di personalità singolari ed individualizzate, superando i
modelli stereotipati consolidati della narrativa spagnola dell’epoca. Questo
era un aspetto particolarmente apprezzato da Zambrano, la quale scriveva:
«La donna, fatto raro nella letteratura spagnola, è individualizzata: non è il
femminile, né la femminilità, ma questa o quella donna» (María Zambrano,
5
2003, p. 147) .
La fortuna letteraria di Galdós fu discontinua e controversa.
Incondizionatamente amato dal popolo, che intervenne con una spettacolare
fiumana al suo funerale (cfr. José Luis Mora, op. cit., p. 14), fu invece
sottovalutato e persino schernito dagli intellettuali suoi contemporanei,
presso i quali circolò insistentemente l’anatema, coniato da Valle Inclán
(1975), di «garbancero» (letteralmente: commerciante di ceci e, quindi,
popolano, rozzo, volgare). Dopo la sua morte, avvenuta nel 1920, fu
disdegnato e dimenticato, considerato un “paleorealista” dagli ideologi
28
dell’avanguardia e dell’arte «disumanizzato», e trattato con sufficienza, come
un anacronismo, da quelli che, come Ortega y Gasset, aderivano
incondizionatamente al progetto della «europeizzazione» della Spagna e
della sua entrata nella modernità (cfr. José Luis Mora García, op. cit.).
Zambrano nota a questo proposito che il suo attaccamento alla realtà e alla
storia della Spagna per restituirle poeticamente trasformate, era
controcorrente rispetto a un’epoca in cui gli intellettuali erano piuttosto
distanti, rivolti ad altri orizzonti: «quando “le luci dell’Europa” attraevano i
migliori che in esse riponevano le loro ingenue speranze e mantenevano in
silenzio quelli che nel loro cuore scorgevano le ombre equivoche di tali luci»
(MARÍA ZAMBRANO, 2006, p. 82). Galdós fu invece letto e apprezzato da
molti dei giovani scrittori della cosiddetta generazione del ’27, quelli che
pagarono con la vita o l’esilio il legame profondo con il Paese, e maturarono il
sogno di rinnovarlo senza tuttavia disprezzarne la tradizione, da cui piuttosto
trassero linfa e ispirazione per le proprie opere. Furono ferventi galdosiani
Luis Cernuda, Rafael Alberti, Vicente Aleixandre, Max Aub e Federico García
Lorca che, nella sua opera teatrale La casa de Bernarda Alba offre una
rilettura dell’opera di Galdós, Doña Perfecta (cfr. Miguel García Posada,
2002). Zambrano gli dedicò diversi saggi nel corso della sua vita, che poi
riunì in un volume unico: La Spagna di Galdós.
***
In un omaggio intitolato «Un dono dell’oceano. Benito Pérez
Galdós» (in María Zambrano, 2003), Zambrano si sofferma, affascinata, sul
metodo di lavoro dello scrittore: quella osservazione attenta e serena,
partecipante e disincantata al contempo, che gli permise di cogliere la vita
che scorreva nelle strade della sua città in tutte le sue manifestazioni,
sfumature, timbri, colori. Una forma di attenzione che lo scrittore Leopoldo
Alas definiva «callada», silenziosa, assimilandola a quella dei bambini
quando sono assorti (Leopoldo Alas “Clarin”, 2010). Anche Zambrano insiste
sul silenzio quale substrato fecondo della creatività galdosiana. Annota che
egli era «un uomo silenzioso, di poche parole». E che per contro manifestava
«la necessità irresistibile di ascoltare», rivolta, più che alle parole, a «un
mormorio anteriore alla parola». Così anche la sua opera letteraria appare
segnata dal silenzio: «dal silenzio irresistibile, piuttosto amorfo, da cui
sorgono quasi spontaneamente i grandi personaggi, che non sempre sono
quelli di prima fila». (María Zambrano, 2003, p. 146).
Nei romanzi galdosiani, nota ancora Zambrano, è possibile cogliere
l’intreccio tra la Storia, che è il racconto dei grandi eventi, spesso sanguinosi,
e le storie degli esseri anonimi che vivono vite al margine del tempo storico,
che «non generano memoria» (María Zambrano, 2006, p. 83). E questa
29
storia minore che s’intreccia con la grande Storia non si riferisce solo alle
presenza socialmente e culturalmente marginali, bensì a un’intera
dimensione dell’esistenza che non ha trovato espressione nelle narrazioni
storiche. L’oggetto della narrazione di Galdós è il «mondo domestico»,
considerato «nella sua qualità di fondamento dello storico, di reale soggetto
di storia» (ibidem); è la «continuità di ciò che precede e segue il fragore
dell’epico, lo splendore dello stato» (ivi, p. 90). Zambrano insinua la
contrapposizione tra due possibili registri nella narrazione del passato: quella
che ci propongono gli storici di professione, e la narrazione che si svolge
attraverso i romanzi di uno scrittore come Galdós:
lo studioso di storia solitamente ci ha dato il “fatto storico” che, per
essere considerato tale, richiede determinate condizioni: agli occhi di chi lo
studiava doveva presentarsi decisivo e trascendente. Il romanzo galdosiano
mostra invece quel fondo di vita, quella “sostanza” che trascendono tali fatti:
tutto quanto resta occultato sotto questa trascendenza (ivi, p. 83).
La grandezza di Galdós consiste nell’aver liberato l’ambito
domestico dall’immagine di immobilismo, passività, pura immanenza: come
fosse un mondo ripiegato su se stesso e sulla riproduzione dell’identico. Lo
scrittore, osserva Zambrano, vi penetra con ansia di conoscenza e si
sofferma su di esso fino a scoprire il segreto della sua struttura intima. Così
ci restituisce qualcosa che sfugge alla storia evenemenziale: quella «corrente
di vita» che dà respiro ai fatti, che crea la coesione tra le dimensioni del
tempo, che nutre il cambiamento e la trasformazione (ivi, p. 90). Egli mostra,
in definitiva, qualcosa d’inedito: «la trascendenza del quotidiano e
dell’anonimo nel fluire del tempo non legato a un avvenimento storico» (ivi, p.
83).
***
La protagonista del romanzo Misericordia, («una protagonista che
non sembra nemmeno tale»), è «un quasi nessuno» (ivi, p. 5), una serva di
quelle che servono «con innumerevoli mestieri senza nome». Il suo nome è
Benina, detta Nina, e di lei non conosciamo pressoché nulla, se non
l’incrollabile fedeltà nei confronti della sua padrona, donna Francisca Juárez
de Zapata, detta donna Paca. Quest’ultima è l’erede decaduta di una famiglia
agiata, rovinata dalle proprie manie di grandezza e ormai ridotta nella più
completa miseria, ma che vive nel rimpianto delle glorie passate. Spinta da
un profondo sentimento di carità e insieme dall’«affetto ardente che portava
alla triste signora, come per compensarla a suo modo da tante sventure e
amarezze» (Benito Pérez Galdós, 2006, p. 52), Nina si arrabatta con
espedienti sempre più estremi per assicurarle cibo e cure, sino a ridursi a
30
mendicare. Tuttavia nasconde a Donna Paca la provenienza degli scarsi
denari che riesce a portare a casa, considerando che la vergogna le sarebbe
fatale.
Il mondo domestico che il romanzo ci rivela attraverso il personaggio
di Nina è tutt’altro che la manifestazione di una continuità amorfa e compatta,
di una vita che scorre sempre uguale a se stessa. È un mondo complesso,
fatto di mestieri che richiedono «agilità, vivacità, perseveranza» e insieme
«furbizia, sforzi sfrenati della mente e dei muscoli», «vigilanza costante»
«sollecitudine», «squisitezza nelle cure» (ivi, p. 40). Nina corre «come una
freccia», e a volte la sua rapidità appare miracolosa, «come se gli angeli
l’avessero portata e riportata in volo»; il suo «affannoso andirivieni dietro al
miracolo quotidiano» (ivi, p. 50) si conclude nel miracolo che ella stessa
opera ad ogni pasto, moltiplicando pani e pesci:
Poiché aveva conoscenze nei mercati [...] non le riusciva difficile
acquistare commestibili a prezzi infimi e gratuitamente ossi per il brodo, pezzi
di cavoli neri e bianchi avariati e altre cosette [...] con pochissimo denaro, e
senza alcuno talvolta, prendendo a credito, acquistava uova piccole, rotte o
vecchie, pugni di ceci o lenticchie, zucchero scuro da fondi di magazzino
[...]con sforzi sovraumani, impiegando l’attività corporea, l’attenzione intensa
e l’intelligente birichineria, Benita le dava da mangiare il meglio possibile,
talvolta molto bene, con delicate raffinatezze (ivi, p. 52)
Donna Paca, i membri della famiglia, i numerosi bisognosi che Nina
incontra sul suo cammino, vivono tutti «appoggiati sulla sua fragile schiena,
sostenuti dall’instancabile attività dei suoi piedi leggeri» ma anche, e
soprattutto «consolati dall’imperturbabile allegria del suo animo» (MARÍA
ZAMBRANO, 2006, p. 99). E per assolvere le incombenze sempre nuove che
le presenta la sua disposizione alla pietà al di sopra di ogni calcolo, ella si
barcamena tra le proprie menzogne, affrontando ogni giorno una situazione
sempre più intricata. Le menzogne sono la sua strategia per mantenere in
vita la sua signora; e il silenzio è la trama su cui s’intesse l’ordito delle sue
storie.
Questo silenzio di Nina è altro dall’attitudine passiva di chi subisce
soltanto; quella stessa che è stata attribuita alle donne, senza considerare
che spesso il tacere delle donne è un modo per mantenere in vita la vita. Il
silenzio di Nina non è pura deprivazione, mancanza di parola. È un silenzio
6
attivo, articolato, strategico: una forma dell’agire . Allo stesso modo, le
menzogne pietose con cui ella vela il proprio silenzio essenziale sono una
forma sottile di accudimento, alimento spirituale, con cui ella trasmette un
ingrediente altrettanto vitale del pane: la speranza.
31
Invece se io fossi la signora [...] avrei fiducia in Dio e sarei
contenta... Io continuo a credere che, quando meno ci penseremo, ci verrà il
colpo di fortuna e avremo tanta ricchezza e ricorderemo questi giorni di
ristrettezze mentre ci prendiamo la rivincita con la bella vita che faremo
(Benito Pérez Galdos, 2006, p. 36).
***
Il romanzo mostra l’intreccio e il conflitto tra due storie. Donna Paca
conserva gelosamente la memoria di un passato glorioso, e nel suo
attaccamento la storia si rivela nel suo aspetto fantasmagorico, come fosse
uno scenario in cui si rappresenta un ballo di maschere. Zambrano insiste in
molte opere su questo carattere teatrale della storia umana, in cui gli attori
agiscono «come posseduti dal proprio ruolo» e appaiono vittime di un
personaggio precostituito che si alimenta a spese della loro persona, e che
essi non si risolvono ad abbandonare, a volte anche a costo della vita (cfr.
María Zambrano, 2000). Sull’altro fronte, c’è la storia di chi, come Nina, ai
margini della grande Storia, difende piuttosto le ragioni della vita, del suo
trascorrere e del suo generare e germogliare. Il confronto tra le due visioni si
propone, già nelle prime pagine del romanzo, in un dialogo tra Nina e la sua
padrona. Laddove quest’ultima proclama il desiderio di morire, piuttosto che
affrontare la vergogna della rovina, Nina protesta, enunciando quello che
María Zambrano chiama il suo «vangelo»:
E chi pensa alla morte? Eh no! Io mi trovo molto a mio agio in
questo pazzo mondo, e ho persino un certo affetto per le piccole pene che
sopporto. Morire no. [...] Venga pure tutto piuttosto che la morte, e soffriamo
pure, a patto che non ci manchi un pezzo di pane, e possiamo mangiarcelo
con due buonissime salse: la fame e la speranza. (Benito Pérez Galdós,
2006, p. 37)
Donna Paca insiste sul proprio registro: «e tu sopporti la vergogna,
tutta questa umiliazione, debiti con tutti, non pagare nessuno, vivere da bari,
con mille imbrogli e bugie» (Benito Pérez Galdós, 2006, p. 37). Nina
conferma. Ma il registro della sua risposta non è in sintonia con l’accusa. La
signora le getta in faccia una verità che consiste in una maschera: fa appello
a quell’immagine sociale rispetto a cui hanno peso e rilievo argomenti come
la perdita di dignità e l’umiliazione. Ma per Nina dignità e l’umiliazione non
sono argomenti: «alto e basso per lei non esistevano. Non la tenevano in
32
mezzo a loro» (María Zambrano, 2006, p. 61). Così ribatte alle accuse
spostando il discorso su un altro piano:
Io non so se ho [vergogna]. Ma ho una bocca e uno stomaco
normali, e so anche che Dio mi ha fatto venire al mondo per vivere, e non per
lasciarmi morire di fame. I passeri, mettiamo, hanno vergogna? Macché, quel
che hanno è un becco...E guardando le cose come sono, io dico che Dio non
ha creato solo la terra e il mare, ma che sono altrettanto opera sua i negozi di
coloniali, la Banca di Spagna, le case in cui viviamo e, poniamo, le bancarelle
della verdura. (Benito Pérez Galdós, 2006, p. 37).
Zambrano mette in risalto la differenza tra la falsità delle maschere
sociali di cui è vittima donna Paca e le menzogne pietose e benefiche di
Nina. Per il loro vincolo con la vita, quelle di Nina non sembrano menzogne
inventate, ma che piuttosto siano nate; proprio come le creature della vita, la
quale si tende tra la necessità e la speranza. Nina sa che la verità nuda e
cruda, nella sua brutalità, serrerebbe l’orizzonte dell’esistenza della sua
padrona schiacciandola sul terreno della necessità, e la farebbe precipitare
nell’opacità di un tempo senza speranza: «un tempo compatto che chiude
una realtà compatta, senza pori, come una roccia consumata attraverso cui
non scorre una sola goccia d’acqua». La verità pura può essere sterile: una
dimensione dove nulla può nascere, poiché la sua purezza diamantina
«rifiuta la soffice, impura terra dove la vita germoglia». A fronte di questa
verità che è «morte che non uccide», l’azione misericordiosa di Nina consiste
nel mantenere in vita donna Paca a forza di menzogne, «alimentandola con
una chimera». Ella rivela così un dominio sottile del tempo nella sua
relazione con la vita: intrattenendo la signora con le sue storie, sempre più
rocambolesche, infarcite di dettagli succosi e descrizioni pittoresche, ella non
si limita a distrarla e farle passare il tempo, ma la fa sognare e, in questo
modo, le apre l’orizzonte, «una modesta chimera del futuro» (María
Zambrano, 2006, p. 53). Nel tempo compatto e monotono della necessità
senza speranza, Nina produce così una battuta d’arresto: una pausa che
Zambrano assimila a «un movimento musicale» (ibidem), e che consente lo
7
sviluppo della melodia.
***
Galdós concepiva la religione al margine di ogni ortodossia – lo
dimostra, nel romanzo, la relazione di Nina con l’arabo Almudena – come
patrimonio inestimabile della vita dei popoli, elemento di coesione sociale e di
sviluppo morale. Negli ultimi anni della sua vita – quelli cui risale la
33
composizione di Misericordia –si era avvicinato allo spiritualismo di Lev
Tolstoi, il cui eco è chiaramente percepibile nelle pagine del romanzo. I
riferimenti evangelici sono numerosi nella narrazione delle vicende e delle
imprese della protagonista. Tuttavia la descrizione del personaggio non
corrisponde alle vite esemplari dei santi. Nina lo dichiara esplicitamente e lo
ripete in vari episodi del romanzo: «Io non sono santa». E nel corso del
romanzo scopriamo in lei aspetti caratteriali discutibili, dal punto di vista della
morale: gli scatti d’ira; l’abilità nel trattenersi il denaro («faceva la cresta più
intrepidamente che qualsiasi altra a Madrid» (40); la stessa agile
disposizione alla menzogna, che fa pensare a un esercizio praticato con un
certo diletto. E tuttavia ognuno di questi tratti è ambivalente, al punto che,
come fa osservare l’autore, «è difficile dire dove confluissero, confondendosi,
virtù e vizio» (Benito Pérez Galdós, 2006, p. 43). La stessa disonestà
nell’uso del denaro – «l’abitudine di sottrarre una parte grande o piccola di
quel che le veniva dato per la spesa, il piacere di metterla via, di vedere
come crescesse lentamente il suo fondo di monete» – oltre a essere, per
Nina, «una necessità del temperamento e un piacere dell’anima», si
confonde con la virtù della prudenza e del risparmio, tanto che ella fa la
cresta anche sui suoi stessi averi, quando li svincola dal Monte di Pietà per
tappare i debiti di donna Paca. Il suo è un agire che non segue il precetto
rigido della morale, ma la guida sapiente del cuore, come indica il titolo
dell’opera, Misericordia. E la misericordia è al di là del bene e del male,
perché è dell’ordine della relazione, ed è sapienza e conoscenza della
particolarità di ogni essere vivente, nella sua miseria e nelle sua gloria, nel
suo specialissimo dolore e nella sua potenzialità di resurrezione.
***
Finalmente, scoperta nelle sue trame, Nina si risolve a parlare.
Confessa quella che, agli occhi del mondo, è la sua abiezione. La mendicità,
la prigione, la vergogna, l’amicizia con un moro. È interessante notare, con
Zambrano, che la difesa di Nina si produce solo davanti all’interpellanza della
sua signora: anche se lo sguardo di donna Paca e la sua condanna poggiano
sugli stessi argomenti del «mondo», è solo di fronte a lei, e non di fronte al
mondo, che Nina sente di dover rispondere. «Ma la signora le ha parlato
come avrebbe fatto tutto il mondo: Nina al mondo intero, o in parte, non
risponde, ma alla sua signora sì, proprio perché è la sua signora, nonostante
parli come farebbe tutto il mondo» (María Zambrano, 2006, p. 46). Quel che
conta è la relazione, non il giudizio della società; solo la relazione interpella.
Tuttavia, su una cosa essenziale, proprio sull’unica cosa che la
riscatterebbe, Nina mantiene il silenzio. Tace cioè sulla ragione del proprio
agire: sul fatto che tutto quanto la signora le rinfaccia, lei lo ha sopportato e
34
continuerebbe a sopportarlo per amore suo. Nina, in altre parole, non si
giustifica. Non pronuncia «la parola legittimante, giustificatrice» che la
trarrebbe in salvo, perché il suo riscatto avverrebbe, in questo caso, a costo
della condanna dell’altra, di colei che invece ella vuole a tutti i costi
proteggere. La rivelazione della ragione ultima del suo sacrificio ne
annullerebbe l’effetto: il sacrificio dichiarato si converte automaticamente in
reclamo, genera, anche non volendo, rimordimento. Inacidisce il cibo elargito,
indurisce il cuore alleviato, impantana la comunicazione. Così commenta
Zambrano:
Le argomentazioni giustificatrici mettono in salvo un individuo, un
popolo. Ma... e gli altri? No; lei non poteva. La parola non si concedeva a lei
per questo scopo. La verità di cui lei viveva non lasciava uscire queste verità.
Poiché la verità che fa vivere trattiene quello a cui dà alimento [...] Così si
mostra digiuno di verità quando sarebbe il momento di fare una bella figura.
Allora si tace la verità e si resta in silenzio. (ivi, p. 60)
La ragione profonda del silenzio di Nina è che la giustificazione non
appartiene al suo modo di stare nel mondo. Non le appartiene la possibilità di
esibire il proprio essere, che è quanto si richiede di fare a chi è sotto accusa,
in un momento estremo e critico della vita. Esporsi, con le proprie ragioni:
questo «è facile quando l’essere si è rovesciato in un personaggio, in un
progetto o anche in una finalità cosciente» (ibidem). È possibile quando l’io
resta in primo piano. Ma per coloro che «non dipendono da un’idea da cui
nasce la propria stima» (ivi, p. 62), quelli che vivono spossessati dell’io, nella
nudità del proprio essere con e per gli altri, esibirsi diventa qualcosa di
impudico e persino di pericoloso. Essi sentono, nell’intimo, che «dicendo e
dichiarando il proprio essere, può darsi che questo svanisca, si offuschi o si
perda in un istante» (ivi, p. 60).
I due poli del silenzio e la parola del dialogo
L’essere di figure come Nina sfugge dunque alle definizioni e alle
ragioni dei più. È tanto semplice quanto impossibile da dichiarare, «come lo è
quasi sempre tutto ciò che è semplice» (ivi, p. 61). Per questo solo l’opera
d’arte può appressarne la figura sfuggente e restituire il senso del loro
silenzio.
Tuttavia, quando dalla prospettiva della riflessione politica ci
approssimiamo a queste figure tanto semplici quanto ineffabili per cercare di
definirne il valore per il nostro presente, dobbiamo evitare l’ingenuità di
35
pensarle come le detentrici della purezza originaria di un femminile senza
macchia, dove si esprimerebbe un silenzio privo d’immagini e di significato,
libero dalla maledizione della storia. L’attenzione al silenzio avviene sempre
nell’orizzonte del linguaggio, e il contributo creativo delle presenze silenziose
nel nostro passato non può essere colta che a partire della formulazione
delle domande del presente. È la stessa Zambrano ad avvertirci di questo,
interrogandoci, in un testo intitolato «La risposta della filosofia»:
Può darsi una “notte oscura” senza una illuminazione previa, di
quelle che convertono la chiarezza abituale in oscurità? Parimenti non può
prodursi un distacco senza qualcosa che venga teso alla mano vuota, né un
vuotarsi della mente senza l’indicazione di qualche parola, né un silenzio
totale, perché si fa silenzio per attendere a un rumore, fosse anche solo un
sussurro. Un silenzio che non si sia creato così è mutismo, caduta
nell’ombra. (María Zambrano, 1997)
Qual’è dunque la relazione tra il silenzio che ci è stato imposto in
quanto donne, quello che subiamo e che ci annulla, e il silenzio che
esploriamo alla ricerca di una comunicazione più profonda con quanto sfugge
alla colonizzazione del linguaggio con la sua grammatica, le sue gerarchie, i
suoi binarismi e i suoi canoni? Zambrano forse risponderebbe richiamandoci
alla polarità del silenzio.
In un suo scritto, la filosofa distingue due poli del silenzio,
identificabili in due situazioni estreme. C’è un silenzio positivo, che si genera
quando si produce un sapere immediato, che «non induce, non ragiona, non
immagina né propriamente prevede». Un sapere raro, che si offre «in una
sorta di innocenza» e di immedesimazione, rasentando il sapere assoluto. Il
silenzio deriva, in questo caso, dal fatto che non c’è bisogno di parole, poiché
la comunicazione si offre nella pura presenza. Si tratta di una situazione
estrema, di uno stato privilegiato ed effimero, anche se, nel suo prodursi,
rivela qualcosa dell’essere umano e del suo compimento. Esiste poi il
silenzio negativo che stabilisce una distanza spazio-temporale tra chi
osserva e il soggetto osservato che si tramuta in oggetto; una distanza che
determina l’inaccessibilità, rendendo impossibile, per colui o colei che la
subisce, formulare anche solo una parola. La sua vita si vede allora
condannata a vagare senza ricettacolo, come «una morte transeunte» (María
Zambrano, 2003, p. 36). Quel che genera questo silenzio negativo è la
disgiunzione del sapere e del potere dall’amore, come dice Zambrano, o
potremmo anche dire, con Weil, dall’attenzione. Il sapere disgiunto
dall’amore verso il suo oggetto «si precipita in parole», in una «moltitudine di
parole senza possibile eco né risposta» (ivi, p. 37). Parole che sostituiscono il
36
silenzio, lo colonizzano. Da parte sua, il potere assoluto è «il braccio armato»
del silenzio negativo. Esso rompe il silenzio con la pretesa di una parola che
vuole essere unica, e che annienta tutte le altre, così come annienta lo
stesso silenzio, perché lo occupa.
Tra i due poli del silenzio assoluto, quello della presenza totale e
quello della totale inaccessibilità dell’altro, si tende la parola. La parola che
cerca il dialogo, che attende la risposta. La parola che non colonizza il
silenzio, piuttosto lo ascolta e s’intreccia con esso. Poiché «la parola del
dialogo può restare a lungo senza altra risposta che il silenzio» (ibidem). E
dall’ascolto del silenzio, la parola guadagna profondità e orizzonte.
1
Le virgolette indicano che, con questo termine, non mi riferisco ad alcuna
caratteristica essenziale quanto alla posizione delle donne nell’ordine del discorso. Cfr.
Laurenzi 2015.
2
Vorrei menzionare, a questo proposito, il progetto di ricerca «Redes filosóficas
femeninas» realizzato dal Seminario Filosofia i Gènere dell’Università di Barcellona e
diretto da Rosa Rius tra il 2010 e il 2012, volto ad indagare le connessioni dirette e
indirette tra le pensatrici della prima metà del secolo. L’ipotesi di base della ricerca era
che si potessero analizzare queste reti nei termini di una «tradizione occulta», come la
concepisce Hannah Arendt nei suoi scritti sugli ebrei nella Germania degli inizi del XX.
3
Di questa scelta del neutro parla Françoise Collin nel suo contributo alla Storia delle
donne curata da G. Duby e M. Perrot, al constatare che «prima del femminismo le
poche donne filosofo non hanno affrontato il problema dei sessi, né Jeanne Hersch, né
Suzanne Langer o Gisèle Brelet, Jeanne Delhomme, Simone Weil o Edith Stein e
neppure Hannah Arendt» (Françoise Collin, 1997, p. 306).
4
Delirio viene dal latino delirare, propriamente «uscire dal solco (lira)». Esprime una
parola fuori dal solco della logica corrente.
5
Come sostiene Annarosa Buttarelli nella sua Introduzione al volume di María
Zambrano, La spagna di Galdós, questa attenzione individualizzata alle donne è uno
dei dati più significativi della modernità di Galdós, dal momento che ancora oggi, nel
dibattito politico o culturale, appare arduo il passaggio «dalla concezione delle donne
come massa sociale indifferenziata – o della donna come contenitore di “essenziali”
caratteri di genere – alla presa di coscienza che esistono veramente solo “questa o
quella donna”». Buttarelli, XVII).
6
«C’è silenzio e silenzio», osserva Giovanni Gasparini (2012). E ricordando la doppia
accezione del verbo tacere, richiama il latino che distingue tra tacere e silere, laddove
tacere assume la connotazione negativa della «astensione, dell’assenza e della
37
privazione», mentre silere rimanda a un «fare silenzio
che può essere
significativamente orientato a certi obiettivi e valori» (Ivi, p. 8).
7
Il movimento musicale qui accennato da Zambrano può essere accomunato al «punto
coronato» citato da Marisa Forcina, a proposito della differenza sessuale come «punto
fermo» della politica delle donne: «Questo punto fermo [...] non raffigura né è
finalizzato a una stasi, ma ha la stesa funzione che nella scrittura musicale ha il punto
coronato, che è un segno utilizzato per aumentare il valore di una nota o di una pausa
a piacimento» (Marisa Forcina, 2015, p. 9)
Riferimenti Bibliografici
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Penguin, Harmondsworth 1977.
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pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987.
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Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes», 2010,
http://www.cervantesvirtual.com/obra/benito-perez-galdos-estudio-criticobiografico--0/
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(La comunità inconfessabile, traduzione di D. Gorret, SE, Milano 2002).
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FRANÇOISE COLLIN, Histoire et mémoire ou la marque et la trace,
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FRANÇOISE COLLIN, La disputa della differenza. La differenza tra i sessi e il problema
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novecento (a cura di Françoise Thébaud), Laterza, Bari 1997, pp. 306–343.
FRANCOISE COLLIN, Je partirais d’un mot. Le champ symbolique, Fus art, Villenave
d'Ornon 1999.
JAQUES DERIDDA, Politiques de l’amitié, Galilée, Paris, 1994. (Politiche dell'amicizia,
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39
DAVID ANTIN LECTEUR DE JOHN CAGE :
IMPROVISATION ORALE, SILENCE ET RECIT
Pierre Taminiaux
Abstract
This essay deals with the work of the American poet David Antin, in particular his talk
poem inspired by John Cage’s music. I study the role of silence in Antin’s oral narrative
and its improvised character. Silence reflects the intense relationship betwen John
Cage and nature, as well as his extatic and spiritual experience in the perspective of
zen buddhism. Silence, here, stresses the human need for hearing oneself as well as
the other. The syncopated and non-linear discourse of Antin creates the common
narrative space of contemplation, outside of usual social time.
Comment parler de soi sans trop donner l’impression de parler de
soi ? Cette question n’est pas simple, surtout si l’on veut éviter un
subjectivisme exacerbé qui risque de déboucher sur un exercice narcissique.
Le cas des talk poems de David Antin, un performer californien très actif et
1
fécond, traduit en français et aujourd’hui octogénaire , me permet d’aborder
la question du récit autobiographique sous la forme originale et finalement
méconnue de la performance orale improvisée.
Si l’on traduit fidèlement ce terme, on pourrait croire qu’il s’agit ici de
simples figures poétiques déclamées, ce qui rentrerait somme toute dans
une catégorie déjà bien établie et explorée autant par les avant-gardes,
2
depuis Dada , que par le classicisme. A cet égard, le ‘talk’ de talk poem ne
renvoie pas seulement à l’idée d’une conférence au sens académique du
terme, mais aussi et surtout selon moi à la notion de ‘small talk’, qui signifie
en anglais parlottes ou bavardage, c’est-à-dire à une forme de discours
apparemment insignifiant et répétitif. Dans cette optique, la performance
narrative donne à entendre ici ce que j’appelle un micro-récit.
Certes, David Antin donne-t-il parfois l’impression de s’égarer dans
son discours indéterminé. Ses performances impliquent toujours l’idée d’une
dérive continue à travers le langage, soit d’une forme qui semble ne
privilégier aucune direction précise. La référence au poétique découle ici du
sentiment et de la perception d’une langue itinérante qui voyage
constamment dans les méandres des mots. Son objet n’apparaît pas
40
clairement, dans la mesure où il ne correspond ni à un but ni à une
destination particuliers.
L’auteur se revendique souvent de l’héritage grec de Socrate, plutôt
que de la poésie homérique ou du modèle oral moderne, éminemment
américain, de la Beat Generation. La tradition socratique, c’est celle d’une
langue destinée à être perdue, non-inscrite et sans trace, une langue parlée
qui dialogue avec l’autre et le monde bien qu’elle semble fuir en plein cœur
de l’agora. En d’autres termes, la langue ne se garde pas même si elle finit
par être publiée : David Antin a ainsi publié une quarantaine de ses talk
poems rassemblés dans différents volumes.
Le titre du talk poem que je vais considérer est en français John
3
Cage sans cage (John Cage uncaged is still cagey). Il fut présenté
publiquement lors d’une manifestation d’hommage au compositeur américain
qui se déroula en 1989 au Strathmore Center, dans l’état du Maryland. Le
titre original exprime une exigence de liberté, (uncaged) mais aussi de secret
et de silence, de non-dit (cagey). Que pourrait bien alors signifier ce ‘nondit’ ? Il renvoie essentiellement selon moi à la perception d’un vide qui est
constitutif de la démarche musicale et philosophique de Cage.
Pour saisir celle-ci, en effet, il faut nécessairement faire le vide en
soi et autour de soi, c’est-à-dire se débarrasser de tous les préjugés et
habitudes qui déterminent le rapport à notre environnement sonore. Le
manque issu du silence, cependant, mène à une forme de plénitude quasiextatique : il saisit l’identité la plus pure de cet environnement selon un
processus très proche de celui qui permet au contemplatif d’atteindre le
nirvana dans la tradition bouddhiste.
S’il y a de la performance narrative, alors, c’est qu’il y a d’abord du
vide, ou plus spécifiquement la reconnaissance et l’acceptation de ce vide
dans le silence. Mais nous savons bien que dans la littérature moderniste,
l’interruption et la pause au cœur du langage permettent souvent de
renforcer celui-ci et de lui procurer une force insoupçonnée (le théâtre de
4
Beckett constitue ainsi un brillant exemple de ce phénomène contradictoire) .
Un tel vide renvoie également chez Cage à un espace narratif
commun, puisqu’il appelle la nécessité et même l’urgence de l’écoute qui
n’est pas seulement l’écoute d’un environnement sonore quelconque, mais
l’écoute de soi et de l’autre. Le silence, ainsi, ouvre sur une histoire partagée
qu’il s’agit de méditer et de saisir dans la performance narrative comme dans
la composition musicale.
Le mot même de performance renvoie au travail de la
représentation, d’une part, dans le cas du théâtre ou de la danse, et de
l’exécution, d’autre part, dans le cas de la musique. De toute façon, la
performance, au sens anglo-saxon du terme, exprime la réalisation et la
41
concrétisation d’une forme artistique particulière. J’avoue d’ailleurs avoir
souvent été troublé par l’utilisation récurrente de ce mot dans l’art
contemporain : dans la langue française, en effet, la performance exprime
prioritairement l’idée d’un effort exceptionnel de nature quasi-sportive, une
forme d’exploit physique qui me semble mal adaptée à une philosophie
esthétique critique. Elle souligne une tension du corps et de l’esprit en
direction d’un but à atteindre résolument et traduit donc une conception
encore productiviste et activiste de l’art et de l’existence par extension.
La démarche cagienne renversa par contraste un certain ordre
occidental de l’art même moderniste dans son obstination à privilégier le nonfaire et la non-intervention dans l’œuvre d’art. Avec Cage, le compositeur,
comme avant lui Duchamp dans le domaine des arts plastiques, n’était plus
au sens strict un producteur ou un créateur d’objets musicaux. Il ne s’agissait
même plus de façonner des objets différents ou singuliers comme dans
d’autres avant-gardes telles dada et le surréalisme, mais de ne plus produire
tout court ou en tout cas de mettre en question de manière radicale le travail
de l’artiste orienté dans le sens d’un produit fini, ce que même ces avant5
gardes n’avaient pu ou su renverser malgré leurs ambitions transgressives .
L’artiste, soudainement, pouvait très bien être quelqu’un qui ne
faisait rien, non pas par paresse ni par simple desoeuvrement, et donc par
faiblesse, mais bien par fidélité à une perspective méditative sur l’art et la vie.
Regarder fixement un mur blanc pendant de longues minutes, en ce sens,
pouvait parfaitement constituer la preuve d’une expérience artistique
(j’emploie à dessein le mot d’expérience par opposition à celui d’activité).
Cette perspective conceptuelle participait également d’une
dédramatisation profonde et de l’existence et de l’œuvre d’art. La
performance, en effet, renvoie le plus souvent à la possibilité d’une mise en
scène ou d’une incarnation dramatique d’un texte ou d’une partition musicale.
John Cage est sans doute le musicien qui aura le plus contesté cette identité
dramatique de la musique que même le dodécaphonisme sériel, avant lui,
n’avait pu surmonter.
Une telle identité hanta de toute évidence la musique romantique et
postromantique, mais elle ne fut pas absente non plus de la musique
baroque (en particulier la musique d’orgue) ni de la musique médiévale
d’essence religieuse. Elle se poursuivra d’ailleurs dans de nombreuses
musiques dites populaires, du Fado au tango. J’entends ainsi également par
dramatisation une prédominance de l’expression lyrique dans la musique.
La question principale associée à ce processus de
dédramatisation devient alors celle de l’évènement, de sa présence possible
et de son sens pour l’artiste, que celui-ci soit un performer, comme David
Antin, ou un compositeur, comme John Cage. Le travail de David Antin, dans
42
sa déambulation autour de Cage, noie en quelque sorte l’évènement dans le
discours poétique et narratif. Le récit autobiographique, en quelque sorte,
devient le récit de non-événements ou plutôt d’évènements tellement aplatis
ou réduits qu’ils en viennent à perdre toute valeur dramatique.
Il évoque ainsi la reconstruction de sa maison dans le sud de la
Californie, sans qu’on puisse comprendre le rapport de cette anecdote à la
musique de Cage. On apprend simplement que pour les habitants de cette
région, la présence d’un palmier devant la maison est une exigence
constante, une présence naturelle indispensable.
Le performer, comme le compositeur, est alors celui qui
montre du doigt des trous dans le langage ou dans le monde sonore et
prétend qu’il ne faut pas les boucher. Le discours narratif n’existe ainsi que
dans des interstices, des fissures, comme la musique destinée à l’expression
du silence.
La performance associée à ce type de discours doit être
ainsi caractérisée par son caractère volatile et éphémère, même si elle peut
6
déboucher sur un texte écrit .
La première partie de cette performance narrative est celle
qui se concentre le plus sur les écrits et le projet artistique de John Cage.
7
David Antin cite ainsi les entretiens de Cage avec Daniel Charles :
Il y a une réflexion qui surgit dans l’un des entretiens avec Daniel
Charles le troisième entretien je crois et daniel est manifestement de plus en
plus exaspéré par john et john commence à être exaspéré par daniel
probablement parce qu’ils vivaient alors une vie de conversation sans fin et
que plus le temps passait plus cela devenait difficile et au cours de cette
entrevue daniel pose cette curieuse question « est-ce que le silence au sens
où vous l’entendez représente le mode de vie auquel vous aspirez » ce à
quoi john réplique « c’est la vie poétique » et daniel rétorque alors avec une
certaine exaspération « pourquoi insistez-vous sur le mot poésie » et john
répond calmement « il y a de la poésie dès que nous nous rendons compte
8
que nous ne possédons rien ».
Cette poésie du rien s’applique aussi à l’espace narratif défini et
circonscrit par David Antin. Il ne s’agit pas de ne rien raconter, alors, car on
raconte toujours quelque chose, car il y a toujours de l’évènement (« le
monde est ce qui arrive » disait ainsi Wittgenstein dans une formule reprise
par le performer), mais bien de raconter la présence du rien au cœur du
langage et de la musique. Le texte écrit de ce talk poem ne possède aucune
ponctuation : les signes habituels tels que les points et les virgules sont ici
remplacés par de simples blancs.
Il faudrait sans doute remonter à l’œuvre de Mallarmé, le premier
grand poète moderniste du blanc et de ‘l’entre’, selon l’expression de
43
9
Derrida . Mais la différence entre ces deux formes réside dans le fait que
David Antin ne privilégie en aucune manière la forme proprement poétique
dans son travail qui oscille entre la réflexion critique et le récit inachevé. Elles
partagent cependant le sens de l’indétermination, cette attirance et même
cette fascination pour le pouvoir esthétique du hasard. J’évoquerai à cet
égard le terme de ‘performance narrative aléatoire’ qui résonne comme une
proposition cagienne.
Pour Cage comme pour Mallarmé, l’idée précédait toujours la forme
et son inscription dans la réalité. Dans la performance narrative de David
Antin, cette forme demeure en quelque sorte volontairement inaboutie, à michemin entre l’hypothèse critique et le constat existentiel de nature
autobiographique. Le texte de Silence qui inspire le performer est basé sur
trois conférences que Cage donna à Darmstadt et qui réfléchirent sur la
notion-même de structure dans la composition musicale.
Il est clair que Cage privilégia souvent une structure ouverte,
imprévisible et que dans ce parti-pris, il s’opposa à d’autres compositeurs
bien connus de musique contemporaine, de Boulez à Stockhausen (celui des
Klavierstücke, en particulier, des pièces pour piano encore ancrées dans une
tradition dodécaphonique). Ces conférences établissent en outre des points
de comparaison entre certains morceaux de Cage et de Morton Feldman,
d’une part, et entre Bach et Stockhausen, d’autre part, à partir de L’Art de la
fugue et des Klavierstücke déjà cités.
Le performer ne considère pas ces conférences comme un texte
parfait, loin de là. Il avoue en particulier ne pas beaucoup apprécier la
prédilection de Cage pour de telles comparaisons. Mais peu importe : ce qui
compte pour lui, c’est de parvenir à une lecture qui mette en avant une
certaine vertu poétique du texte de Cage. Il conclut cette partie en affirmant
que le texte fonctionne comme une machine d’art. Il définit celle-ci de la
façon suivante : « une machine d’art est un système dont les parties
lorsqu’elles sont mises en marche agissent les unes sur les autres de telle
10
manière qu’elles vous font voir les choses différemment » .
Très vite alors, le récit quelque peu chaotique de David Antin
bascule dans la réalité quotidienne la plus banale, celle des nombreux
centres commerciaux et autoroutes de la région de San Diego. Il offre alors
comme exemple de machine d’art un juke-box qui se trouve au deuxième
étage du célèbre magasin Saks Fifth Avenue. Le terme de structure, pour le
performer, débouche inévitablement sur l’image d’une architecture et d’un
bâtiment, soit d’un objet qui est selon ses propres termes ‘tangible et solide’.
Le discours de David Antin glisse littéralement sur le projet musical
de John Cage pour s’accrocher à un autre projet beaucoup plus terre-à-terre,
celui de la reconstruction de sa propre maison afin de la rendre plus vivable.
44
Il décrit ainsi les différentes pièces qui composent la maison qu’il occupe
avec son épouse. Il souligne en particulier les effets bénéfiques de la lumière
sur le rapport intime et psychologique qu’il entretient avec l’espace
domestique :
L’apparition du soleil le matin a toujours sur moi un effet formidable
nous n’avons pas de stores et le soleil entre et nous réveille le matin et la
porte que nous ouvrons pour faire entrer l’air est vitrée et elle diffuse la
lumière du soleil dès son lever elle diffuse les premiers rayons de soleil très
tôt les jours où le ciel n’est pas couvert et quand cela se produit je me réveille
et cela ne me dérange pas je suis enchanté que le soleil me réveille d’un
autre côté quand la lumière commence à baisser je me sens déprimé et si je
me trouve dans une pièce d’où l’on voit le coucher de soleil je n’y trouve
11
aucun plaisir.
On peut évoquer à cet égard « le degré zéro du récit », pour
12
reprendre et quelque peu transformer une célèbre formule de Barthes .
Parler de soi, raconter sa propre vie, en ce sens, c’est mettre l’accent sur la
banalité-même de son environnement. David Antin parle ainsi de la fadeur
qui semble être la tonalité principale de l’Amérique contemporaine, une
fadeur qui ouvre cependant sur le sentiment troublant d’une fragilité extrême
13
engendrée par la menace de désastres et de catastrophes de toute sorte.
Apres tout, la Californie est aussi une terre de tremblements de terre et de
secousses telluriques répétées.
Le récit continue de glisser et de dévier de son chemin initial. Le
performer commence ainsi à parler de sa mère juive qui vécut ses vieux jours
dans un modeste appartement de Brooklyn avec une grande austérité. Il
raconte ses nombreux efforts pour améliorer les conditions de vie de sa
mère, âgée de 86 ans, qu’il finit par faire venir à San Diego afin d’être plus
proche d’elle. Il insiste en particulier sur son rapport compliqué à l’argent, elle
qui croit constamment que la banque où elle possède un compte d’épargne
tente d’escroquer ses intérêts. Il la loge d’abord dans un petit appartement
ensoleillé avant de l’installer dans une sorte de maison de retraite pour sa fin
de vie.
Le discours narratif, en ce sens, constitue un chemin en zigzag. Il
n’avance jamais en ligne droite mais passe d’un sujet à l’autre selon les
exigences existentielles du moment. Peut-être devrions nous considérer ce
talk poem comme un pur essai expérimental de mise en relation de l’art et de
la vie la plus triviale. « J’ai construit ce discours autour de la question de la
structure », affirme ainsi l’auteur dans les derniers passages de sa
performance. Il pose cette question : « comment puis-je construire quelque
45
chose qui ait une forme articulée et qui résiste pourtant à la clôture alors que
14
tout en moi aspire à clore sur une note formelle je ne le ferai donc pas » . La
structure, en ce sens, est bien contradictoire : elle doit obéir à certaines
règles formelles tout en demeurant souple et fluide.
Il est indiscutable que ce type de travail trouve ses racines dans les
divers happenings d’une certaine contre-culture américaine des années
soixante qui se situa en marge des circuits traditionnels de l’expression
artistique. Ces manifestations soulignèrent la quête acharnée du présent
dans l’art et la culture, en contradiction avec le modèle occidental dominant
du devenir historique et du progrès caractéristiques de la modernité. Art is
now and now is art : telle était l’affirmation implicite contenue dans ces
formes radicales. Dans le cas du travail de David Antin, il suffirait alors de
paraphraser celle-ci et de dire : The narrative is now and now is the narrative.
Mais justement, que se passe-t-il alors ? Et comment réconcilier
l’exigence de silence issue du projet cagien avec le développement d’un récit
qui par définition rompt avec celui-ci ? Telles sont les tensions qui traversent
le discours de David Antin. Le récit repose sur des bases incertaines et en
grande partie indéfinies : à bien des égards, en effet, la réflexion de Cage ne
constitue ici qu’un prétexte, un point de départ qui conduit l’auteur à retourner
à lui-même, à son propre monde circonscrit à des lieux très particuliers et
incontestablement limités. Le vide qu’appelle la musique de Cage, alors, se
reflète dans le vide d’une existence quotidienne sans envergure ni souffle
profond.
Le problème plus général est sans doute celui de la transcription en
mots de l’expérience musicale et sonore, surtout quand cette expérience est
aussi conceptualisée et abstraite que celle de John Cage. Les poètes
modernistes et d’avant-garde de la première moitié du XXe siècle ont dans
cette perspective rarement commenté la musique alors qu’ils se sont par
15
contraste beaucoup penchés sur la peinture et les arts plastiques. ».
La performance essentiellement narrative de David Antin essaie
certes de contredire de telles caractéristiques, mais elle n’aboutit pas
pleinement dans ses ambitions. Elle abandonne en effet délibérément les
formes propres à la poésie pour leur substituer un modèle narratif quelque
peu flou et surtout trop marqué par des digressions mal adaptées au sujet
initial.
Car John Cage chercha lui-même dans le quotidien une dimension
extatique que le récit du performer ne parvient guère à exprimer. L’obsession
du concret et du monde factuel éloigne en quelque sorte l’image d’un rapport
méditatif et en même temps ludique à l’univers que la musique se devait
d’éclairer. Un tel ludisme prolongeait à bien des égards l’esprit de dada tout
en annonçant celui de Fluxus.
46
La performance de David Antin demeure bien rivée au réel alors que
le projet cagien, d’essence profondément spéculative, impliqua
nécessairement un détachement par rapport à celui-ci. Le culte et la
révélation du silence, en effet, reposèrent sur la conscience d’un
envahissement de l’espace sonore quotidien de l’homme moderne par un
ensemble de bruits parasitiques issus à la fois de l’organisation sociale
quotidienne et de l’ordre musical dominant. En ce sens, ils possédaient une
dimension éthique. C’est cette invitation ironique et en même temps
insistante à s’éloigner du monde objectif que la performance narrative
semble souvent esquiver ici dans son parti-pris essentiellement anecdotique.
Une telle quête artistique du silence a acquis ces dernières années
une urgence nouvelle, étant donné le développement mondial frénétique de
nouvelles technologies telles que l’IPod, l’IPhone ou You Tube. La
propagation et la dissémination des sons et des bruits autour de nous ne
connaît pratiquement plus de limites : dans ce contexte, l’exigence de silence
devient encore plus pressante et radicale. La dimension utopique de la
philosophie de Cage, qui s’était inscrite dans une époque dominée par la
radio et la télévision, ne peut dès lors que s’accentuer aujourd’hui par la force
des choses.
Ces nouvelles technologies pervertissent par ailleurs à bien des
égards la notion même de récit qui, en Occident, détient une longue tradition
remontant à l’Antiquité. Des fragments de récits autobiographiques saturent
en effet de manière incessante l’espace de Facebook. Dans cette
perspective, tout usager peut produire à n’importe quel moment son propre
récit instantané et le diffuser immédiatement sur Internet.
La question qu’il faudrait poser en conclusion est alors la suivante :
le récit empirique constitué de la sorte peut-il encore faire évènement (être
littéralement un happening), comme dans le projet de David Antin, ou est-il
au contraire le simple reflet d’un excès entropique des signes et des
messages dans la culture contemporaine ? Ce processus très actuel de
banalisation de la forme narrative devrait nous préoccuper en raison de son
caractère presque irrésistible et omniprésent.
A travers l’action des nouvelles technologies, Il lie étroitement le
problème de l’existence possible d’un récit chargé de signification à celui du
silence. Dans cette optique, le silence devrait constituer par contradiction la
condition nécessaire et préalable de tout récit-événement. The narrative is
silence and silence is the narrative, faudrait-il dire ainsi pour souligner ces
tensions : une proposition conceptuelle que n’aurait sans doute pas
désavouée John Cage.
47
1
Il est né à New York en 1932.
Il suffit de songer ici à l’affirmation de Tristan Tzara: “la poésie se fait dans la
bouche”.
3
Dijon: Les Presses du Réel, 2011.
4
J’ai moi-même étudié cette place importante du vide dans l’écriture moderniste chez
Henri Michaux, en particulier dans son récit Misérable Miracle. Voir à ce sujet mon
ouvrage Littératures modernistes et arts d’avant-garde, Paris: Honoré Champion,
2013.
5
Une telle philosophie de l’art influença profondément le mouvement Fluxus dans son
expression tant plastique que musicale.
6
La question de l’art éphèmère préoccupe d’ailleurs beaucoup David Antin, puisqu’il
évoque dans sa performance narrative un article qu’il a publié sur l’architecture
éphemère des années soixante. Ce style joua un rôle important dans l’avant-garde
californienne de l’époque.
7
Paris : L’Herne, 2014.
8
DAVID ANTIN, op.cit., p. 22.
9
Je veux renvoyer ici à son essai ‘La double séance’, in La Dissémination, Paris: Le
Seuil, 1972.
10
ANTIN, Ibid, p. 35.
11
Ibid, p. 53.
12
Je veux faire allusion ici à son célèbre essai critique Le Degré zéro de l’écriture,
Paris: Le Seuil, 1972.
13
Ibid, p. 56.
14
Ibid, p. 73.
15
C’est ce qu’un colloque organisé à Paris III en Juin 2011, et auquel j’eus l’honneur
de participer, suggéra par son titre : « le silence d’or des poètes surréalistes ». Les
actes de ce colloque ont été publiés en 2013 par Aedam Musicae sous la direction de
Sébastien Arfouilloux.
2
48
NOTE
ISPIRAZIONE POETICA ED ESPERIENZA RELIGIOSA
IL SILENZIO NELLA POESIA E NELLA PREGHIERA
Armando Savignano
Abstract
The essay analyzes the Henri Bremond's concept of prayer and poetry
psychological, metaphysical , religious and mystical aspects.
in
49
Bremond ha tentato di analizzare l'esperienza umana, il cui nucleo
egli ritiene di natura 'religiosa' nel senso più ampio del termine, giacché
l'uomo è capax Dei nelle diverse forme di vita, partecipando tutti dello slancio
mistico anche se a diversi gradi: sotto forma di abbozzo, implicitamente,
indirettamente nell'ispirazione poetica, o in pienezza e direttamente nei
mistici cristiani. Perciò un ruolo centrale è attribuito alla poesia pura, ritenuta
una delle forme espressive più significative di testimonianza in un certo
senso 'religiosa' in analogia con l'esperienza mistica, il cui nucleo essenziale
è costituito dalla presenza di Dio nello stato di 'preghiera pura' con i relativi
contraccolpi sia psicologici sia epistemologici. Per questi scopi Bremond si è
cimentato con una teoria della “conoscenza reale” e, in definitiva, a suo
modo, con una prospettiva di filosofia della religione.
1.
La poesia pura nel progetto Emmaus
Se è vero che l'importanza letteraria di Bremond deriva dal ruolo
svolto nella celebre quérelle sulla poesia pura , è altrettanto indubitabile che
tale fissazione della sua figura ed opera sarebbero gravemente riduttive oltre
che storicamente fuorvianti. Tale discutibile prospettiva fa, in effetti, apparire
come una fuga in avanti la ricerca della notorietà o di qualche onore
accademico, in definitiva, come un tentativo per esprimere altrove la filosofia
implicita nell'impresa storica. Ma soprattutto essa prende sul serio la
maschera estetica, legge come un'arte poetica ciò che è invece una filosofia
religiosa. Il suo errore è certamente scusaabile, perché purtroppo non si può
leggere il libro che Bremond avrebbe voluto scrivere. Bisogna dunque
ricordare che i testi riguardanti la famosa disputa La poésie Pure, Prière et
poésie, Racine et Valery - sono solo dei resti sfuggiti al naufragio di un libro
sognato e che :vrebbe intitolato, Emmaus, un "libro di teoria sulle tre
1
esperienze: mistica , religiosa e poetica" .
Gran parte dei frammenti che avrebbero dovuto costituire l'oggetto
di quel libro, rappresentano un "momento di una riflessione ininterrotta che
2
coincide con la genesi dell’Histoire du sentiment religieux" . Le tappe, se così
si può dire, di quel progetto sono in qualche modo riscontrabili:
1) in una introduzione - scritta, ma non pubblicata , nel 1914 –
all’Histoire littéraire, in seguito sostanzialmente confluita in Prière et poésie.
In quell'introduzione - a cui sarà dato in seguito il titolo di Echelle mystique –
Bremond si preoccupa di isolare gli elementi comuni alle tre esperienze
fondamentali insinuando, anche se con cautela, che tra di esse sussistono
3
solo differenze di grado , e palesando già, inoltre, un certo pan-misticismo,
che concerne per ora "essenzialmente l’universalità del fatto religioso nella
4
storia dell'umanità" , che egli intende delineare a partire dall'antropologia
dell'anima ritenuta 'naturalmente' religiosa.
2) La complessa vicenda di un articolo, incompiuto e mai pubblicato,
dal significativo titolo: De Virgile à Valéry, da cui emerge che: a) Bremond
scoprì il Valéry teorico prima del poeta, e lo conobbe personalmente nel
1922, epoca nella quale aveva pressoché fissato certe sue idee sul sublime e
la poesia - che non devono essere, ovviamente, confusi -, oltre ad una teoria
estetica, che tuttavia non rappresenta lo scopo delle sue indagini .b) In
5
questa prospettiva, stimolante risultò un importante scritto di Valéry , anche
se non sono certe "preoccupazioni teoriche ad interessare Bremond quanto
piuttosto l'allusione alla ricerca di un'essenza, di uno stato puro della
6
poesia" , sebbene nell'accademico francese si riscontri - come osservò lo
7
stesso Valéry - un "curioso eccesso di interpretazione" di certe tesi e persino
di certe formule. c) Alla sintesi di quell'articolo su De Virgile à Valéry fatta da
Brillant - che fece da intermediario per la pubblicazione sulla rivista "La
Minerve française"- questi, in una lettera del 24-9-1920, avanzò sin da allora
(e non senza preveggenza) perplessità ed obiezioni sia sul rischio di
naturalismo sia su un certo riduzionismo della specificità del fatto cristiano
8
rispetto ad altre forme di esperienze . Tale disputa ebbe un seguito in
riferimento all'opera di Brillant sui misteri eleusini, dalla cui presentazione
50
Bremond prese lo spunto per definire l'essenza della religione intesa come la
relazione dell'uomo integrale con le "potenze sovrumane, invisibili e
dominatrici" insistendo nel ricondurre il nocciolo dell'esperienza originaria ad
un 'sentimento religioso', germe e rudimento di ogni religione e di ogni forma
di vita, dal momento che è vista primariamente e costitutivamente come una
9
dimensione naturale dell'esperienza umana . L’esperienza morale
10
dev’esssere distinta da qualla religiosa che, con Yves de Paris , viene
11
definita come un “sublime commercio dell’anima con Dio” .
3) Fu nell'incontro personale con Valéry che questi , ad una precisa
domanda di Bremond sui rapporti tra poesia e mistica, indicò non in se
stesso, ma nel simbolismo di Mallarmé, delle peculiari quanto suggestive
12
intonazioni religiose . Grazie alla ricerca di Thibaudet, giudicata "uno dei
13
capolavori, il capolavoro forse dell'estetica moderna" , Bremond si accostò
ai risvolti teorici insiti nella poesia di Mallarmé, con particolare riferimento
alla poesia pura. Questa ha raggiunto esiti sovente insoddisfacenti nell'opera
poetica di Mallarmé ma non sul piano della teoria estetica, anzitutto
attraverso ciò che rifiuta: essa non è, infatti, una "eloquenza ritmata di ordine
14
superiore" , né colloca in primo piano gli elementi discorsivi ovvero la
ragione ragionante: "Essa cerca non tanto di descrivere l'emozione quanto di
ricercarla: è solo in questo senso e con questi limiti che si ha il diritto di
15
affermare che Mallarmé ha conosciuto la poesia come una musica" .
All'opera di Thibaudet si richiamerà inoltre Bremond specialmente per
affrontare il difficile e controverso tema dei rapporti tra verso e senso e,
soprattutto, l'accostamento tra poesia e mistica. Ma proprio su questo punto
decisivo sia la posizione di Valéry, sia l'interpretazione di Thibaudet
riguardante Mallarmé segnano una netta distinzione e una presa di distanza
rispetto alle preoccupazioni bremondiane, giacché siamo agli "antipodi del
realismo newmaniano (e blondeliano) di Bremond: per lui i mistici (e i poeti)
non creano né inventano, ma si lasciano invadere, 'raccogliere' ed incantare
dal reale, da una presenza reale. Il tentativo di Valéry, come il libro di
Thibaudet risvegliano intuizioni antiche, hanno potuto stimolare la sua (di
16
Bremond) riflessione: essa persegue sin d'ora però una via propria" .
4) Dai frammenti del progettato libro dal titolo Emmaus emergono
importanti riflessioni e precisazioni sui rapporti tra la 'contemplazione
profana' e il 'semplice sguardo' dei mistici. Il titolo di quel libro sognato
17
appare per la prima volta in una lettera a Blondel , nella quale Bremond
afferma di voler indagare su quella 'conoscenza reale', ultra-intellettuale (ma
non irrazionale), su quel contatto nel quale il fondo dell'anima si apre al dono
della presenza, in altri termini sulla esperienza mistica; per tale scopo è
impellente chiarire la nozione della cosiddetta 'contemplazione filosofica' che
rappresenta la forma più elevata della conoscenza profana terminante in una
51
"semplice visione concettuale, vaga e quasi vuota", ovvero in una 'intuizione
18
intellettuale' .
Ma è nel saggio del 1926, Le simple regard dans la contemplation
profane - nel quale confluiscono anche certe riflessioni dei due anni
precedenti alle quali fa allusione nella lettera inviata a Blondel, - che
Bremond approfondisce tale tema cruciale con sorprendenti conclusioni
rispetto alla Introduzione del 1914 all’Histoire littéraire. Infatti, sebbene si
esprimesse in forma ipotetica e pur sottolineando la fugacità strutturale della
contemplazione profana, egli tuttavia afferma una "identità di natura con
19
l'esperienza mistica" , essendo Dio ad un tempo "sia l'intermediario sia il
termine di ogni contemplazione; così ogni contemplazione, inclusa quella
20
profana, si riconduce all'ordine mistico" . Come osserva Goichot “in nessuna
parte pubblicamente il pan-misticismo di Bremond si è espresso in modo così
imperioso: non solo il modello mistico orienta ogni preghiera cristiana, ed
inoltre ogni esperienza religioso umana, per quanto rudimentale, ma lo si
scopre all'origine di ogni incontro autentico con gli esseri ed anche con le
21
cose” . Dal contatto più fugace agli “stati mistici” la conoscenza reale forma
una continuità i cui gradi variano all'infinito per intensità e ricchezza, ma non
per natura. Non è solo la circostanza o un espediente tattico a suscitare il
ricorso ai poeti,si tratta piuttosto di una delle tre “esperienze fondamentali”
che dovevano costituire il soggetto del libro intitolato Emmaus. Lo sforzo per
costruire una “poetica” sembra molto più circostanziale, esso si improvvisa
sull'onda della polemica, nutrito da suggestioni che affluiscono da ogni parte
e da letture accattivanti.
Il ricorso ai poeti conferma il carattere universale dell'esperienza
fondamentale che si origina con una presenza e termina in una presenza
prefigurata dalla sospensione delle facoltà di superficie, della volontà e del
sentimento.Così, anzitutto i mistici e,a loro modo, anche i poeti, sono
testimoni di un'esperienza radicale, in cui il silenzio, che segue alla
sospensione delle facoltà intellettuali, delle volizioni ed emozioni, non ha
come termine l’annichilimento o il vuoto, pertanto non esclude una presenza,
la quale però non apporta alcuna verità o dottrina speciale. "Il silenzio ci
inquieta solo come prova di assenza: i mistici hanno dissociato queste due
22
idee: c'è silenzio, ma non c'è assenza" . È qui che Bremond trova una via
propria incentrata sulla conoscenza reale, che è stata oggetto di indagine dei
maestri Newman e, soprattutto, Blondel, anche se, non ritenendosi filosofo, il
futuro accademico francese ha cura di precisare di volgersi
'sperimentalmente al reale assente. Studio da una parte degli esseri che
hanno vissuto tale filosofia , anzitutto i mistici e poi i poeti; e, inversamente,
coloro che non sono orientati a viverla: gli psitacismi religiosi, letterari, morali,
23
ecc.." .
52
Ma proprio quando si apprestava a lavorare ai ‘capitoli profani’ di
24
Emmaus ricevette l'invito da parte di R.Doumic, segretario perpetuo, a fare
la tradizionale 'lettura' a nome dell'Accademia francese, dove pronunciò il
celebre discorso sulla 'poesia pura', dopo una lunga e travagliata
elaborazione.
Quel celebre Discorso fu indubbiamente scritto con l'intento di
chiarire la nozione di 'poesia pura', - quale realtà misteriosa e unificante, un
quid che trascende gli elementi materiali e formali (ritmo, linguaggio,) e pone
in secondo piano, in genere, il senso e la stessa ragione ragionante per
concentrarsi sull'ispirazione, in definitiva su quell'esperienza fugace e
privilegiata attraverso cui si traduce lo stato d’animo del poeta - ma, in ultima
analisi, con lo sguardo volto essenzialmente a porre in luce la connessione
tra la conoscenza poetica e i fatti mistici, se è vero che la poesia è
essenzialmente una "magia raccogliente, come dicono i mistici, e che invita a
25
lasciarsi fare, ma attivamente da qualcosa di più grande e migliore di noi" .
Bremond si propone di descrivere più che definire l’essenza della
poesia pura , che è una realtà misteriosa ed unificante, qualcosa che
trascende gli elementi materiali e formali (ritmo, linguaggio, ecc.).”Oggi non
diciamo più : in un poema vi sono vive raffigurazioni, pensieri o sentimenti
sublimi, c’è questo, c’è quello , poi l’ineffabile; diciamo: c’è anzitutto e
26
soprattutto l’ineffabile strettamente unito, d’altronde, a questo o a quello” .
La poesia pura prescinde dal senso; infatti “per leggere un poema nel modo
giusto, cioè poeticamente, non basta e, d’altronde, non è sempre necessario
27
cogliere il senso” . Nella poesia pura, le facoltà di superficie cedono il passo
all’intuizone ed all’ispirazione poetica.In questo contesto è fondamentale
precisare ciò che è puro ed impuro. “È pertanto impuro – oh! di un’impurità
non reale, ma metafisica! - tutto ciò che in un poema occupa o può occupare
immediatamente le attività superficiali,ragione ,immaginazione,sensibilità;
tutto ciò che il poeta ci sembra aver voluto esprimere, ha espresso
effettivamente; tutto ciò che l’analisi del grammatico o del filosofo deduce da
questo poema, tutto ciò che una tradizione ne conserva.E’ impuro,
evidentemente , il sosggetto del poema,ma anche il senso di ogni frase,il
nesso logico delle idee, l’incedere della recitazione, il dettaglio delle
descrizioni […]. Insegnare, raccontare, dipingere, far venire i brividi o
28
provocare il pianto, a tutto ciò basterebbe la prosa…” . Anche in un’opera in
cui abbonda il sublime, la qualità propriamente poetica, ‘l’ineffabile è
nell’espressione’.
La poesia è in stretto rapporto con la musica, anzi è musica in
quanto conduttrice di un flusso che si trasmette nel più intimo. Ma se, ogni
poesia è musica verbale, non è vero l’inverso.Attraverso la poesia si
trasmette lo stato d’animo del poeta. “Le parole della prosa eccitano,
53
stimolano, colmano le attività ordinarie; le parole della poesia le appagano,
vorrebbero sospenderle. Esse ci sviano da quelle ombre abbaglianti che il
nostro imperialismo anti-mistico, a seguito del primo peccato, ci rende troppo
dilettevoli, per trasportarci in quelle felici tenebre, in cui le grinfie delle tre
29
concupiscenze non trovano più dove attaccarsi” .
La stessa conclusione, che suona come premessa gravida di futuri
30
sviluppi oltre che di vivaci dispute , conferma le intenzioni di Bremond,
allorché inequivocabilmente esplicita quell'analogia tra arte ed sperienza
mistica. "Se bisogna credere a Walter Pater: 'tutte le arti aspirano a
raggiungere la musica'. No, esse, aspirano tutte, ma ciascun attraverso i
magici intermediari che sono loro proprie - le parole, le note, i colori, le linee
31
,- aspirano tutte a raggiungere la preghiera " .
2. Preghiera e poesia
L'analogia tra l'esperienza poetica e quella mistica, come è noto, è
32
descritta nella fondamentale opera, Prière et poésie (1926) , dedicata a
33
Blondel , e incentrata, come ebbe a scrivere Bergson, su una "parentela tra
l'arte e la religione -essendo le emozioni provocate in noi dalle diverse arti
per il sentimento religioso ciò che le armoniche sono rispetto al suono
fondamentale. Credo che ciò sia vero e che non si esiterebbe ad ammetterlo
se si comprendeesse pienamente che si tratta dell'essenza artistica allo stato
puro, liberato dall'apporto dell'intelligenza e anche del sentimento religioso
34
puro, cioè isolato dall'insegnamento della religione" . Un certo adogmatismo, un declassamento delle attività discorsive per far posto
anzitutto all'intuizione intellettuale allo scopo di isolare la preghiera e la
poesia allo stato puro costituiscono indubbiamente le linee intorno alle quali
ruota la riflessione di Bremond, il quale si richiama a due autorevoli figure per
avallare la sua teoria della 'conoscenza reale' e l'analogia tra intuizione
mistica e poetica:J. Maréchal – da cui mutua la ben nota teoria del
dinamismo intellettuale e del sentimento della presenza - e L.De
Grandmaison, col quale situa l'esperienza poetica tra "gli stati naturali,
profani, in cui si possono decifrare a grandi linee, riconoscere l'immagine e
35
già l'abbozzo degli stati mistici” . Ma dalle originali attitudini di entrambi
l'accademico francese dissente su un punto decisivo concernente l'apporto
dell'esperienza mistica a quella poetica; ciò getta luce sulle sue reali
intenzioni che lo facevano accostare alla poesia romantica e moderna sia
francese sia, e soprattutto, inglese. Di qui l'assioma: "al mistico di spiegarci il
36
poeta" . È dunque attraverso il "disegno psicologico della propria esperienza
che il poeta può essere paragonato al mistico. Al di fuori di ciò un abisso di
54
differenze. Ora, questo disegno psicologico, questo meccanismo così
complicato si può rinvenire precisamente perché i mistici lo hanno descritto
con una penetrazione, un dettaglio che cerchereste invano nelle confidenze
37
dei poeti" .
Con questo metodo Bremond delinea tre fasi dell'esperienza
poetica: 1) dall'iniziale fecondità ricca e, sovente sofferta, dello spirito; 2) alla
gioiosa disponibilità a comunicare certi stati, passando attraverso 3) il
momento centrale dell'ispirazione, allorchè siamo dinanzi "ad un mistero, o
38
piuttosto ad un triplice mistero . Anzitutto, essa non apporta un aumento di
conoscenza - giacché addirittura si assiste ad una semplificazione delle
facoltà discorsive, delle volizioni e del sentimento - bensì una nuova
modalità di conoscenza basata sull'intuizione.In secondo luogo, grazie alla
quiete dei sensi, pone il soggetto in grado di penetrare la sostanza vera e
profonda della realtà. Infine, si esperisce uno stato di passività, di silenzio
che ci schiude ed è segno di una presenza. "Abbiamo l'impressione vivissima
che quest'esperienza non dipende assolutamente dalla nostra industria, che
questa originalità della nostra radice profonda, questo contatto con una
presenza reale ci sono dati e da qualcuno che, donandoceli, si dona lui
stesso... Unanimemente si considera l'ispirazione come una visita, sovente si
39
nomina anche il visitatore" . Come nel mistico le facoltà e le potenze restano
sospese per lasciar posto ad una situazione di passività che apre all'azione
divina, così anche nell'ispirazione poetica "tacciono le facoltà esterne
(s'intende, solo nel momento dell'ispirazione, non dopo) ma l'anima deve
aderire, e attivamente quindi, e con ogni energia anche, al reale che si
40
manifesta e le si svela" .
Dal punto di vista, per così dire, epistemologico, l'esperienza
mistico-religiosa e l'ispirazione poetica evidenziano una sospensione della
ragione ragionante e delle facoltà di superficie (volontà, sentimento,
sensazioni, ecc.) per mettere in esercizio l’intuizione intellettuale. Per
illustrare tali caratteri 'psicologici', Bremond si richiama qui , a completamento
ed esplicitazione della concezione del "nozionale" in Newman, e della
‘conoscenza reale' di Blondel, alla celebre parabola, Animus et anima di P.
41
Claudel , pur avvertendo i limiti del ricorso ad essa e sottolineando, a
seguito delle insistenze dell'amico Blondel, la necessaria cooperazione ed
interdipendenza di queste due specie di conoscenza nei seguenti termini:” E’
indispensabile che il filosofo, pur facendo sua questa distinzione, metta a sua
volta l'accento sulla solidarietà essenziale e costante che unisce l'una all'altra
queste due specie di conoscenze. Ciò è indispensabile non solo ad una
filosofia della conoscenza, ma anche ad una filosofia della volontà, ed inoltre
ad una filosofia della vita interiore e della preghiera. L’ascesi non è la
preghiera, ma senza un minimum di ascesi, non c'è assolutamente vera
55
preghiera. Se Animus rifiuta la sua croce, l'estasi d'Anima non sarà che
42
illusione" .L’io profondo e l’io di superficie, pur essendo distinti non possono
tuttavia essere separati pena gravi conseguenze anche a
livello
antropologico con la divisione dell'unità della persona umana. Si tratta,
invece, "di una sola ed identica anima indivisibile che ha un centro ed una
superficie, che ragiona sul reale e lo possiede; che non potrebbe ragionare
su di esso se, in un modo o nell'altro, non avesse iniziato a possederlo; e, se
non ragionasse su di esso o, almeno, se in qualche modo non lo
razionalizzasse, lo possederebbe invano. Dalla conoscenza poetica alla
43
conoscenza intellettuale vi sono scambi costanti di azione e di reazione" .
Nel momento della partecipazione, che segue all'ispirazione poetica
e agli alti stati mistici, accanto ad un'identica adesione al reale, si
manifestano anche importanti differenze. Alcune sono di natura meramente
44
quantitativa - incentrate sull’intensità del coglimento del reale ,- altre sono
rigorosamente qualitative. Tra queste fondamentale è la differenza sul piano
della comunicazione; ora, contrariamente agli stati mistici - che sono ineffabili
ed irripetibili,- è costitutivo del poeta di tradurre e di far passare in noi la sua
esperienza. Infatti è "proprio di una esperienza poetica di essere
44
comunicabile" e di trasmettere nel fruitore quella corrente magica che è il
45
suo stato d'animo ispirato . Per motivazioni di ordine metafisico-teologiche, il
mistico non può comunicare i suoi stati, sia perché essi non dipendono da lui
in quanto non ne è autore e causa, sia, per conseguenza, perché sono
ineffabili, divini, per cui egli può solo in qualche modo descriverli, servendosi
a tal fine di metafore ed allegorie.Invece, è proprio dell’espèerienza poetica di
essere comunicabile.Il poeta sente in primo luogo il bisogno di farci partecipi
della sua esperienza,che è, pertanto, intraducibile ma non incomunicabile
.Ma tali precisazioni non eliminarono sospetti e gravi problemi soprattutto dal
punto di vista metafisico-teologico, con speciale riguardo al rischio di
riduzionismo e di panateismo per tacere del pan-misticismo: altrettante
questioni su cui si aprirà un vivace dibattito fino a sconfinare in insinuazioni di
attitudine modernista.
3.Catarsi e testimonianza della poesia
La poesia presuppone ed è finalizzata alla catarsi, non
diversamente dall’esperienza mistica. La catarsi, infatti, non è che la
purificazione dalle passioni tumultuose per raccogliersi e disporsi al silenzio
che è indizio, apertura ed allusione ad una presenza. "La catarsi non è altro
che ciò che i mistici chiamano il passaggio dalla meditazione alla
contemplazione, ciò che abbiamo chiaamato la sostituzione delle attività di
Anima con le attività di Animus; in breve il passaggio dalla conoscenza
46
razionale alla conoscenza reale e poetica" . La catarsi non è un processo
56
morale della coscienza, perché è essenzialmente religioso e concerne la
purgaazione dalle passioni. La catarsi è così la purificazione di Animus. È in
questa prospettiva che Bremond interpreta i due famosi passi della Politica e
della Poetica di Aristotele, nei quali sottolinea più che il significato e la portata
etica, i risvolti psicologico-estetici. "Aristotele si occupa qui certamente di
un'attività sui generis, che la scienza non aveva ancora catalogato, di
un'attività propriamente estetica: egli analizza l'esperienza poetica di chi
assiste ad una tragedia e l'effetto collettivo che egli attribuisce alla catarsi
non si distingue dallo stesso piacere poetico. È un piacere come gli altri, ma
47
ha questo di particolare: 'ci purga'" . Di conseguenza, "il male da cui ci purga
48
la catarsi non è più di ordine morale, ma semplicemente psicologico" .
La catarsi si realizza sia nell'esperienza estetica che in quella
mistico-religiosa, anche se a differenti livelli di profondità. Infatti, il segno
distintivo dell'arte è l’incompletezza della purificazione rispetto ai più profondi
livelli raggiunti dalla mistica. L'estetica bremondiana concepisce l'opera
artistica non come la realizzazione del bello, l'autoelevazione o la
trasfigurazione della natura, giacché l'artista è, secondo lui, un mistico
mancato, ovvero il paradosso di un mistico senza Dio e l'opera d'arte il
49
paradosso di una preghiera che non prega ma provoca l’orazione . Infatti
"Dio non si dà immediatamente al poeta. Di qui una differenza capitale tra
esperienza poetica ed esperienza mistica. Ma quale che sia la realtà alla
quale si unisce l'anima profonda è sempre attraverso la catarsi che tale
unione è prodotta; o piuttosto, questa unione è la catarsi stessa, sia mistica,
sia poetica, ispirazione semplificante, liberazione di Anima e messa in
50
secondo piano provvisoriamente di Animus" . Ecco perché "se c'è catarsi, il
flusso passa infallibilmente trasmesso dalle parole ad Anima che è disposta
ad accoglierlo, se il flusso non passa non c'è stata vera catarsi poetica. Ciò
51
che c'è di intraducibile in un poema è la catarsi" . Ma la catarsi comporta
una radicale ed irriducibile distinzione tra l'oggetto dell'ispirazione poetica e
quello della contemplazione. Infatti, più i poeti realizzano "l’idea del poeta in
sé, più si allontanano dall'idea del mistico in sé. L'infermità che stiamo
studiando non ha origine in qualche infermità poetica o artistica, ma è nella
natura stessa delle cose, è una sorta di imperfezione metafisica. Il poeta, la
cui attività propriamente poetica s'identificaasse con l'attività propriamente
52
mistica, violerebbe l'ordine del mondo" .
Ma anche queste ulteriori precisazioni non contribuirono a far luce
sulle indubbie quanto radicali differenze tra preghiera e poesia, a tal punto
che lo stesso Bremond si preoccupa di precisare che anzitutto il grado e la
natura di adesione al reale dal punto di vista psicologico e metafisico è
incolmabile. "Da una parte e dall'altra, c'è un certo coglimento, un possesso
del reale; senza di ciò né poesia, né mistica; ma nel poeta il coglimento è più
57
superficiale rispetto al mistico; meno solido, meno unificante…. Il poeta, in
quanto tale, non può non parlare. Lì è la sua gloria e ad un tempo la sua
debolezza... Questo tesoro, nella premura di esplicitarelo e trasmetterlo, il
poeta lo possiede male, se ne apropria solo superficialmente: là è la sua
53
debolezza" . Insomma, “il poeta in quanto poeta si unisce al reale ma se ne
54
stacca subito” .
Il termine e l'oggetto sperimentato dal mistico e dal poeta è, inoltre,
affatto diverso, anche se su questo punto la posizione di Bremond è
abbastanza sfumata, ambigua e non priva di problemi in ordine alla
riduzione della specificità del fenomeno religioso alla sfera artistica e,
soprattutto, alla confusione tra l'ordine teologico soprannaturale con quello
naturale fino a sfociare in quel 'misticismo democratico' e in una filosofia del
silenzio e dell'incoscienza. Comunque la posizione di Bremond ci sembra
sintetizzabile nei seguenti termini: l'oggetto a cui si unisce il poeta non è Dio
in modo diretto e cosciente, bensì è Dio colto indirettamente e quasi
inconsciamente nella realtà bella. Dio è, per così dire, nascosto sotto il velo
della realtà bella. Infatti "essendo Dio la realtà della realtà, il mistico e il poeta
si uniscono a Lui, ma questo Dio così posseduto, l'Animus del poeta non lo
nomina., l'Animus del mistico lo nomina. E’ certo che non si raggiunge
effettivamente la più piccola realtà che passando attraverso Dio, ma è
altrettanto certo che non si passa attraverso Dio, se oso parlare così, se non
tramite Dio stesso. Ora, passare attraverso Dio è entrare nell'ordine mistico,
significa accettare il distacco, la notte dei sensi e dell'intelletto, l'iniziativa
gratuita del Padre celeste, la risposta docile alla grazia di carità, l'unione
effettiva della nostra volontà alla volontà divina. Senza quest’iniziativa, senza
questa sovruumana e speciale infusione di luce e di amore e senza la
risposta attiva di Animus a Dio che ha riconosciuto e nominato, vi sono
indubbiamente a volte semplici mimetismi, anche abozzi, preparazioni ed
anticipazioni ipotetiche, ma non c'è misticismo nel senso proprio e sacro del
termine. Eterogeneità dunque e senza confusione possibile: trascendenza
assoluta, barriere insormontabili tra le due esperienze che ci occupano:
55
l'esperienza poetica è un abbozzo dell'esperienza mistica “ .
La poesia non è, pertanto, preghiera; essa può tuttavia generare,
disporre alla preghiera attraverso la catarsi e il processo psicologico di
semplificazione e sospensione delle potenze alfine di partecipare al flusso
magico dell'ispirazione provocata dalla fruizione di una poesia. Così, "a noi,
poeti inferiori, l'esperienza provocata sia dalla vista di un paesaggio, sia dalla
lettura dei poeti, niente impedisce che sia arricchente, che si trasformi
inesorabilmente in un’esperienza religiosa, a volte anche propriamente
mistica... Nello stesso perfetto poeta, l'esperienza poetica tende a
raggiungere la preghiera, ma non la raggiunge; in noi, essa la raggiunge
58
senza pena e, grazie al poeta. Strana e paradossale natura della poesia: una
preghiera che non prega e che fa pregare. Non è necessario sottolineare che
56
queste sono delle precisazioni metafisiche" .
Queste affermazioni suscitarono vivaci dispute oltre a gravi
fraintendimenti, che indussero Bremond a chiedere, come sempre , il giudizio
autorevole di Blondel, il quale in una lettera scrive tra l'altro: “avete cento
volte ragione di dire della poesia che è una preghiera che non prega
realmente; che, impiegando alcune risorse dell'anima profonda , offre in
appalto - e in ciò sta la sua eccellenza – un Ersatz della soluzione religiosa.
Buona come veicolo per de-razionalizzare Animus, essa risveglia e stimola
Anima, ma è utile solo per la nostalgia di una soddisfazione piena di cui
rimane radicalmente incapace; diventa pericolosa nella misura in cui si
considera perfetta, indipendente, capace di raggiungere l'oggetto ad un
tempo ideale e reale che solo una soluzione religiosa può presagire o
57
anticipare" . In questa prospettiva ancora più suggestive e chiarificatrici
risultano le osservazioni di P.Claudel, il quale nota: " è in questo senso che
la poesia raggiunge la preghiera, perché fa emergere dalle cose la loro
essenza pura che consiste nell'essere creatura di Dio e sua testimonianza.
Ma è in questo senso, inoltre, che essa è infinitamente inferiore alla
preghiera, perché l'uomo è fatto per Dio solo e non per le cose, e sebbene
sia eccellente andare a Dio per ogni dove, tuttavia la via migliore è quella più
58
diretta" . Pur con tutti i limiti e, sovente, con insoddisfacenti approcci e
soluzioni soprattutto a livello teologico, tuttavia è innegabile che il poeta e
specialmente la poesia costituiscono,a
loro modo, una forma di
testimonianza religiosa, giacché il poeta sente l'urgenza di partecipare - in
definitiva, di donare - ad altri quell'unione misteriosa e meravigliosa col divino
sperimentato fugacemente al contatto con la realtà bella.
1.
La religione tra metafisica e poesia
Il dibattito e sovente la polemica, a cui non fu estraneo lo stesso
temperamento bremondiano, sul rapporto tra estetica e religione diede vita
ad uno di quei casi letterari forse senza precedenti per l'ampiezza delle
discussioni ed anche per la durata temporale. Indubbiamente le dispute
toccarono sia temi di carattere psicologici (oggi diremmo: epistemologici) sia
presupposti rigorosamente filosofici e teologici. Ora un indebito slittamento
tra questi punti di vista qualitativamente distinti fu, sovente, alla base di certi
gravi fraintendimenti anche se non bisogna trascurare le conseguenze che
Bremond mutuava dalle sue indagini storiche, specialmente il primato della
mistica sulla religione, l'identificazione tra mistica e preghiera e, in questa, la
teoria della preghiera pura. La poesia e la mistica tendono al silenzio; così
59
l'accademico francese propone, sotto il nome di poesia pura, uno poesia
puramente virtuale o, se si preferisce, una pura virtualità di poesia senza
59
significato ed inutilizzabile nella nostra condizione umana . Quanto
all'analogia preghiera-poesia, essa si collega "nella sua teologia, al fatto della
creazione sul fatto della caduta, all'adorazione sul pentimento; dal punto di
vista della poesia, alla sua adesione appassionata ai principi del
60
romanticismo" . Ora i romantici hanno voluto ricondurre la religione alla
poesia,Bremond pretende elevare la poesia fino al piano della religione
sicchè il suo tentativo risulta più ambizioso ma anche più pericoloso per
entrambe le esperienze.
Anche Croce sottolineò non tanto i rischi insiti nella posizione
bremondiana quanto la vuotezza a cui era inesorabilmente votata la la
disputa sull'arte espressiva e l'arte pura, in definitiva su quella di 'contenuto' e
quella di 'mera forma', così come si configurò in Inghilterra ad opera di C.Bell
e di Fry, e in Francia ad opera di Bremond "con le vivaci discussioni da lui
promosse intorno alla poésie pure e contro la raison in poesia, cioè contro
l'Intellettualismo, sempre tenacissimo in Francia e sempre, nonostante la
61
ribellione dei romantici, raccomandato dal gran nome di Boilau " .
I rilievi di Maritain sono esemplificativi dell’atteggiamento neoscolastico, allorché osserva che nella posizione di Bremond c'è "molta
confusione. Anzitutto conviene protestare in nome della poesia: essa non è
qualcosa di mancato; dire che essa è mistica mancata, è attribuirle troppo e
non abbastanza onore. Essa non è mistica; ma è un'essenza particolare, un
62
essere avente la sua natura propria, le sue origini e leggi ontologiche" . Ora,
proprio l'ontologia è alla base di certe difficoltà in riferimento alla relazione
preghiera-poesia; infatti Bremond concepisce il cosmo come un "fluttuante
63
fiume vitale di una realtà religiosa che tutto abbraccia" . Di questo fiume
vitale l'uomo è soltanto un'onda. Ma ciò comporta - osserva Heckenbach l'esclusione di un'autentica trascendenza e, in definitiva, un monismo.
"Veramente anch'essa conosce una trascendenza, poiché però questa viene
pensata essenzialmente dal punto di vista del contenuto, come il tendere di
un amore naturale, si tratta sempre e soltanto di una trascendenza
immanente, del superamento psicologico-antropologico di livelli della
personalità e non, invece, della determinazione essenziale di una realtà
64
assolutamente trascendente la natura" . A causa di questa concezione
monistica della vita spirituale, Bremond falsifica il religioso trasformandolo in
emozione estetica, e falsifica l’estetico riducendolo ad un processo di catarsi
semi-religiosa. L’insufficiente concetto di trascendenza spiega perché
Bremond abbia posto fra arte e religione solo una differenza di grado e non
una differenza di essenza. Tutto ciò comporta la presenza di un modernismo
estetico.
60
L'interesse per la poesia in Bremond è sempre psicologico.
Quest'aspetto sfuggì a molti dei suoi oppositori generando gravi
fraintendimenti. "Mentre il dibattito si svolge sulla questione se questo o
quell'elemento deve dopo tutto essere presente, Bremond si chiedeva in
realtà se qualcuno degli elementi che normalmente costituiscono una poesia
65
contribuiscono al suo effetto puramente poetico" . Il ruolo storico nel dibattito
culturale dei primi decenni nel nostro secolo in Francia è stato quello di
"'Ouvrir la carrière mysqtique”: ecco la funzione della poesia come Bremond
la vide e con quella parola egli sfidò un'altra tendenza insita nella tradizione
francese del XIX secolo, il tentativo non solo di suscitare un apporto
genuinamente poetico con un linguaggio tecnicamente purificato ma anche di
assicurare, attraverso tali mezzi puramente estetici, il coglimento delle realtà
66
ultime" .
Studiare la nozione di preghiera significa - osserva Moisan - entrare
nel cuore delle preoccupazioni bremondiane. "Gli si è rimproverato di
conoscere solo una forma di preghiera, l'orazione detta di quiete o di silenzio,
67
e di voler imporre a tutti una preghiera trascendente" , tacciandolo di panmisticismo, anche se ciò equivale "in fondo a restituire al termine mistica il
senso originale e a non fare della preghiera e della contemplazione una
grazia riservata ad una casta spirituale ma ad estenderla ad ogni anima
cristiana, per quanto semplice e modesta, a farne il fondamento di ogni vita
68
soprannaturale" . Bremond si è concentrato sul punto di vista psicologico
per istituire l'analogia tra preghiera e poesia, avendo avuto così il "merito di
mostrare fin dall'inizio che nel meccanismo dell'io profondo del poeta e del
mistico si trova l'analogia ed anche l’identificazione, essendo dato che ci si
69
limita allora ad un puro fenomeni di ordine psicologico ed umano" .
Dopo un periodo di grande notorietà oggi l'apporto di Bremond ad
una teoria estetica e religiosa è quasi dimenticato e per delle ragioni non tutti
eccellenti. Eppure a lui si deve una precisa e rigorosa critica al razionalismo
e la scoperta di quella realtà ineffabile del centro dell'anima, dove si
70
elaborano gli stati privilegiati del poeta e del contemplativo . Egli, inoltre, ha
posto le basi di certe ricerche esistenzialistiche, dal momento che "si
riscontra già una forma di esistenzialismo in questo principio - che Bremond
attribuisce al romanticismo - consistente nel non studiare più il poema ma il
71
poeta, nel non cercare le essenze e la natura, bensì le esistenze poetiche" .
Tra i rilievi fondamentali formulati contro Bremond non si può
trascurare la questione decisiva concernente le differenze tra preghiera e
poesie e, in definitiva, tra arte e religione (misticismo). Pur concordando tutti
gli interpreti che la differenza di grado nel misitico e nel poeta è meramente
quantitativa – pertanto è insufficiente – c’è tuttavia disaccordo
nell’individuazione delle differenze qualitative,anche perché su di esse il
61
pensiero di Bremond risulta alquanto sfuggente per non dire ambiguo. Ciò
nonostante, si può affermare che l’esperienza mistica, a differenza di quella
estetica è incomunicabile , mentre, quanto all’oggetto, il mistico,almeno
quello cristiano, ha l’esperienza di Dio trascendente; il poeta, invece, sembra
dire Bremond sottovoce,, coglie Dio solo indirettamente, quasi in aenigmate.
Solo il mistico,pertanto, prega veramente ed efficacemente, in quanto
l’orazione pura si attua tramite la grazia santificante, che è un dono libero e
gratuito di Dio. Il poeta, per contro, giammai attua lo stato di orazione,ma si
purifica e purifica il fruitore di un’opera d’arte disponendolo all’orazione. La
poesia rimane, quindi, un abbozzo della vera preghiera ,che si realizza solo
72
nell’esperienza mistico-religiosa . Pur tra titubanze e espressioni sovente
imprecise, Bremond,in ultima analisi,mantiene la distinzione tra ordine
naturale e ordine soprannaturale.
Per comprendere - non certo condividere totalmente - l'attitudine
bremondiana non bisogna dimenticare quel libro sognato sulle 'tre
esperienze' che, invero, assumerà vieppiù i tratti di un 'libro impossibile',
giacché avrebbe dovuto delineare una rigorosa teoria della 'conoscenza
reale' quale base epistemologica per fondare un'antropologia dell'esperienza
spirituale nei suoi diversi gradi e forme finalizzata ad esprimere l'ineffabile sia nell'ispirazione poetica che nella preghiera pura - per l'esclusione di ogni
intermediario discorsivo, in definitiva, delle facoltà di superficie. E tutto ciò,
una volta purificati mediante la catarsi, è finalizzato a disporsi, tramite la
nuda via del silenzio e dell'incoscienza, ad accogliere la presenza di Dio o del
divino, giudicando inessenziali sia gli apporti intellettuali-sentimentali-volitivi,
sia le stesse realtà dogmatico-istituzionali. In questa prospettiva, pur tra
deficienze ed esagerazioni, l'analogia tra preghiera e poesia - in definitiva tra
estetica, religione ed etica - rappresenta un originale contributo alla stessa
filosofia della religione.
62
1
Cfr. E. Goichot, La poésie pure ou Emmaus?, in “Travaux de Linguisitque et de
littérature”,XVIIi81980),pp.193-220, in part., pp. 193-194.
2
Ibid., p. 194.
3
bid., pp. 196-197.
4
Ibid., p. 197.
5
Cfr. P. Valéry, Introduction a L.Fabre, Connaissance de la déesse, Paris 1920.
6
Cfr. E. Goichot, La poésie pure ou Emmaus? , cit., p. 199.
7
P. Valéry, Oeuvres, Paris 1964, t. I, p. 1277.
8
E. Goichot, La poésie pure ou Emmaus?, cit., p. 201.
9
Cfr.H.Bremond, Sur la voie sacrée, in Le charme d’Athenas et autres écrits, Paris
1925, 2 ed., pp.55-73. Tale saggio è una presentazione fortemente critica dell’opera di
M. Brillant, Les mystères d’Eleusis, Paris 1920.Non vanno trascurate le precisazioni
sul rapporto tra religione,equiparata al misticismo, ed esperienza morale,come emerge
dalla corrispondenza con Loisy (cfr.lettere del 30.6 e del 11.10 cit. da H.BernardMaitre,Lettres d’H.Bremond à A. Loisy, cit., pp.281-284).
10
H.Bremond, Sur la voie sacrée , cit., pp. 60-61.
11
Ibid., pp. 66-67. Sul pensiero misitico di Yves de Paris, cfr. H.L.,t. I, pp. 421-524.
12
Tutto ciò emerge dalla testimonianza di G. Du Bos, Journal 1921-23, Paris 1946,
pp.106-108.
13
Cfr. H.Bremond, Racine et Valéry, Paris 1930,p. XIII.
14
cfr. A.Thibaudet, La poésie de Mallarmé, Paris 1911, pp.161-162.
15
Cfr. E. Goichot, La poésie pure ou Emmaus?, cit., p. 204.
16
Ibid., p. 206.
17
Cfr. H.Bremond-M-Blondel, Correspondance, cit., t.III,p. 163 e 168-170.
18
Ibid., p. 170.
19
Cfr. E.Goichot, La poésie pure ou Emmaus?, cit., p 213.
20
Ibidem.
21
Ibid., p. 213.
22
Testo inedito di Bremond cit., da Goichot, ibid., p. 216.
23
Ibidem.
24
Cfr.H.Bremond-M-Blondel, Correspondance, cit., t.III, p. 205. Alcuni importanti
suggerimenti ed annotazioni di Blondel allo scritto bremondiano sulla poesia sono stati
pubblicati in appendice (pp.478-483). Cfr. anche R. De Souza, La poésie pure. La
génèse d’un livre, in “Grande Revue”,CL(1936),pp.86-105,262-284.:Per le varianti e le
varie redazioni del testo definitivo,cfr.E.Goichot, Deux historiens à l’Académie, in
“Revue d’Histoire Ecclésiastique”,LXXVIII(1983),pp.34-64,373-396.
25
Cfr. H.Bremond, La poésie pure, Paris 1926, p. 27.
26
Ibid., p. 16. Per un inquadramento storico della visione bremondiana della poesia,
cfr. T.Maulaner, Introduction à la poésie française, Paris 1939,pp.7-66. Ed inoltre
A.Thibaudet, La place de H.Bremond dans l’histoire de la critique française, in “Les
Nouvelles Littéraires”,28.8.1933. Per il pensiero poetico ed il ruolo nella letteratura
contemporanea, cfr. H.Hogarth, Bremond. The Life and Worke of a Devote Humanist,
London 1950.
27
H.Bremond, La poésie pure, cit., p. 18.
28
Ibid., pp. 21-23.
29
Ibid., pp. 26-27.
63
30
A tal proposito, cfr. Eclaircissements, ibid., pp.31-166, nei quali si affrontano i temi
del ruolo della ragione e delle attività di superficie nella poesia (dibattito con P.
Souday),la natura dell’ispirazione (lettera di Fagus), i risvolti romantici (dibattito con R.
De Souza).
31
Ibid.,p.27..
32
H.Bremond,
Prière et poésie, Paris 1926.Trad. it., Preghiera e poesia,
Rusconi,Milano 1983.
33
Blondel giudica l’opera di Bremond “il testo più forte, il più ricco d’erudizione e
d’intuizione. È veramente il vostro pensiero sostanziale, costitutivo e canonico ”
(H.Bremond-M.Blondel, Correspondance,cit., t.III, p. 247).
34
Lettera di Bergson del 27.11.1926, cit. da E.Goichot, La poésie pure ou Emmaus,
cit., p.220.
35
Cfr.H.Bremond, Prière et poésie, cit., pp.83-84.Per la tesi sul dinamisno intellettuale
e sull’intuizione intellettuale nel misticismo, Bremnond è debitore di J.Maréchal, A
propos du sentiment de présence chez les profanes et chez les mystiques ,1908, in
Etudes sur la psychologie des mystiques, Bruxelles-Paris 1924, t.I,pp.69-179. Tale tesi
è fatta propria anche da L.De Grandmaison, La religion personnelle, in “Etudes” ,
I(1913),pp.289-309,601-626;II(1913),pp.33-56,309-335.Per
quanto
concerne
il
sentimento di presenza, il richiamo a Maréchal si evince dall’importante testo di
H.Bremond, Notes sur la mystique, in H.L, t.II,pp.585-606; e da una lettera a
Blondel,nella quale chiede un giudizio sulla posizione mmaréchaliana (cfr.H.BremondM.Blondel,Correspondance, cit., t. II,p. 254) . Purtroppo,non abbiamo la risposta di
Blondel, al quale si richiamava il filosofo belga , come emerge da :A.Hayen, Un texte
inédit du P. Maréchal: l’Action de Blondel, in “Convivium Estudios
Filosoficos”,II(1957),pp.5-41.J.Maréchal, Phénomenologie pure ou philosophie de
l’action?, in Mélanges J.Maréchal, Bruxelles-Paris 1950, t.I, pp. 181-206. 36) Cfr:
H.Bremond, Prière et poésie, cit., p.89.
37
Ibid., pp. 88-89.
38
Ibid., pp. 105-106.
39
Ibid., pp.108-109.
40
Cfr.G.Forni, L’estetica di Bremond,in AA.VV., Miscellanea A.Gazzana ,Milano 1960,
vol:2, pp.261-290, in part., p. 271.
41
Cfr. la celebre parabola di P.Claudel, Parabole d’Animus et d’Animapour faire
comprendre certaines pensées de A.Rimbaud, 1925, in Oeuvres Complètes, Paris
1959, 3 ed., vol. XV,pp.36-38.
42
H.Bremond,
Prière et poésie, cit., p.139,n.1.Questo testo fu aggiunto su
suggerimento di Blondel,che, in una lettera del 10.9.1926, esprimeva forti perplessità
sulla separazione tra conoscenza intellettuale e reale , separazione che
comprometterebbe l’umanesimo devoto(Cfr.H.Bremond-M-Blondel, Correspondance,
cit., t. III, pp.249-250) È ritornato in modo critico sul tema M.Blondel, Emploi et critique
du mythe specieux et perfide d’Animus et d’Anima, in La pensée ,Paris 1934,
t.II,pp.534-538. Alla luce della disputa con Bremond, qualcuno si è chiesto se Blondel
avesse
,in ultima analisi, gradito, la dedica del celebre libro bremondiano
(cfr.G.Germain, Prière et poésie, in Entretiens sur Bremond , cit., pp.187-214, in part.,
p. 191).
43
H.Bremond, Pière et poésie, cit., pp.167-168.
44
Ibid., p. 168.
64
45
Ibid., pp. 170-175.
Ibid., p. 180.
Ibid., pp. 184-185.
48
Ibid., p. 189.
49
Cfr. F.B. Heckenbach, H.Bremond, eine mystische Philosophie der Kunst, in
“Jahrbuch fur Aestetik und allgemeine Kunstwissenschaft”, Ii(1952-54),pp.23-68, in
part., pp.57-62.
50
H.Bremond, Prière et poésie, cit., pp.196-197.
51
Ibid., p. 200.
52
Ibid., p. 209.
53
Ibid., pp. 209-210.
54
Ibid., p.213.
55
Ibid., pp.216-217.
56
Ibid., pp. 217-218.
57
Ibid., p. 221. Questo brano è ripreso e fatto proprio da Bremond da una lettera di
Blondel (cfr.H.Bremond-M.Blondel, Correspondace, cit., t. III, pp. 256.257).
58
Cfr. P. Claudel, Lettre à Bremond sur l’inspiration poétique, in Oeuvres Complètes,
cit., vol. XV, p. 61. ID., La quérelle de la poésie pure, in “Foi et Vie”,
XXVIII(1925),pp.1230-1238.ID., Poésie et prière, in “Foi et Vie”, XXX(1927),pp.176185. Cfr. inoltre, A. Fontainas, Dans l’imbroglio de la poésie pure, in “Muse
Française”,V(1926),pp.250-264.
59
Cfr.R.Gillouin, Poésie pure et poésie-prière, in Esquisses littéraires et morales , Paris
1926,pp.236-243, in part. pp. 241-242.
60
Ibid., p. 242.
61
B. Croce, La disputa intorno all’arte pura e la storia dell’estetica, in Ultimi saggi,
Bari 1935, 2 ed., pp. 201-209, in part., p. 202.
62
Cfr. J. Maritain, Situation de la poésie , Paris 1938, p. 37. Tra i neo-scolastici, cfr.
anche i rilievi di J.Lenain, Art et sainteté, Louvain 1927, in cui tra l’altro rileva che il
romanticismo bremondiano gli preclude di porsi dal punto di vista oggeittivo per cui
l’artista persegue un fine disinteressato (pp.38-39).
63
Cfr.F.B. Heckenbach, Bremond, ein mystische Philosophie der Kunst, cit., p.65.
64
Ibid., p. 66.
65
Cfr. H.W.Decker, Pure Poetry. Theory and Debate, Berkeley and Los Angeles
1962,p. 16.
66
Ibid., p. 116.
67
Cfr. C.Moisan, Henri Bremond et la poésie pure, Paris 1967,p. 75.
68
Ibid., p. 76.
69
Ibid., pp. 130-131.
70
Ibid., p. 195s.
71
Ibid., p. 199.Cfr. M.D.Petre, Poetry end Prayer: A Recent Discussion, in “The
Dublien Review”,CLXXXV(1929),pp.177-199.
72
A.Vovard, Le mystère de la poésie, Montréal-Paris 1951.K.R.Dutton, Poésie et
mystique dans l’oeuvre de Bremond, in “Revue d’histoire littéraire de la
France”,LXX(1970),pp.435-444.A.J.Arnold, La quérelle de la poésie pure: une mise au
point, in “Revue d’histoire littéraire de la France”,LXX(1970),pp.445-454, che
puntualizza il rapporto Bremond-Valéry.
46
47
65
L’ECLOGA II. LA VITA SILENZIOSA DI ANDREA ZANZOTTO
Marco Gaetani
Abstract
The «Ecloga II. The silent life» is included in one of the most influential books of poetry
of the late italian twentieth century, «IX Ecloghe»(1962) by Andrea Zanzotto (19212011). This work is very important because it announces one of the masterpieces of
contemporary Italian poetry, «La Beltà», published by Zanzotto in 1968, but also for the
great artistic value of many poems that includes. The article analyzes in detail the text
of «Ecloga II» and proposes an interpretation substantially different from those now
prevalent. Close examination of the poem shows that the expression of the title (“silent
life”) has a meaning very articulate and ambivalent axiology. This interpretation
considers the most reliable studies on Zanzotto and «IX Ecloghe» and emphasizes the
importance (for the Venetian poet between the Fifties and Sixties) of phenomenological
existentialist thought. In particular, it is assumed that the poet alludes to an idea of
silence (and "silent life") that may be related to some theoretical clarifications of
«Phenomenology of Perception» by Merleau-Ponty (but not only). This interpretation
differs from the hermeneutics of silence generally offered by the most accredited critics
of Zanzotto (from Agosti to Dal Bianco, until the recent book by Luigi Tassoni).
Zanzotto believes the “silence” is not only a subjective and objective experience as
opposed to the noise (verbal and non-verbal), but it is essentially an ontological
dimension connected to give “mute” of Nature and Being ("Physics" and Ontology in
the work of the author are closely linked). A dimension pre-linguistic but saturated of
Sense, the expression of which is not attributable only to a particular rhetorical
(reticence, blank, breaks, etc.) but involves the origin of the transaction poetic. The
article also proposes some ideas for a possible re-consideration of the overall
character of the different stages of production poetic of Zanzotto, from «Dietro il
paesaggio» (1951) to «Conglomerati» (2009).
Per quanto s’intenda circoscrivere questo intervento a una
riflessione sul tema del silenzio in margine a un testo, l’Ecloga II di Zanzotto,
che tanto esplicitamente (e fin dal titolo) sembra sollecitarla, non si potrà non
fare un riferimento, quanto meno, al macrotesto – o co-testo che dir si voglia
– in cui il componimento si colloca, e alla decisiva importanza che il «libro di
66
ecloghe» riveste all’interno dell’intera produzione poetica dell’autore
pievigino. Libro di svolta se mai ve ne furono, che prepara e permette quel La
Beltà che a sua volta costituisce – a prescindere ora dall’intrinseco valore,
pure enorme – una sorta di termine fisso e inaggirabile per tutta la
produzione zanzottiana successiva (e naturalmente per l’intera vicenda della
1
poesia italiana secondo-novecentesca ): lungo gli anni Settanta e Ottanta,
col baricentro del Galateo in Bosco e la «pseudo-trilogia» che questo libro
inaugura, fino alla fase estrema rappresentata dalla «trilogia
2
dell’oltremondo» .
Questa posizione di snodo essenziale – generalmente riconosciuta
3
dalla critica – conferisce alla silloge del 1962 una funzione di “scambio” (nel
senso ferroviario, quasi) che si riflette sulla natura ibrida del volumetto e che
si manifesta in particolare nella contemporanea presenza, caratteristica delle
opere di passaggio, di vecchio e di nuovo (per dir molto superficialmente,
perché – come spesso in Zanzotto – le cose sono molto più complesse, e
sfumate: soprattutto quando in gioco sia il rapporto tra continuità e
innovazione, a tutti i livelli). Erma bifronte entro la «catena» costituita dalla
sequenza dei libri zanzottiani, IX Ecloghe guarda a Vocativo, e dunque
all’iniziale, peculiarissima, fase post-ermetica o para-ermetica (si semplifica,
sempre) che la raccolta del 1958 per molti aspetti sussume e porta a
massima tensione, e insieme a quella Beltà che ci restituisce, come già
osservato, una voce destinata a rimanere – pur nelle trasformazioni, talora
anche assai marcate, cui andrà incontro nei successivi quattro decenni –
riconoscibile, caratteristica, originale. Ibridismo della liminarità (posizione di
soglia) che si può verificare non solo, e forse non tanto, nella compresenza
all’interno di singoli componimenti di IX Ecloghe (alcuni dei quali peraltro
memorabili, e infatti sovente antologizzati) di temi e di modi che rinviano alla
precedente maniera poetica, quella appunto giunta al suo limite con
Vocativo, e di altri (in verità prevalenti) che preludono invece al libro capitale
4
del 1968; ma piuttosto – come osserva particolarmente Curi –
nell’alternanza di testi “vecchi” e testi “nuovi”.
L’ecloga che qui ci interessa, a dire il vero, più che spiccare per una
sua prossimità alla stagione che con qualche indugio ci si accinge a lasciarsi
dietro le spalle o per rappresentare al contrario uno specimen dei nuovi modi
espressivi, colpisce per un suo tono generale indubbiamente distintivo, per
un dettato suo peculiare, evidente fin dalla prima lettura in una scorrevolezza
e in una quasi piana intellegibilità che generalmente non appartengono a
Zanzotto, alla proverbiale facies impervia della sua poesia – fin nella lettera e
5
in ogni sua stagione difficile, oscura . Sembra infatti che La vita silenziosa
escluda per gran parte le ardue concentrazioni semantiche (e corrispettivi
dispositivi formali) della fase che si conclude con Vocativo, come pure le
67
innovazioni più clamorose che renderanno poi possibile l’exploit di La Beltà, e
che i lettori più acuti delle IX Ecloghe – fin poi ai ricostruttori didascalici del
percorso artistico zanzottiano e ai compilatori di manuali scolastici – hanno
enucleato come segnali della maggiore discontinuità, della svolta degli anni
Sessanta. Non si elencheranno qui nemmeno in via cursoria questi tratti, del
6
resto ben noti a ogni frequentatore della letteratura critica sul poeta veneto ;
ma per quanto pertiene al discorso che ora si comincia a svolgere si deve
osservare almeno che mancano quasi, nell’Ecloga II, l’istanza metalinguistica
e la componente ironica, evidentemente collegate e altrove – invece – tanto
nella raccolta pronunciati; come pure minimi appaiono gli altri fenomeni di
operatività retorica (l’intarsio, la citazione, la molteplicità dei registri, ecc.) che
della nuova disposizione poetica – “aperta” e appunto ironica, nel senso più
ampio e profondo – sono parte costitutiva.
Ecco: davvero pressoché impercettibile risulta essere in La vita
silenziosa (e, ad attentamente osservare, nello stesso testo che la segue, e
che con l’Ecloga II fa pendant – secondo lo schema “duale” che, osserva
Stefano Dal Bianco, struttura l’intera silloge, con l’eccezione, in re ipsa,
7
8
dell’Intermezzo ) l’elemento ironico . C’è nel testo al contrario, identificabile a
vari livelli, una serietà di fondo, e un pur controllato pathos, che rende questo
componimento una sorta di unicum non solo all’interno del volumetto del
1962; e che non chiama in causa soltanto quella certa disposizione al
sublime che nell’opera zanzottiana deve essere ravvisata costante, anche
quando camuffata, “corretta” e/o auto-frustrata; si tratta di un carattere
distintivo che fa riferimento alla situazione generativa (forse addirittura
all’“occasione”) di questa ecloga, alle armoniche anche storico-biografiche
che ne fanno un testo per certi versi speciale per il suo autore. Le ragioni di
questo valore speciale, si può anticipare, risiedono in buona parte nel fatto
che il testo rappresenta la «notificazione» – uno dei tanti lemmi da Zanzotto
riscattati a poesia – di un programma o, molto meglio, di un progetto di vita,
con la dichiarazione di un solenne impegno esistenziale (a favore di una «vita
silenziosa» il cui senso si cercherà di chiarire seguendo da vicino il testo).
Questo impegno ingente e definitivo ha molteplici risvolti, e coinvolge
integralmente il soggetto, impegna l’uomo e dunque anche il poeta: dalla
quotidianità della mera praxis all’axios più elevato.
Il titolo dell’Ecloga II reca un’abbastanza evidente risonanza
9
leopardiana . E si porta dietro, con Leopardi, la tradizione che – per esempio
10
proprio in La vita solitaria – il canto del poeta recanatese ri-prende e
risemantizza, e che si sostanzia in una ben precisa (e cospicua) linea della
poesia, non solo italiana, che risale fino al Petrarca. Ma egualmente da non
trascurare, indugiando in limine all’ecloga e rimanendo nei paraggi del
paratesto autoriale, è la pur reticente epigrafe dedicatoria, che in sede di
68
commento Stefano Dal Bianco scioglie rinviando alla figura di Marisa Michieli,
11
moglie del poeta . Ci si apre in tal modo la rilevante portata autobiografica di
un componimento che proprio in ragione di questo pur criptico (e come
pudico) rinvio alla vicenda privata, intima, dell’Autore prende uno status suo
proprio.
Per meglio comprendere come all’altezza della composizione delle
Ecloghe Zanzotto abbia effettuato, o stia effettuando ed “elaborando”, scelte
che chiamano in causa il proprio personale destino – il senso da dare alla
propria esistenza nella storia – e come questo personale destino, con le
scelte di valore che lo orientano, non sia estraneo al rinnovamento di
un’opzione in favore della poesia – nell’inedita forma che essa è costretta ad
assumere alla luce delle nuove consapevolezze raggiunte nel contesto
storico-esperienziale vissuto tra la fine degli anni Cinquanta e i primi
Sessanta – conviene dunque tenere sott’occhio, quanto meno, la biografia
12
del poeta . Alla cui luce, anche, andrà assunta la valenza ancipite della
quale più che in altri testi, non solo all’interno di IX Ecloghe, si carica il «tu»
cui l’io poetante si rivolge: contemporaneamente interlocutore muto e
assoluto (Paesaggio, Natura, Poesia, Verità) e persona “reale”, figura che di
quel termine ideale in una certa misura costituisce l’incarnazione e la sigla.
Esiste infatti una qualche sovrapposizione o interferenza o comune
denominatore tra queste alterità in apparenza tanto divaricate con cui un
soggetto dissestato e sgomento si confronta, chiedendo conforto e supporto,
13
cercando un Valore attorno a cui potersi ri-comporre, ri-trovare .
Il testo dell’Ecloga II tematizza una situazione di appartato colloquio
tra l’io poetante e un «tu» femminile, l’«amica» del v. 5. Colloquio intimo
(come chiarisce immediatamente l’avverbio «insieme»), all’insegna di una
solidale prossimità che quando la scena si apre al lettore appare già data,
pregressa. Il generico pre-testo leopardiano funge da raccordo tra la
tradizione letteraria che, come già osservato, il poeta recanatese stesso
accoglie e ri-attiva e la grande linea europea di poesia-riflessione cui
Zanzotto sempre si riferisce in via privilegiata, e che si riassume
14
naturalmente nel nome di Hölderlin ; ma cui non è estranea – qui – la
presenza, del resto coerente, di un Rilke. Attraverso il quale ultimo forse
convergono nel nostro testo quelle nuances simboliste o post-simboliste, e al
limite addirittura crepuscolari o para-crepuscolari, che s’intravedono sia a
livello tonale (l’atmosfera intimistica, pacatamente solenne) sia nella
situazione delineata (l’appartato colloquio, in uno scenario naturale, con una
15
figura muliebre amicale, sororale ).
Che il colloquio in questione sia di natura amorosa è allusivamente
esplicito, per così dire, oltre che nei teneri atti cui sembrano intenti l’«io» e il
«tu» quando il sipario sulla scena del componimento si apre, nel rinvio
69
attivato dall’unica zona del testo che evidenzia un fenomeno di
plurilinguismo: l’intarsio latino da Virgilio, al v. 7 (Bucoliche X, 69). A essere
messa in scena è una promessa amorosa, un impegno di mutua fedeltà, un
reciproco impegno che mentre allude alla situazione biografica cui ci si è in
precedenza riferiti (l’unione con la compagna della vita) anche costituisce la
sanzione di un patto siglato una volta per sempre. L’ecloga testimonia di un
punto di svolta seguente a un’opzione esistenziale assoluta, nel senso fin
kierkegaardiano dell’espressione. C’è, da parte dell’individuo storico Andrea
Zanzotto, la decisione di essere marito e padre di famiglia e – a questa scelta
intrinsecamente connessa – quella di radicarsi nel proverbiale paesaggio,
«tra colli, nella domestica selva» (si noti, nel v. 2, la funzione anche
psicologica dell’aggettivo nei confronti di un sostantivo che è pure lemma
16
tanto letterariamente connotato ; e, dunque, il senso vagamente ossimorico
dell’accostamento). E c’è pure, da parte del poeta, la scelta di restare fedele
a una Natura come alterità conturbante ma confidente, che implica un
legame erotico-sacrale, che sollecita e asseconda un Desiderio nel quale
consiste la stessa forza che instaura la parola poetica. L’io poetante accetta,
una volta per tutte, di consacrare integralmente la propria esistenza a quel
Valore, di siglare un contratto di reciprocità (io/tu, soggetto/alterità) che sarà
la poesia, la parola, a mediare, a vidimare sempre di nuovo.
Non si tratta dunque propriamente di un rapporto di distanziamento,
di un riconoscersi per distinzione, ma del processo di individuazione
consistente in un darsi e in un dare, di un reciproco scambio che è reciproca
appartenenza e reciproco ri-conoscimento. A questo intreccio, od osmosi,
con l’oggetto di desiderio (del resto, come si vedrà, ambivalente e
problematico) rinvia – forse non senza qualche pur vaghissimo ricordo della
coppia erotica dannunziana, la cui memoria viene ovviamente depotenziata e
risemantizzata – l’immagine dell’intreccio/fusione silvestre tra un «io» e un
«tu» che son come immersi e confusi nel mondo vegetale (vv. 3-7).
Conta più di tutto, a ogni modo, il senso di una scelta di valore non
priva dei rischi e delle ambivalenze che si vedranno, ma che si vuole
definitiva, e che si corrobora di una staticità che è resistenza al
cambiamento, alle possibili minacce che possano incrinare un’unione con i
caratteri della sacertà: le «anime» degli amanti (nel quasi frusto v. 10, che ha
però la miracolosa virtù, consueta alla poesia di Zanzotto, di non apparire
tale) si recludono entro un circuito incantato di estinzione e rinnovamento che
neutralizza il tempo, il mutamento che con esso s’identifica (il «volger d’ore e
d’acque» al v. 9). Si configura dunque, nella coppia amorosa, una postura
coesa ma difensiva e regressiva, una «muta fedele difesa» (nel primo
aggettivo un riferimento alla «vita silenziosa») che consiste in una stasi
concentrata a escludere la negatività del mondo, a neutralizzare la minaccia
70
di un esterno vitale ma/quindi mutevole, instabile e conturbante. La posizione
della prima persona (duale) è quella sedente (cfr. il verbo in apertura, ripreso
al v. 11), sedentaria, emblematica di chi ricerchi appunto una sede, una
stabilità che non è meramente spaziale ma concerne l’ubi consistam del
soggetto e del proprio mondo (in Zanzotto non ha molto senso precisare se
17
esteriore o interiore) .
Fin qui parrebbe di essere al cospetto di un’operazione poetica (ma
anche psicologica e ideologica) molto tempestivamente ravvisata dalla critica
come consueta alla scrittura zanzottiana, quasi un suo segno qualificante: il
rifiuto cioè della Storia e l’opzione in favore di una Natura che è anche luogo
18
eterno dell’Origine, dove non si muore mai ma si nasce soltanto . Si tratta
tuttavia, anche nel nostro testo, di una dicotomia mai fissata una volta per
sempre, mai rigidamente determinata in termini assiologici assoluti. Anzi
l’ambivalenza tra i due poli – Natura e Storia – è tale che essi possono
reciprocamente compenetrarsi, e scambiarsi dunque di segno, dialettizzarsi.
La migliore, o più significativa, poesia di Zanzotto è proprio il frutto del
fluidificarsi di questo rapporto, dal suo darsi come ambiguo e segretamente
19
reversibile .
Simili fenomeni all’insegna della reversibilità e dell’ambiguità si
registrano anche nel testo dell’Ecloga II e impediscono di accogliere
pacificamente, a proposito del componimento, un’interpretazione univoca e in
linea con il topos della tradizione, non solo poetica (e segnatamente di
quell’immaginario bucolico tanto ostentatamente chiamato in causa in IX
Ecloghe), che attribuisca il segno del Valore alla «vita silenziosa» della e
nella Natura, contrapposta a quella al contrario “strepitante” della e nella
20
Storia .
A metà circa della prima delle due sezioni di cui l’Ecloga II si
compone, una volta delineata la situazione che si è più sopra richiamata, l’io
poetante passa a prefigurare lo scenario futuro della modalità esistenziale
prescelta, le conseguenze immediate cioè del patto siglato con il «tu» (sulla
cui duplice, o plurima, valenza non si ritorna). I tratti della «vita silenziosa» la
qualificano in realtà come una dimensione acusticamente non proprio
«muta», non del tutto silente, bensì come un universo quasi “ovattato” – col
rischio di far pensare addirittura alla tipica sordina crepuscolare. La voce
futura del soggetto aderente alla «vita silenziosa» si preannuncia infatti come
«tenera» (significativo che ritorni l’aggettivazione riservata, nel v. 3, alle
fronde: alla Natura), sarà una voce «dimessa». Tuttavia – si precisa quasi a
prevenire una possibile accusa – «non vile», sibbene «raggiante nella gola |
– che mai l’ombra dovrebbe toccare –» (vv. 15-16). Il campo semantico
acustico-auditivo qui si contamina sinesteticamente con quello – tanto per la
21
poesia di Zanzotto decisivo, probabilmente più decisivo – visuale : l’ombra
71
che minaccia la voce (metonimicamente: la «gola») del soggetto rinvia al
«buio duraturo» comparso (peraltro in un’immagine significativamente
ambivalente) al v. 6, per trovare il suo antonimo in quel «raggiante» la cui
iterazione (vv. 15 e 17) sembra sancire l’unione tra «io» e «tu», in un unisono
all’insegna di una peculiare forza affermativa. Voce doppia in effetti, resa
squillante da Eros, non rinunciataria (vile) a onta del suo aspetto tenero
(debole) e appartato (dimesso); ma fertile («di sposalizio»: armoniche
biografiche), festiva («di domenica»: minima nuance crepuscolare), aurorale
e irradiante.
In Zanzotto quello del raggio, dell’irradiazione, è motivo importante:
forse preannuncio, qui, dell’egualmente nevralgico tema “astrale” (che infatti
comparirà nella seconda sezione, e che s’accamperà nel successivo e
correlato componimento Nautica celeste); rimanda soprattutto a quell’«aura»
che qualifica il petrarchismo ontologico – che non è una semplice forma di
(neo)platonismo – dell’Autore. Evoca dunque quel legame tra Beltà (Valore:
tema centrale della meditazione poetica zanzottiana) e bellezza femminile cui
22
il poeta ebbe occasione di fare più volte riferimento .
Nei versi successivi l’opzione per una vita deliberatamente ai
margini di una Storia intesa sostanzialmente come disvalore viene
precisandosi attraverso la contrapposizione tra il «noi» costituente ciò che si
è detta la coppia amorosa (prima persona potenziata) e «altri»: istanza
impersonale di chi, al contrario, accede a una scelta esistenziale diversa ed
opposta, appunto storica. La «vita silenziosa» sembra aver valore, innanzi
tutto, perché appunto vita, con la sua «biologale» intrinseca dignità. Il
soggetto duale dell’ecloga ci appare di nuovo come avviluppato al vivente, in
appartenenza quasi panica a esso: «accosteremo i capelli e le fronti | a
vivere | foglie, nuvole, nevi», proclamano i vv. 20-22, di sommessa euforia
vitalistica, di allusivo erotismo (con i primi due termini del v. 22 che sembrano
rimandare, il primo riprendendo le «fronde» del v. 3, all’unione primordiale di
terra e di cielo, forse sintetizzata dal senhal del valore – se mai altri ve ne
furono, nel Zanzotto poeta elementare – della neve). All’opposto si colloca
una dimensione storica che è quella propria del potere, e un’opzione di vita e
di senso che viene respinta (o solo distanziata?) in consapevole
prefigurazione: «non saremo potenti, non lodati» (v. 19).
La seconda parte della sezione I dell’ecloga, fino alla sua
conclusione (vv. 23-39), sviluppa questa dicotomia tra «noi» e quanti hanno
scelto la vita potente (e “rumorosa”) della Storia: mobilitando modi ipertradizionali, vale a dire ostentatamente riattivando un immaginario di tipo
23
classico, georgico-pastorale . Ma inopinatamente questa campitura –
addirittura straniante, nel suo inconcepibile anacronismo premoderno – va
incontro a delle incrinature, che contraddicono l’intenzione rassicurante per
72
cui s’era adibita; infatti la vita “depotenziata” che si è scelta come quella che,
24
forse, meglio può realizzare l’«impronta cieca», per dirla con Rorty , di un
soggetto in crisi, conferendo senso alla sua postura originaria di spettatore, di
25
non-attore , questa vita dunque si definisce nei versi cui ora si sta
guardando attraverso alcune immagini disforiche (e proprio su un’acuta
imprevista disforia si conclude la prima sezione), che non sono bilanciate o
neutralizzate dalle connotazioni troppo debolmente positive che qualificano
un’esistenza appartata, secondo i canoni tradizionali della vita rustica,
modesta ma dignitosa (i «fuochi | poveri», la «dolce | legna», il «poco latte»:
vv. 29-30, 30-31, 32). E ci si riferisce agli inquietanti «cortili cui già cinge il
nulla» del v. 31, alle «mal fiorite aiole» del v. 36 e soprattutto a quella
«vecchiezza» che al termine della vita (anche di quella «silenziosa», dunque)
coglie «stolti amorosi inutili» (in un verso, il 34, in cui è forse il terzo degli
aggettivi a colpire più di tutti, dopo e insieme allo choc complessivo del
triplice accostamento). Fino alla clausola cui s’è già alluso, la cui devastante
nigredo spiazza definitivamente il lettore: la vita si spegne, nella sofferenza,
fino alla morte («la pena | e l’irreversibile stasi»); «del cuore», certamente;
ma quindi, nella prospettiva “erotica” (in senso quasi religioso, anche) in cui
la «vita silenziosa» si svolge, dell’intera soggettività pure “redenta” e
potenziata dall’unione con l’«amica», o perlomeno tramite essa minimamente
restaurata.
Dalla terrifica «irreversibile stasi» su cui si chiude, come pietra
tombale, la prima sezione del testo, deve ripartire la riflessione poetante, per
ritessere pazientemente, per ridispiegare e riposizionare, per riaffermare, le
ragioni di un valore e di una speranza. E da essa infatti riparte la seconda
sezione (più breve della precedente, 32 vv. contro 39; e divisa – al contrario
della prima, unitaria – in tre segmenti strofici di lunghezza diseguale). Si
tratta di ritrovare altrove e in termini meno netti, meno tradizionalmente
univoci, il valore della «vita silenziosa», di legittimare in modo differente lo
spessore umano ed etico di un’opzione totalizzante ma non iattante, perché
non garantita. Tenendo ora conto del minus che si è rivelato nell’opzione
salvifica, e forse anche del plus che cripticamente affiorava nella scelta
contraria, a onta di ogni sua implicita stigmatizzazione. Perché – entro quella
sorta di “fluidificazione” assiologica, ma anche ontologica, cui ci si è più sopra
riferiti – non si può non vedere il lato “buono” della potenza, cioè della
capacità tutta umana (ancorché sovente dirazzante) di muovere «storia | e
sorte» (vv. 27-28); come pure non si può restare insensibili alla lode (v. 19),
che è pur sempre una forma del riconoscimento, un modo per uscire dal
26
solipsismo .
Il «ma» che apre la seconda sezione, appena prima che sia
chiamato nuovamente in causa il «tu», intende contraddire proprio l’istanza
73
negativa su cui si era chiusa la prima, ricucirne lo strappo imprevisto. A
essere più decisamente delineato è ora un programma conoscitivo, un
27
percorso al limite integralmente sapienziale , che implica una
consapevolezza più alta del valore ambivalente dell’esperienza stessa del
conoscere, e anzi dell’esperienza tout court, che viene adesso assunta nella
28
sua costitutiva ambiguità . Non nel senso, evidentemente, che la «vita
silenziosa» si configuri come un’esperienza assimilabile alla tradizionale vita
contemplativa, come otium contrapposto (secondo il ben noto topos
29
umanistico) al negotium . Consiste piuttosto, questa forma di esistenza
riuscita, nel progetto di mettere sempre meglio a fuoco, e secondo modi e
prospettive ognora differenti e anche diacronicamente mutevoli, quella
«Beltà» che Zanzotto sta riconoscendo – proprio all’altezza cronologica che
ora ci interessa – come compromessa con la Storia, quindi come Tradizione
(forma, codice, lingua) esposta, minacciata, assediata; ma che pure è Norma
segretamente motivantesi dentro un “tempo” che non è quello storico, che è il
30
«megatempo della natura» , o un tempo prima del tempo.
Proprio questa divaricazione, questa paradossale ubiquità (nel
tempo e fuori di esso), rende la «Beltà» autentica non assimilabile (né
confondibile con, anche se sempre più confusa a) quella «menstrua» della
storia inautentica. Ed è in virtù di questa essenziale differenza (sempre meno
avvertibile, tuttavia, nell’immane turbinio del falso e nell’avanzare
inarrestabile del negativo) che alla violenza della storia potente fa riscontro la
delicatezza (cfr. l’aggettivo «lieve» iterato: vv. 44 e 46) di un atteggiamento di
ascolto rispetto a un senso che è sempre di più fuori dall’umano e il cui
coglimento è precisamente il fine della poesia, di quella parola cioè che
continuamente s’incarica di ri-portarlo dentro, di integrarlo ma pure, per non
smarrirlo e tradirlo, di tenerlo sospeso in una dimensione intermedia (non
tutta Storia, non tutta Natura): che è precisamente la dimensione mentale
che tanto sembra infastidire un lettore, pure per altri versi acuto, come
Fausto Curi.
La parola poetica è per Zanzotto novum assoluto ma anche perenne
faticoso ritorno del senso nell’alveo dell’esperienza; tale parola nasce da un
conatus, anche doloroso, a conoscere (e dire), e dunque da un’originaria
mancanza: «l’implorazione ferma | nei millenni come una ferita» dei vv. 4142. L’«alba» e il «germoglio» (vv. 43 e 44) rinviano a questa prospettiva
aurorale (innovativa) sempre di nuovo da ri-trovare, a un’apertura appagante
che non è scissa da un presupposto di sofferenza – quella «ferita» che è
pure, a ben guardare, appunto un’apertura, una feritoia nella monade
dell’individuum.
La condizione di debolezza del soggetto («menti e mani molli
d’allergie», v. 49: riferimento autobiografico), la sua morbosa fragilità, è
74
anche ciò che meglio lo dispone alla postura di ascolto, all’opera di
auscultazione paziente ma non passiva di fenomeni sempre-uguali ma ogni
volta nuovi (qui l’avvicendarsi delle stagioni, motivo d’importanza decisiva
nella poesia del grande «paesaggista» Zanzotto). Questa è propriamente la
«vita silenziosa», dunque, questo intimo contatto con la realtà al di fuori e al
di sopra della Storia, questa dedizione a captare la scaturigine del Senso –
su cui s’innesta la Storia stessa, per quanto se ne allontani. È questo umile e
indefesso atto di leggere il reale muto e portarlo alla parola. Riconoscendovi
una parola, se è vero che una simile prassi di donazione di senso, questo
dire cose nuove nel sempre uguale di una condizione ontologica data una
volta per tutte, è una forma appunto di lettura (vv. 50 e 51); lettura che
precede e rende possibile, che motiva, la scrittura, e che – con il MerleauPonty della lezione inaugurale al Collège de France, 1953 – non è altro che
31
intuizione (di un senso da-verbalizzare) .
«Vita silenziosa» è quella del poeta in quanto si collochi
costantemente nella prospettiva della poesia da-farsi, nella parola da-dirsi,
calato nel silenzio del mondo, silenzio ontologico, che pertiene alla Physis –
che è il nome dell’Essere fenomenico. In tale dis-posizione ci si es-pone a
oltraggi e ustioni, si gode di un privilegio ambiguo: «talvolta» sarà permesso
di accogliere un dono ambivalente, quel leopardiano «vero» che è un «frutto
armato»
(magnifico,
più
che
semplicemente
cripto-ossimorico,
l’accostamento). Ma non è altro, questo, che il rischio corso da chiunque, nel
silenzio del fenomeno o dietro di esso, veda spalancarsi la vertigine incomprensibile dello spazio-tempo assoluto. Quei «massimi cieli» che
segnano il perturbante confine tra fisico e metafisico (vv. 54-61), il crinale tra
Bene e Male, Essere e Nulla: abisso “pascaliano” che marchia all’origine
l’epoca moderna e che instaura per sempre la crisi dell’umano, in una gittata
che dall’epoca dei Lumi raggiunge il presente del poeta.
La penultima sezione dell’Ecloga II inscena lo scandaloso affrontarsi
di umile e assoluto, l’inaudita assurda confidenza tra l’infimo e l’eccelso. Il
fenomeno più impercettibile (il caduco: si rimanda alla freudiana – e rilkiana –
Vergänglichkeit) è precisamente ciò che lascia intuire, fa leggere, qualcosa di
molto prossimo all’eterno, vale a dire l’Essere silenziosamente diveniente
32
entro quella dimensione geologico-siderale tanto nota al lettore di Zanzotto .
Il soggetto si dispone nell’umile posizione creaturale, consapevole
dell’ineliminabile dislivello esistente rispetto a ciò che lo sopravanza ma forse
non trascende – Natura, Essere, Valore –, e verso cui si osa allora non
disperare di poter riuscire a innalzarsi: cfr. i vv. 62-63, nei quali «ciglia» è
lemma di memoria leopardiana – cfr. il «ciglio» di Alla luna, v. 7 – ma forse
anche, di nuovo, segretamente alcyonico: perché in gioco è sempre la spinta,
33
il conatus erotico, verso un Reale di cui il Verbo è copula . E con lo sguardo,
75
infatti, anche la «bocca» del soggetto sarà forse sollevata «fino a te», con
locuzione iterativa che – di quello stesso soggetto in tensione – segnala
insieme il nobile sforzo e la hybris inaudita.
Il destino di dissoluzione che aveva segnato la fine della prima
sezione dell’ecloga con un nichilismo più rassegnato che disperato non
impedisce ora di guardare con qualche ottimismo alla massima ambizione di
un soggetto inopinatamente ardito, quello che ha optato per la vita silenziosa
della poesia: il trovamento del Senso, il ripristino del legame con l’Essere,
attraverso la parola. Questo riscatto paradossale – attraverso una forma della
34
hölderliniana Untertänigkeit, si direbbe – del caduco e del Nulla (come parte
imprescindibile dell’Essere diveniente), e del flebile suono e del silenzio
(come via maestra alla parola), è reso attraverso forme che ricordano il finale
35
di Fuisse , con l’io poetante che vede il proprio «ultimo [...] indizio» rifulgere,
riscattarsi appunto, col suo stesso semplice disporsi entro la matrice
terrestre, per “inazzurrirsi” (l’azzurro, col verde, nel cromografo zanzottiano è
costante spia del Valore: fin da Dietro il paesaggio, come vide
tempestivamente Fortini) «di stellari entusiasmi, | di veloci convulse
speranze» (il motivo celeste si congiunge a quello “leopardiano” della
speranza anche nel testo che segue la nostra ecloga, e che come detto vi si
36
connette) .
L’immagine della poesia – della «vita silenziosa» come esistenza
integralmente consacrata alla ricerca del Senso – si ritrova nelle «lontananze
capovolte» che alludono, nell’ultimo segmento del testo, al modo
paradossale di avvicinare il Silenzioso e renderlo per verba: captando, quasi
fotografando, forme (immagini) che possono essere soltanto «rubate»
(strappate al loro inviluppante silenzio) attraverso gli «specchi» fatalmente
illusori e qualche volta ustori del linguaggio, dispositivi che colgono talora per
37
accidente ciò che da essi resta «remotissimo» . Allo stesso modo in cui i
«massimi cieli» si ritrovano deposti in specchi d’acqua «per profili di colchici
e libellule» (di un vivente cioè, sotto la specie vegetale e animale, che
rispecchia il macrocosmo). Sono, le parole native della poesia, come «fiori
usciti da mura ad adorarti»: l’Essere, attraverso la parola poetica, si affranca
per virtù propria da ciò che lo murerebbe nella cattiva storicità e nella
disperazione del Negativo, e s’impone per potenza generativa in un gesto
che così può essere a un tempo di lode e di collaudo per se stesso (vige
infatti sempre in Zanzotto l’equivalenza romantica tra vis generativa della
38
parola poetica e conatus “naturante” della Physis) .
È la «vita silenziosa» a permettere questa aurorale scaturigine del
Senso, che si fa nella natura e come natura, che prende forma senza
prendere congedo dall’informe, che emerge come parola capace di parlare
senza urlare e in grado di dis-invischiarsi dal rumore che l’assedia. Una forza
76
affermativa dominata da Eros; che, dunque, non può essere separata dal suo
39
versante annichilente, negativo (Thanatos ): non è un caso se l’unio quasi
mistica che l’«io» riesce a conseguire con l’istanza dispensatrice di quella
sacra forza vitale nel magnifico verso conclusivo – che riesce
miracolosamente a non sembrare retorico – sortisce il medesimo effetto del
dolce naufragare leopardiano: in cui il negativo (il dissolvimento dell’io) viene
accettato, neutralizzato e quasi “assorbito” in una più inglobante, non
ingenua, resiliente positività.
In questa arrischiata opzione in favore del Senso e in questo deciso
investimento ontologico-assiologico, dal sentore quasi jonasiano, andrebbe
cercato l’intimo valore dell’Ecloga II, anche in rapporto al tema del silenzio.
Piuttosto che leggere quest’ultimo, nel nostro testo e più in generale
nell’opera poetica zanzottiana, riferendosi estrinsecamente a una retorica del
silenzio del genere di quella indagata di recente da Mortara Garavelli per
«passi esemplari» – retorica che pure, certo, in Zanzotto trova forme plurime
e talora originali. E piuttosto che tentare di penetrare da un’indagine empirica
sull’immaginario del silenzio (che, seguendo le tracce lessicali, s’imbatte
naturalmente anche nell’Ecloga II) entro un’interpretazione più inclusiva e
radicale che mostri come il poeta approdi, dopo Filò, a integrare il silenzio
40
alla parola .
Perché un silenzio “integrato” alla parola vive per la parola, è esso
stesso parola, rappresentazione – e non silenzio. Il silenzio è piuttosto, per
Zanzotto, il primum della parola: non solo nel senso che ne costituisce
l’origine, ma anche e soprattutto perché è ciò che a essa sta sempre davanti,
di fronte. È l’Essere nel suo stare (che non è semplice-presenza), mutamente
gravido di senso, in attesa di un «io» il quale – benché debilitato, destituito, a
rischio di contaminazione e di osmosi con l’inautentico – proprio così si
costituisce e si afferma: nel silenzio “usato simbolicamente”, cioè ponendosi
41
fuori di esso con le parole . In ciò precisamente consiste la zanzottiana vita
42
silenziosa: nell’emergere di quel «Cogito tacito» che assume su di sé, come
vocazione di vita e come impegno etico, l’onere del Senso, il compito
esaltante quanto azzardato di dire sul fronte del silenzio – al suo enigmatico
43
cospetto .
1
Per un quadro d’insieme si può vedere l’Introduzione (del curatore) a ENRICO TESTA
(a cura di), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Torino, Einaudi 2005.
77
2
Si riprende la definizione proposta, per le ultime tre raccolte zanzottiane, da Stefano
Dal Bianco nell’Introduzione ad ANDREA ZANZOTTO, Tutte le poesie, a cura di Stefano
Dal Bianco, Milano, Mondadori 2011.
3
Cfr. per esempio PIER VINCENZO MENGALDO (a cura di), Poeti italiani del Novecento,
Milano, Mondadori 1978, p. 872. Mengaldo, che scrive di IX Ecloghe come di «una
svolta decisiva nella carriera di Zanzotto», include il testo che qui ci interessa nella sua
storica antologia (pp. 882-884). «Importante» (p. 135), anzi «decisiva» (p. 147) appare
la svolta delle Ecloghe anche ad ANDREA CORTELLESSA, Andrea Zanzotto, la scrittura, il
paesaggio, in ID., La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a
oggi, Roma, Fazi 2006.
4
Cfr. FAUSTO CURI, La poesia italiana nel Novecento, Roma-Bari, Laterza 1999, pp.
339-340. L’immagine della serie dei libri zanzottiani come una catena, fatta di anelli
«intrecciati tra di loro ma ognuno nettamente distinto, dislocato rispetto a quelli
precedenti», è tolta da Autoritratto, testo del 1977 incluso in Prospezioni e consuntivi
(cfr. ANDREA ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian
Mario Villalta, Milano, Mondadori 1999, pp. 1205-1210; il riferimento che ora interessa
è alle pp. 1208-1209).
5
Su questo aspetto cfr. per esempio le parole dello stesso poeta riportate nell’incipit
della già citata introduzione (Il percorso della poesia di Andrea Zanzotto) di Dal Bianco
al volume con tutte le poesie, p. 7; e recensendo, nel 1980, Storia di Tönle di Rigoni
Stern: «io passo per contorto, oscuro, difficile, complicato» (cfr. Aure e disincanti nel
Novecento letterario, in ANDREA ZANZOTTO, Scritti sulla letteratura, a cura di Gian Mario
Villalta, Milano, Mondadori 2001, vol. II, p. 181). Inoltre: «Quella di Zanzotto è una
poesia difficile (lo è sempre stata, fin dai suoi esordi)» (FERNANDO BANDINI, Zanzotto
dalla «Heimat» al mondo, in ANDREA ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, cit., p. LIII).
6
Cfr. per tutti l’ormai canonica disamina di STEFANO AGOSTI, Introduzione alla poesia di
Zanzotto, in ANDREA ZANZOTTO, Poesie (1938-1972), a cura di Stefano Agosti, Milano,
Mondadori 1973, pp. 14 ss. (si segnala che l’antologia curata da Agosti presenta
l’Ecloga II alle pp. 117-119); e, tra le riprese non pedisseque, le puntualizzazioni di
PIER VINCENZO MENGALDO, op. cit., p. 873.
7
Cfr. STEFANO DAL BIANCO, Profili dei libri e note alle poesie, in ANDREA ZANZOTTO, Le
poesie e prose scelte, cit., p. 1462.
8
A meno che, naturalmente, non si voglia a esso ricondurre la stessa «paradossale
ripresa del genere bucolico virgiliano dell’ecloga» (DAL BIANCO, ibidem). Ma
l’ostentazione di un referente culturale tanto anacronistico da apparire addirittura
inconcepibile corrisponde all’esacerbazione di quella componente (iper)letteraria che è
elemento fondativo rispetto alla prassi espressiva zanzottiana, e che quindi sortisce
come risultato la trasparenza, un peculiarissimo effetto di massima naturalezza.
L’antico genere letterario riesumato da Zanzotto, lungi dal presentarcisi come
autonomo vettore di distanziamento ironico, rischia al contrario continuamente di
coincidere con quella «“seconda natura”» che nella poesia «sfugge alla storia e alla
stessa cultura come fatto storico» (cfr., in Prospezioni e consuntivi, cit., Situazione
della letteratura, p. 1094).
9
La decisiva presenza di Leopardi in Zanzotto è stata per tempo riconosciuta dalla
critica e rimarcata, con la consueta autocoscienza, dal poeta veneto stesso. Può
essere qui osservato che Leopardi opera in Zanzotto costantemente, dalla primissima
78
stagione fino all’estrema (si rinvia per quest’ultimo aspetto all’articolo di Antonio Prete
segnalato da ANDREA CORTELLESSA, op. cit., p. 694 nt. 32).
10
Ma «la situazione dei primi versi è quella del Leopardi di Alla luna», osserva DAL
BIANCO, Profili dei libri e note alle poesie, cit., p. 1466). Tuttavia cfr. anche La vita
solitaria, segnatamente i vv. 23-38 e 70 ss.. Ovviamente non si tratta ora di
rintracciare, tra i Canti, un unico e determinato precedente per il nostro testo. Quanto
alla tradizione cui Leopardi guarda, fin dal titolo, in La vita solitaria, la si sunteggia
efficacemente nel “cappello” al componimento che si legge in GIACOMO LEOPARDI,
Canti, a cura di Franco Gavazzeni, Milano, Rizzoli 1998, p. 305.
11
Va ben rimarcato che Zanzotto fu sempre parco di epigrafi dedicatorie, anche per
singoli componimenti poetici. A uno spoglio improvvisato del volume che raccoglie
Tutte le poesie si contano, salvo sempre possibili errori, soltanto altri due casi, con
un’incidenza statistica dunque davvero ridottissima, prossima allo zero. Se non si
considerano infatti il «grido dedicatorio» che apre il Recitativo veneziano, in Filò e
l’esergo che precede la serie Andar a cucire, in Idioma (in cui quella di Maria Carpèla è
«figura emblematica» – Dal Bianco – più che reale, storica), e se si concorda sul fatto
che neppure debba rientrare nel computo la dedica – collettiva e “polemica” – «Ai
seguaci dell’“Ecole du regard”» preposta a Palpebra alzata, pur essa in IX Ecloghe,
restano due soli casi, che sono in realtà uno soltanto: dedicatario sia di E la madrenorma (in La Beltà) che della Postilla all’Ipersonetto (in Il Galateo in Bosco) è quel
Franco Fortini la cui già ben nota importanza d’intellettuale e di poeta per Zanzotto
riesce in tal modo confermata.
12
Ottima la Cronologia curata da Gian Mario Villalta, in ANDREA ZANZOTTO, Le poesie e
prose scelte, cit., pp. XCV-CXXXV (per il sodalizio con Marisa Michieli cfr. in particolare
p. CXVIII).
13
STEFANO DAL BIANCO, Profili dei libri e note alle poesie, cit., p. 1466 sembra tuttavia
più drastico: «Il tu è [...] da identificare con il personaggio b delle ecloghe dialogate,
ossia con la poesia stessa, come Z.[anzotto] fa esplicitamente nell’Ecloga III».
14
L’«hölderlinismo», a molti livelli, del poeta pievigino è cosa ben nota agli studi
zanzottiani. Ci si limita qui a rinviare a FERNANDO BANDINI, op. cit., pp. LVIII ss. (e a
richiamare l’Introduzione zanzottiana al volume con Tutte le liriche del poeta di
Hyperion, Milano, Mondadori 2001).
15
Può rivestire qualche interesse rinviare al “cappello” anteposto da Ferdinando
Camon alla sua intervista a Zanzotto inclusa nel fortunato volume Il mestiere di poeta,
e in particolare all’«equivoco [...] frequente» per cui la moglie del poeta è scambiata
per la sorella, in virtù della somiglianza nei tratti del viso. L’intervista è inclusa in
Prospezioni e consuntivi (cfr. ANDREA ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, cit., pp.
1119-1134; si riporta da p. 1119).
16
Cfr. Leopardi, Alla luna, v. 4.
17
A questa tematica si connette evidentemente quella, centrale, della «piccola patria»,
della irrinunciabile Heimat (per cui cfr. esemplarmente BANDINI, op. cit., passim). Nel
1961, anno che precede la pubblicazione delle IX Ecolghe, Zanzotto rinuncia a
trasferirsi a Padova, «ponendo così fine a ogni ipotesi di carriera universitaria» (cfr. la
già segnalata Cronologia a cura di Villalta).
18
Si veda per tutti Curi, che accentua – in un giudizio complessivamente severo della
poesia di Zanzotto, e non sempre disposto ad affrontarne la complessità senza
ricondurla sbrigativamente a una più o meno consapevole (e colpevole)
79
illusione/mistificazione ideologica – la valenza regressiva di questa scelta riferendosi
alla «rimozione della storia in favore della natura» da parte di «un poeta per cui non
esiste storia ma natura» (cfr. FAUSTO CURI, op. cit., pp. 337-338). Tra i critici meglio
disposti verso il poeta pievigino, Fernando Bandini (riferendo a Idioma un giudizio che
può essere esteso all’intero arco dell’opera zanzottiana), pur non negando quello che
al più si presenta – più propriamente – come un «rifiuto della modernità» (e non
dunque della storia tout court), appare sostanzialmente nel giusto quando si riferisce a
una «pendolarità del poeta fra natura e storia» (cfr. FERNANDO BANDINI, op. cit., p. XC).
19
Osserva molto opportunamente STEFANO DAL BIANCO, Introduzione, cit., p. IX, che la
«legge dell’interscambio oppositivo o della contradictio in terminis [...] interessa da
vicino gli stessi rapporti fra Natura e Storia e non risparmia certo la Poesia».
20
La storia penetra violentemente nell’alveo protetto, “silenzioso”, della piccola patria,
e lo fa con violento baccano. Un avvenimento infantile, per il poeta «di straordinario
valore morale», può essere assunto come scena primaria, o trauma fondativo, di una
situazione psicologica destinata a fissarsi: quello occorso quando il poeta aveva «sui
quattro-cinque anni», allorché una «squadraccia di provocatori» fascisti si mise «a
strepitare e a lanciare insulti» verso il padre dello scrittore, che si trovava in casa con
la famiglia. «Io, dentro casa, sentii queste urla e provai un senso di paura, violenza e
intimidazione», ricorda molti decenni dopo Zanzotto (cfr. ANDREA ZANZOTTO, In questo
progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda, Milano, Garzanti 2009, p. 41,
corsivi aggiunti). Attutire «le voci rimbombanti della Storia» (cfr. STEFANO AGOSTI,
L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto, in ANDREA ZANZOTTO, Le poesie e
prose scelte, cit., p. XVIII), o silenziarle, sarà sempre uno dei propositi del poeta.
All’altezza di IX Ecloghe a tale proposito corrisponde forse quella estromissione del
tempo, che risulta come «pietrificato», cui si riferisce sempre AGOSTI (ivi, pp. XVI-XVII).
21
L’accostamento sinestetico è tradizionale, si riscontra già nelle Confessiones
agostiniane (XII, III) e risale al testo biblico: cfr. BICE MORTARA GARAVELLI, Silenzi
d’autore, Roma-Bari, Laterza 2015 (l’incipit del capitolo I).
22
Si vedano per esempio, a titolo riassuntivo, le dichiarazioni dell’ormai anziano poeta
sulla «bellezza femminile come punto di arrivo e summa di ogni bellezza della realtà».
In una figura come quella dell’omerica Nausicaa, esemplarmente, «tutto sembra
ricomporsi e avere un senso», configurarsi nella «verità di un volto-corpo-mente-aura».
Aura che si rapporta a quel rayonnement che sollecita e determina a sua volta un «atto
di rivelazione». Può forse passare come qualcosa di più che una semplice galanteria, a
questo punto, l’affermazione del poeta per la quale «è stata sua moglie Marisa ad
ammaliarlo» (cfr. ANDREA ZANZOTTO, In questo progresso scorsoio, cit., pp. 118 ss.).
23
STEFANO AGOSTI in questi versi vede un «palese riferimento alla prima Bucolica
virgiliana» (cfr. L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto, cit., p. XV). Si veda
allora, di Zanzotto, un intervento più tardo (1981), Con Virgilio (tra le Fantasie di
avvicinamento, in ANDREA ZANZOTTO, Scritti sulla letteratura, cit., vol. I, pp. 343-346). In
questo breve testo la poesia virgiliana sembra collocarsi tra il «silenzio degli dèi» e un
«frastuono delle cose» che è soprattutto «stridore delle armi»: per prendere dimora in
una «Heimat» che è «patria storica psichica e culturale, sede di ogni affetto fondante la
vita» («poderetto», «orto», non «eden»: p. 344).
24
Cfr. naturalmente RICHARD RORTY, Contingency, irony, and solidarity, Cambridge,
Cambridge University Press 1989 (trad. it. di Giulia Boringhieri, La filosofia dopo la
80
filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà, Roma-Bari, Laterza 1989, in particolare il
capitolo 2).
25
Si situano dalle parti di questo blocco, di questa impasse originaria, le radici della
sensibilità (e poi della formazione) esistenzialistica di Zanzotto, come ben vede
ANDREA CORTELLESSA, op. cit., p. 124. Ma in questa condizione d’immobilità e di
esclusione (che richiama il senso d’impotenza del soggetto, come il poeta stesso
chiarisce riferendosi proprio ai vv. 19 ss. della nostra ecloga in un testo di molto
posteriore, del 1972) si colloca anche ciò che permette di forzarla, perché proprio in
virtù di quella estraneità aliena e contemplativa sarà consentita l’auscultazione
ontologica di cui si dirà infra nel testo, come forma altra di partecipazione alla realtà.
Questa dialettica scacco-riscatto è particolarmente evidente nella rievocazione
dell’infanzia contenuta nel già richiamato Autoritratto (1977). Per l’auto-commento
zanzottiano all’Ecloga II cfr. invece Uno sguardo dalla periferia, in Prospezioni e
consuntivi, cit., p. 1152.
26
Vale per Zanzotto ciò che egli stesso scriverà nel 1983 a proposito di Saba, per il
quale la poesia può ritrovare il suo senso ritornando, dopo essersene separata, a una
vita «che è corpo e corpo sociale» (cfr. Per Saba, in ANDREA ZANZOTTO, Scritti sulla
letteratura, cit., vol. I, pp. 357-368; cit. a p. 358). Siamo nei paraggi di quella
necessaria Heimkunft cui il poeta si riferisce in un saggio stavolta prossimo a Vocativo
(e dunque anche a IX Ecloghe), su Solmi; in cui il poeta si sofferma sul «ritorno a quel
terreno su cui è doveroso fermarsi in nome della “continuità” razionale e culturale, di un
colloquio coi nostri simili, qui e ora, anche se nel presagio del dopo e dell’altrove» (cfr.
Sergio Solmi e Levania, in ANDREA ZANZOTTO, Scritti sulla letteratura, cit., vol. I, pp. 5973; cit. a p. 68).
27
È lo stesso percorso «vitalmente noètico» cui si riferisce STEFANO AGOSTI in apertura
del suo saggio su L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto, cit., p. IX. E va detto
allora qui, riprendendo un’altra felice formula del critico più “complice” di Zanzotto (e
generalizzandone l’oggetto, che per Agosti è soltanto La Beltà), che quello del poeta
pievigino è sempre, originariamente, «un gesto di natura noètico-esistenziale» (ivi, pp.
XX ss.).
28
Cfr. il riferimento del poeta al «rischio stellare in cui la vita si pone» sempre, nel finale
della sua conversazione con Marzio Breda (ANDREA ZANZOTTO, In questo progresso
scorsoio, cit., p. 122).
29
E del resto, come osserva NIVA LORENZINI, La poesia italiana del Novecento,
Bologna, il Mulino 1999, p. 152, la stessa trasformazione del genere lirico operata dalla
poesia di Zanzotto appare «irriducibile a qualsiasi prospettiva “veteroumanistica”».
30
Cfr. di nuovo NIVA LORENZINI, ivi, p. 151.
31
Cfr. MAURICE MERLEAU-PONTY, Éloge de la philosophie, Paris, Gallimard 1953 (ed. it.
a cura di Carlo Sini, Elogio della filosofia, Milano, SE 2008, p. 26).
32
Per l’accadere impercettibilmente silenzioso dell’Essere si segue CARLO SINI, Il gioco
del silenzio, Milano-Udine, Mimesis 2013, passim. Il testo di Sini è tenuto presente, in
generale, in tutta questa zona dell’argomentazione.
33
L’Autore è tornato a più riprese sulla valenza “erotica” (anche nel senso di arazionale, emotiva e desiderante) della poesia. Si veda come esempio in modo
particolare significativo – in quanto singolarmente consonante rispetto al testo che ci
sta ora interessando – l’intervento su Eluard, degli stessi anni di IX Ecloghe (incluso in
Fantasie di avvicinamento: Eluard dopo dieci anni, in ANDREA ZANZOTTO, Scritti sulla
81
letteratura, cit., vol. I, pp. 115-121). Eros, Amore e insomma quella «forza connettiva»
cui si riferisce STEFANO DAL BIANCO (nella più volte richiamata Introduzione al volume
con Tutte le poesie zanzottiane, cit., p. VIII) e che determina peraltro una qualche
equivalenza tra vita e sintassi, composizione.
34
Cfr. Il mestiere di poeta, in Prospezioni e consuntivi, cit., p. 1130. E Hölderlin come si
sa per Zanzotto viene prima di Lacan, e di molti altri. È la parola del poeta tedesco che
all’adolescente parla della necessità di salvarsi «dall’affanno e dai rumori degli uomini»
(cfr. ANDREA ZANZOTTO, In questo progresso scorsoio, cit., p. 19). Postura esistenziale
originaria (trauma, impotenza, esclusione, passività) e disposizione alla poesia
(ascolto, desiderio, necessità della parola) originano congiuntamente e si sostengono
reciprocamente. Io «storico-letterario» e io «nevrotico», «io lirico» e «io psicotico», per
riprendere le categorie usate da Bandini a proposito del leopardismo di Vocativo,
vanno sì «opportunamente» distinti, ma senza dimenticare che questa distinzione è
davvero funzionale soltanto all’esercizio critico, non all’espressione poetica. Ciò che
altri validissimi studiosi dell’opera zanzottiana (si pensa ora soprattutto ad Agosti, ma
anche a Dal Bianco – nei loro scritti, rispettivamente, del 1999 e del 2011) tendono a
circoscrivere alla fase estrema di questa – la disposizione “pascaliana”, la passività di
un soggetto esclusivamente recettivo, che si limita ad ascoltare e ad accogliere, nel
silenzio del mondo – andrebbe allora considerato in essa, al contrario, come
costantemente attivo e decisivo.
35
Cfr. il commento di ANDREA CORTELLESSA a questo componimento di Vocativo, in op.
cit., pp. 130-135. Per lo studioso la posizione di Zanzotto, a un’altezza che è all’incirca
la stessa di quella della nostra ecloga, si caratterizzerebbe per una negatività integrale
contrapposta alla speranza riposta nel futuro dalle prospettive cristiana e marxiana,
«che in quegli anni si contendevano il campo». In realtà – come si sostiene alla nota
successiva – le due posizioni, negatività radicale e sguardo non completamente
disilluso sul futuro, non sembrano in Zanzotto inconciliabili, e anzi rappresentano la
cifra “paradossale” (e, se si vuole, “progressiva”) di molta della sua migliore poesia.
36
Evidentemente non si tratta di un rovesciamento tutto euforicamente connotato, non
può essere così. E non tanto perché quelle speranze «veloci convulse» hanno riflessi
non certamente rasserenanti, ma soprattutto per il riferimento all’“alterazione” del
«dire» e dell’«esistere» provocata dall’«attesa», vale a dire dalla condizione dimidiata e
“ferita” che, come s’è visto, è indispensabile al soggetto per predisporsi al Valore.
Certo il poeta scrive in «anni di speranze deluse», come si legge a conclusione della
nota, del 1958, su Onore del vero di Luzi (cfr. Aure e disincanti nel Novecento
letterario, cit., p. 23); ma la posizione dell’Autore sarà sempre quella posta a suggello
di un intervento del 1979 su Lacan: che «convenga», cioè, sperare nella «nonsperanza» espressa nel pensiero dello psicanalista francese (cfr. Nei paraggi di Lacan,
ivi, p. 176). E infatti, tornando agli anni che qui più ci interessano e allo splendido
saggio su Solmi (1957) ora in Fantasie di avvicinamento, la speranza sembra divisa e
incerta tra le dimensioni teologica e biologica: si prepara qui il celebre, emblematico,
conio zanzottiano «biologale», che non a caso verrà riferito anche alla poesia e ai suoi
oggetti privilegiati (cfr. ANDREA ZANZOTTO, Scritti sulla letteratura, cit., vol. I, p. 72).
Nella «durissima impasse» che l’individuo si trova a vivere nella tarda Modernità, la
poesia si ostina a sperare (cfr. Prospezioni e consuntivi, cit., pp. 1095-1099). Può
risultare significativo segnalare qui, infine, l’incontro di Zanzotto, nel 1964, con l’autore
82
di Das Prinzip Hoffnung: «Quell’incontro significò qualcosa di basilare, di essenziale,
per me» (cfr. ANDREA ZANZOTTO, In questo progresso scorsoio, cit., p. 54).
37
Nel saggio Michaux, il buon combattente, di questi anni (1960; in Fantasie di
avvicinamento, cit., pp.101-106), Zanzotto scrive che lo scrittore francese «ha saputo
porgere l’occhio e l’orecchio al “grido” difficilissimo dell’“oggettività”», conseguendo la
«suprema vendemmia di un logos che permea gli abissi della res extensa» (p. 103). È
il «precipitare anonimo, cioè senza nome e prima del nome, che solo l’arte del
nominare afferra al transito» («quell’arte di ogni arte che è l’arte della parola») cui si
riferisce Carlo Sini, nel capitolo L’arte del silenzio del suo già citato Il gioco del silenzio.
38
Più che richiamare qui la proiezione assiologica effettuata da FAUSTO CURI, op. cit.,
p. 336, sulla scorta del Leopardi delle Operette, sulla divaricazione tra natura naturans
e naturata (forse in Zanzotto non così pronunciata, né davvero determinante), mette
conto di sottolineare le istanze narcisistiche e quelle risarcitorie di un simile esito. Per
le prime si possono vedere, a partire dal nostro testo, le implicazioni più riposte del
motivo “speculare”; le seconde si legano invece all’idea stessa che l’autore veneto
detiene della poesia, e in virtù della quale, infatti, con Zanzotto ci si trova sempre in
presenza – per usare le parole di NIVA LORENZINI, Il presente della poesia. 1960-1990,
Bologna, il Mulino 1991, p. 117 – di «un poeta che millanta crediti sulla realtà».
39
Nella conversazione con Breda, per esempio, lo scrittore si riferisce al «rapporto
primario che esiste tra poesia e tema della morte» (cfr. ANDREA ZANZOTTO, In questo
progresso scorsoio, cit., p. 89).
40
È quanto fa LUIGI TASSONI nei due capitoli conclusivi della sua monografia
zanzottiana, Caosmos. La poesia di Andrea Zanzotto, Roma, Carocci 2002, pp. 149
ss. (peraltro non senza osservazioni interessanti).
41
Cfr. SANDRO BRIOSI, L’uso retorico e l’uso simbolico del silenzio, in Carlo Alberto
Augieri (a cura di), La retorica del silenzio, Lecce, Milella 1994, pp. 372-381.
42
Cfr. MAURICE MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard
1945 (trad. it. di Andrea Bonomi, Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani
2003, pp. 515 ss.).
43
Cfr. esemplarmente Alcune prospettive sulla poesia oggi (1966, in Prospezioni e
consuntivi, cit., pp. 1135-1142): «un antico postulato iniziale permane: chi scrive, chi
scrive poesia, è soltanto qualcuno che vorrebbe parlare e forse spera di poter
ascoltare almeno quanto parla, anche se non esclude la possibilità di instaurare una
qualche relazione col limite, col nulla, col silenzio, che pure, dialetticamente, mutano in
qualche modo il significato di questa apertura monologante» (p. 1139).
Riferimenti bibliografici
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(1938-1972), a cura di Stefano Agosti, Milano, Mondadori 1973, pp. 5-25.
83
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Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Milano,
Mondadori 1999, pp. VII-XLIX.
FERNANDO BANDINI, Zanzotto dalla «Heimat» al mondo, in Andrea Zanzotto, Le poesie
e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori
1999, pp. LI-XCIV.
SANDRO BRIOSI, L’uso retorico e l’uso simbolico del silenzio, in Carlo Alberto Augieri (a
cura di), La retorica del silenzio, Lecce, Milella 1994, pp. 372-381.
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senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, Roma, Fazi 2006, pp. 123154.
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e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori
1999, pp. 1379-1681.
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Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, a cura di Stefano Dal Bianco, Milano, Mondadori
2011, pp. VII-LXXXV.
GIACOMO LEOPARDI, Canti, introduzione di Franco Gavazzeni, note di Franco
Gavazzeni e Maria Maddalena Lombardi, Milano, Rizzoli 1998.
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NIVA LORENZINI, La poesia italiana del Novecento, Bologna, il Mulino 1999.
PIER VINCENZO MENGALDO (a cura di), Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori
1978.
MAURICE MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard 1945
(trad. it. di Andrea Bonomi, Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani 2003).
MAURICE MERLEAU-PONTY, Éloge de la philosophie, Paris, Gallimard 1953 (ed. it. a
cura di Carlo Sini, senza indicazione del traduttore, Elogio della filosofia, Milano, SE
2008).
BICE MORTARA GARAVELLI, Silenzi d’autore, Roma-Bari, Laterza 2015.
RICHARD RORTY, Contingency, irony, and solidarity, Cambridge, Cambridge University
Press 1989 (trad. it. di Giulia Boringhieri, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza,
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CARLO SINI, Il gioco del silenzio, Milano-Udine, Mimesis 2013.
LUIGI TASSONI, Caosmos. La poesia di Andrea Zanzotto, Roma, Carocci 2002.
ENRICO TESTA (a cura di), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Torino, Einaudi 2005.
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Mario Villalta, Milano, Mondadori 1999.
ANDREA ZANZOTTO, Scritti sulla letteratura, a cura di Gian Mario Villalta, 2 voll., Milano,
Mondadori 2001.
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Milano, Garzanti 2009.
ANDREA ZANZOTTO, Tutte le poesie, a cura di Stefano Dal Bianco, Milano, Mondadori
2011.
84
Spazia lo sguardo sulle Highlands mentre il pensiero va ai castelli
visti e a quelli che dobbiamo ancora vedere, Urquhart, Eilean Donan,
Dunnottar, Elgin. A un certo punto, dal finestrino dell’autobus, vedo due
cartelli stradali che indicano Cawdor e Glamis. Un’emozione indicibile, penso
alla tragedia di Shakespeare che, assieme al Giulio Cesare, è tra le mie
preferite, il Macbeth. Rivedo le streghe che salutano Banquo e Macbeth con
ambigue profezie e mi par di udire l’apprensione di Macbeth: «Rimanete,
incompiute parlatrici,/ e ditemi di più. Thane di Glamis/ io so già d’essere,
erede di Simel;/ ma perché lo sarei anche di Cawdor?» Il mio fantasticare è,
però, interrotto dall’anziana signora che mi sta accanto e che ci parla,
ininterrottamente, dei suoi appartamenti, delle spese per la casa, dei fortunati
acquisti di ori e di altri preziosi, che le è capitato di fare in varie città italiane.
Al viaggio in Scozia è stata invogliata da immagini suggestive viste su
qualche rotocalco ma, una volta giunta in loco, getta ai paesaggi occhiate
fuggitive giacché la mente e il cuore restano tra le mura domestiche, tra le
sue cose, tra gli amici ai quali racconterà le intense (!) emozioni vissute tra
laghi e boschi così «diversi da quelli italiani, neh?».
Neppure nei santuari naturali dell’immaginazione letteraria, sugli
altipiani immortalati da Walter Scott, nelle brughiere che ancora echeggiano
dei (falsi) canti di Ossian, sulle rive del grande mare dove giungono gli echi
delle note di Mendelssohn affascinato dalle Isole Ebridi e dalla Grotta di
Fingal, è stato possibile ottenere un po’ di silenzio.Il «piccolo mondo
contemporaneo» non ama le pause di riflessione, i momenti di raccoglimento:
rimanere in silenzio può essere un segno di maleducazione, la riprova che ci
si annoia stando con i vicini, persino la rivelazione di una inaspettata
misantropia. «Pisa, città dei silenzi!», diceva D’Annunzio di quella che fu un
tempo, per il padre Dante, il «vituperio delle genti». Oggi, se la laude venisse
ricordata in un depliant turistico, sarebbe la fine di quel flusso di visitatori che,
sulla via di Firenze, fanno sosta a Pisa. E chi vorrebbe mettere piede in quel
mortorio, nel caso D’Annunzio avesse ragione!
La nostra rischia si essere la civiltà del rumore che si sostituisce al
suono, impensabile senza il silenzio. Anni fa un collega della Sapienza di
Roma, nostro ospite a Nervi, fuggì inorridito dal suo albergo - una
RESOCONTTI
SENZA IL SILENZIO LA VOCE UMANA
DIVENTA UN BRUSIO PRIVO DI SENSO
Dino Cofrancesco
85
elegantissima villa ottocentesca nel verde dell’antiparco - non riuscendo a
sopportare il silenzio in cui s’immergeva dopo le 23. I rumori di Roma erano
divenuti per lui una droga da cui non riusciva a (né voleva) disintossicarsi.
Ogni volta che veniva a Genova, per una conferenza o per una lezione
universitaria, il grande Luigi Firpo, al contrario, incaricava il suo più stretto
collaboratore di trovargli una stanza d’albergo, da cui si sentisse unicamente
il fruscio dei rami mossi dal vento. Ma Firpo, il più grande studioso italiano del
Rinascimento, viveva in un’altra dimensione, quella storica, una
consuetudine che rendeva le sue lezioni quasi un’evocazione magica dei
condottieri, dei principi, dei pontefici che avevano segnato quell’epoca
irripetibile.
Mai stato un nostalgico della provincia profonda, fosse quella
abruzzese di Ignazio Silone o quella veneta di Antonio Fogazzaro o quella
emiliana di Guareschi: i grandi progressi tecnologici -dalla chirurgia ai mezzi
di comunicazione di massa, dall’automazione, nelle sue varie forme, al
computer e al tablet ormai a disposizione di tutti - vanno, a mio avviso, messi
all’attivo del secolo breve ma bisogna pur riconoscere che l’euforia del
«nuovo» espone al rischio di un ebetismo di massa che ci fa acquistare un
dvd solo per il piacere dell’«alta definizione», una moto solo per farci provare
l’ebrezza dell’accelerata, col rumore inevitabile che sprigiona, (il fatto di poter
raggiungere più facilmente le località amate passa in secondo piano), un
frigorifero da laboratori NASA unicamente per mostrarlo agli amici, se è vero
che i cibi si conservano altrettanto bene con i frigo comprati al supermarket
degli elettrodomestici.
Sono i rumori, però, che ci garantiscono la maggiore «visibilità», da
quello provocato dall’adolescente che spinge lo scooter a tutto gas
(rovinando la marmitta) a quello del gruppo rock che ostenta la sua
trasgressività rompendo, fino a tardi, i timpani del prossimo. Per questo il
Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità il 2 luglio
u.s. ha pubblicato un Appello al Governo, al Parlamento, alle amministrazioni
regionali e comunali, alle polizie municipali, ai prefetti, alle forze dell’ordine,
per rivendicare «il diritto a riposare tranquillamente all’ora che si preferisce, a
concentrarsi nella lettura, ad ascoltare musica di propria scelta, a godere la
tranquillità e la bellezza di un parco o di una spiaggia».
L’Appello (fra i trenta firmatari ci sono anch’io) esprime un’esigenza
sacrosanta ma, a ben riflettere, non affronta (né si proponeva di farlo) l’entità
e la gravità della vera e propria tragedia che incomberebbe sul nostro tempo,
qualora davvero l’umanità venisse privata del dono prezioso del silenzio. Non
sono un filosofo ma qualcosa mi dice, per esprimere in poche parole un
concetto ben altrimenti complesso e meritevole di approfondimento, che la
perdita del silenzio potrebbe essere la caduta dell’ultimo bastione della
86
Trascendenza rimasto ancora in piedi in un società laica e secolarizzata che
s’è resa conto di poter fare a meno delle chiese — luoghi di elezione del
silenzio, assieme ai cimiteri -- e di poter fare leggi e stabilire regole di
convivenza etsi Deus non daretur.
C’è silenzio e silenzio:c’è, ad esempio, quello “ecologico” della
Pioggia nel pineto: «Taci. Su le soglie/ del bosco non odo/ parole che dici/
umane; ma odo/ parole più nuove/ che parlano gocciole e foglie/ lontane».
Ermione, nei bellissimi versi dell’Immaginifico, è invitata a tacere come si
invita a tacere lo spettatore in platea quando sta per iniziare il concerto e si
spengono a poco a poco le luci in sala. Il silenzio dura un istante poi,
improvvisamente, si apre il sipario e la musica ci trasporta in un’atmosfera
“altra”, dove gli uomini e le loro passioni diventano pura poesia, in virtù della
catarsi artistica. Nella Pioggia di D’Annunzio - ed è la ragione del suo fascino
profondo che, forse, oggi, con i pericoli che minacciano il nostro habitat
naturale, sentiamo più di un tempo - il sipario, però, si apre non sull’orchestra
e sul suo direttore, ma sulla natura stessa che sembra sfidare Mozart e
Rossini con la sua partitura sinfonica eseguita dal vento e dalle acque: «Odi?
La pioggia cade/ su la solitaria/verdura/ con un crepitio che dura/ e varia
nell’aria/ secondo le fronde/ più rade, men rade è |…| E il pino/ ha un suono,
e il mirto/altro suono, e il ginepro/ altro ancora/stromenti diversi/ sotto
innumerevoli dita» . Si comprende come il nostro grande pescarese potesse
venire tanto apprezzato da un genio musicale come Claude Debussy!
E tuttavia, accanto al silenzio «ecologico», ce n’è uno assai più
«profondo», se così si può dire, quello «metafisico». Lo si ritrova nel
capolavoro di Giacomo Leopardi, L’Infinito, un sonetto sublime che si può
solo ascoltare, giacché ogni commento suona quasi come una profanazione:
«ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quelle, e sovrumani/
silenzi,e profondissima quiete…». Qui non si tace più per «cedere il
microfono» alla natura come nella Pioggia nel pineto ma per “annegare”
nell’abisso metafisico, per mollare gli ormeggi dal nostro infelice pianeta e
librarsi in una dimensione ai confini tra il Tutto e il Nulla assoluti. Ermione
resta saldamente con i piedi sulla terra, e il suo corpo si fa cosa, si fa natura,
si fa acqua, si fa albero, si fa frutto — «il cuor nel petto è come pesca/intatta
|…| i denti negli alveoli/son come mandole acerbe» -, il solitario del Monte
Tabor si lascia decisamente alle spalle la vita nelle sue forme più diverse e
l’eco della natura gli rimane dentro solo come il segno, sempre più fioco,
dell’incommensurabilità fra il transeunte e l’eterno: «E come il vento/ Odo
stormir tra queste piante, io/ quello Infinito silenzio a questa voce vo
comparando». Il vento ora serve soltanto come cornice del Silenzio.
Che cos’è l’Infinito? Sono le orme fantasmagoriche di un Dio che è
morto, lasciando che la sua carcassa in miliardi di frammenti si tramutasse in
87
stelle e galassie e buchi neri? È il baratro insondabile che un Dio epicureo,
nel senso dell’assoluta atarassia e dell’indifferenza alle nostre miserie, ha
posto tra sé e il mondo umano? In ogni caso, l’infinito resta il mistero per
eccellenza, quello che ci richiama alla nostra radicale nullità, che ci fa sentire
prigionieri dell’«atomo opaco del male» come a Giovanni Pascoli appariva il
nostro mondo.
Nell’Idillio maremmano,Giosuè Carducci, si faceva quasi il primo
«filosofo della prassi», allorché invitava a «passare oltre», a non alzare gli
occhi al cielo: «meglio oprando obliar, senza indagarlo,/ questo enorme
mister de l'universo!». Il suo consiglio è stato seguito dai protagonisti
(intellettuali e politici) del secolo scorso, con gli esiti che stanno ancora
davanti a noi!
Recuperare il silenzio “metafisico”, in realtà, può significare, non
solo la preservazione dell’ultimo anello che ancora ci lega all’esperienza
religiosa, ma, altresì, una grande lezione di umiltà per quel Prometeo in
sedicesimo che rischia di diventare l’uomo del nostro tempo -- un Prometeo
che, a differenza dell’eroe mitologico, non si prende più la briga di sottrarre il
fuoco agli dei ma pretende che siano gli dei a consegnarglielo,
riconoscendolo come un suo inalienabile «diritto sociale». Forse non
abbiamo più tanto tempo davanti a noi per riorientare le nostre vite, ma se ne
avessimo ancora un po’, dovremme investirlo proprio nel recupero del
silenzio, la nostra paradossale ultima spiaggia. E il silenzio, tra l’altro,
potrebbe insegnarci a guardare, con virgiliana pietas alla storia, ai suoi errori,
ai suoi insegnamenti che gli spiriti superficiali non sono mai stati in grado di
apprendere. Dalla finestra sull’infinito, non sarebbe più così difficile
riflettere,senza boria, sul passato e sul presente: «e mi sovvien l’eterno,/ e le
morte stagioni, e la presente/ e viva e il suon di lei» e, trovandoci nei pressi di
Cawdor e di Glamis, ci ritroveremmo con la capacità di risentire, nel silenzio,
le voci del genio immortale di Stratford-upon-Avon: «giungono dal re dei
messaggeri/ che mi salutano Thane di Cawdor»… A patto che non sia seduta
accanto a noi la signora ciarliera che non riesce a stare in silenzio neppure
per pochi minuti!
88
REFLECTIONS ON A SILENT NATION THROUGH
THE PERSPECTIVE OF THE EVERYDAY
Suzan Meryem Rosita
The carpet sellers at the Grand Bazaar in Istanbul count among the
best storytellers of the world.
Whether they are Armenian or Turkish, each has told the story about
the missing colour. Legend has it that – since 1915 – one colour is missing in
1
all of the designs.
The visitor’s brochure for Anıtkabır, Atatürk’s final resting place, tells
us that the marble stones leading up to Atatürk’s tomb are decorated with the
designs of ancient Anatolian carpets. But there is no colour; just grey lines on
2
white marble.
In recent years, it has become increasingly popular to write
Armenians back into the national history of Turkey, and to explain why
genocidal violence has not been acknowledged at a state level. So far, these
3
studies have been either micro-histories about Armenians or meta-narratives
of the Turkish nation state writ large, as if these two narratives are
4
incompatible. In my dissertation, I bring these recent debates together and
explore the different ways in which Turks and Armenians express and fashion
their selfhood within the very restricted and severely muted narrative space of
modern Turkish nationhood in their daily lives during 1923-1953. The entry
points for such an exploration are two historically entangled and contested
questions: (1) What made the Turks so Turkish?; and (2) what happened to
5
the Armenians in Turkey? These questions constitute the core of my thesis
and will be explored through a narration of the everyday as found in recorded
interviews, memoirs, diaries, biographies, literary works, films (and to a lesser
extent photography) and traveller/foreign observer accounts. Schoolbooks,
adult educational material and selected newspaper articles from 1930-1950
will provide the necessary background to official narratives. In this way I wish
to demonstrate how national identity in Turkey both coheres and fragments in
the everyday practices that represent citizenhood, and it is enforced through
the mnemonic practices, institutionalized or not, which are both present in
(e.g. Atatürk cult) and absent from (genocide un-recognition) official
narratives. These mnemonic practices, I argue, stem from a culture of silence
that has developed in the climate of post-genocidal Turkey.
A break with the past during Turkey’s post-ottoman republican era, I
claim, did not happen in terms of state policies or political strategies but in the
realms of identity formation and remembrance. This ‘affective’ – we could
89
even call it ‘emotional’ – break with the past brought about feelings of
orphanhood and abandonment that characterized the atmosphere of postgenocidal Turkey. While in the Turkish case the absence of the Ottoman
ancestry was immediately filled with a rampant version of Turkishness and
the new father/ancestor figure of Atatürk, the Armenians’ survival bears
witness to a different type of self-fashioning that lacks even the slightest
attempt to bestow an autochthonous presence to their territorial self-identity
or to develop a politicized agency in their everyday interaction with the
Turkish state or fellow Turkish citizens. Theirs was an existence that was at
once censored but, as their literary and artistic output shows, resisted “by
continuing to live”, not unlike their fellow Armenians in Soviet Armenia. In my
study of everyday life and identity formation in post-genocidal Turkey, I try to
recover their narration of a multi-faceted, yet precarious, selfhood within what
Gayatri Chakravorty Spivak calls a “reterritorialized” and “recoded”
experiential space that is at once thoroughly Turkish yet also a place of a
common and shared everydayness, issuing a sharing of material practices
and social structures in everyday life.
Turkey is what I call a ‘silent nation’. In the following section, I will
provide the reader with a glimpse at how a reflection on silence cannot only
empower stories of history that are were unheard, or unwanted, but also
unravel these other stories that have fanfared so loudly that most of the time
6
they were hard to understand. At the core of my reflection stand the earlier
stated questions of ‘what made the Turks so Turkish?’ and ‘what happened to
the Armenians’ in post-genocidal Turkey.
What Made the Turks so Turkish?
The Turkish experience of identity formation was fashioned from a
discontinuous past and it is an experience that is anything but silent. It is
7
loud, outrageous, modern and extreme. And it is Atatürk’s. Erich Auerbach,
a Jewish émigré living in Istanbul in the 1930s, described Atatürk’s Turkey in
a letter to Walter Benjamin with the words “Atatürk had to force through
everything (…) the result is a fanatically anti-traditional nationalism: [with]
rejection of all existing Mohammedan cultural heritage” and a “fantastic
relation to a primal Turkish identity” that is “accompanied by the simultaneous
8
destruction of [any] historical character.” Underneath a surface of
monochrome and hyper-modern subjectivities, Turkish people longed for
recognition, ancestry and a sense of belonging. They were lost, confused and
overwhelmed in the process.
The contemporary Turkish novelist Hamdi Tanpinar writes: “Similar
to the new, modernist buildings [in Ankara], Atatürk’s legacy is like a
newspaper, that nobody knew where it was published, you never once saw,
90
9
but everyone else had read and recited to you in chorus.” What Tanpinar
describes here so pointedly, is a certain uncanniness of the reforms (with no
explainable origins to hold on to), a subsequent/synchronous alienation of the
citizens from them (making them into mere mouthpieces), and a
standardization or serialization of dominant narratives and discourses that
people knew about but did not understand. All of these, according to
Tanpinar, were lived out in a new experiential spatiality, or lifescape, that was
provided for by the modernist architecture/buildings that were rising above
and beyond people’s imagination. It is impossible to ignore the parallel with
Lefevbre’s description of French towns in the 1930s and 1940s in his Critique
of the Everyday Life. Lefevbre writes:
Our towns may be read like a book (the comparison is not
completely exact: a book signifies, whereas towns and rural areas 'are' what
they signify). Towns show us the history of power and of human possibilities
which, while becoming increasingly broad, have at the same time been
increasingly taken over and controlled, until that point of total control, set up
10
entirely above life and community, which is bourgeois control.
Like Lefevbre, Tanpinar refers to a new age of social realities,
cultural consciousness and political control. This standardization of external
life, whether in France or Turkey, stood in stark contrast to the mentalities of
people living in these new orders. While Tanpinar described a total disparity
between what people say (“recite in chorus”) and know or understand,
Lefevbre worries about decadence, or a total withdrawal from life starting to
11
characterize daily life in France. In both situations, the life that was “lived”
12
and the life that was ‘imagined’ were very different from each other.
Recent studies in political and urban geography have theorized how
exterior or spatial forms of modernity often narrated a utopian vision of
Turkish nationhood that despite visually communicating the ideal and values
of the new Republic (“aesthetic modernism”) did not necessarily match the
13
mentalities of its people at the time (“societal modernism”). These studies
have thus placed Turkey’s modernization paradigm outside of what older,
and more orientalist, scholarly works on modern Turkey have – inspired by
the image of the ‘sick man of Europe’ – often celebrated as a successful
14
attempt at westernization and called into question the singularity and
15
revolutionary character of these modernizing reforms.
While this
scholarship has shown that the modernist Turkish spatiality, ideologically and
publicly overwrote the Ottoman past and concurrently became a contested
site of standardization and alienation, the nature of the topoi in these studies
91
also limits their analysis to external and state-level aspects of the Turkish
experience in the early Republican years.
However, as the editors of the recently published book Everyday
Life in Russia, Past and Present (2015) remind us, “[i]deologues and
politicians may project a mythologized or utopian future, but human beings
inhabit the world in the units of quotidian time that serve as commentary of
16
historical change.” And it is in “the principle of the quotidian – in the
th
constant repetition of the same act though it is a different day,” the early 20
century Japanese theorist Tosaka Jun argues, that lies “the secret of
17
history”. Turkey in the 1920s and 1930s, not unlike the Japan that Tosaka
Jun wrote about in another brilliant essay entitled “The Fate of Japanism:
From Fascism to Emperorism” (1935) followed an “agenda of having to
attribute meaning to the incorporation of Western culture into their personal
18
lives.” Western culture, in modern Turkey, became the bedrock of everyday
life. It invaded all material and social spheres, space and time included.
Submerged in a – as Auerbach remarks so accurately – “fantastic relation to
a primal Turkish identity”, identity formation was negotiated on shaky
grounds. Having performed a complete break with the Ottoman past and
moved into a future too utopian to understand, the Turkish citizens of Turkey
were finding their voices and selves in a climate that did not allow for much
questioning but was all about the questions.
Surprisingly little research has been done on the everyday life in the
1920s and 1930s of Turkey, although historical material is plentiful. For
example, we know practically every single detail about Atatürk’s life: what
time he woke up after 1933 (usually after 2pm), what he drank and ate (very
much and very little), when he slept (usually between 3 and 5am what did he
do till 2pm?), who he met (and did not want to meet), with whom he
corresponded (he was a prolific letter writer), what clothes he wore (some
even from Chanel), and which restaurants he went to (Karpiç in Ankara and
Eden in Istanbul). Fashioning himself as the father, or true ancestor, of the
Turks, Atatürk created an image, and a quickly developing cult around him,
which was instrumental to identity formation in Turkey. Within the modernist,
superimposed spatiality, Turkish citizens were looking for someone,
something tangible to identify with. Mustafa Kemal became what they
wanted: a paternal figure that could lead them through what Ernst Bloch
19
would have described as “the darkness of the moment”. He became a
model for Turkishness.
Despite expectations, many of his reforms were outcomes from
experiments at home or from ideas conceived at his famous dinners, which
often lasted until the early morning hours. They were erratic and put into
place almost immediately. Sometimes an evening party would board a
92
special train the very next morning to set about reforms in the countryside.
Life with Atatürk was unpredictable, exhausting and mandatory for all
members of his government. Women were his passion and the true force
majeure of his reforms. They became the poster children for his reforms and
his way of invading everyone’s private affairs.
After a failed marriage with Latife Uşak, the adoption and education
of young women as role models for the young Republic became his
obsession. It is through their memoirs, letter exchanges with Atatürk and
numerous TV interviews that we get the most intimate glimpse into the
private quarters of Kemal Mustafa Atatürk. From Afet Inan, Sabiha Gokcen
20
and Ülkü Adatepe, we hear how it was to grow up so close to Atatürk.
Dressed and educated by Atatürk himself, we see the lives of these three
adopted daughters – from babyhood until early womanhood – being not only
constantly monitored but also exploited for positive publicity for the regime.
Especially Ülkü – who was already appropriated for Atatürk’s purposes when
still in her mother’s womb, and who moved in with Atatürk at the age of six
months – was instrumental for the propaganda machinery of an ailing and
heavily alcoholic Atatürk in presenting him as a caring father figure and role
model to the Turkish nation. Here, in the Cankaya palace and Florya Köshk,
we are able trace the origins of Atatürk’s new modern state but also observe
Turkey’s difficult road to nationhood. And a difficult road it was, as a look in
the sources reveal. Turkish people – whether from the cities or from the
countryside – were walking unsteadily on the uneven terrain of modern-day
Turkey. Even so, it was all about them.
The narrative of the Turkish nation was “loud, outrageous, modern
and extreme”. In fact, it was so loud that people often could not hear or
understand each other. Indeed, it seems possible to compare it with a very
loud room in which everyone is trying to speak, but no one can hear what the
others are saying yet sees their mouths opening and closing in speech.
Hamdi Tanpinar’s previously cited description of Atatürk’s legacy (“nobody
knew where it was published, you never once saw it, but everyone else had
read and recited it to you in chorus”) is very expressive in this context.
Nevertheless, in my understanding there is no meaning in speech if there is
no one to listen – if there is no one to hear or understand what has been
spoken. My specific interest in the contemporary presence of silence and
‘noise’ in modern-day Turkey is rooted in a reflection on what lies at the very
foundation of her nation-building project. At the base of this reflection must
stand the irrevocable acceptance that Turkey is a post-genocidal society.
Previously, I have charted my understanding of silence through a discussion
of the very absence of certain mnemonic narratives and the exuberant noise
of others. Silence in the Turkish context is characterized – I have suggested
93
above – by memory practices that are both very present in and very absent
from official narratives. Atatürk’s legacy is the most enduring; Genocide
denial the most blatant. Both provide windows into the psyche of the Turkish
nation. In his book Writing in the Dark, David Grossmann describes the
inability of Israelis to talk about their current affairs with a metaphor from
Kafka. He writes:
The constant – and very real – fear of being hurt, the fear of death,
of intolerable loss, or even of mere humiliation, leads each of us, the citizens
and prisoners of the conflict, to dampen our own vitality, our emotional and
intellectual range, and to cloak ourselves in more and more protective layers
until we suffocate. Kafka's mouse was right: when your predator closes in on
21
you, your world does get smaller. So does the language that describes it.
In this passage, Grossmann implies that the Israeli identity is
characterized by fear and paranoia of the other. Onstructing the Other as a
mechanism of identity formation has long been described by scholars
following Edward Said and others. In the Turkish context, as we will see
below, it is the Armenians who are the ultimate other. Turkey’s inability to
speak about the Genocide, among many other human tragedies that have
flecked the pages of its history with blood, is not just a matter of denial or
political calculation, it is – as I aim to contend – a matter of its very identity. A
proper understanding of identity, or identity formation, in Turkey therefore
requires not only an analysis of dominant narratives prior to the foundation of
the nation, and a closer look at the 1915 genocide and its aftermath but also
an inquiry into the question of “what made the Turks so Turkish”.
22
What Happened to the Armenians?
“What was it that made the Turks so Turkish?” an Armenian
revolutionary, asks in the novel Remnants/Mnatsortats. Written by the
Western-Armenian
writer
Hakob
Oshagan
(1883-1948),
Remnants/Mnatsortats was originally envisioned in three parts (Part I: The
Way of the Womb; Part II: The Way of Blood; Part III: Hell), but was left
unfinished. Set in an unnamed Armenian village in Ottoman Turkey and is a
masterful reflection on Armenian-Turkish relations through the lens of racism.
Oshagan – like the narrator in his novel – could be considered a “major
racist” himself. For him, the concept of ‘Turkishness is not only a racist
category but also constitute the core problem in the relationship between
Turks and Armenians. At the middle of his novel stands a hundred-page-long
conversation between an Armenian revolutionary and the Turkish chief of the
prison in which he is incarcerated. Here, the author tries to answer his own
94
questions regarding the identity of the Turks from Anatolia. His quest, in a
time ‘before the nation’, was justified, as not many of the Anatolian Muslims
23
identified themselves ethnically as Turkish.
Oshagan barely escaped the massacres in 1915, and fled to
Bulgaria disguised as a German officer. After the end of the war, like so many
Armenian survivors, he returned to Ottoman Turkey and settled in
Constantinople, where he started writing his novel. His return was short-lived,
and in 1922 Oshagan again had to escape (this time to Cairo and then
Palestine) when the Kemalist forces entered the imperial city. In the post-war
climate of the independence struggle led by Mustafa Kemal Pasha, as
Atatürk was still called at the time, Oshagan’s questions regarding
Turkishness were duly answered. Mustafa Kemal Pasha had positioned his
struggle against the occupying forces of the Allies in Anatolia as an ethnic
liberation war and the birth hour of a new nation that was to be called Turkey.
Oshagan did not finish his novel; he could not bear writing about the
unspeakable. Nor did he come back to his homelands – he would not have
recognized or be able to live in it anyhow. And Remnants did not become the
novel of the Meds Yeghern (the Big Catastrophe) as planned, and instead
metamorphosed/transformed itself into a callously intrusive yet stunningly
beautiful homage to a temps perdu of Armenian life in Anatolia. It became,
as Oshagan says during an interview in 1934, the same year Auerbach writes
his letter to Benjamin, an inheritance to the future generations of Armenians
in its narration of “a people’s collective sensibility” and in its attempt “to
24
salvage the remnants of our people (…).”
Where Remnants describes and questions the social and political
realities of Ottoman-Armenian subjecthood, thereby exposing a 600-yearlong master-slave narrative, and an often (in scholarship) neglected
asymmetry between ruler and ruled during Ottoman times, novels by those
Armenians who survived and continued to live in their ancestral homelands in
post-genocidal Turkey bear witness to a different type of self-fashioning that
lack even the slightest attempt to bequest an autochthonous presence to
their own territorial self-identity or develop a politicized agency in their
quotidian interactions with the Turkish state or fellow citizens.
Mıgırdiç
Margosyan’s
novels
Gavur
Mahellesi
(‘Infidel
Neighbourhood’) and Bizim Oraları (‘Where we live’) present us with an
account of what it was like to live as an “infidel” in a Turkish village in the
1940s and 1950s. His novels simply describe the daily life of an Armenian in
a Turkish village; yet they are profoundly political in doing so. Where we live
is not a question but a claim on the very existence of Armenians within the
new Turkish spatiality. Muted towards their own silenced presence in Turkish
lands, his characters neither mention their traumatic past nor have overt
95
demands for their futures, but instead describe the social and political
realities of Turkish-Armenian subjecthood within the newly-formed Turkish
nation. I argue that Margosyan’s inability to write out the differences of his
characters within the narrational space of his novels does not imply an
insistence on his part on portraying the Armenian people through
mechanisms of self-denial and self-censorship, but rather constitutes an
attempt to challenge the “generative space” of Turkish nationalism with their
25
very own existence within this space. Margosyan was writing from within a
socially constructed space in which certain subjects and words, as Jay Winter
puts it in his seminal essay “Thinking about Silence”, have been deemed
26
taboo. These subjects – and here I want to intervene and add subjectivities
to Winter’s theory of silence – are not politically accepted (or socially
demanded) ingredients in the narrative of the Turkish nation, yet they are
27
essential components of Armenian identity (of the time).
Adding
subjectivities to Winter’s theory of silence, in my opinion, is useful in order to
enable his otherwise ground-breaking theory to function as a methodological
tool to give voice, and agency, to those who live muted existences. For there
28
is no silence in silence.
Margosyan was well-aware of the precariousness of his societal
29
location, like other Armenian writers of his time. His narrative space
unavoidably overlaps with the narration of the Turkish nation as he
experienced it as an Armenian. Through his novels he thus not only
describes the life of Armenians in modern Turkey in the 1930s and 1940s but
he also defines and ultimately adds his voice to the narrative layer(s) of the
nation. Margosyan is writing in the late 1950s about his childhood in Anatolia
in the 1930s. His is also the perspective of a grandchild mourning the tragedy
lived by his grandparents, salvaging and writing about the remains of a temps
perdu of Armenian life in Anatolia which he – in the end – also leaves for
greater protection in Istanbul. Often, according to Alexander Etkind in his
book Warped Mourning, the grandchildren of victims “produce the work of
mourning for their grandparents” – this could not have been truer for the
30
(third-generation) Armenian writers of the time.
From within, what Jay Winter has defined as a ‘circle of silence’, the
Armenian experience speaks to us from a place of resistance and acute
understanding of self-identity inside this circle but not from a place of defeat.
Silence, I hold, hints at the hidden sublime contestation that is still present. In
other words, if there is no one to speak, there is no one to silence either.
Concluding Words
For me, silence can be full of words and words full of silence. The
nation-building process in post-Ottoman Turkey, as we have seen above,
96
exhibits it all. Up-rooted in a complete break with the its Ottoman past, the
nation is performed in a culture of silence. Here, “Turkey for the Turks” – an
expression coined by the mastermind of the Armenian Genocide Talaat
Pasha - becomes a modernist experiment that is lived out and performed on
rather shaky grounds. The narrative of the Turkish nation was “loud,
outrageous, modern and extreme”. In fact, so I claimed above, it was so loud
that people often could not hear or understand each other. In the process,
Atatürk, the Father of the Turks, became a much-needed paternal figure that
lead the Turks through what Ernst Bloch would have described as “the
darkness of the moment”.
People who did not identify with Atatürk were left in the dark. It is
from this darkness, however, that we inherited some of the most powerful
th
literary testimonies of 20 century. Migirdiç Margosyan’s novels are
exemplary for a long forgotten Western Armenian literary tradition that
revenges and commemorates their ancestors simply by continuing to live.
Often forgotten and left in the dark, it is from their darkness, so I hold, that we
th
can truly grasp the nation-building process of Turkey in the 20 century and
the power of silence.
This short essay is dedicated to the victims of the Armenian Genocide of
1915.
1
The following text is taken from my dissertation “The Silent Nation: Identity Formation
and the Everyday in Post-Genocidal Turkey” written at the European University
Institute (Florence). I am grateful to my advisors Luisa Passerini and Alexander Etkind
for their valuable comments and questions.
2
This was relayed to me in conversations and interviews with several carpet sellers
during January and February 2015. Also see the chapter in my grand-aunt’s book
about the carpet industry where she argues that the carpet industry was motly in the
hands of the Christian population of the Ottoman empire: “Charlotte Lorenz, Die
Frauenfrage im Osmanischen Reiche mit besonderer Berücksichtigung der
arbeitenden Klasse, Die Welt des Islams, Bd. 6, H. 3/4 (Dec. 31, 1918), pp. 136-177.
On a personal note, parts of my childhood were spent in the covered halls of the Grand
Bazaar, where my mother learned how to weave, dye and sell carpets.
3
Seen during my visit to Anıtkabır with the staff members of the Atatürk Archives at the
National Library of Turkey. I want to take this opportunity to thank the director of these
archives, Kemal Yentürk, for his kind assistance during my six-week research stay at
these archives and for accompanying me with his staff to Anıtkabır on February 27,
97
2014. In a book about Atatürk, his death and legacy, we learn that the interior designer
Orhan Arda who looked at “over 10000 carpets and kelims” to design the right motives
chose the carpet motives. See in: Vedat Demirci, O’nun Çocukları (His Children)
(Ankara, 1983), 73-74.
4
Ahmet Abakay, Hoşana’nın Son Sözü [Last Words from Hoshana] (Istanbul, 2013);
Ayşe Gül Altınay, "Gendered Silences, Gendered Memories: New Memory Work on
Islamized Armenians in Turkey," Eurozine (2014), and Altinay & Fethiye Çetin, The
Grandchildren: The Hidden Legacy of 'Lost'Armenians in Turkey (Piscataway, 2014);
İbrahim Ethem Atnur, Türkiye’de Ermeni Kadınları ve Çocuklari Meselesi (1915-1923)
[The Issue of Armenian Women and Children in Turkey (1915-1923)] (Ankara, 2005);
Helin Anahit, "‘He is Armenian but he was born that way; there isn't much he can do
about it’: Exploring Identity and Cultural Assumptions in Turkey," Patterns of Prejudice
48.2 (2014): 201-222; Yusuf Baği, Ermeni Kızı Ağçik [The Armenian Girl Agcik]
(Istanbul, 2007); Erhan Başyurt, Ermeni Evlatlıklar: Saklı Kalmış Hayatlar (Hidden
Lives) (Istanbul, 2006); Melissa Bilal, "The lost lullaby and other stories about being an
Armenian in Turkey," New Perspectives on Turkey 34 (2006): 67-92, and Bilal "Longing
for Home at Home: Armenians in Istanbul," Thamyris/Intersecting: Place, Sex and
Race 13.1 (2006): 55-65; Fethiye Çetin, Anneannem [My Grandmother] (Istanbul,
2004);; Oran Baskin, MK Adlı Çocuğun Tehcir Anılar: 1915 ve Sonrası [The Story of
the Kid called MK: 1915 and After] (Istanbul, 2005) and Baskin "The Reconstruction of
Armenian Identity in Turkey and the Weekly Agos," Nouvelles d'Armenie Magazine 17
(2006): 12; Rubina Peroomian, And those Who Continued Living in Turkey after 1915:
the Metamorphosis of the Post-Genocide Armenian Identity as Reflected in Artistic
Literature (Yerevan, 2008); Vahe Tachjian, “Gender, Nationalism, Exclusion: the
Reintegration Process of Female Survivors of the Armenian Genocide,” Nations and
Nationalism, 15 (1): 60-80; Gülçiçek Günel Tekin, “Une Reconstruction Nationale:
Réinsertion des Filles et des Femmes Arméniennes Apres 1918” in Trames d’Arménie.
Tapis et Broderies sur les Chemins de l’Exile 1900-1940 (Marseille, 2007), 107-115;
Kemal Yalcın, Sarı Gelin – Sarı Gyalın[Yellow Bride – Yellow Bride] (Istanbul, 2005)
and Yalcın, Seninle Güler Yüreğim [My Heart is with you] (Istanbul 2006).
5
Taner Akçam, The Genocide of the Armenians and the Silence of the Turks (New
York, 1999), and Akçam, From Empire to Republic: Turkish Nationalism and the
Armenian Genocide (London, 2004), and Akçam, A Shameful Act: The Armenian
Genocide and the Question of Turkish Responsibility (London, 2006); Vahakn N.
Dadrian, The Key Elements in the Turkish Denial of the Armenian Genocide: a Case
Study of Distortion and Falsification (Toronto, 1999); Bedrossian Der Matossian,
“Venturing into the Minefield: Turkish Liberal Historiography and the Armenian
Genocide” in The Armenian Genocide: Cultural and Ethical Legacies, ed. Richard G.
Hovannisian (New Brunswick, 2011), 369–88; Mneesha Gellman, "Remembering
Violence: the Role of Apology and Dialogue in Turkey's Democratization Process,"
Democratization 20.4 (2013): 771-794; Fatma Müge Göçek, “Turkish Historiography
and the Unbearable Weight of 1915,” in The Armenian Genocide: Cultural and Ethical
Legacies, ed. Richard G. Hovannisian (New Brunswick, 2011), 337–68, and Göçek,
Denial of Violence: Ottoman Past, Turkish Present, and Collective Violence Against the
Armenians, 1789-2009 (Oxford, 2014); Richard G. Hovannisian, Remembrance and
Denial: the Case of the Armenian Genocide (Detroit, 1998).
98
6
These are questions that the Western Armenian writer Hagop Oshagan (1883-1948)
raises in his novel Remnants/Mnatsortats (unfinished; written between 1928 – 1934). I
will discuss the novel and its relevance to the present study in depth in Chapter Four. I
have used the English translation by Michael Goshgarian of Remnants/Mnatsortats
(London, 2013). Also see March Nichanian, Le Roman de la Catastrophe
(Geneva/Yerevan, 2008). I would like to thank Michael Goshgarian for introducing me
to Oshagan’s novels and many vibrant discussions about Armenian literature in the
past three years.
7
In my artistic work, I compare these distinctly different yet affectively similar silences
with two rooms or spaces. I invite the reader to close her eyes and imagine two
situations and ‘feel’ the two different silences: In one situation you find yourself sitting
in a very loud café or restaurant with a group of people. Everyone talks, you look
around and you realize that you don’t understand anything anyone is saying; you just
see their mouths moving. In the second situation, you have just listened to a
fascinating talk at a conference. The speaker invites the audience to ask questions or
comment on the talk. You have many questions and comments but you don’t want to
be the first one to ask. For one minute, or two, is is completely silent until someone
breaks the silence.
8
There are countless studies placing Atatürk at the center of Turkey’s ‘westernization
project’, see for example: Jacob M. Landau (ed.) Atatürk and the Modernization of
Turkey (Leiden, 1984); Suna Kili, Atatürk Devrimi: bir Çağdaşlaşma Modeli [The
Atatürk Revolution: a Model for Westernization] (Ankara, 1981); Walter F. Weiker The
Modernization of Turkey: From Ataturk to the present day (Teaneck, 1981). And even
more biographies of him, here selected historical biographies in English: M. Şükrü
Hanioğlu Ataturk: An Intellectual Biography (Princeton, 2011); Patrick Balfour Kinross,
Ataturk: A Biography of Mustafa Kemal, Father of Modern Turkey (Fort Mill, 1964);
Andrew Mango, Atatürk: The Biography of the Founder of Modern Turkey (London,
2000); Volkan, Vamik D., and Norman Itzkowitz. The Immortal Atatürk: A
Psychobiography (Chicago, 1984).
9
Karlheinz Barck, “Walter Benjamin and Erich Auerbach: Fragments of a
Correspondence”, Diacritics 22, No. 3 (1992).
10
Cited from Hamdi Tanpınar, “Beş sehir [Five Cities]” in Ülkü (September 1942), 1015.
11
Henri Lefebvre, Critique of Everyday Life, Vol. 1. (London, 2002 [1947]), 233.
12
LeFevbre, Critique of Everyday Life, 251.
13
Tanpinar’s metaphor of the newspaper thus also imbricates other layers of meaning:
that of print capitalism, modernity and mass production of culture, which were defined
by Benedict Anderson in his seminal work Imagined Communities as key
components/ingredients for forming a national identity See in Benedict Anderson,
Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism (London,
2006 [1983]).
14
Bozdoğan, Modernism and Nation building: Turkish Architectural Culture, 297.
“Aesthetic modernism” – a term originally argued for by Habermas in similar contexts –
often overshadows an abstract appropriation of the past by the elites when“[h]istorical
memory is replaced by the heroic affinity of the present” and lingers like Ernst Bloch
would argue as an “utopian category” in the “darkness of the lived moment” and
“immediate nearness”. Habermas and Seyla Ben-Habib, “Modernity versus
99
Postmodernity”, New German Critique, no. 22, Special Issue on Modernism (Winter,
1981), pp. 3-14 and Ernst Bloch, The Principle of Hope (Boston, 1986), 288. For the
original contribution of “narrating the nation”, refer to Homi K. Bhabha , “Introduction,
Narrating the Nation” in Homi K. Bhabha (ed.), Nation and Narration (London, 2013).
15
See for example: Bernhard Lewis, The Emergence of modern Turkey (Oxford, 1961);
a book that has inspired generations of scholars arguing along the same narrative
lines: Ahmad Feroz, The Making of Modern Turkey (London, 1993);Nuri Eren, Turkey
Today and Tomorrow: An Experiment in Westernization (London, 1963); Stanford J.
Shaw, and Ezel Kural Shaw, History of the Ottoman Empire and Modern Turkey:
Volume 2, Reform, Revolution, and Republic: The Rise of Modern Turkey 1808-1975,
Vol. 11, (Cambridge, 1977).
16
Bulent Batuman, “’Early Republican Ankara’: Struggle over Historical Representation
and the Politics of Urban Historiography,” Journal of Urban Studies 37, (2011): 661679; Reşat Kasaba and Sibel Bozdoğan, eds., Rethinking Modernity and National
Identity in Turkey (Seattle, 1997) and Bozdoğan, Modernism and Nation building:
Turkish Architectural Culture in the Early Republic (Seattle, 2001); Zeynep Kezer, "An
Imaginable Community: the Material Culture of Nation-building in Early Republican
Turkey," EPD, Society and Space, 27. 3 (2009): 508- 530.
17
See “Introduction” in Choi Chatterjee, et al., eds., Everyday Life in Russia Past and
Present (Indianapolis, 2015), 4.
18
Tosaka Jun, “The Principle of Everydayness and Historical Time [1930],” in Tosaka
Jun: A Critical Reader (Ithaca, 2013), 12.
19
Selçuk Esenbel, “The Anguish of Civilized Behavior: The Use of Western Cultural
Forms in the Everyday Lives of the Meiji Japanese and the Ottoman Turks During the
19th century,” Japan Review, no. 5 (1994), 174. Note: while this article describes an
earlier time period than discussed here, it gives an outlook on the mentalities of the
Kemalist era as well. We also know that there was frequent contact between the
Japanese emperor and Atatürk, either through the Japanese ambassador to Ankara,
Yoshida and later Kintona Mushkoji, or the crown prince Takamatsu and his wife.
Takamatsu and his wife, for example, came to Atatürk’s Cankaya residence in Ankara,
on 13 January 1931, and were given a ball on 14.01.1931, or through congratulatory
letters as for example the letter on the occasion of Turkey 10th anniversary by Emperor
Hirohito shows (“new wind for Turkey”). Cited in Utkan Kocatürk, Kaynakçalı Atatürk
Günlük (Atatürk’s Diary with Sources), available online for download at:
www.ataturk.de (last accessed 01.08.2015).
20
Ernst Bloch, The Principle of Hope, 288
21
Afet Uzmay was 17 years old when she met Atatürk, and 30 years old when he died.
Sabiha (Gökçen) was 12 years old when she met Atatürk, and 25 years old when he
died. Ülkü was not born yet when Atatürk decided to adopt her, and 6 years old when
he died.
22
David Grossman, Writing in the Dark: Essays on Literature and Politics (Farrar,
Straus and Giroux, 2008). 61.
23
Note to supervisors: this part will be expanded when I have written Chapters Four
and Five. Please also refer to my time table at the end of this introduction.
24
See, for example, Nicholas Doumanis, Before the Nation, (Oxford: Oxford University
Press, 2013), 9 ff.
25
Oshagan, Remnants/Mnatsortats (Gomidas Institute, 2013), v.
100
26
For a discussion of this term in the context of the unwritten, yet textual quality of
nationalism within the context of post-colonialism please refer to Robert J.C. Young,
“The Overwritten Unwritten: Nationalism and its Doubles in Post-Colonial Theory” in
The Silent Word: Textual Meaning and the Unwritten, ed. Robert J.C. Young, Ban Kah
Choon and Robbie B.H. Goh (Singapore, 1998), 1-16. Note to myself: this part could
maybe be expanded with references to Derrida and Voloshinov.
27
Jay Winter, “Reflection on Silence,” (2009, unpublished), 4. I extend my gratitude to
Jay Winter for introducing me to his concept of silence during my time at Yale
University in 2009.
28
Ibid., 4.
29
Georg Steiner writes in this context: “ Silence is an alternative. When the city is full of
savagery and lies, nothing speaks louder than the unwritten poem. ‘Now the Sirens
have a still more fatal weapon,’ wrote Kafka in his Parables, ‘namely their silence. And
though admittedly such a thing has never happened, still it is conceivable that
someone might possibly have escaped from their singing; but from their silence
certainly never.’” All from: Georg Steiner, Language and Silence (New Haven, 1998
[1958], 54.
30
Peroomian, Those Who Continued, 55-71.
31
Alexander Etkind, Warped Morning, (Stanford, 2013), 3. Jay Winter argues in a
similar context that it is often over the heads of the parents (the middle generation) that
grandparents confide to their grandchildren and break their silence about traumatic
experiences. See: Ibid., 36ff.
101
Peter Stamm è nato in Svizzera, a Scherzingen, nel 1963, ha
cinquantadue anni ed è considerato uno dei maggiori scrittori in lingua
tedesca. Prima di approdare definitivamente alla scrittura narrativa si è
impegnato in diverse direzioni: agli inizi, da giovane, ha lavorato come
ragioniere, poi si è dedicato, presso l’Università di Zurigo, agli studi di
anglistica e in seguito a quelli di psicologia, psicopatologia e informatica.
Lascerà questi studi e dopo essere stato all’estero per parecchio tempo nel
1990 si fermerà in Svizzera, a Winterthur, dove farà giornalismo per diverse
testate. Tornerà a Zurigo nel 1998 e vi rimarrà fino al 2003 per poi rientrare a
Winterthur e stabilirvisi per sempre. Aveva già cominciato a scrivere romanzi
ma non gli era stato facile trovare un editore disposto a pubblicarli ed aveva
dovuto attendere parecchio tempo prima che fosse possibile. Anche per
Agnes1), suo quarto romanzo, aveva atteso molto per la pubblicazione.
Quando avvenne, nel 1998, tanto grande fu il successo di pubblico e di critica
da convincere Stamm ad applicarsi quasi esclusivamente alla narrativa ed a
tralasciare altri interessi quali il giornalismo, i drammi radiofonici e le opere
teatrali. Altri romanzi sarebbero seguiti e molti riconoscimenti avrebbe
ottenuto lo scrittore. La sua è stata una scoperta tardiva che, come
generalmente succede, una volta avvenuta non finisce mai di interessare.
Singolare è la narrativa dello Stamm sia per i contenuti sia per i modi
espressivi. Questi sono semplici, elementari, ridotti all’essenziale perché,
secondo lo scrittore, così la vicenda narrata prende rilievo, acquista
importanza. Tuttavia neanche i temi sono eccezionali, sorprendenti ché
anch’essi rientrano nella quotidianità. Di persone comuni con un linguaggio
comune scrive Stamm e fa quelle persone interpreti di problemi estesi,
attraverso esse mostra come anche nella vita di ogni giorno i rapporti, gli
scambi si siano guastati, come sia diventato difficile comunicare, come non ci
sia più posto per i sentimenti, come la realtà sia ormai cambiata.
Questa la particolarità dello Stamm scrittore, questo il motivo che
lo ha fatto accogliere favorevolmente dal pubblico e dalla critica. Di quanto si
RECENSIONI
DIFFICILE VIVERE
Antonio Stanca
102
cela dietro le apparenze egli scrive, della vita che avviene oltre quel che si
vede, degli ostacoli interiori che impediscono di sentirsi liberi, di vivere come
si vorrebbe. Le curiosità, le scoperte dello scrittore sono anche quelle volute
dai lettori e così Stamm è diventato uno degli autori più letti.
Anche in Agnes si dice di ambienti quotidiani, di persone comuni,
di due giovani che s’incontrano in una biblioteca di Chicago e cominciano a
frequentarsi, ad uscire insieme, a vivere insieme. Lui è svizzero e sta
facendo una ricerca perché incaricato di scrivere un libro sulle locomotive
americane di lusso. Lei, Agnes, è americana, ha venticinque anni, è più
giovane di lui, è laureata in Fisica ed è impegnata, per conto dell’Università di
Chicago, in uno studio di carattere scientifico. Vive sola a Chicago, ha avuto
un pessimo rapporto con il padre che da quando è andato in pensione si è
stabilito con la moglie in Florida.
I due giovani vivono insieme, conducono una vita in comune ma non
sembrano convinti l’uno dell’altro. Entrambi hanno avuto in precedenza
esperienze amorose e dal fallimento di queste è derivato loro un carattere
sospettoso, hanno avuto origine i loro timori, le loro paure nei confronti degli
altri. E’ soprattutto Agnes ad immergersi in lunghi silenzi, a lasciarsi andare in
affermazioni strane, ad apparire incerta, inquieta senza che si sappia mai il
motivo, a chiedere al suo compagno di scrivere un racconto dal quale possa
capire cosa pensa di lei, come la considera. E’ Agnes ad aver bisogno di un
giudizio, a voler sapere chi è per gli altri.
Lui comincerà a scrivere, a riportare per iscritto quanto era accaduto
e accadeva tra loro. Quasi ogni giorno leggeranno insieme quel che veniva
scritto e lei, in particolare, attenderà ogni volta il seguito. Si creerà una
situazione strana, equivoca perché non sapranno più se possono muoversi,
agire, vivere come occorre, come le circostanze richiedono o in virtù di
quanto sarà scritto nel racconto, non capiranno più se sono liberi o vincolati,
non distingueranno più tra le due condizioni. Continueranno ad andare avanti
senza, però, che Agnes riesca, pur dopo molto tempo, a chiarirsi quel che
desidera. Lo scoprirà da sola, di nascosto, e farà come troverà scritto:
abbandonerà la casa, s’inoltrerà nel bosco vicino e si lascerà morire per il
freddo tra gli alberi coperti di neve. Questa conclusione lui aveva preparato
per il racconto perché pensava che Agnes non sarebbe mai riuscita a
liberarsi da quanto la opprimeva, dai dubbi, dai sospetti, dai terrori che le
provenivano dal passato e la perseguitavano. Mai sarebbe giunta a sentirsi
sicura, ad avere una sua identità, a riconoscersi in una famiglia, una casa,
una persona, un luogo. Lui lo aveva capito, aveva capito perché gli aveva
chiesto di scrivere un racconto dove dicesse di come la giudicava. Una volta
saputo Agnes non aveva esitato a far coincidere il pensiero di lui con la
propria realtà, la fine del racconto con quella della sua vita. «Sono sempre
103
triste quando finisco di leggere un libro. - disse Agnes - E’ come se fossi
diventata un personaggio del libro. E con la storia finisce anche la vita di
questo personaggio»2).
Due persone semplici erano sembrate agli inizi ma tanto si celava
dietro di loro, tanto era stato patito da Agnes da segnarla in modo
irreversibile, da non permetterle di vivere ancora.
Abile è stato Stamm a giungere alla fine del romanzo tenendo fin
dall’inizio il lettore legato ad una vicenda che sembra svolgersi da sola, che
procede in maniera naturale, che tanto diventa vera da lasciarsi prevedere.
1
In Italia il romanzo è stato pubblicato nel 2001 da Neri Pozza e a Settembre del 2014
dalla Casa Editrice BEAT di Padova. La traduzione è di Francesca Gimelli (pp.155).
2
Ivi, p.121.
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