Non c`è un vento di destra
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Non c`è un vento di destra
Anno III - Numero 13 Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli Reporter 16 Aprile 2010 nuovo Europa «Non c’è un vento di destra» Intolleranza Zingari cacciati 70 erano troppi Nomi nuovi Vince Emma (quella di Amici) Minicantanti Quei programmi in Tv li sfruttano INVIATI DI GUERRA FASCINO E RISCHI DI UNA PROFESSIONE. INTERVISTA A DANIELE MASTROGIACOMO Mondo A colloquio con il prof. Corneli, esperto di relazioni internazionali: non c’è un vento di destra Europa al voto: ‘Vince chi non perde’ Come cambiano le prospettive di Ungheria, Grecia e Gran Bretagna Eloisa Moretti Clementi In Europa governano quasi ovunque coalizioni di centro-destra e anche alle prossime elezioni in Gran Bretagna, Olanda e Austria i partiti conservatori sono favoriti. Si può parlare di un vento di destra? Lo abbiamo chiesto ad Alessandro Corneli, docente di Relazioni internazionali: “Non ho mai creduto nei trend europei, né in un senso né nell’altro - risponde - non esiste una cultura, una strategia europea. È una coincidenza in parte casuale, ma fino a un certo punto perché la crisi ha colpito tutta l’Europa e non le è stata data una risposta credibile e creativa in termini culturali, e quindi politici, tale da convincere la gente”. Le elezioni in Ungheria sono state vinte dal partito di centro-destra Fidesz, con l’affermazione degli ultranazionalisti. Come si può spiegare questo risultato? “Quando c’è una situazione di crisi economica e sociale le posizioni estreme prendono il sopravvento. Ci sono VINCITORE Viktor Orban, futuro primo ministro dell’Ungheria. Il suo partito conservatore ha riportato la destra al governo dopo otto anni dei precedenti storici: era già successo nel periodo tra le due guerre mondiali. Queste posizioni si manifestano anche come domanda di maggiore intervento dei poteri pubblici. Oggi, infatti, nessun governo ha poteri così forti da incidere sulla realtà economica e sociale. I partiti di sinistra hanno alle spalle un fallimento clamoroso e non possono rivendicare ricette salvifiche. Hanno perso credibilità e l’elettorato si sposta dove le esperienze sono più lontane. Gli errori più antichi val- gono meno degli errori recenti”. Dal punto di vista sociale, chi beneficerà della destra al governo? E a scapito di chi? “Da diverso tempo le elezioni si perdono soltanto. Vince chi non perde, è questa la regola generale. La sinistra si è ormai buttata su posizioni liberali, rinunciando completamente al suo patrimonio culturale. Per questo ora non è in grado di dire nulla sulla globalizzazione. Non vedendo nella sinistra un punto di riferimento che non sia epi- sodico, la gente si sposta dove ci sono forze che presentano programmi concreti, come il no all’immigrazione”. Anche in Gran Bretagna i Tory sono favoriti. Il modello Cameron, ambientalista e sensibile ai temi del multiculturalismo, rappresenta un esempio da imitare? “Venti anni fa la stessa cosa la fecero i laburisti di Tony Blair, aprendosi a temi come le liberalizzazioni e la globalizzazione e l’opinione pubblica li apprezzò, anche perché veniva da quasi venti anni di dominio dei conservatori. Adesso i laburisti hanno esaurito la loro spinta e non hanno più idee, mentre i conservatori tirano fuori nuovi argomenti. In fondo la gente prende quello che gli si dà”. Con il suo governo socialista, la Grecia rappresenta un’eccezione. La crisi economica che sta vivendo penalizzerà la sinistra greca? “La sinistra è da poco al potere e ha ereditato la situazione economica e finanziaria dai conservatori che erano al governo. Naturalmente adesso accusa il precedente governo di aver creato questa situazione, mentre la destra che è all’opposizione incolpa la sinistra di non saperla risolvere. È un gioco nel quale il popolo è chiamato a dire la sua di tanto in tanto. Si tende a dare la responsabilità di quello che non va a chi è al potere in un dato momento, senza considerare il processo che ha portato a quella situazione. Le elezioni diventano un’istantanea, una fotografia, non la biografia di un paese”. Il sottosegretario agli Esteri Mantica a Bruxelles per promuovere la cooperazione con i Balcani Ue, verso la macro-regione adriatica Federica Ionta L’Italia chiede a Bruxelles di creare una “macro-regione” intorno al mare Adriatico. È questa la proposta del sottosegretario agli Affari Esteri Alfredo Mantica presentata il 13 aprile al Comitato delle regioni europeo ma, di fatto, già lanciata nel 2000 con la nascita dell’Iniziativa adriaticoionica (Iai). «Il programma dovrebbe riguardare la gestione di una risorsa comune a Paesi balcanici, Italia e Grecia, che è appunto il mare Adriatico», spiega Andrea Stocchiero, ricercatore del Centro Studi di Politiche Internazionali di Roma. «Si parla di progetti in vari settori, dai trasporti al commercio, dai flussi migratori al mercato del lavoro». Obiettivo: accrescere la competitività dell’area adriatica non solo sul piano europeo ma a livello mondiale, come stanno già facendo otto paesi del mar Baltico che dal 2 16 Aprile 2010 2009 hanno deciso di mettersi presenta un’opportunità ma nazionali in Europa. insieme per programmare in anche un ostacolo. Le iniziaC’è una innegabile similimaniera congiunta le linee tive europee sono spesso vi- tudine tra i progetti strategistrategiche per lo sviluppo del ste con diffidenza: non è il ci delle macro-regioni e i proterritorio. «Non è un caso che caso del Marocco, un Paese grammi di cooperazione tral’idea sia nata nei Paesi balti- che ha sempre voluto avvici- snnazionale e transfrontalieci, continua Stocchiero, per- narsi molto all’Unione Euro- ra, ad esempio. Non solo: ché in quell’area esistono del- pea, mentre l’Egitto vede l’Eu- non essendo considerata le condizioni politico-istitu- ropa con grande scetticismo». un’istituzione, la macro-rezionali che hanno dato luogo Di qui la necessità di creare gione non ha un proprio caa questo processo e che è un’area di collaborazione geo- pitolo di spesa nel bilancio eudifficile ritroropeo e quinvare in altre di utilizza riGovernance europea: a colloquio con Andrea sorse originaregioni europee». riamente Stocchiero del Cespi che spiega la strategia di stanziate Ma di cosa per si tratta? «Le un partenariato con l’area balcanica e la Grecia altri promacro-regiogrammi, ni sono come i Fondi un’entità a metà tra un’istitu- graficamente più limitata, Strutturali o il VII Programma zione europea e un program- come appunto quella del- quadro per la ricerca, creanma comunitario, cioè aree l’Adriatico, e quindi più ge- do ancora maggiore confuappartenenti a nazioni diver- stibile». sione. se ma con le stesse probleDue i punti deboli di queMa, ricorda Stocchiero, c’è matiche economiche, sociali, sta nuova forma di gover- una differenza fondamentale: ambientali che decidono di nance europea che, come «I programmi di cooperaziotrovare soluzioni condivise a spesso accade a Bruxelles, ri- ne sono in mano ad Autorità problemi comuni», chiarisce guardano i conflitti di com- di gestione subnazionali, Stocchiero. «Nel caso del- petenza tra i diversi livelli di mentre la macro-regione prel’Italia, il rapporto con i diversi governo e tra i programmi che vede una governance multipaesi del Mediterraneo rap- già coinvolgono aree sovra- livello che attribuisce un ruo- lo centrale ai governi nazionali». E sul conflitto di competenze, che potrebbe rimandare al livello nazionale la responsabilità di politiche che dovrebbero essere gestite a livello europeo, Stocchiero conclude: «Le macro-regioni sono concepite come una vera politica europea, quindi il loro sviluppo non dovrebbe portare a spinte centrifughe. L’obiettivo è quello di creare un altro livello di governance che permetta all’Europa di essere più Europa di prima, e ai 27 Paesi di superare le divisioni nazionali in gruppi più piccoli e quindi più gestibili». A Bruxelles, per ora, si parla solo di macro-regioni baltica e danubiana. Il progetto italiano riparte da Ancona dove, il 5 maggio prossimo, Grecia, Italia, BosniaErzegovina, Croazia, Montenegro, Albania, Serbia e Slovenia firmeranno un documento d’intesa. ALLE URNE REGNO UNITO: TOCCA AI TORY Le prossime elezioni del 6 maggio potrebbero riportare i conservatori al governo britannico dopo 13 anni di dominio del New Labour. Se l’attuale premier Gordon Brown punta sull’esperienza di governo, il leader dei Tory David Cameron chiede agli elettori di scommettere sul cambiamento e su un partito profondamente rinnovato, che tiene insieme anti-europeismo e politiche multiculturali e ambientali. Un sondaggio del Daily Telegraph gli assegna la vittoria con il 43 per cento dei voti, contro il 31 per cento attribuito ai Labour. OLANDA: A RISCHIO LE MOSCHEE Le amministrative del marzo scorso hanno visto l’ascesa del partito di estrema destra Pvv, guidato da Geert Wilders, probabile candidato a primo ministro alle elezioni politiche che si terranno a giugno. Anche se sfida le classificazioni e afferma: “Non ho niente in comune con i fascisti”, le posizioni di Wilders in materia di islam e immigrazione sono nette: “Se diventerò primo ministro impedirò la costruzione di nuove moschee e bloccherò l’immigrazione dai paesi musulmani”. AUSTRIA: PARTITO DELLA LIBERTA’ Avanzata populista in Austria, dove il 25 aprile si voterà per le presidenziali federali. La sfidante del presidente uscente Heinz Fischer si chiama Barbara Rosenkranz, del populista Partito della libertà (Fpö): casalinga e madre di dieci figli, ognuno con il nome di un dio germanico, rivendica la sua provenienza dagli ambienti nazionalisti e un acceso antieuropeismo. Reporter nuovo Mondo Con Daniele Mastrogiacomo, un’analisi sugli aspetti di un mestiere rischioso che affascina Raccontare, anche sfidando la morte Inviati di guerra, a caccia di scoop con nervi saldi e molta accortezza Un video che circola in questi giorni su internet rivela l’uccisione di un operatore della Reuters, a Baghdad, da parte dei militari americani. Salgono così a 125 i reporter uccisi solo negli ultimi due anni nei teatri di guerra di tutto il mondo, cifre che si ripetono annualmente nel rapporto dell’Unesco sulla “Sicurezza dei giornalisti”. Le cause di morte più frequenti sono attentati ka- mikaze, tentativi di sequestro, rapine, incidenti e purtroppo, anche i ‘danni collaterali’ del fuoco amico. Dei pericoli connessi al mestiere abbiamo parlato con Daniele Mastrogiacomo, giornalista che ha provato sulla sua pelle cosa significhi rischiare di morire in nome di una professione. Prima cronista del Messaggero poi inviato speciale di Repubblica, per anni in prima li- nea in Medio Oriente, Asia Centrale e nell’Africa subsahariana: Kabul, Teheran, Palestina, Baghdad, Mogadiscio, Libano. Poi il drammatico sequestro in Afghanistan nel marzo del 2007. Quattordici giorni nelle mani dei miliziani talebani, in bilico tra la vita e la morte. La sua drammatica vicenda ha tenuto con il fiato sospeso l’Italia intera, fino al suo rilascio. Alessio Liverziani Daniele Mastrogiacomo, cosa spinge un giornalista a diventare inviato di guerra? Il coraggio, l’incoscienza, il merito professionale o i soldi? «I soldi no, perché uno viene pagato allo stesso modo. La scelta è dettata da una serie di circostanze legate all’attualità. Quando la guerra diventa l’argomento dominante sullo scenario internazionale, come lo è stato negli ultimi otto anni con l’amministrazione Bush, c’è la necessità di seguire da vicino questi avvenimenti» Cosa significa per lei essere inviati di guerra e, se c’è, qual è il segreto per essere un buon reporter? «Per me significa avere una dose di adrenalina molto forte, perché sei continuamente sotto tensione. Le situazioni in guerra sono in continua evoluzione, legate ad avvenimenti imprevedibili come possono essere guerriglie improvvise, ma anche strategie militari di cui non si è pienamente al corrente. Quindi è un lavoro molto duro, dal punto di vista fisico ma anche psicologico, che richiede nervi saldi, molta molta accortezza per valutare bene tutte le variabili di una guerra» Quindi è questo il segreto per salvarsi la pelle? Oppure anche usando tutte le accortezze del mestiere si è comunque a rischio? «Sei comunque a rischio. In una guerra la tua incolumità non è garantita solo per il fatto che sei un giornalista, anzi. Siccome i giornalisti devono andare sul campo a verificare i fatti, sono al centro del conflitto. A meno che tu non decida di restare chiuso in un albergo, ma questo spesso non è neanche detto che ti salvi la vita. Puoi scegliere di non andare sul posto, di non verificare le fonti, ma a scapito di un’informazione vera, attendibile e più completa» Esistono trattati internazionali che tutelano il lavoro dell’inviato? Reporter nuovo AL FRONTE Un inviato speciale in Iraq impegnato a riprendere un’azione di guerra per un servizio televisivo in diretta «Solo teoricamente. Basti pensare che ci sono dei trattati internazionali che salvaguardano i diritti umani, quindi per i civili, che poi sono costretti a restare nei villaggi che sono bombardati, figuriamoci se viene tutelato il diritto all’informazione. Teoricamente si, però nei fatti non siamo più quelle figure neutrali che uno immagina di essere. Puoi diventare un bersaglio oppure far parte di quei danni collaterali, come succe- de per tantissimi civili pur non partecipando ai conflitti, e quindi diventare una vittima» La formazione professionale per gli inviati di guerra, in Italia e nel mondo, per quello che ha avuto modo di vedere essendo a contatto anche con i colleghi di paesi esteri, è adeguata? «Non troppo, diciamo che si fa molto sul terreno. Bisogna molto guardare gli altri e affidarsi ai colleghi più esperti per capire come ci si deve muovere» Lei ha provato in prima persona la terribile esperienza del sequestro, insieme con il suo interprete Ajimal Nashkbandi e l’autista Sayed Haga. Lei è l’unico che si è salvato. Due anni dopo ha scritto il libro “I giorni della paura”. Cosa resta oggi di quella paura? «Per due anni ho dovuto fare i conti con i fantasmi di Ajimal e Sayed perché avevo il senso di colpa per non essere riuscito a salvarli. Sayed l’hanno sgozzato improvvisamente, non siamo riusciti a fare niente perché eravamo legati, con le bende sugli occhi e i fucili puntati, in mezzo a una landa desertica. Ajimal sono riusciti a ricatturarlo dopo il rilascio e anche su questo restano molti interrogativi irrisolti. Chi ha agevolato la sua cattura e perchè? Evidentemente qualcuno in Afghanistan ha la coscienza molto sporca. Ho deciso di scrivere quel libro anche perché sono convinto che loro due avrebbero voluto che io raccontassi in giro per il mondo quanto era veramente accaduto e soprattutto per chiudere definitivamente questa vicenda. Ha chiuso davvero con il mestiere di inviato di guerra o sarebbe pronto a tornare in prima linea? «Quello che è accaduto mi ha cambiato profondamente ma non mi ha impedito di continuare a fare il giornalista. Non andrò nei paesi islamici ancora per molto tempo, non andrò sicuramente in Afghanistan e nelle zone di guerra perchè è una fase chiusa della mia vita. Adesso mi occupo sempre di politica estera, curo soprattutto l’Africa perché è un continente in via di sviluppo da tenere d’occhio per il futuro. Sicuramente resto un inviato sul campo, che deve stare sul posto, vivere e raccontare quello che vede, però sono stanco delle guerre, sono stanco degli attentati, dei tantissimi morti che ho visto, della costante tensione di saltare ad ogni colpo che può sembrare un colpo di fucile, stanco di tanta violenza, quindi cerco di evitarmela» Benedetto XVI° non ci pensa anche se c’è chi le vorrebbe Andrea Pala Lo scandalo della pedofilia all’interno del clero sta scuotendo la Chiesa cattolica e, nonostante i rigidi provvedimenti annunciati al riguardo dalla Curia romana, dalla Germania agli Stati Uniti si levano sempre più insistenti le richieste di dimissioni di Benedetto XVI. Der Spiegel e New York Times se ne sono fatti portavoce, accusando il pontefice di non avere preso provvedimenti nei confronti dei sacerdoti pedofili quando ricopriva l’incarico di Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Ma Benedetto XVI potrebbe dimettersi? Il Codice di Diritto Dimissioni? Assurde ma possibili C’è un canone che le prevede canonico, l’insieme delle norme che regolano la vita della Chiesa, prevede questa possibilità. Nella seconda parte del canone 332, si legge: «Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti». Cosa accada davvero in caso di dimissioni del Papa è però ancora oggetto di dibattito. È opinione prevalente che il pontefice dimissionario diventi “Papa emerito”. Secondo altri, invece, assumerebbe il titolo di “vescovo emerito di Roma”, dal momento che il Papa è anche vescovo della città eterna. Benedetto XVI comunque non ha alcuna intenzione di abbandonare il soglio di Pietro. Per questo motivo il dibattito intorno alle conseguenze sulle dimissioni papali è destinato a rimanere niente più che una speculazione dottrinaria. Nella bimillenaria storia della Chiesa, esistono alcuni casi di pontefici che hanno presentato le proprie dimissioni. Già nella prima metà dell’XI secolo Benedetto IX decise di abdicare nel 1045. L’anno dopo ci ripensò e decise di riprendersi il trono con le armi, scatenando un conflitto con gli altri pretendenti al papato. Nel 1048 finì scomunicato perché si rifiutò di riconoscere Damaso II, nel frattempo nominato legittimo pontefice dai cardinali. Due secoli dopo, nel 1294, fu la volta di Cele- stino V. Fu il primo a mettere per iscritto la sua volontà, dichiarando di essere «spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo» e si ritirò a vita privata. Circa cento anni più tardi, rassegnò le dimissioni anche Gregorio XII. La sua autorità era messa in discussione da Benedetto XIII, riconosciuto papa ad Avignone, e da Giovanni XXIII, antipapa nominato dall’imperatore. Gregorio allora si fece da parte e venne nominato vescovo di Porto (oggi Ostia) e legato pontificio ad Ancona. Pare che anche Giovanni Paolo II avesse pensato di dimettersi, ma ci ripensò perché diceva che nella Chiesa non c’è posto per un “Papa emerito”. 16 Aprile 2010 3 Primo Piano Dibattito alla Luiss su un libro dedicato alla controversa figura del leader socialista Quale posto per Craxi nella storia Il suo coraggio e i suoi errori negli interventi di Craveri, Pellicani e Finetti LUCIANO PELLICANI Difetti e grandi qualità Attuali le sue riforme «Craxi è stato capace di ristabilire la legittimità dello Stato». Così esordisce il sociologo nell’analizzare il contributo del socialismo craxiano negli anni turbolenti della contestazione giovanile e delle proteste sindacali, e in quelli bui degli attentati terroristici. Un’opposizione a quella che sembrava «l’onda inarrestabile del comunismo», facilitata dalla «paralisi delle forze politiche». Pellicani cita Craxi nell’affermare che, in quel determinato periodo storico, l’Italia poteva uscire dalla crisi solo «liberandosi dalla sudditanza nei confronti del PCI». Da lì la rivendicazione di autonomia del Partito Socialista che fu la causa scatenante della «demonizzazione vergognosa di Craxi», accentuata dopo lo scandalo della corruzione. E qui c’è spazio anche per le cosiderazioni sui pregi e i difetti del leader socialista: «Craxi aveva grandi difetti perché aveva grandi qualità». Aiutava i socialisti cileni, appoggiava la causa di Solidarnosh, ma «sulle tangenti sapeva e non ha fatto nulla per combattere il sistema». Seppure l’attacco della magistratura nei suoi confronti, ricorda, fu di una «durezza criminale». E poi, in chiusura, una vena di malinconia: «la fine di Craxi ha determinato la fine del governo di Sinistra». «Lo schema astratto della democrazia deve essere riempito dalla capacità di governo dei politici». Craxi ha vissuto in una «democrazia bloccata». La crisi della democrazia liberale, secondo Craveri, stava proprio «nell’immobilità del sistema politico rispetto alla società e nell’incapacità di coinvolgere tutte le classi sociali». Bettino Craxi fu l’unico a rendersi conto della «necessità di riadeguare il funzionamento del sistema politico alla società italiana con la grande riforma del ‘79», mentre il Partito Comunista voleva mantenere «la formula consociativa», fino ad allora utilizzata per far muovere la macchina politica del Paese. Poi, da storico, Craveri segna le tappe delle battaglie politiche socialiste: il rafforzamento del patto atlantico, l’integrazione europea, l’abbassamento dell’inflazione, una «marcia trionfale» con Craxi alla presidenza del Consiglio. Sulla questione delle tangenti, invece, era «impossibile risolvere il problema». Alle idee craxiane si riconosce l’indubbia lungimiranza: «Tutte le riforme proposte da Craxi sono nell’agenda politica attuale». Una considerazione che Craveri, ammette, gli costa «una grande tristezza». UGO FINETTI Berlinguer per capirlo L’autore del libro recupera le opinioni espresse dal Presidente della Repubblica in occasione del decennale della morte di Bettino Craxi: «C’è la necessità di capire di più», di fare chiarezza sulla vita di Bettino Craxi, come uomo e come politico. Per farlo è necessario accostare la sua figura a quella degli avversari politici. «Non si capisce quello che ha fatto Craxi se non si accosta a quello che ha fatto Berlinguer». Anche il Partito Comunista, dice Finetti, ricorreva alle tangenti dopo la chiusura dei finanziamenti dell’Unione Sovietica. E con una metafora accusa chi sulla storia di Craxi fa del qualunquismo: «Non bisogna ragionare per cartoni animati». Per Finetti, è doveroso riconoscergli il merito di «rinnovatore nel percorso politico della Sinistra» e il ruolo di «grande protagonista del socialismo europeo», l’unico politico dell’epoca in grado di «rompere con l’Est, prendere di petto il Sessantotto e schierarsi contro la violenza e il terrorismo». Se si guarda ai dettami del leninismo, i ceti medi dovevano essere sterminati. Invece Craxi aveva capito che erano fondamentali per una «rivalutazione dell’economia di mercato». Poi passa in rassegna gli avversari che hanno contribuito al suo declino: «l’establishment economico-finanziario e il Partito Comunista». 4 PIERO CRAVERI 16 Aprile 2010 TRAMONTO Il lancio di monetine all’uscta dal Raphael nei giorni di Mani pulite A dieci anni dalla morte, ancora si dibatte sulla figura di Benedetto Craxi, detto Bettino, e sul ruolo che ha avuto nella storia d’Italia a cavallo tra prima e seconda repubblica. La letteratura si è spesa più volte per ripercorrere le tappe della sua vita, barcamenandosi tra apologia e condanna. Puntuale, quasi biografica, l’ultima ricostruzione di Ugo Finetti, scrittore, giornalista ed ex segretario del Psi lombardo, non nuovo agli studi sul Novecento italiano. Nella sua “Storia di Craxi”, il libro presentato alla Luiss Guido Carli, Finetti mette insieme “miti e realtà della Sinistra italiana” a partire dagli anni Sessanta, il periodo dell’impegno politico universitario, fino all’“ultimo Craxi”, capitolo conclusivo che cerca di dare una risposta alla fine di un’era. Riconoscere la “durezza senza eguali” con cui le inchieste giudiziarie colpirono Bettino Craxi e ne oscurarono i meriti politici. Questo il presupposto da cui partire per capire quale sia il suo posto nella storia, senza dimenticare le responsabilità e gli errori commessi da capo di governo e leader del Psi durante gli anni di Tangentopoli. «C’è la necessità di capire di più», dice Finetti nel corso del dibattito, «manca una messa a fuoco su quella che è stata la sua politica». Sulla stessa linea, l’On.Stefania Craxi, figlia dell’ex leader, lo studioso di storia Paolo Craveri e Luciano Pellicani, docente di Sociologia politica alla Luiss, chiamati ad intervenire durante la presenta- zione del libro presieduta da Giovanni Orsina, titolare della cattedra di Storia comparata dei sistemi politici europei. Secondo quanto emerge da una discussione vivace e ben ritmata, indubbia è la spinta innovatrice che è stato capace di dare all’Italia e la sua lungimiranza su argomenti, rimasti irrisolti, come le riforme costituzionali del sistema di governo in ottica presidenziale, temi all’ordine del giorno nell’attuale agenda politica del Paese. Molte le riforme: dal nuovo Concordato, al contestato taglio di quattro punti della scala mobile nel “decreto di San Valentino”; dalla battaglia contro l’evasio- «Il riformismo socialista ha vinto la sfida con la storia» ne con l’obbligo dello scontrino fiscale, a una politica economica che segnò lo storico sorpasso del reddito nazionale e procapite della Gran Bretagna; fino alle scelte coraggiose in tema di politica estera, dal caso Sigonella agli “euromissili”, che facilitarono il processo di integrazione europea e garantirono all’Italia un ruolo di prim’ordine nell’area atlantica. Ma sul personaggio Craxi gravano ancora le pesanti accuse dello scandalo di Tangentopoli. Troppe ombre restano da diradare sulle vicende che lo videro coinvolto, agli inizi degli anni Novanta, nel deprecabile meccanismo di finanziamento il- lecito dei partiti, una pratica da lui stesso ammessa e denunciata. Della serie “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Ebbene, seppure le inchieste portarono alla luce vicende in cui tutti gli schieramenti erano coinvolti, le pietre, in quegli anni, le scagliarono tutti. Craxi divenne ben presto il simbolo della politica corrotta e la condanna fu unanime da parte dell’opinione pubblica. Furono in molti a sospettare che le tangenti non servissero solo per campagne elettorali e spese di cancelleria, bensì per ‘ingrassare’ i conti in banca dei dirigenti del partito. Il primo a denunciare, nel 1987, il cambio repentino di tenore di vita della cricca socialista fu Giampaolo Pansa: «Craxi sapeva tutto». Ma non fece niente. «Impensabile che il segretario del partito non fosse informato», ricorda Giorgio Bocca facendo riferimento alla sentenza di rinvio a giudizio scritta dai giudici milanesi. Nel pool di Mani Pulite c’era Antonio Di Pietro, che carte alla mano, parlò di circa trenta miliardi di lire dirottati da Craxi su conti svizzeri. Per la figlia Stefania a tutto c’è un limite. «Le nuove generazioni sono vittime di questa propaganda sbagliata», ci confida andando via al termine della conferenza, durante il tragitto in ascensore. Secondo un sondaggio svolto qualche anno fa tra i giovani che si apprestavano a votare per la prima volta, Craxi sarebbe il più grande criminale del ventesimo secolo. Hitler ha raggiunto soltanto il terzo posto. Pagina a cura di Alessio Liverziani STEFANIA CRAXI La coscienza a posto La figlia del leader socialista, oggi sottosegretaria di Stato agli Esteri, ricorda il padre in un intervento accorato, quasi si commuove. Ma non riesce a celare la rabbia per quello che, a suo dire, è stato un tradimento. «Un tradimento dell’intera classe politica», dice, «che la coscienza a posto di Craxi non può assolvere». E continua la sua invettiva contro i giustizialisti e i detrattori: «La generazione dei trentenni è vittima della propaganda». Una cattiva informazione, a suo dire, su quanto è accaduto negli anni di Tangentopoli. «Il finanziamento illegale ai partiti non lo ha inventato Craxi, il Partito Comunista era già finanziato dall’Unione Sovietica». Ci sarebbero delle mancanze sostanziali nella ricostruzione dei fatti di quel periodo che non consentono ai posteri di considerare Craxi al di là degli errori ‘morali’, riconoscendogli i giusti meriti politici. «Durante il suo governo l’Italia è la quinta potenza mondiale, il debito pubblico nasce negli anni precedenti». E continua ricordando «l’azione riformista», «la vittoria culturale sul comunismo e il leninismo», «la lotta al consociativismo e all’immobilismo della politica», «il risanamento economico», tutti successi riconosciuti a Craxi solo all’estero, dove era «stimato e rispettato». «Nessuno è profeta in patria». Reporter nuovo Cronaca A Padova è sempre più aria di intolleranza: un altro muro anti-Rom voluto dal sindaco Pd Zingari cacciati: 70 erano troppi La segregazione abitativa rispecchia la mancanza di soluzioni reali Ilaria Del Prete Via Bassette, a circa tre chilometri dalla città di Padova, nella frazione di Mortise. Un campo tra la statale e l’autostrada, e in mezzo al campo un muro fatto di new-jersey e rete d’acciaio. È questa la soluzione trovata dal sindaco Pd Flavio Zanonato per rispondere alle proteste dei residenti della zona, dei commercianti e di alcuni esponenti del suo stesso partito scontenti della condotta della cinquantina di Rom che vivono nel campo, divisi in baracche e roulotte. L’ordinanza comunale impone limiti sia dal punto di vista dell’estensione sia per il numero di residenti. L’area risulta così divisa a metà, e le persone che la occupano sono passate da 70 a 40. Seferovic, Salkanovic e Ahemetovic, queste le tre famiglie d’origine bosniaca rimaste nel campo. Solo tredici adulti, gli altri sono minori, bambini. Tutto è cominciato mesi fa, quando la presenza dei nomadi nel terreno, per cui hanno regolari contratti d’affitto, è diventata scomoda per gli abitanti del popoloso quartiere di Mortise. Continui furti, telefonate al 112 e 113, commercianti e residenti denunciavano sempre più spesso l’aumento improvviso degli occupanti del campo, dove puntualmente erano ritrovati bottini delle rapine. Il disagio dei padovani è stato raccolto in ottobre, non dalla Lega Nord, che gioca in L’EX PRESIDENTE DELL’ASSOCIAZIONE CONTRO L’ANTI-ZIGANISMO SGOMBERO Una famiglia costretta ad abbandonare il campo nomadi di via Bassette, a Padova, dove un muro ha dimezzato l’area “Tanti diritti violati e troppi pregiudizi” Ma chi sono oggi i Rom in Italia? Risponde Piero Colacicicchi, ex presidente di OsservAzione, associazione di promozione sociale impegnata nella lotta all’anti-ziganismo e alle violazioni dei diritti umani e per la promozione dei diritti di Rom e Sinti. «Molti rom sono italiani a tutti gli effetti, arrivati qui nel 1400, e dovrebbero avere gli stessi diritti. Questi vivono quasi tutti in abitazioni, mentre alcuni Sinti vivono in roulotte, residuo del loro lavoro di giostrai. Nei campi ci sono ancora i Rom immigrati dalla Jugoslavia, soprattutto dalla fine degli anni ‘80 e con un picco alla fine dei ’90, durante la guerra in Kosovo. In parte poi vengono dalla Bosnia e dalla Macedonia». Qual è la condizione giuridica di Rom e Sinti in Italia? «Ci sono gli italiani, i comunitari e gli slavi, fuori dall’UE. Alcuni hanno il permesso di soggiorno, convertito dal- lo stato di rifugiato politico, o sono profughi. Ci sono poi molti giovani figli di rom che non hanno status perché hanno vissuto fino ai 18 anni col permesso di soggiorno dei genitori, senza averne mai avuto uno proprio». Il muro nel campo di Padova ripropone la questione della segregazione abitativa dei rom nel nostro paese. Cosa prescrivono a riguardo le norme europee? «Non è necessario arrivare alle norme europee, anche la nostra Costituzione è contraria alle discriminazioni. Ci possono essere difficoltà nel reperire le abitazioni, ma il segregare in maniera così definita un gruppo è contrario a qualsiasi principio, a partire dalla Convenzione delle Nazioni Unite per la eliminazione di tutte le f orme di discriminazione razziale». Non solo la Lega, ma adesso, come nel caso di Padova, ci si mette anche il Pd ad appoggiare pratiche di esclusione. La lotta si fa più dura per associazioni come la vostra? «Si, anche se in linea generale la discriminazione sulla questione rom è trasversale ai partiti. C’è un picco, ovviamente, con la Lega, ma anche con la sinistra non c’è stata poi molta libertà. Veltroni a Roma ne è un esempio». Qual è l’atteggiamento dell’opinione pubblica? E in che misura è fondato il pregiudizio? «Ci sono fortissimi pregiudizi, come i generici “i Rom non lavorano, rubano, sono sempre sporchi e vanno a rapire i bambini”. Una serie di leggende negative che in realtà hanno poco a che fare col reale. Certo, esiste una percentuale di rom criminali, ma come esiste una percentuale di italiani. Di solito i numeri salgono quando ci sono condizioni di accoglienza peggiori». I. D. P casa, ma dagli esponenti del Pd locale, che con una raccolta di firme hanno chiesto lo sgombero del campo nomadi, per ora irrealizzabile a causa dei contratti, anche se la situazione potrebbe cambiare a breve: la proprietaria del terreno non riceve l’affitto da un anno, dunque ha presentato denuncia per occupazione abusiva. Quello di via Bassette è il secondo muro di Padova, il primo fu innalzato tra via Anelli e via De Besi con la motivazione ufficiale di mettere in sicurezza l’area, ma che di fatto ha creato un ghetto per gli extracomunitari della zona. Così, come la precedente, la nuova recinzione crea divisioni non solo fisiche. Sulla condizione dei Rom in Italia, che insieme ai Sinti sono da sempre chiamati zingari, non si placa la polemica. Si tratta di circa 150.000 persone che non raggiungono lo 0,3 per cento della popolazione nazionale e di cui l’ottanta per cento è minorenne. Più della metà sono cittadini italiani, un altro quarto viene dalla comunità europea, in particolare dalla Romania. Le comunità più grandi sono a Roma, Milano e Napoli, e anche se molti hanno abitazioni proprie, la maggior parte vive in campi illegali e semillegali. Vittime del pregiudizio, persino le istituzioni che si occupano dei Rom si ritrovano contro una opinione pubblica ostile, e il modello segregazionista adottato è conseguenza della mancanza di una reale politica di integrazione. Pochissime celebrazioni per la giornata dei Rom. Discriminazioni in aumento Jacopo Matano Capita spesso che ci si dimentichi dei compleanni degli amici. Ma questa volta è andata bene: l’amico in questione è talmente abituato alle amnesie degli altri da non farci più caso. L’ 8 aprile è – anzi sarebbe – il “Romano Dives”, la giornata internazionale del popolo rom, l’appuntamento che celebra in tutto il mondo il ricordo del primo congresso dell’associazione mondiale dei nomadi, riunito a Londra nel 1971. Ovvero, la prima occasione per i rom, sinti, kalé (gitani della penisola iberica), manouche (sinti francesi) e romanichals (inglesi) di far sentire la propria voce nel mon- Reporter nuovo Quel popolo che l’Europa dimentica do, dopo la pagina nera dello spesso dimenticato Olocausto degli zingari – il “Porrajomos” – che vide almeno 500.000 Sinti e Rom perdere la vita nei campi di sterminio nazisti. Il “Romano Dives”, in Italia come in Europa, è passato quasi inosservato. Tra i pochi ad accorgersi della ricorrenza il Comitato di Coordinamento delle Organizzazioni per il Servizio Volontario (Cosv), un’organizzazione non governativa che si occupa di cooperazione internazionale. “Chi ha visto la giornata internazionale dei rom?” hanno chiesto provocatoriamente i volontari dell’associazione, che hanno avviato un progetto di “protezione integrata” delle minoranze nella regione europea in cui la presenza dei rom è più consistente: i Balcani. Il popolo zingaro, infatti, è invisibile anche in quei Paesi, come la Macedonia, dove rappresenta il 6 per cento della popolazione. “Le discriminazioni riguardano tutti i campi, dal lavoro all’educazione, dall’assistenza sanitaria all’housing, l’assegnazione delle abitazioni popolari”, spiega a Repor- ter Nuovo Claudia Cui, responsabile del Cosv. “In Macedonia, Kosovo e Montenegro stiamo intervenendo con attività che facilitino l’integrazione: dai fanciulli in età scolare, attraverso classi parallele che aiutano le scuole pubbliche a introdurre i bambini rom, agli adulti, per i quali organizziamo corsi di formazione professionale. Tutte occasioni di integrazione, ma – continua la volontaria - il lavoro non è semplice”. E se la strada è ancora in salita nei Balcani, le cose non vanno meglio nei paesi del- l’Unione Europea. “La Corte Europea dei Diritti dell’uomo ha individuato violazioni dell’art.14, divieto di discriminazione, nei confronti di ricorrenti di origine rom in quasi tutti i 27 stati membri”, ha denunciato il Consiglio d’Europa, che ha avviato una campagna anti-discriminazione dal titolo Dosta!, “Basta!” in romani, la loro lingua. Ma l’impegno, forse, “non basta”. E in alcuni paesi, i problemi di convivenza stanno diventando esplosivi. In Repubblica Ceca, i 300 mila rom che spesso sono vittime di episodi di razzismo – ultimo l’incendio di un villaggio – minacciano l’esodo di massa. Dove andranno? In Svizzera e nella Città del Vaticano, “unici paesi in cui – spiega Vaclav Miko, presidente dell’associazione che tutela i diritti di questa minoranza a Praga – speriamo di trovare accoglienza e migliori condizioni economiche”. Secondo Miko sono ormai centinaia le famiglie seriamente intenzionate a chiedere asilo oltre i cancelli di San Pietro rivolgendosi direttamente al Papa. Una provocazione, certo. Ma la fuga non è così improbabile: dopotutto si tratta pur sempre del più grande popolo nomade. 16 Aprile 2010 5 Cronaca Dagli studi del progetto Share emergono preoccupanti concentrazioni di inquinanti sull’Himalaya Sull’Everest tira aria da metropoli L’arrivo della stagione pre-monsonica aggrava una situazione già difficile Enrico Messina A quanto pare nemmeno una passeggiata a quota otto mila 850 metri serve più a trovare un clima totalmente puro. L’aria che si respira sull’Himalaya, difatti, non è poi molto differente da quella che si può trovare in una grande area urbana. L’Everest come la metropoli, insomma. È quanto emerge dagli studi di un gruppo di ricercatori dell’Isac-Cnr di Bologna e del Lgge-Nrs di Grenoble, impegnati nel progetto Share (Station at High Altitude for Research on the Environment). Dunque, i dati riguardanti le vette himalayane e quelli concernenti le città si assomigliano sempre più. La causa, però, non sembra essere un miglioramento della salubrità dell’aria cittadina, quanto un deterioramento di quella della catena montuosa. Processo che in questo periodo dell’anno si aggrava ulteriormente. La stagione pre-monsonica, infatti, favorisce il trasporto fino alle altissime quote dell’Himalaya delle sostanze inquinanti che compongono la cosiddetta “Asian brown cloud”. Così è chiamata la nube marrone che ricopre parte del nord dell’Oceano Indiano, l’India, il Pakistan e parte del sud dell’Asia e della Cina. Questa dannosissima nube è composta di particelle inquinanti disperse nell’aria, caratteristiche di emissioni industriali dovute a un incompleto incenerimento, derivanti dal bruciarsi della biomassa, dalle centrali elettriche, dai gas di scarico, dalla polvere sollevata dai venti nei deserti. Così al Nepal Climate Observatory – Pyramid, questo il nome della stazione posta alle pendici dell’Everest, gli studiosi hanno registrato un aumento considerevole del black carbon (la polvere nera che si sprigiona durante la combustione delle sostanze organiche). La concentrazione della sostanza ha sfiorato i sei ug/m3 (microgrammi per metro cubo d’aria). Parallelamente, la massa delle EVEREST Anche il tetto del mondo a rischio inquinamento polveri fini ha abbondantemente superato i cento ug/m3. Concentrazioni che hanno raggiunto valori mai registrati da quando l’osservatorio ha iniziato la sua attività di studio e monitoraggio, secondo quanto riferito da Angela Marinoni, una ricercatrice del centro. «Queste preoccupanti concentrazioni di particolato – ha spiegato Paolo Cristofanelli, responsabile delle attività at- mosferiche in Share – sono accompagnate da elevati livelli di ozono, un gas serra altamente ossidante che si forma in atmosfera in presenza di inquinanti primari e radiazione solare». Una delle ragioni di questo aumento è la maggiore frequenza degli incendi forestali, sicuramente favoriti dall’estrema siccità che caratterizza la stagione premonsonica. Incendi si sviluppano in maniera massiccia In Italia sequestri per oltre tre milioni e mezzo. I rimedi si cercano in rete Un pennarello svela gli euro falsi Davide Maggiore I falsari di oggi osano molto più di Totò e Peppino, improvvisati stampatori di banconote false nella Banda degli onesti. Se infatti nel film del 1956 il principe De Curtis e il fratello di Eduardo non avevano il coraggio di spendere i soldi fabbricati, i loro imitatori di oggi riescono a ingannare anche chi col denaro lavora. Compresi impiegati delle poste e cassieri di banca. Non sono pochi, infatti, i casi recenti di biglietti non autentici prelevati addirittura dai bancomat o dagli sportelli automatici degli uffici postali. E questa è solo la manifestazione più appariscente di un fenomeno di grandi proporzioni. Secondo i dati più recenti del ministero dell’economia, relativi ai primi sei mesi del 2009, infatti, le segnalazioni e i sequestri di banconote false in Italia sono in crescita rispetto allo stesso periodo del 2008. Più di trentamila casi, per un valo- 6 16 Aprile 2010 re in denaro vero di oltre tre milioni e mezzo di euro. In testa alla poco edificante classifica, un taglio molto usato, quello da venti euro, seguito da quelli da cento e da cinquanta. Un’alluvione di falsi resa possibile dal più facile accesso a sofisticate tecnologie di stampa, e dalla mancanza vari paesi: per l’Italia il termine ultimo è la fine di quest’anno. Nel frattempo, privati e aziende sono costretti ad organizzarsi da soli. Su internet molti siti offrono apparecchi in grado di individuare i biglietti di banca contraffatti. I più semplici sono dei pennarelli il cui inchiostro, se le Una normativa europea obbliga banche e poste a dotarsi di apparecchi anti-falsi, ma l’applicazione è stata rinviata nelle banche e alle poste di adeguate apparecchiature in grado di riconoscere le contraffazioni. In realtà una direttiva della banca centrale europea prescrive a chiunque si occupi per lavoro di banconote di dotarsi dei più moderni ritrovati tecnologici in questo campo. Ma la scadenza, in origine prevista per il 2007, è stata spostata in avanti e differenziata tra i banconote non sono autentiche, le macchia. In rete il loro prezzo è di pochi euro. Per chi giudica troppo artigianale il rimedio, poi, sono a disposizione, per qualche centinaio di euro, macchine che analizzano le caratteristiche fisiche e chimiche dei biglietti. Si va dalle lampade di Wood, la cui luce ultravioletta esalta la particolare composizione delle banco- note autentiche, agli apparecchi che esaminano allo stesso tempo le dimensioni del biglietto, il suo spessore, la sua reazione ai raggi infrarossi e il magnetismo dell’inchiostro e delle fascette metalliche. E anche per i telefonini di ultima generazione è ora a disposizione un’applicazione che verifica la correttezza del numero di serie e la sua eventuale presenza nella banca dati dei falsi. Precauzioni esagerate? Non proprio, perché chi spende denaro contraffatto, anche in buonafede, secondo la legge, può essere a sua volta incriminato. E rischia addirittura sei mesi di carcere e una multa di oltre mille euro. Cosa fare dunque se si ritiene di aver ricevuto soldi non genuini? È necessario andare alle Poste o alla Banca d’Italia, dove il denaro verrà stracciato, ma senza ottenere alcun rimborso. Toccherà dunque al cittadino pagare di tasca propria la disonestà altrui. in questo periodo soprattutto nei territori del Nepal, dell’India e dell’Indocina e vanno a gravare su una situazione già delicatissima quanto imprevedibile nelle sue possibili evoluzioni. Il pericolo derivante da queste sostanze, infatti, non riguarda solamente questi paesi, non potendosi escludere che la “Asian brown cloud” colonizzi anche i cieli non asiatici. La nube marrone è composta, infatti, da particelle diverse per dimensioni, natura e soprattutto peso. Se le particelle pesanti rimangono nei propri luoghi di produzione, quelle leggere potrebbero viaggiare per molti chilometri e quindi raggiungere Europa e Africa. «Gli inquinanti, attraverso le valli himalayane, che fungono da veri e propri camini, possono essere trasportati fino alla media e alta troposfera, ove acquistano un tempo di vita considerevolmente maggiore e possono accumularsi per essere trasportati anche su lunghe distanze», spiega Paolo Bonasoni, responsabile scien- tifico del progetto Share. A dare una dimensione globale, come d’altronde succede spesso quando si parla di clima, all’allarme legato all’aumento di sostanze inquinanti rilevate sul “tetto del mondo” è anche l’effetto che queste concentrazioni hanno sul processo di scioglimento dei ghiacciai himalayani. Aggrediti da una maggiore concentrazione di particolato, essi si sciolgono molto più velocemente rispetto al passato, cambiamento che rivela la sua pericolosità soprattutto se si considera che quei ghiacciai rappresentano una delle principali fonti d’acqua dolce dell’Asia meridionale, una delle aree maggiormente popolate al mondo. In sanscrito Himalaya significa “la dimora delle nevi eterne”, ma tra surriscaldamento globale e aumento delle concentrazioni delle sostanze inquinanti, i cui effetti sono più dannosi con l’arrivo della stagione pre-monsonica, questo nome potrebbe non risultare più tanto appropriato. LE STRATEGIE ANTITRUFFA Ologrammi, rilievi e filigrane Ma decisivo resta il tatto FALSARI La copertina del dvd della Banda degli onesti, interpretato da Totò e Peppino De Filippo, incapaci di spacciare le banconote che avevano contraffatto Toccare, muovere, guardare. Questi i suggerimenti per chi voglia evitare di trovarsi in mano euro falsi. Le banconote stampate dalla banca centrale europea, infatti, si distinguono per vari particolari che possono essere scoperti con delle semplici verifiche. Al tatto, prima di tutto: sfiorando alcune parti dei biglietti se ne percepisce la stampa a rilievo. Muovendo la banconota, poi, le strisce metalliche sul fronte e sul retro delle banconote brillano o mostrano simboli olografici. Infine, guardando la banconota in controluce compaiono filigrana e un filo di sicurezza con microscrittura. Altre microscritture, osservabili solo con la lente, dovrebbero apparire sulle due facce del biglietto. Reporter nuovo Costume & Società Viaggio all’Anagrafe per scoprire quali nomi fanno più tendenza. Decisiva la televisione Roma: vince Emma (quella di Amici) Sempre meno Cristopher e Samantha, crescono Francesco e Ginevra Jacopo Matano Il nome di battesimo, si sa, è come un abito. Chi lo regala segue la moda, chi lo indossa deve farlo con stile. La “targa” che dice tutto di noi e che ci portiamo dietro tutta la vita, infatti, cambia a seconda delle abitudini e delle latitudini. Ed è un po’ un segno dei tempi. Il trend del 2010, in fatto di nomi, è il ritorno a un’elegante sobrietà che sembra voler cancellare anni di esotici appellativi fioriti grazie al successo delle telenovelas di importazione. Complice la crisi e un po’ di gusto retrò, scompaiono dai registri delle nascite Cristopher, Samantha e Jennifer per lasciare il posto a migliaia di piccoli Leonardo, Ginevra, Sofia, Lorenzo, Aurora, Riccardo. Trisillabici di alto bordo che sembrano al contrario piacere al popolino, mentre i genitori vip – confusi - si dividono tra la teologia di un Pietro (recente fiocco azzurro della conduttrice Ilaria D’Amico), e l’ornitologia di un Falco (figlio di Elisabetta Gregoraci e Flavio Briatore). Ma il vero successo degli ultimi mesi si presenta con due vocali e una doppia consonante. E’ femminile, ed è stato ampiamente omaggiato anche da qualcuno che, in quanto a gusto ROMPICAPO La scelta del nome del neonato impegna genitori e parenti che spesso sono aiutati da pubblicazioni specializzate sui nomi da dare ai figli, lascia un po’ a desiderare. Durante un assemblea di Confindustria, infatti, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha annunciato - non senza un po’ di indelicatezza - di aver “imposto” al ministro Maria Stella Gelmini di chiamare la figlia appena nata con un nome che a lui stava a cuore. In linea con le hit anagrafiche di quest’anno - e strizzando l’occhio alla padrona di casa del convegno, la presidente degli industriali Marcegaglia - la scelta del premier è caduta su Emma. “E’ uno dei nomi che vanno per la maggiore”, conferma a Reporter Nuovo Liliana, una delle responsabili dell’ufficio denunce di nascite dell’Anagrafe di Roma, la più importante “fabbrica dei nomi” d’Italia in cui transitano, si modificano, si consigliano, si attribuiscono gli appellativi di milioni di cittadini romani. “Solo oggi ne ho messe tre”, incalza la collega Fabiana, che sottolinea come – accanto a Virginia e Ginevra – Emma sia la new entry più gettonata. Motivo di tanto successo? Chi sperava in un ritorno collettivo alla lettura del romanzo di Flaubert e alle tumultuo- se vicende della protagonista Emma Bovary rimarrà deluso: “Emma – azzarda Fabiana – è l’ultima vincitrice di Amici”. Restando in tema di nomi femminili, nella stanza dei bottoni di Via Petroselli mantiene la posizione l’incrollabile Giulia, primo anche in Italia, e cresce insospettabile Sofia, che sembra segnare più di tutti l’annunciato ritorno a un’ età dell’oro dell’italianità. Come spiegano all’ufficio nascite, infatti, “i genitori ci tengono a specificare che si scrive la ‘f’ e non col ‘ph’”. Per i maschietti, invece, spo- Sempre più donne in palestra e non solo per rientrare in linea pola Francesco, seguito da Lorenzo e Matteo. Mentre Andrea crea qualche problema. Molte mamme, infatti, vorrebbero attribuire questo nome alle bambine, come si fa negli Stati Uniti dove il sostantivo è il femminile di Andreas. Ma in Italia è vietato: “Non può immaginare quante richieste di questo tipo ci arrivano sulla scrivania. Lo scriva: noi le accettiamo ma siamo costretti a segnalarle alla procura, perchè non si possono dare nomi maschili alle bambine”. Complice il d.p.r. 396/2000, la rigida normativa del ministero dell’Interno sull’indicazione del nome, gli italiani sono dunque costretti a essere un popolo poco originale: dei 60.000 in uso nel nostro paese, infatti, i primi trenta appellativi coprono almeno la metà degli abitanti. Ma qualche strappo alla regola, ogni tanto, si fa. “L’altro giorno ci è arrivata una domanda per una Roma”, raccontano all’Anagrafe. “Pensavamo si fossero sbagliati a compilare i moduli, che avessero messo la città di nascita al posto del nome”. E’ bastato telefonare ai genitori – agguerriti tifosi - per avere la conferma della richiesta. Come è finita? In teoria non è consentito utilizzare nomi di città, “ma, sa, qui siamo tutti romanisti”. PERSONAGGI MODELLO Affascinate dagli sport pesanti Vito Miraglia Alle ragazze piacciono sacco e guantoni. Calci, ganci e montanti per superare con lode la prova costume. E nelle sale delle palestre, le ragazze hanno invaso ring e tappeti. È da tempo infatti che hanno capito che la forma fisica perfetta si può raggiungere non solo con l’aerobica e il pilates. Anche gli sport cosiddetti pesanti, fino a ieri riserva esclusivamente maschile, possono aiutare a tonificare. Tra questi il più gettonato è sicuramente il kick boxing, una disciplina a metà strada fra le arti marziali orientali e gli sport da combattimento occidentali. Alla base, la passione per lo sport, ma anche il divertimento, il gusto per le nuove tendenze e in alcuni casi l’autodifesa. È l’agonismo invece che allontana le atlete da questo sport, così come dalle arti marziali. Ma il kick boxing e le discipline orientali hanno anche un lato ludico che le ragazze non sottovalutano. Ciò che le Reporter nuovo spaventa è il contatto fisico con i ragazzi durante gli allenamenti che possono svolgersi in forma mista. In molte palestre, ragazzi e ragazze si sfidano senza timore, anche se persistono delle remore tra le donne. “A volte le facciamo combattere con dei ragazzi più debolucci e non le affidiamo a chi toni”, continua l’istruttore. “Si scaricano, scaricano lo stress e allo stesso tempo si divertono, socializzano e curano il loro corpo. Il kick boxing è l’ideale per chi vuole avvicinarsi a questo tipo di sport”. Ma c’è il timore di intaccare la loro femminilità? “Il rischio c’è – precisa Ivo – quando pro- Kick boxing e prepugilistica le discipline più trendy. “Per eliminare lo stress e per divertirsi”. Si inizia anche a trent’anni non sa dosare la forza. Ma i pregiudizi non ci sono più nemmeno tra gli allenatori”, ci racconta Ivo, istruttore di ju jitsu della storica palestra Wellness Club di via Bari, attiva da oltre quaranta anni e nota in città proprio per gli sport pesanti. “Le ragazze frequentano i corsi di kick boxing e di altre discipline simili come il muay thai, perché ci si muove, c’è una base di aerobica, e poi perché si mettono i guan- pongo qualche esercizio più pesante, cominciano a fare resistenza. E così si spiegano anche le poche presenze in palestra per il sollevamento pesi e per il culturismo”. Se la passione per il kick boxing si accende a 14 anni, anche le trentenni non si tirano indietro dal tirare calci e pugni. Per le arti marziali, come judo e karate, se si inizia da bambini dopo qualche anno si smette. “La danza, il pattinaggio e la ginnastica artistica non perdono il loro appeal per le adolescenti, così come il calcio e il basket attirano sempre i ragazzi”, spiegano al Wellness Club. Negli ultimi anni c’è stato dunque un aumento delle iscritte per queste discipline, anche nella boxe e nella ginnastica prepugilistica, “più grezze” del kick boxing o del taek wondo ma ugualmente attraenti. Per molte ragazze è anche un modo per migliorare la propria autostima, per sentirsi più sicure. Qualcuna va oltre e si iscrive ai corsi di autodifesa, organizzati per chi deve usare il fisico nel lavoro (come le forze dell’ordine) oppure per chi voglia premunirsi in caso di aggressione. “In questi corsi – chiarisce Ivo – le ragazze sono molto più propositive, ci chiedono come comportarsi per reagire in determinate situazioni. E qui non è possibile sottrarsi allo scontro con l’altro sesso, visto che fuori dalla palestra dovranno confrontarsi proprio con dei maschi”. Con Million Dollar Baby, il capolavoro di Clint Eastwood, sulla boxe femminile si è usciti dalla debole luce al neon delle palestre di periferia e si sono accesi i riflettori dei media di tutto il mondo. La protagonista è Maggie, interpretata da Hillary Swank, una ragazza molto determinata che riesce a conquistare la fiducia del suo allenatore con il suo talento e la sua tenacia. Grazie a questo film, e ai risultati conseguiti dalle atlete alle Olimpiadi di Pechino, anche gli sponsor si sono accorti degli sport pesanti “in rosa”. Veronica Calabrese, campionessa italiana di taekwondo, sarà la prossima testimonial dell’Adidas fino al prossimo appuntamento olimpico di Londra 2012. L’atleta italiana è stata la più votata nel concorso “Lo sport è donna” lanciato proprio dall’azienda tedesca. V. M. 16 Aprile 2010 7 Costume & Società Lontani dalle logiche meramente commerciali, i cantanti della parola riempiono le piazze Il cantautore non conosce tramonto Guccini trova fans nei giovani, concerto di Capossela il primo maggio Ilaria Del Prete Nell’Italia di Sanremo vincono le assonanze improbabili di Valerio Scanu, che con il suo “fare l’amore in tutti i luoghi e in tutti i laghi” si è guadagnato da subito più di uno sfottò da parte di un’altra Italia, quella che alle parole dà un gran peso. È il paese dei cantautori, della parola che per farsi musica ha bisogno solo di una chitarra, e che lungi dall’essere residuo di un di un passato musicale con lo sguardo rivolto agli anni ’60 e ’70, continua a riempire i palazzetti dello sport di un pubblico a volte storico, spesso giovanissimo. Kekko, così si firma su Youtube, il 9 aprile era al Palapartenope di Napoli. “È stata la prima volta che ho visto Guccini in concerto (non ho un’età elevata, d’altronde... ne ho solo 12!), e devo dire che è semplicemente un grande! Ti fa sfogare! Ti rende libero...”. E allora scambiamo due parole con Francesco Guccini. Classe 1940, a metà degli anni ’60 ha pubblicato il suo primo L.P. e nell’ultimo IMMUTABILE Francesco Guccini affascina con lo stesso stile da 40 anni concerto ha registrato il tutto esaurito, senza mai cambiare genere, accompagnato dagli stessi musicisti e persino con lo stesso manifesto. Da quarant’anni sfida tutte le leggi del marketing. “Perché cambiare genere, io faccio le mie canzoni – dice a Reporter Nuovo – e mi sembra di averne scritto solo quattro o cinque, perché il pubblico negli anni le riconosce e le richiede ad ogni concerto. E i pienoni sono di buon auspicio, la platea è persino più benevola e affettuosa di un tempo”. Vecchia scuola alimentata dalla nostalgia, si potrebbe dire. E invece non mancano degni discendenti. Si chiama Vinicio Capossela il paroliere della nuova generazione, allevato alla corte del recentemente scomparso Renzo Fantini, produttore anche di Paolo Conte e dello stesso Guccini, da cui ha ereditato la necessità di inquadrare il tempo che corre. Se anche si annullasse la musica, che ammicca ora agli chansonniers francesi ora al più recente Conte, le canzoni del cantautore originario dell’Irpinia fin dal suo primo album, All’una e trentacinque circa, alla malinconia mescolano la gioia di usare la parola. E il pubblico ricambia, imparando a memoria testi dai vocaboli ricercati, apprezzando la capacità di essere conciso e concreto. Capossela trasforma ciascuna occasione di vissuto personale in un racconto esemplare, senza alcun bisogno di attribuire alla canzone il ruolo di collettore di sentimenti universali e creando personaggi talmente reali da essere riconoscibili nella fantasia di ognuno, un po’ come i protagonisti dei testi-poesia di Fabrizio De Andrè. La parola è dunque ancora viva, per quanto impoverita e violentata per accontentare spettatori con meno pretese. Continua a esistere nei Guccini, nei Conte, nei Capossela, e in tutti quelli che non si accontentano di un ritornello. Per tutti questi, e per chi volesse provare ad ascoltare, l’appuntamento è al concerto del primo maggio in Piazza San Giovanni a Roma. L’ospite d’onore? Vinicio Capossela, ovviamente. Abbondano i programmi tv con bambini che cantano: ma è giusto farli esibire? Ti lascio un’occasione: crescere Possibili danni alle corde vocali e manipolazione Marco Maimeri Si abbassano le luci sul palco dell’Auditorium Rai di Napoli. Una scritta annuncia il via al televoto, una voce fuoricampo legge un testo introduttivo e su un fondale appaiono immagini e testi. Poi, non appena i due interpreti, dall’età imprecisata, in abiti sgargianti oppure discreti, cominciano a cantare, ecco apparire in sovrimpressione il titolo della canzone, il numero telefonico per televotare e il loro nome con l’indicazione dell’età. L’esibizione è partita. Ogni cantante cerca ora di dare il tutto per tutto, con il volto che pian piano s’imporpora mentre tenta di arrivare alla nota più alta, atteggiandosi a vocalist esperto con movenze che ricordano gli interpreti originali e cercando di rendere nel modo più accattivante possibile il brano. Il risultato è paradossale, a volte patetico. La filosofia della trasmissione Ti lascio una canzone, giunta questo anno alla terza edizione e condotta sempre da Antonella Clerici su Raiuno, è 8 16 Aprile 2010 spiegata nel sito ufficiale: «ogni generazione ha le sue canzoni e può raccontare la propria storia attraverso quelle canzoni», che sono «un patrimonio musicale ma anche personale che vorremmo non si perdesse mai e passasse come un’ideale eredità di genera- Quando uscì il loro primo disco, e anche questo indica un marketing spregiudicato da parte della produzione, Antonella Clerici definì questi ragazzi «bravissimi», aggiungendo «sono così piccoli ma quando arrivano sul palco tirano fuori una voce pazzesca». Luca Jurman, ex vocal coach di Amici: «È importante che non vengano trattati da adulti, musicalmente e vocalmente» zione in generazione». La struttura del programma è affidare a giovani interpreti le canzoni più belle e amate della generazione di ieri, mettendo «in competizione le canzoni e non i cantanti» e centrando «l’attenzione sulla bellezza di queste canzoni, sull’importanza che hanno avuto e hanno nella nostra vita, e sulla speranza che non se ne perda la memoria». Ma un interrogativo è stato subito posto da molti: è giusto che una trentina di ragazzi tra i sei e i quindici anni si esibiscano come fenomeni da baraccone? Molti otorinolaringoiatri però hanno osservato che sforzare la voce in quel modo, in così giovane età, può essere dannoso per le corde vocali. Fatto confermato, tra l’altro, dalla scelta di numerosi conservatòri di non accettare studenti di canto minori di sedici anni per le ragazze e di diciotto per i ragazzi. Il vanto della conduttrice poi, sempre in occasione del lancio del cd, era stato che «i protagonisti sono dei bambini talentuosi che cantano, ma non pensano di fare i cantanti in futuro. Questa è la chiave del successo: i bambi- ni non hanno malizia, hanno solo voglia di divertirsi, con ingenuità». C’è però il rischio che questa ingenuità possa essere manipolata da genitori o manager e, in questo caso, ovviamente, a soffrirne sarebbero soprattutto i ragazzi. «Non ho niente contro i talent per bambini – spiega Luca Jurman, storico ex allenatore vocale dei ragazzi di Amici, sul sito della Gazzetta dello Sport – ma non condivido gli show che li trasformano in fenomeni da baraccone. È importante che non vengano trattati da adulti, musicalmente e vocalmente: tra i quattordici e i sedici anni non dovrebbero affrontare studi professionali per non incorrere in patologie serie e a volte irreversibili. E poi, attenti ai genitori: spesso ci credono molto di più loro» E, infatti, su molti forum in internet spesso parenti e amici chiedono come iscrivere i propri ragazzi prodigio ai casting per Ti lascio una canzone o l’omologa Io canto su Canale 5. Il problema, senza la loro collaborazione, resta difficile da risolvere. ENTUSIASMO Piccoli cantanti in attesa di entrare in scena Reporter nuovo Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini” della LUISS Guido Carli Direttore responsabile Roberto Cotroneo Comitato di direzione Sandro Acciari, Alberto Giuliani, Sandro Marucci Direzione e redazione Viale Pola, 12 - 00198 Roma tel. 0685225558 - 0685225544 fax 0685225515 Stampa Centro riproduzione dell’Università Amministrazione Università LUISS Guido Carli viale Pola, 12 - 00198 Roma Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008 [email protected] ! www.luiss.it/giornalismo Reporter nuovo