Non c`è un vento di destra

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Non c`è un vento di destra
Anno III - Numero 13
Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli
Reporter
16 Aprile 2010
nuovo
Europa
«Non c’è un
vento di destra»
Intolleranza
Zingari cacciati
70 erano troppi
Nomi nuovi
Vince Emma
(quella di Amici)
Minicantanti
Quei programmi
in Tv li sfruttano
INVIATI
DI GUERRA
FASCINO E RISCHI DI UNA PROFESSIONE. INTERVISTA A DANIELE MASTROGIACOMO
Mondo
A colloquio con il prof. Corneli, esperto di relazioni internazionali: non c’è un vento di destra
Europa al voto: ‘Vince chi non perde’
Come cambiano le prospettive di Ungheria, Grecia e Gran Bretagna
Eloisa Moretti Clementi
In Europa governano quasi ovunque coalizioni di centro-destra e anche alle prossime elezioni in Gran Bretagna,
Olanda e Austria i partiti conservatori sono favoriti. Si può
parlare di un vento di destra? Lo abbiamo chiesto ad
Alessandro Corneli, docente di
Relazioni internazionali: “Non
ho mai creduto nei trend europei, né in un senso né nell’altro - risponde - non esiste
una cultura, una strategia europea. È una coincidenza in
parte casuale, ma fino a un certo punto perché la crisi ha colpito tutta l’Europa e non le è
stata data una risposta credibile e creativa in termini culturali, e quindi politici, tale da
convincere la gente”.
Le elezioni in Ungheria
sono state vinte dal partito di
centro-destra Fidesz, con l’affermazione degli ultranazionalisti. Come si può spiegare questo risultato?
“Quando c’è una situazione di crisi economica e sociale le posizioni estreme prendono il sopravvento. Ci sono
VINCITORE
Viktor Orban,
futuro primo
ministro
dell’Ungheria.
Il suo partito
conservatore ha
riportato la
destra al
governo dopo
otto anni
dei precedenti storici: era già
successo nel periodo tra le due
guerre mondiali. Queste posizioni si manifestano anche
come domanda di maggiore
intervento dei poteri pubblici. Oggi, infatti, nessun governo ha poteri così forti da incidere sulla realtà economica
e sociale. I partiti di sinistra
hanno alle spalle un fallimento clamoroso e non possono rivendicare ricette salvifiche. Hanno perso credibilità e l’elettorato si sposta dove
le esperienze sono più lontane. Gli errori più antichi val-
gono meno degli errori recenti”.
Dal punto di vista sociale,
chi beneficerà della destra al
governo? E a scapito di chi?
“Da diverso tempo le elezioni si perdono soltanto.
Vince chi non perde, è questa
la regola generale. La sinistra
si è ormai buttata su posizioni liberali, rinunciando completamente al suo patrimonio
culturale. Per questo ora non
è in grado di dire nulla sulla
globalizzazione. Non vedendo nella sinistra un punto di
riferimento che non sia epi-
sodico, la gente si sposta dove
ci sono forze che presentano
programmi concreti, come il
no all’immigrazione”.
Anche in Gran Bretagna i
Tory sono favoriti. Il modello Cameron, ambientalista e
sensibile ai temi del multiculturalismo, rappresenta un
esempio da imitare?
“Venti anni fa la stessa
cosa la fecero i laburisti di
Tony Blair, aprendosi a temi
come le liberalizzazioni e la
globalizzazione e l’opinione
pubblica li apprezzò, anche
perché veniva da quasi venti
anni di dominio dei conservatori. Adesso i laburisti hanno esaurito la loro spinta e
non hanno più idee, mentre i
conservatori tirano fuori nuovi argomenti. In fondo la gente prende quello che gli si dà”.
Con il suo governo socialista, la Grecia rappresenta
un’eccezione. La crisi economica che sta vivendo penalizzerà la sinistra greca?
“La sinistra è da poco al
potere e ha ereditato la situazione economica e finanziaria dai conservatori che
erano al governo. Naturalmente adesso accusa il precedente governo di aver creato questa situazione, mentre
la destra che è all’opposizione incolpa la sinistra di non
saperla risolvere. È un gioco
nel quale il popolo è chiamato
a dire la sua di tanto in tanto. Si tende a dare la responsabilità di quello che non va
a chi è al potere in un dato
momento, senza considerare
il processo che ha portato a
quella situazione. Le elezioni diventano un’istantanea,
una fotografia, non la biografia di un paese”.
Il sottosegretario agli Esteri Mantica a Bruxelles per promuovere la cooperazione con i Balcani
Ue, verso la macro-regione adriatica
Federica Ionta
L’Italia chiede a Bruxelles di
creare una “macro-regione”
intorno al mare Adriatico. È
questa la proposta del sottosegretario agli Affari Esteri Alfredo Mantica presentata il 13
aprile al Comitato delle regioni europeo ma, di fatto, già
lanciata nel 2000 con la nascita dell’Iniziativa adriaticoionica (Iai).
«Il programma dovrebbe
riguardare la gestione di una
risorsa comune a Paesi balcanici, Italia e Grecia, che è
appunto il mare Adriatico»,
spiega Andrea Stocchiero, ricercatore del Centro Studi di
Politiche Internazionali di
Roma. «Si parla di progetti in
vari settori, dai trasporti al
commercio, dai flussi migratori al mercato del lavoro».
Obiettivo: accrescere la
competitività dell’area adriatica non solo sul piano europeo ma a livello mondiale,
come stanno già facendo otto
paesi del mar Baltico che dal
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16 Aprile 2010
2009 hanno deciso di mettersi presenta un’opportunità ma nazionali in Europa.
insieme per programmare in anche un ostacolo. Le iniziaC’è una innegabile similimaniera congiunta le linee tive europee sono spesso vi- tudine tra i progetti strategistrategiche per lo sviluppo del ste con diffidenza: non è il ci delle macro-regioni e i proterritorio. «Non è un caso che caso del Marocco, un Paese grammi di cooperazione tral’idea sia nata nei Paesi balti- che ha sempre voluto avvici- snnazionale e transfrontalieci, continua Stocchiero, per- narsi molto all’Unione Euro- ra, ad esempio. Non solo:
ché in quell’area esistono del- pea, mentre l’Egitto vede l’Eu- non essendo considerata
le condizioni politico-istitu- ropa con grande scetticismo». un’istituzione, la macro-rezionali che hanno dato luogo Di qui la necessità di creare gione non ha un proprio caa questo processo e che è un’area di collaborazione geo- pitolo di spesa nel bilancio eudifficile ritroropeo e quinvare in altre
di utilizza riGovernance europea: a colloquio con Andrea sorse originaregioni europee».
riamente
Stocchiero del Cespi che spiega la strategia di stanziate
Ma di cosa
per
si tratta? «Le un partenariato con l’area balcanica e la Grecia altri
promacro-regiogrammi,
ni
sono
come i Fondi
un’entità a metà tra un’istitu- graficamente più limitata, Strutturali o il VII Programma
zione europea e un program- come appunto quella del- quadro per la ricerca, creanma comunitario, cioè aree l’Adriatico, e quindi più ge- do ancora maggiore confuappartenenti a nazioni diver- stibile».
sione.
se ma con le stesse probleDue i punti deboli di queMa, ricorda Stocchiero, c’è
matiche economiche, sociali, sta nuova forma di gover- una differenza fondamentale:
ambientali che decidono di nance europea che, come «I programmi di cooperaziotrovare soluzioni condivise a spesso accade a Bruxelles, ri- ne sono in mano ad Autorità
problemi comuni», chiarisce guardano i conflitti di com- di gestione subnazionali,
Stocchiero. «Nel caso del- petenza tra i diversi livelli di mentre la macro-regione prel’Italia, il rapporto con i diversi governo e tra i programmi che vede una governance multipaesi del Mediterraneo rap- già coinvolgono aree sovra- livello che attribuisce un ruo-
lo centrale ai governi nazionali».
E sul conflitto di competenze, che potrebbe rimandare
al livello nazionale la responsabilità di politiche che
dovrebbero essere gestite a livello europeo, Stocchiero conclude: «Le macro-regioni sono
concepite come una vera politica europea, quindi il loro
sviluppo non dovrebbe portare a spinte centrifughe.
L’obiettivo è quello di creare
un altro livello di governance che permetta all’Europa di
essere più Europa di prima, e
ai 27 Paesi di superare le divisioni nazionali in gruppi
più piccoli e quindi più gestibili».
A Bruxelles, per ora, si
parla solo di macro-regioni
baltica e danubiana. Il progetto italiano riparte da Ancona dove, il 5 maggio prossimo, Grecia, Italia, BosniaErzegovina, Croazia, Montenegro, Albania, Serbia e Slovenia firmeranno un documento d’intesa.
ALLE URNE
REGNO UNITO:
TOCCA AI TORY
Le prossime elezioni
del 6 maggio potrebbero riportare i conservatori al governo britannico dopo 13 anni di dominio del New Labour.
Se l’attuale premier Gordon Brown punta sull’esperienza di governo,
il leader dei Tory David
Cameron chiede agli
elettori di scommettere
sul cambiamento e su
un partito profondamente rinnovato, che
tiene insieme anti-europeismo e politiche
multiculturali e ambientali.
Un sondaggio del
Daily Telegraph gli assegna la vittoria con il 43
per cento dei voti, contro il 31 per cento attribuito ai Labour.
OLANDA: A RISCHIO
LE MOSCHEE
Le amministrative del
marzo scorso hanno visto l’ascesa del partito di
estrema destra Pvv, guidato da Geert Wilders,
probabile candidato a
primo ministro alle elezioni politiche che si
terranno a giugno. Anche se sfida le classificazioni e afferma: “Non
ho niente in comune
con i fascisti”, le posizioni di Wilders in materia di islam e immigrazione sono nette: “Se
diventerò primo ministro impedirò la costruzione di nuove moschee
e bloccherò l’immigrazione dai paesi musulmani”.
AUSTRIA: PARTITO
DELLA LIBERTA’
Avanzata populista in
Austria, dove il 25 aprile si voterà per le presidenziali federali. La sfidante del presidente
uscente Heinz Fischer si
chiama Barbara Rosenkranz, del populista Partito della libertà (Fpö):
casalinga e madre di dieci figli, ognuno con il
nome di un dio germanico, rivendica la sua
provenienza dagli ambienti nazionalisti e un
acceso antieuropeismo.
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Mondo
Con Daniele Mastrogiacomo, un’analisi sugli aspetti di un mestiere rischioso che affascina
Raccontare, anche sfidando la morte
Inviati di guerra, a caccia di scoop con nervi saldi e molta accortezza
Un video che circola in questi giorni su internet
rivela l’uccisione di un operatore della Reuters,
a Baghdad, da parte dei militari americani. Salgono così a 125 i reporter uccisi solo negli ultimi due anni nei teatri di guerra di tutto il mondo, cifre che si ripetono annualmente nel rapporto
dell’Unesco sulla “Sicurezza dei giornalisti”. Le
cause di morte più frequenti sono attentati ka-
mikaze, tentativi di sequestro, rapine, incidenti
e purtroppo, anche i ‘danni collaterali’ del fuoco amico. Dei pericoli connessi al mestiere abbiamo parlato con Daniele Mastrogiacomo, giornalista che ha provato sulla sua pelle cosa significhi rischiare di morire in nome di una professione. Prima cronista del Messaggero poi inviato speciale di Repubblica, per anni in prima li-
nea in Medio Oriente, Asia Centrale e nell’Africa subsahariana: Kabul, Teheran, Palestina, Baghdad, Mogadiscio, Libano. Poi il drammatico sequestro in Afghanistan nel marzo del 2007. Quattordici giorni nelle mani dei miliziani talebani,
in bilico tra la vita e la morte. La sua drammatica vicenda ha tenuto con il fiato sospeso l’Italia
intera, fino al suo rilascio.
Alessio Liverziani
Daniele Mastrogiacomo,
cosa spinge un giornalista a
diventare inviato di guerra? Il
coraggio, l’incoscienza, il merito professionale o i soldi?
«I soldi no, perché uno
viene pagato allo stesso modo.
La scelta è dettata da una serie di circostanze legate all’attualità. Quando la guerra diventa l’argomento dominante
sullo scenario internazionale,
come lo è stato negli ultimi
otto anni con l’amministrazione Bush, c’è la necessità di
seguire da vicino questi avvenimenti»
Cosa significa per lei essere inviati di guerra e, se c’è,
qual è il segreto per essere un
buon reporter?
«Per me significa avere una
dose di adrenalina molto forte, perché sei continuamente
sotto tensione. Le situazioni in
guerra sono in continua evoluzione, legate ad avvenimenti imprevedibili come possono
essere guerriglie improvvise,
ma anche strategie militari di
cui non si è pienamente al corrente. Quindi è un lavoro molto duro, dal punto di vista fisico ma anche psicologico,
che richiede nervi saldi, molta molta accortezza per valutare bene tutte le variabili di
una guerra»
Quindi è questo il segreto
per salvarsi la pelle? Oppure
anche usando tutte le accortezze del mestiere si è comunque a rischio?
«Sei comunque a rischio. In
una guerra la tua incolumità
non è garantita solo per il fatto che sei un giornalista, anzi.
Siccome i giornalisti devono
andare sul campo a verificare
i fatti, sono al centro del conflitto. A meno che tu non decida di restare chiuso in un albergo, ma questo spesso non
è neanche detto che ti salvi la
vita. Puoi scegliere di non andare sul posto, di non verificare
le fonti, ma a scapito di un’informazione vera, attendibile e
più completa»
Esistono trattati internazionali che tutelano il lavoro
dell’inviato?
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AL FRONTE Un inviato speciale in Iraq impegnato a riprendere un’azione di guerra per un servizio televisivo in diretta
«Solo teoricamente. Basti
pensare che ci sono dei trattati internazionali che salvaguardano i diritti umani, quindi per i civili, che poi sono costretti a restare nei villaggi
che sono bombardati, figuriamoci se viene tutelato il
diritto all’informazione. Teoricamente si, però nei fatti
non siamo più quelle figure
neutrali che uno immagina di
essere. Puoi diventare un bersaglio oppure far parte di quei
danni collaterali, come succe-
de per tantissimi civili pur
non partecipando ai conflitti,
e quindi diventare una vittima»
La formazione professionale per gli inviati di guerra,
in Italia e nel mondo, per
quello che ha avuto modo di
vedere essendo a contatto
anche con i colleghi di paesi
esteri, è adeguata?
«Non troppo, diciamo che
si fa molto sul terreno. Bisogna
molto guardare gli altri e affidarsi ai colleghi più esperti per
capire come ci si deve muovere»
Lei ha provato in prima
persona la terribile esperienza del sequestro, insieme con
il suo interprete Ajimal Nashkbandi e l’autista Sayed
Haga. Lei è l’unico che si è salvato. Due anni dopo ha scritto il libro “I giorni della paura”. Cosa resta oggi di quella paura?
«Per due anni ho dovuto
fare i conti con i fantasmi di
Ajimal e Sayed perché avevo il
senso di colpa per non essere
riuscito a salvarli. Sayed
l’hanno sgozzato improvvisamente, non siamo riusciti a fare
niente perché eravamo legati,
con le bende sugli occhi e i fucili puntati, in mezzo a una
landa desertica. Ajimal sono
riusciti a ricatturarlo dopo il rilascio e anche su questo restano molti interrogativi irrisolti. Chi ha agevolato la sua
cattura e perchè? Evidentemente qualcuno in Afghanistan ha la coscienza molto
sporca. Ho deciso di scrivere
quel libro anche perché sono
convinto che loro due avrebbero voluto che io raccontassi in giro per il mondo quanto era veramente accaduto e
soprattutto per chiudere definitivamente questa vicenda.
Ha chiuso davvero con il
mestiere di inviato di guerra
o sarebbe pronto a tornare in
prima linea?
«Quello che è accaduto mi
ha cambiato profondamente
ma non mi ha impedito di continuare a fare il giornalista. Non
andrò nei paesi islamici ancora per molto tempo, non andrò
sicuramente in Afghanistan e
nelle zone di guerra perchè è
una fase chiusa della mia vita.
Adesso mi occupo sempre di
politica estera, curo soprattutto
l’Africa perché è un continente in via di sviluppo da tenere
d’occhio per il futuro. Sicuramente resto un inviato sul
campo, che deve stare sul posto, vivere e raccontare quello che vede, però sono stanco
delle guerre, sono stanco degli attentati, dei tantissimi
morti che ho visto, della costante tensione di saltare ad
ogni colpo che può sembrare
un colpo di fucile, stanco di
tanta violenza, quindi cerco di
evitarmela»
Benedetto XVI° non ci pensa anche se c’è chi le vorrebbe
Andrea Pala
Lo scandalo della pedofilia all’interno del clero sta scuotendo la Chiesa cattolica e, nonostante i rigidi provvedimenti annunciati al riguardo
dalla Curia romana, dalla Germania agli Stati Uniti si levano sempre più insistenti le richieste di dimissioni di Benedetto XVI. Der Spiegel e New
York Times se ne sono fatti portavoce, accusando il pontefice
di non avere preso provvedimenti nei confronti dei sacerdoti pedofili quando ricopriva
l’incarico di Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.
Ma Benedetto XVI potrebbe dimettersi? Il Codice di Diritto
Dimissioni? Assurde ma possibili
C’è un canone che le prevede
canonico, l’insieme delle norme che regolano la vita della
Chiesa, prevede questa possibilità. Nella seconda parte del
canone 332, si legge: «Nel
caso che il Romano Pontefice
rinunci al suo ufficio si richiede
per la validità che la rinuncia
sia fatta liberamente e che
venga debitamente manifestata, non si richiede invece
che qualcuno la accetti».
Cosa accada davvero in caso di
dimissioni del Papa è però
ancora oggetto di dibattito. È
opinione prevalente che il
pontefice dimissionario diventi “Papa emerito”. Secondo altri, invece, assumerebbe
il titolo di “vescovo emerito di
Roma”, dal momento che il
Papa è anche vescovo della città eterna. Benedetto XVI comunque non ha alcuna intenzione di abbandonare il
soglio di Pietro. Per questo motivo il dibattito intorno alle
conseguenze sulle dimissioni
papali è destinato a rimanere
niente più che una speculazione dottrinaria.
Nella bimillenaria storia della
Chiesa, esistono alcuni casi di
pontefici che hanno presentato le proprie dimissioni. Già
nella prima metà dell’XI secolo Benedetto IX decise di abdicare nel 1045. L’anno dopo
ci ripensò e decise di riprendersi il trono con le armi, scatenando un conflitto con gli altri pretendenti al papato. Nel
1048 finì scomunicato perché
si rifiutò di riconoscere Damaso II, nel frattempo nominato legittimo pontefice dai
cardinali. Due secoli dopo,
nel 1294, fu la volta di Cele-
stino V. Fu il primo a mettere
per iscritto la sua volontà, dichiarando di essere «spinto da
legittime ragioni, per umiltà e
debolezza del mio corpo» e si
ritirò a vita privata. Circa cento anni più tardi, rassegnò le
dimissioni anche Gregorio
XII. La sua autorità era messa
in discussione da Benedetto
XIII, riconosciuto papa ad
Avignone, e da Giovanni
XXIII, antipapa nominato dall’imperatore. Gregorio allora si
fece da parte e venne nominato
vescovo di Porto (oggi Ostia)
e legato pontificio ad Ancona.
Pare che anche Giovanni Paolo II avesse pensato di dimettersi, ma ci ripensò perché diceva che nella Chiesa non c’è
posto per un “Papa emerito”.
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Primo Piano
Dibattito alla Luiss su un libro dedicato alla controversa figura del leader socialista
Quale posto per Craxi nella storia
Il suo coraggio e i suoi errori negli interventi di Craveri, Pellicani e Finetti
LUCIANO PELLICANI
Difetti e grandi qualità
Attuali le sue riforme
«Craxi è stato capace di ristabilire la legittimità dello Stato». Così esordisce il sociologo nell’analizzare il contributo del socialismo craxiano negli anni turbolenti della contestazione giovanile e delle proteste
sindacali, e in quelli bui degli attentati terroristici. Un’opposizione a quella che sembrava «l’onda inarrestabile del comunismo», facilitata dalla «paralisi delle forze politiche». Pellicani cita Craxi nell’affermare
che, in quel determinato periodo storico, l’Italia poteva uscire dalla crisi solo «liberandosi
dalla sudditanza nei confronti del PCI».
Da lì la rivendicazione di autonomia del
Partito Socialista che fu la causa scatenante
della «demonizzazione vergognosa di Craxi», accentuata dopo lo scandalo della
corruzione.
E qui c’è spazio anche per le cosiderazioni sui pregi e i difetti del leader socialista:
«Craxi aveva grandi difetti perché aveva
grandi qualità». Aiutava i socialisti cileni, appoggiava la causa di Solidarnosh, ma «sulle tangenti sapeva e non ha fatto nulla per
combattere il sistema».
Seppure l’attacco della magistratura nei
suoi confronti, ricorda, fu di una «durezza
criminale». E poi, in chiusura, una vena di
malinconia: «la fine di Craxi ha determinato la fine del governo di Sinistra».
«Lo schema astratto della democrazia
deve essere riempito dalla capacità di governo dei politici». Craxi ha vissuto in una
«democrazia bloccata».
La crisi della democrazia liberale, secondo Craveri, stava proprio «nell’immobilità del sistema politico rispetto alla società e nell’incapacità di coinvolgere tutte le
classi sociali».
Bettino Craxi fu l’unico a rendersi conto
della «necessità di riadeguare il funzionamento del sistema politico alla società italiana con la grande riforma del ‘79», mentre il Partito Comunista voleva mantenere
«la formula consociativa», fino ad allora utilizzata per far muovere la macchina politica del Paese.
Poi, da storico, Craveri segna le tappe
delle battaglie politiche socialiste: il rafforzamento del patto atlantico, l’integrazione
europea, l’abbassamento dell’inflazione,
una «marcia trionfale» con Craxi alla presidenza del Consiglio. Sulla questione delle tangenti, invece, era «impossibile risolvere
il problema».
Alle idee craxiane si riconosce l’indubbia
lungimiranza: «Tutte le riforme proposte da
Craxi sono nell’agenda politica attuale». Una
considerazione che Craveri, ammette, gli costa «una grande tristezza».
UGO FINETTI
Berlinguer per capirlo
L’autore del libro recupera le opinioni
espresse dal Presidente della Repubblica in
occasione del decennale della morte di Bettino Craxi: «C’è la necessità di capire di più»,
di fare chiarezza sulla vita di Bettino Craxi,
come uomo e come politico.
Per farlo è necessario accostare la sua figura a quella degli avversari politici. «Non si
capisce quello che ha fatto Craxi se non si accosta a quello che ha fatto Berlinguer». Anche il Partito Comunista, dice Finetti, ricorreva
alle tangenti dopo la chiusura dei finanziamenti dell’Unione Sovietica. E con una metafora accusa chi sulla storia di Craxi fa del
qualunquismo: «Non bisogna ragionare per
cartoni animati».
Per Finetti, è doveroso riconoscergli il merito di «rinnovatore nel percorso politico della Sinistra» e il ruolo di «grande protagonista
del socialismo europeo», l’unico politico dell’epoca in grado di «rompere con l’Est, prendere di petto il Sessantotto e schierarsi contro la violenza e il terrorismo». Se si guarda
ai dettami del leninismo, i ceti medi dovevano essere sterminati. Invece Craxi aveva capito che erano fondamentali per una «rivalutazione dell’economia di mercato».
Poi passa in rassegna gli avversari che
hanno contribuito al suo declino: «l’establishment economico-finanziario e il Partito Comunista».
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PIERO CRAVERI
16 Aprile 2010
TRAMONTO Il lancio di monetine all’uscta dal Raphael nei giorni di Mani pulite
A
dieci anni dalla morte,
ancora si dibatte sulla
figura di Benedetto Craxi, detto Bettino, e sul ruolo che
ha avuto nella storia d’Italia a
cavallo tra prima e seconda repubblica. La letteratura si è
spesa più volte per ripercorrere
le tappe della sua vita, barcamenandosi tra apologia e condanna. Puntuale, quasi biografica, l’ultima ricostruzione di
Ugo Finetti, scrittore, giornalista ed ex segretario del Psi lombardo, non nuovo agli studi sul
Novecento italiano. Nella sua
“Storia di Craxi”, il libro presentato alla Luiss Guido Carli,
Finetti mette insieme “miti e realtà della Sinistra italiana” a
partire dagli anni Sessanta, il periodo dell’impegno politico universitario, fino all’“ultimo Craxi”, capitolo conclusivo che cerca di dare una risposta alla fine
di un’era. Riconoscere la “durezza senza eguali” con cui le inchieste giudiziarie colpirono
Bettino Craxi e ne oscurarono i
meriti politici. Questo il presupposto da cui partire per capire quale sia il suo posto nella
storia, senza dimenticare le responsabilità e gli errori commessi da capo di governo e leader del Psi durante gli anni di
Tangentopoli.
«C’è la necessità di capire di
più», dice Finetti nel corso del
dibattito, «manca una messa a
fuoco su quella che è stata la sua
politica». Sulla stessa linea,
l’On.Stefania Craxi, figlia dell’ex leader, lo studioso di storia
Paolo Craveri e Luciano Pellicani, docente di Sociologia politica alla Luiss, chiamati ad intervenire durante la presenta-
zione del libro presieduta da
Giovanni Orsina, titolare della
cattedra di Storia comparata dei
sistemi politici europei.
Secondo quanto emerge da
una discussione vivace e ben ritmata, indubbia è la spinta innovatrice che è stato capace di
dare all’Italia e la sua lungimiranza su argomenti, rimasti irrisolti, come le riforme costituzionali del sistema di governo in
ottica presidenziale, temi all’ordine del giorno nell’attuale
agenda politica del Paese. Molte le riforme: dal nuovo Concordato, al contestato taglio di
quattro punti della scala mobile nel “decreto di San Valentino”;
dalla battaglia contro l’evasio-
«Il riformismo
socialista ha vinto la
sfida con la storia»
ne con l’obbligo dello scontrino
fiscale, a una politica economica che segnò lo storico sorpasso del reddito nazionale e procapite della Gran Bretagna;
fino alle scelte coraggiose in
tema di politica estera, dal caso
Sigonella agli “euromissili”,
che facilitarono il processo di integrazione europea e garantirono all’Italia un ruolo di prim’ordine nell’area atlantica.
Ma sul personaggio Craxi
gravano ancora le pesanti accuse dello scandalo di Tangentopoli. Troppe ombre restano da
diradare sulle vicende che lo videro coinvolto, agli inizi degli
anni Novanta, nel deprecabile
meccanismo di finanziamento il-
lecito dei partiti, una pratica da
lui stesso ammessa e denunciata. Della serie “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Ebbene, seppure le inchieste portarono alla luce vicende in cui
tutti gli schieramenti erano
coinvolti, le pietre, in quegli
anni, le scagliarono tutti. Craxi divenne ben presto il simbolo della politica corrotta e la condanna fu unanime da parte
dell’opinione pubblica. Furono
in molti a sospettare che le tangenti non servissero solo per
campagne elettorali e spese di
cancelleria, bensì per ‘ingrassare’
i conti in banca dei dirigenti del
partito. Il primo a denunciare,
nel 1987, il cambio repentino di
tenore di vita della cricca socialista fu Giampaolo Pansa:
«Craxi sapeva tutto». Ma non
fece niente. «Impensabile che il
segretario del partito non fosse
informato», ricorda Giorgio
Bocca facendo riferimento alla
sentenza di rinvio a giudizio
scritta dai giudici milanesi. Nel
pool di Mani Pulite c’era Antonio Di Pietro, che carte alla
mano, parlò di circa trenta miliardi di lire dirottati da Craxi
su conti svizzeri.
Per la figlia Stefania a tutto
c’è un limite. «Le nuove generazioni sono vittime di questa
propaganda sbagliata», ci confida andando via al termine della conferenza, durante il tragitto
in ascensore. Secondo un sondaggio svolto qualche anno fa
tra i giovani che si apprestavano a votare per la prima volta,
Craxi sarebbe il più grande
criminale del ventesimo secolo.
Hitler ha raggiunto soltanto il
terzo posto.
Pagina a cura di Alessio Liverziani
STEFANIA CRAXI
La coscienza a posto
La figlia del leader socialista, oggi sottosegretaria di Stato agli Esteri, ricorda il padre
in un intervento accorato, quasi si commuove. Ma non riesce a celare la rabbia per quello che, a suo dire, è stato un tradimento. «Un
tradimento dell’intera classe politica», dice,
«che la coscienza a posto di Craxi non può
assolvere».
E continua la sua invettiva contro i giustizialisti e i detrattori: «La generazione dei trentenni è vittima della propaganda». Una cattiva informazione, a suo dire, su quanto è accaduto negli anni di Tangentopoli. «Il finanziamento illegale ai partiti non lo ha inventato Craxi, il Partito Comunista era già finanziato
dall’Unione Sovietica».
Ci sarebbero delle mancanze sostanziali nella ricostruzione dei fatti di quel periodo
che non consentono ai posteri di considerare Craxi al di là degli errori ‘morali’, riconoscendogli i giusti meriti politici. «Durante il suo
governo l’Italia è la quinta potenza mondiale, il debito pubblico nasce negli anni precedenti».
E continua ricordando «l’azione riformista»,
«la vittoria culturale sul comunismo e il leninismo», «la lotta al consociativismo e all’immobilismo della politica», «il risanamento economico», tutti successi riconosciuti a Craxi
solo all’estero, dove era «stimato e rispettato». «Nessuno è profeta in patria».
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Cronaca
A Padova è sempre più aria di intolleranza: un altro muro anti-Rom voluto dal sindaco Pd
Zingari cacciati: 70 erano troppi
La segregazione abitativa rispecchia la mancanza di soluzioni reali
Ilaria Del Prete
Via Bassette, a circa tre chilometri dalla città di Padova,
nella frazione di Mortise. Un
campo tra la statale e l’autostrada, e in mezzo al campo un
muro fatto di new-jersey e
rete d’acciaio.
È questa la soluzione trovata dal sindaco Pd Flavio
Zanonato per rispondere alle
proteste dei residenti della
zona, dei commercianti e di alcuni esponenti del suo stesso
partito scontenti della condotta della cinquantina di Rom
che vivono nel campo, divisi in
baracche e roulotte. L’ordinanza comunale impone limiti
sia dal punto di vista dell’estensione sia per il numero
di residenti. L’area risulta così
divisa a metà, e le persone che
la occupano sono passate da
70 a 40. Seferovic, Salkanovic
e Ahemetovic, queste le tre famiglie d’origine bosniaca rimaste nel campo. Solo tredici
adulti, gli altri sono minori,
bambini.
Tutto è cominciato mesi
fa, quando la presenza dei nomadi nel terreno, per cui hanno regolari contratti d’affitto, è
diventata scomoda per gli abitanti del popoloso quartiere di
Mortise. Continui furti, telefonate al 112 e 113, commercianti e residenti denunciavano sempre più spesso l’aumento improvviso degli occupanti del campo, dove puntualmente erano ritrovati bottini delle rapine.
Il disagio dei padovani è stato raccolto in ottobre, non
dalla Lega Nord, che gioca in
L’EX PRESIDENTE DELL’ASSOCIAZIONE CONTRO L’ANTI-ZIGANISMO
SGOMBERO
Una famiglia
costretta
ad abbandonare
il campo nomadi
di via Bassette,
a Padova,
dove un muro
ha dimezzato
l’area
“Tanti diritti violati e troppi pregiudizi”
Ma chi sono oggi i Rom in Italia? Risponde Piero Colacicicchi, ex presidente di OsservAzione, associazione di
promozione sociale impegnata nella
lotta all’anti-ziganismo e alle violazioni
dei diritti umani e per la promozione
dei diritti di Rom e Sinti.
«Molti rom sono italiani a tutti gli
effetti, arrivati qui nel 1400, e dovrebbero avere gli stessi diritti. Questi
vivono quasi tutti in abitazioni, mentre alcuni Sinti vivono in roulotte, residuo del loro lavoro di giostrai.
Nei campi ci sono ancora i Rom immigrati dalla Jugoslavia, soprattutto
dalla fine degli anni ‘80 e con un picco alla fine dei ’90, durante la guerra
in Kosovo. In parte poi vengono dalla Bosnia e dalla Macedonia».
Qual è la condizione giuridica di
Rom e Sinti in Italia?
«Ci sono gli italiani, i comunitari e
gli slavi, fuori dall’UE. Alcuni hanno il
permesso di soggiorno, convertito dal-
lo stato di rifugiato politico, o sono profughi.
Ci sono poi molti giovani figli di rom
che non hanno status perché hanno vissuto fino ai 18 anni col permesso di
soggiorno dei genitori, senza averne
mai avuto uno proprio».
Il muro nel campo di Padova ripropone la questione della segregazione abitativa dei rom nel nostro paese. Cosa prescrivono a riguardo le norme europee?
«Non è necessario arrivare alle norme europee, anche la nostra Costituzione è contraria alle discriminazioni.
Ci possono essere difficoltà nel reperire
le abitazioni, ma il segregare in maniera
così definita un gruppo è contrario a
qualsiasi principio, a partire dalla Convenzione delle Nazioni Unite per la eliminazione di tutte le f orme di discriminazione razziale».
Non solo la Lega, ma adesso, come
nel caso di Padova, ci si mette anche
il Pd ad appoggiare pratiche di esclusione. La lotta si fa più dura per associazioni come la vostra?
«Si, anche se in linea generale la discriminazione sulla questione rom è trasversale ai partiti. C’è un picco, ovviamente, con la Lega, ma anche con la sinistra non c’è stata poi molta libertà.
Veltroni a Roma ne è un esempio».
Qual è l’atteggiamento dell’opinione pubblica? E in che misura è fondato il pregiudizio?
«Ci sono fortissimi pregiudizi,
come i generici “i Rom non lavorano,
rubano, sono sempre sporchi e vanno
a rapire i bambini”. Una serie di leggende negative che in realtà hanno
poco a che fare col reale. Certo, esiste
una percentuale di rom criminali,
ma come esiste una percentuale di italiani. Di solito i numeri salgono quando ci sono condizioni di accoglienza
peggiori».
I. D. P
casa, ma dagli esponenti del Pd
locale, che con una raccolta di
firme hanno chiesto lo sgombero del campo nomadi, per
ora irrealizzabile a causa dei
contratti, anche se la situazione potrebbe cambiare a breve:
la proprietaria del terreno non
riceve l’affitto da un anno,
dunque ha presentato denuncia per occupazione abusiva.
Quello di via Bassette è il secondo muro di Padova, il primo fu innalzato tra via Anelli
e via De Besi con la motivazione ufficiale di mettere in sicurezza l’area, ma che di fatto
ha creato un ghetto per gli extracomunitari della zona. Così,
come la precedente, la nuova
recinzione crea divisioni non
solo fisiche. Sulla condizione
dei Rom in Italia, che insieme
ai Sinti sono da sempre chiamati zingari, non si placa la polemica.
Si tratta di circa 150.000
persone che non raggiungono
lo 0,3 per cento della popolazione nazionale e di cui l’ottanta per cento è minorenne.
Più della metà sono cittadini
italiani, un altro quarto viene
dalla comunità europea, in
particolare dalla Romania. Le
comunità più grandi sono a
Roma, Milano e Napoli, e anche se molti hanno abitazioni
proprie, la maggior parte vive
in campi illegali e semillegali.
Vittime del pregiudizio,
persino le istituzioni che si occupano dei Rom si ritrovano
contro una opinione pubblica
ostile, e il modello segregazionista adottato è conseguenza della mancanza di una
reale politica di integrazione.
Pochissime celebrazioni per la giornata dei Rom. Discriminazioni in aumento
Jacopo Matano
Capita spesso che ci si dimentichi dei compleanni degli amici. Ma questa volta è andata bene: l’amico in questione è talmente abituato alle amnesie degli altri da non farci
più caso. L’ 8 aprile è – anzi sarebbe – il “Romano Dives”, la
giornata internazionale del
popolo rom, l’appuntamento
che celebra in tutto il mondo
il ricordo del primo congresso dell’associazione mondiale
dei nomadi, riunito a Londra
nel 1971. Ovvero, la prima occasione per i rom, sinti, kalé
(gitani della penisola iberica),
manouche (sinti francesi) e romanichals (inglesi) di far sentire la propria voce nel mon-
Reporter
nuovo
Quel popolo che l’Europa dimentica
do, dopo la pagina nera dello
spesso dimenticato Olocausto
degli zingari – il “Porrajomos” – che vide almeno
500.000 Sinti e Rom perdere
la vita nei campi di sterminio
nazisti. Il “Romano Dives”, in
Italia come in Europa, è passato quasi inosservato. Tra i
pochi ad accorgersi della ricorrenza il Comitato di Coordinamento delle Organizzazioni per il Servizio Volontario (Cosv), un’organizzazione non governativa che si
occupa di cooperazione internazionale. “Chi ha visto la
giornata internazionale dei
rom?” hanno chiesto provocatoriamente i volontari dell’associazione, che hanno avviato un progetto di “protezione integrata” delle minoranze nella regione europea in
cui la presenza dei rom è più
consistente: i Balcani. Il popolo zingaro, infatti, è invisibile anche in quei Paesi, come
la Macedonia, dove rappresenta il 6 per cento della popolazione. “Le discriminazioni riguardano tutti i campi, dal
lavoro all’educazione, dall’assistenza sanitaria all’housing,
l’assegnazione delle abitazioni popolari”, spiega a Repor-
ter Nuovo Claudia Cui, responsabile del Cosv. “In Macedonia, Kosovo e Montenegro stiamo intervenendo con
attività che facilitino l’integrazione: dai fanciulli in età
scolare, attraverso classi parallele che aiutano le scuole
pubbliche a introdurre i bambini rom, agli adulti, per i quali organizziamo corsi di formazione professionale. Tutte
occasioni di integrazione, ma
– continua la volontaria - il lavoro non è semplice”.
E se la strada è ancora in salita nei Balcani, le cose non
vanno meglio nei paesi del-
l’Unione Europea. “La Corte
Europea dei Diritti dell’uomo
ha individuato violazioni dell’art.14, divieto di discriminazione, nei confronti di ricorrenti di origine rom in
quasi tutti i 27 stati membri”,
ha denunciato il Consiglio
d’Europa, che ha avviato una
campagna anti-discriminazione dal titolo Dosta!, “Basta!” in romani, la loro lingua.
Ma l’impegno, forse, “non basta”. E in alcuni paesi, i problemi di convivenza stanno
diventando esplosivi. In Repubblica Ceca, i 300 mila
rom che spesso sono vittime
di episodi di razzismo – ultimo l’incendio di un villaggio
– minacciano l’esodo di massa. Dove andranno? In Svizzera e nella Città del Vaticano,
“unici paesi in cui – spiega Vaclav Miko, presidente dell’associazione che tutela i diritti di
questa minoranza a Praga –
speriamo di trovare accoglienza e migliori condizioni
economiche”. Secondo Miko
sono ormai centinaia le famiglie seriamente intenzionate a
chiedere asilo oltre i cancelli
di San Pietro rivolgendosi direttamente al Papa.
Una provocazione, certo.
Ma la fuga non è così improbabile: dopotutto si tratta pur
sempre del più grande popolo nomade.
16 Aprile 2010
5
Cronaca
Dagli studi del progetto Share emergono preoccupanti concentrazioni di inquinanti sull’Himalaya
Sull’Everest tira aria da metropoli
L’arrivo della stagione pre-monsonica aggrava una situazione già difficile
Enrico Messina
A quanto pare nemmeno
una passeggiata a quota otto
mila 850 metri serve più a trovare un clima totalmente
puro. L’aria che si respira sull’Himalaya, difatti, non è poi
molto differente da quella
che si può trovare in una
grande area urbana. L’Everest come la metropoli, insomma. È quanto emerge dagli studi di un gruppo di ricercatori dell’Isac-Cnr di Bologna e del Lgge-Nrs di Grenoble, impegnati nel progetto Share (Station at High Altitude for Research on the Environment).
Dunque, i dati riguardanti le vette himalayane e
quelli concernenti le città si
assomigliano sempre più. La
causa, però, non sembra essere un miglioramento della
salubrità dell’aria cittadina,
quanto un deterioramento di
quella della catena montuosa. Processo che in questo
periodo dell’anno si aggrava
ulteriormente. La stagione
pre-monsonica, infatti, favorisce il trasporto fino alle
altissime quote dell’Himalaya delle sostanze inquinanti che compongono la
cosiddetta “Asian brown
cloud”. Così è chiamata la
nube marrone che ricopre
parte del nord dell’Oceano
Indiano, l’India, il Pakistan e
parte del sud dell’Asia e della Cina. Questa dannosissima nube è composta di particelle inquinanti disperse
nell’aria, caratteristiche di
emissioni industriali dovute
a un incompleto incenerimento, derivanti dal bruciarsi della biomassa, dalle
centrali elettriche, dai gas di
scarico, dalla polvere sollevata dai venti nei deserti.
Così al Nepal Climate Observatory – Pyramid, questo il
nome della stazione posta
alle pendici dell’Everest, gli
studiosi hanno registrato un
aumento considerevole del
black carbon (la polvere nera
che si sprigiona durante la
combustione delle sostanze
organiche). La concentrazione della sostanza ha sfiorato
i sei ug/m3 (microgrammi
per metro cubo d’aria). Parallelamente, la massa delle
EVEREST Anche il tetto del mondo a rischio inquinamento
polveri fini ha abbondantemente superato i cento
ug/m3. Concentrazioni che
hanno raggiunto valori mai
registrati da quando l’osservatorio ha iniziato la sua attività di studio e monitoraggio,
secondo quanto riferito da
Angela Marinoni, una ricercatrice del centro.
«Queste preoccupanti concentrazioni di particolato – ha
spiegato Paolo Cristofanelli,
responsabile delle attività at-
mosferiche in Share – sono accompagnate da elevati livelli
di ozono, un gas serra altamente ossidante che si forma
in atmosfera in presenza di inquinanti primari e radiazione
solare». Una delle ragioni di
questo aumento è la maggiore frequenza degli incendi forestali, sicuramente favoriti
dall’estrema siccità che caratterizza la stagione premonsonica. Incendi si sviluppano in maniera massiccia
In Italia sequestri per oltre tre milioni e mezzo. I rimedi si cercano in rete
Un pennarello svela gli euro falsi
Davide Maggiore
I falsari di oggi osano molto più di Totò e Peppino, improvvisati stampatori di banconote false nella Banda degli
onesti. Se infatti nel film del
1956 il principe De Curtis e il
fratello di Eduardo non avevano il coraggio di spendere
i soldi fabbricati, i loro imitatori di oggi riescono a ingannare anche chi col denaro lavora. Compresi impiegati delle poste e cassieri di banca.
Non sono pochi, infatti, i
casi recenti di biglietti non autentici prelevati addirittura
dai bancomat o dagli sportelli
automatici degli uffici postali. E questa è solo la manifestazione più appariscente di un fenomeno di grandi
proporzioni. Secondo i dati
più recenti del ministero dell’economia, relativi ai primi
sei mesi del 2009, infatti, le
segnalazioni e i sequestri di
banconote false in Italia sono
in crescita rispetto allo stesso periodo del 2008. Più di
trentamila casi, per un valo-
6
16 Aprile 2010
re in denaro vero di oltre tre
milioni e mezzo di euro. In testa alla poco edificante classifica, un taglio molto usato,
quello da venti euro, seguito
da quelli da cento e da cinquanta.
Un’alluvione di falsi resa
possibile dal più facile accesso
a sofisticate tecnologie di
stampa, e dalla mancanza
vari paesi: per l’Italia il termine ultimo è la fine di quest’anno.
Nel frattempo, privati e
aziende sono costretti ad organizzarsi da soli. Su internet
molti siti offrono apparecchi in grado di individuare i
biglietti di banca contraffatti.
I più semplici sono dei pennarelli il cui inchiostro, se le
Una normativa europea obbliga banche e poste
a dotarsi di apparecchi anti-falsi,
ma l’applicazione è stata rinviata
nelle banche e alle poste di
adeguate apparecchiature in
grado di riconoscere le contraffazioni. In realtà una direttiva della banca centrale
europea prescrive a chiunque
si occupi per lavoro di banconote di dotarsi dei più moderni ritrovati tecnologici in
questo campo. Ma la scadenza, in origine prevista per
il 2007, è stata spostata in
avanti e differenziata tra i
banconote non sono autentiche, le macchia. In rete il
loro prezzo è di pochi euro.
Per chi giudica troppo artigianale il rimedio, poi, sono
a disposizione, per qualche
centinaio di euro, macchine
che analizzano le caratteristiche fisiche e chimiche dei
biglietti. Si va dalle lampade
di Wood, la cui luce ultravioletta esalta la particolare
composizione delle banco-
note autentiche, agli apparecchi che esaminano allo
stesso tempo le dimensioni
del biglietto, il suo spessore,
la sua reazione ai raggi infrarossi e il magnetismo dell’inchiostro e delle fascette metalliche. E anche per i telefonini di ultima generazione è
ora a disposizione un’applicazione che verifica la correttezza del numero di serie
e la sua eventuale presenza
nella banca dati dei falsi.
Precauzioni esagerate?
Non proprio, perché chi
spende denaro contraffatto,
anche in buonafede, secondo
la legge, può essere a sua volta incriminato.
E rischia addirittura sei
mesi di carcere e una multa di
oltre mille euro. Cosa fare
dunque se si ritiene di aver ricevuto soldi non genuini?
È necessario andare alle Poste o alla Banca d’Italia, dove
il denaro verrà stracciato, ma
senza ottenere alcun rimborso. Toccherà dunque al cittadino pagare di tasca propria
la disonestà altrui.
in questo periodo soprattutto nei territori del Nepal, dell’India e dell’Indocina e vanno a gravare su una situazione già delicatissima quanto
imprevedibile nelle sue possibili evoluzioni.
Il pericolo derivante da
queste sostanze, infatti, non riguarda solamente questi paesi, non potendosi escludere
che la “Asian brown cloud”
colonizzi anche i cieli non
asiatici. La nube marrone è
composta, infatti, da particelle
diverse per dimensioni, natura
e soprattutto peso. Se le particelle pesanti rimangono nei
propri luoghi di produzione,
quelle leggere potrebbero
viaggiare per molti chilometri e quindi raggiungere Europa e Africa. «Gli inquinanti, attraverso le valli himalayane, che fungono da veri e
propri camini, possono essere trasportati fino alla media
e alta troposfera, ove acquistano un tempo di vita considerevolmente maggiore e
possono accumularsi per essere trasportati anche su lunghe distanze», spiega Paolo
Bonasoni, responsabile scien-
tifico del progetto Share.
A dare una dimensione
globale, come d’altronde succede spesso quando si parla di
clima, all’allarme legato all’aumento di sostanze inquinanti rilevate sul “tetto del
mondo” è anche l’effetto che
queste concentrazioni hanno
sul processo di scioglimento
dei ghiacciai himalayani. Aggrediti da una maggiore concentrazione di particolato,
essi si sciolgono molto più velocemente rispetto al passato,
cambiamento che rivela la
sua pericolosità soprattutto se
si considera che quei ghiacciai
rappresentano una delle principali fonti d’acqua dolce dell’Asia meridionale, una delle
aree maggiormente popolate
al mondo.
In sanscrito Himalaya significa “la dimora delle nevi
eterne”, ma tra surriscaldamento globale e aumento delle concentrazioni delle sostanze inquinanti, i cui effetti sono più dannosi con l’arrivo della stagione pre-monsonica, questo nome potrebbe non risultare più tanto
appropriato.
LE STRATEGIE ANTITRUFFA
Ologrammi, rilievi e filigrane
Ma decisivo resta il tatto
FALSARI La
copertina del
dvd della Banda degli onesti, interpretato da Totò e
Peppino De
Filippo, incapaci di spacciare le banconote che
avevano contraffatto
Toccare, muovere, guardare. Questi i suggerimenti per
chi voglia evitare di trovarsi in mano euro falsi. Le banconote stampate dalla banca centrale europea, infatti, si
distinguono per vari particolari che possono essere scoperti con delle semplici verifiche. Al tatto, prima di tutto: sfiorando alcune parti dei biglietti se ne percepisce la
stampa a rilievo. Muovendo la banconota, poi, le strisce
metalliche sul fronte e sul retro delle banconote brillano
o mostrano simboli olografici. Infine, guardando la banconota in controluce compaiono filigrana e un filo di sicurezza con microscrittura. Altre microscritture, osservabili
solo con la lente, dovrebbero apparire sulle due facce del
biglietto.
Reporter
nuovo
Costume & Società
Viaggio all’Anagrafe per scoprire quali nomi fanno più tendenza. Decisiva la televisione
Roma: vince Emma (quella di Amici)
Sempre meno Cristopher e Samantha, crescono Francesco e Ginevra
Jacopo Matano
Il nome di battesimo, si sa, è
come un abito. Chi lo regala segue la
moda, chi lo indossa deve farlo con
stile. La “targa” che dice tutto di noi
e che ci portiamo dietro tutta la vita,
infatti, cambia a seconda delle abitudini e delle latitudini. Ed è un po’
un segno dei tempi.
Il trend del 2010, in fatto di nomi,
è il ritorno a un’elegante sobrietà che
sembra voler cancellare anni di esotici appellativi fioriti grazie al successo
delle telenovelas di importazione.
Complice la crisi e un po’ di gusto retrò, scompaiono dai registri delle nascite Cristopher, Samantha e Jennifer per lasciare il posto a migliaia di
piccoli Leonardo, Ginevra, Sofia,
Lorenzo, Aurora, Riccardo. Trisillabici di alto bordo che sembrano al
contrario piacere al popolino, mentre i genitori vip – confusi - si dividono tra la teologia di un Pietro (recente fiocco azzurro della conduttrice
Ilaria D’Amico), e l’ornitologia di un
Falco (figlio di Elisabetta Gregoraci
e Flavio Briatore).
Ma il vero successo degli ultimi
mesi si presenta con due vocali e una
doppia consonante. E’ femminile, ed
è stato ampiamente omaggiato anche
da qualcuno che, in quanto a gusto
ROMPICAPO
La scelta del
nome del
neonato
impegna
genitori e
parenti che
spesso sono
aiutati da
pubblicazioni
specializzate
sui nomi da dare ai figli, lascia un po’
a desiderare. Durante un assemblea
di Confindustria, infatti, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha
annunciato - non senza un po’ di indelicatezza - di aver “imposto” al ministro Maria Stella Gelmini di chiamare la figlia appena nata con un
nome che a lui stava a cuore. In linea
con le hit anagrafiche di quest’anno
- e strizzando l’occhio alla padrona di
casa del convegno, la presidente degli industriali Marcegaglia - la scelta
del premier è caduta su Emma.
“E’ uno dei nomi che vanno per la
maggiore”, conferma a Reporter Nuovo Liliana, una delle responsabili
dell’ufficio denunce di nascite dell’Anagrafe di Roma, la più importante
“fabbrica dei nomi” d’Italia in cui transitano, si modificano, si consigliano,
si attribuiscono gli appellativi di milioni di cittadini romani. “Solo oggi
ne ho messe tre”, incalza la collega Fabiana, che sottolinea come – accanto a Virginia e Ginevra – Emma sia la
new entry più gettonata. Motivo di
tanto successo? Chi sperava in un ritorno collettivo alla lettura del romanzo di Flaubert e alle tumultuo-
se vicende della protagonista Emma
Bovary rimarrà deluso: “Emma – azzarda Fabiana – è l’ultima vincitrice
di Amici”.
Restando in tema di nomi femminili, nella stanza dei bottoni di Via
Petroselli mantiene la posizione l’incrollabile Giulia, primo anche in
Italia, e cresce insospettabile Sofia, che
sembra segnare più di tutti l’annunciato ritorno a un’ età dell’oro dell’italianità. Come spiegano all’ufficio
nascite, infatti, “i genitori ci tengono
a specificare che si scrive la ‘f’ e non
col ‘ph’”. Per i maschietti, invece, spo-
Sempre più donne in palestra e non solo per rientrare in linea
pola Francesco, seguito da Lorenzo
e Matteo. Mentre Andrea crea qualche problema. Molte mamme, infatti, vorrebbero attribuire questo nome
alle bambine, come si fa negli Stati
Uniti dove il sostantivo è il femminile
di Andreas. Ma in Italia è vietato:
“Non può immaginare quante richieste di questo tipo ci arrivano sulla scrivania. Lo scriva: noi le accettiamo ma siamo costretti a segnalarle alla procura, perchè non si possono dare nomi maschili alle bambine”.
Complice il d.p.r. 396/2000, la rigida normativa del ministero dell’Interno sull’indicazione del nome,
gli italiani sono dunque costretti a essere un popolo poco originale: dei
60.000 in uso nel nostro paese, infatti,
i primi trenta appellativi coprono almeno la metà degli abitanti. Ma
qualche strappo alla regola, ogni
tanto, si fa. “L’altro giorno ci è arrivata
una domanda per una Roma”, raccontano all’Anagrafe. “Pensavamo
si fossero sbagliati a compilare i moduli, che avessero messo la città di nascita al posto del nome”.
E’ bastato telefonare ai genitori –
agguerriti tifosi - per avere la conferma della richiesta. Come è finita?
In teoria non è consentito utilizzare
nomi di città, “ma, sa, qui siamo tutti romanisti”.
PERSONAGGI MODELLO
Affascinate dagli sport pesanti
Vito Miraglia
Alle ragazze piacciono sacco e guantoni. Calci, ganci e
montanti per superare con
lode la prova costume. E nelle sale delle palestre, le ragazze hanno invaso ring e tappeti. È da tempo infatti che hanno capito che la forma fisica
perfetta si può raggiungere
non solo con l’aerobica e il pilates. Anche gli sport cosiddetti
pesanti, fino a ieri riserva esclusivamente maschile, possono
aiutare a tonificare. Tra questi
il più gettonato è sicuramente
il kick boxing, una disciplina
a metà strada fra le arti marziali
orientali e gli sport da combattimento occidentali. Alla
base, la passione per lo sport,
ma anche il divertimento, il gusto per le nuove tendenze e in
alcuni casi l’autodifesa. È l’agonismo invece che allontana le
atlete da questo sport, così
come dalle arti marziali.
Ma il kick boxing e le discipline orientali hanno anche
un lato ludico che le ragazze
non sottovalutano. Ciò che le
Reporter
nuovo
spaventa è il contatto fisico con
i ragazzi durante gli allenamenti che possono svolgersi in
forma mista. In molte palestre,
ragazzi e ragazze si sfidano
senza timore, anche se persistono delle remore tra le donne. “A volte le facciamo combattere con dei ragazzi più debolucci e non le affidiamo a chi
toni”, continua l’istruttore. “Si
scaricano, scaricano lo stress e
allo stesso tempo si divertono,
socializzano e curano il loro
corpo. Il kick boxing è l’ideale per chi vuole avvicinarsi a
questo tipo di sport”. Ma c’è il
timore di intaccare la loro
femminilità? “Il rischio c’è –
precisa Ivo – quando pro-
Kick boxing e prepugilistica le discipline più
trendy. “Per eliminare lo stress
e per divertirsi”. Si inizia anche a trent’anni
non sa dosare la forza. Ma i
pregiudizi non ci sono più
nemmeno tra gli allenatori”, ci
racconta Ivo, istruttore di ju jitsu della storica palestra Wellness Club di via Bari, attiva da
oltre quaranta anni e nota in
città proprio per gli sport pesanti. “Le ragazze frequentano
i corsi di kick boxing e di altre discipline simili come il
muay thai, perché ci si muove, c’è una base di aerobica, e
poi perché si mettono i guan-
pongo qualche esercizio più
pesante, cominciano a fare
resistenza. E così si spiegano
anche le poche presenze in palestra per il sollevamento pesi
e per il culturismo”.
Se la passione per il kick boxing si accende a 14 anni, anche le trentenni non si tirano
indietro dal tirare calci e pugni.
Per le arti marziali, come judo
e karate, se si inizia da bambini dopo qualche anno si smette. “La danza, il pattinaggio e
la ginnastica artistica non perdono il loro appeal per le adolescenti, così come il calcio e il
basket attirano sempre i ragazzi”, spiegano al Wellness
Club.
Negli ultimi anni c’è stato
dunque un aumento delle
iscritte per queste discipline,
anche nella boxe e nella ginnastica prepugilistica, “più
grezze” del kick boxing o del
taek wondo ma ugualmente attraenti. Per molte ragazze è anche un modo per migliorare la
propria autostima, per sentirsi più sicure. Qualcuna va oltre e si iscrive ai corsi di autodifesa, organizzati per chi deve
usare il fisico nel lavoro (come
le forze dell’ordine) oppure
per chi voglia premunirsi in
caso di aggressione. “In questi
corsi – chiarisce Ivo – le ragazze
sono molto più propositive, ci
chiedono come comportarsi
per reagire in determinate situazioni. E qui non è possibile sottrarsi allo scontro con l’altro sesso, visto che fuori dalla
palestra dovranno confrontarsi proprio con dei maschi”.
Con Million Dollar Baby, il capolavoro di Clint Eastwood, sulla boxe femminile si è usciti dalla debole luce
al neon delle palestre di periferia e si sono accesi i riflettori dei media di tutto il mondo. La protagonista è
Maggie, interpretata da Hillary Swank, una ragazza molto determinata che riesce a conquistare la fiducia del suo
allenatore con il suo talento e la sua tenacia.
Grazie a questo film, e ai risultati conseguiti dalle atlete alle Olimpiadi di Pechino, anche gli sponsor si sono
accorti degli sport pesanti “in rosa”. Veronica Calabrese,
campionessa italiana di taekwondo, sarà la prossima testimonial dell’Adidas fino al prossimo appuntamento
olimpico di Londra 2012. L’atleta italiana è stata la più
votata nel concorso “Lo sport è donna” lanciato proprio
dall’azienda tedesca.
V. M.
16 Aprile 2010
7
Costume & Società
Lontani dalle logiche meramente commerciali, i cantanti della parola riempiono le piazze
Il cantautore non conosce tramonto
Guccini trova fans nei giovani, concerto di Capossela il primo maggio
Ilaria Del Prete
Nell’Italia di Sanremo vincono le
assonanze improbabili di Valerio
Scanu, che con il suo “fare l’amore in
tutti i luoghi e in tutti i laghi” si è guadagnato da subito più di uno sfottò
da parte di un’altra Italia, quella che
alle parole dà un gran peso.
È il paese dei cantautori, della parola che per farsi musica ha bisogno
solo di una chitarra, e che lungi dall’essere residuo di un di un passato
musicale con lo sguardo rivolto agli
anni ’60 e ’70, continua a riempire i
palazzetti dello sport di un pubblico
a volte storico, spesso giovanissimo.
Kekko, così si firma su Youtube,
il 9 aprile era al Palapartenope di Napoli. “È stata la prima volta che ho visto Guccini in concerto (non ho
un’età elevata, d’altronde... ne ho solo
12!), e devo dire che è semplicemente
un grande! Ti fa sfogare! Ti rende libero...”. E allora scambiamo due
parole con Francesco Guccini. Classe 1940, a metà degli anni ’60 ha pubblicato il suo primo L.P. e nell’ultimo
IMMUTABILE Francesco Guccini affascina con lo stesso stile da 40 anni
concerto ha registrato il tutto esaurito, senza mai cambiare genere, accompagnato dagli stessi musicisti e
persino con lo stesso manifesto. Da
quarant’anni sfida tutte le leggi del
marketing. “Perché cambiare genere,
io faccio le mie canzoni – dice a Reporter Nuovo – e mi sembra di averne scritto solo quattro o cinque,
perché il pubblico negli anni le riconosce e le richiede ad ogni concerto.
E i pienoni sono di buon auspicio, la
platea è persino più benevola e affettuosa di un tempo”. Vecchia scuola alimentata dalla nostalgia, si potrebbe dire. E invece non mancano
degni discendenti. Si chiama Vinicio
Capossela il paroliere della nuova generazione, allevato alla corte del recentemente scomparso Renzo Fantini, produttore anche di Paolo Conte e dello stesso Guccini, da cui ha
ereditato la necessità di inquadrare il
tempo che corre. Se anche si annullasse la musica, che ammicca ora agli
chansonniers francesi ora al più recente Conte, le canzoni del cantautore originario dell’Irpinia fin dal
suo primo album, All’una e trentacinque circa, alla malinconia mescolano la gioia di usare la parola. E
il pubblico ricambia, imparando a
memoria testi dai vocaboli ricercati,
apprezzando la capacità di essere conciso e concreto. Capossela trasforma
ciascuna occasione di vissuto personale in un racconto esemplare, senza alcun bisogno di attribuire alla canzone il ruolo di collettore di sentimenti universali e creando personaggi
talmente reali da essere riconoscibili nella fantasia di ognuno, un po’
come i protagonisti dei testi-poesia di
Fabrizio De Andrè. La parola è dunque ancora viva, per quanto impoverita e violentata per accontentare
spettatori con meno pretese. Continua a esistere nei Guccini, nei Conte, nei Capossela, e in tutti quelli che
non si accontentano di un ritornello. Per tutti questi, e per chi volesse
provare ad ascoltare, l’appuntamento è al concerto del primo maggio in
Piazza San Giovanni a Roma. L’ospite d’onore? Vinicio Capossela, ovviamente.
Abbondano i programmi tv con bambini che cantano: ma è giusto farli esibire?
Ti lascio un’occasione: crescere
Possibili danni alle corde vocali e manipolazione
Marco Maimeri
Si abbassano le luci sul palco dell’Auditorium Rai di Napoli. Una scritta annuncia il via
al televoto, una voce fuoricampo legge un testo introduttivo e su un fondale appaiono immagini e testi. Poi,
non appena i due interpreti,
dall’età imprecisata, in abiti
sgargianti oppure discreti, cominciano a cantare, ecco apparire in sovrimpressione il titolo della canzone, il numero
telefonico per televotare e il
loro nome con l’indicazione
dell’età. L’esibizione è partita.
Ogni cantante cerca ora di
dare il tutto per tutto, con il
volto che pian piano s’imporpora mentre tenta di arrivare
alla nota più alta, atteggiandosi
a vocalist esperto con movenze che ricordano gli interpreti originali e cercando di
rendere nel modo più accattivante possibile il brano. Il risultato è paradossale, a volte
patetico.
La filosofia della trasmissione Ti lascio una canzone,
giunta questo anno alla terza
edizione e condotta sempre da
Antonella Clerici su Raiuno, è
8
16 Aprile 2010
spiegata nel sito ufficiale: «ogni
generazione ha le sue canzoni e può raccontare la propria
storia attraverso quelle canzoni», che sono «un patrimonio musicale ma anche personale che vorremmo non si
perdesse mai e passasse come
un’ideale eredità di genera-
Quando uscì il loro primo
disco, e anche questo indica un
marketing spregiudicato da
parte della produzione, Antonella Clerici definì questi ragazzi «bravissimi», aggiungendo «sono così piccoli ma
quando arrivano sul palco tirano fuori una voce pazzesca».
Luca Jurman, ex vocal coach di Amici: «È
importante che non vengano
trattati da adulti, musicalmente e vocalmente»
zione in generazione». La
struttura del programma è affidare a giovani interpreti le
canzoni più belle e amate della generazione di ieri, mettendo «in competizione le canzoni e non i cantanti» e centrando «l’attenzione sulla bellezza di queste canzoni, sull’importanza che hanno avuto
e hanno nella nostra vita, e sulla speranza che non se ne
perda la memoria». Ma un interrogativo è stato subito posto da molti: è giusto che una
trentina di ragazzi tra i sei e i
quindici anni si esibiscano
come fenomeni da baraccone?
Molti otorinolaringoiatri però
hanno osservato che sforzare
la voce in quel modo, in così
giovane età, può essere dannoso per le corde vocali. Fatto confermato, tra l’altro, dalla scelta di numerosi conservatòri di non accettare studenti
di canto minori di sedici anni
per le ragazze e di diciotto per
i ragazzi. Il vanto della conduttrice poi, sempre in occasione del lancio del cd, era stato che «i protagonisti sono dei
bambini talentuosi che cantano, ma non pensano di fare i
cantanti in futuro. Questa è la
chiave del successo: i bambi-
ni non hanno malizia, hanno
solo voglia di divertirsi, con ingenuità».
C’è però il rischio che questa ingenuità possa essere manipolata da genitori o manager
e, in questo caso, ovviamente,
a soffrirne sarebbero soprattutto i ragazzi. «Non ho niente contro i talent per bambini
– spiega Luca Jurman, storico
ex allenatore vocale dei ragazzi
di Amici, sul sito della Gazzetta
dello Sport – ma non condivido gli show che li trasformano in fenomeni da baraccone. È importante che non
vengano trattati da adulti, musicalmente e vocalmente: tra i
quattordici e i sedici anni non
dovrebbero affrontare studi
professionali per non incorrere in patologie serie e a volte irreversibili. E poi, attenti ai
genitori: spesso ci credono
molto di più loro» E, infatti, su
molti forum in internet spesso parenti e amici chiedono
come iscrivere i propri ragazzi prodigio ai casting per Ti lascio una canzone o l’omologa
Io canto su Canale 5. Il problema, senza la loro collaborazione, resta difficile da risolvere.
ENTUSIASMO Piccoli cantanti in attesa di entrare in scena
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