4. Catholic Engagement with World Religions. A Comprehensive

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4. Catholic Engagement with World Religions. A Comprehensive
4. Catholic Engagement with World Religions. A Comprehensive Study. Edited by Karl Josef
BECKER and Ilaria MORALI. (Faith Meets Faith Series). Maryknoll, NY, Orbis Books, 2010.
xl+605 pp.
L’importante lavoro, che qui recensiamo, si presenta come una panoramica globale della
concezione cattolica circa le religioni mondiali. Nel Preface (p. xxxii) i due curatori spiegano le
circostanze, abbastanza relative, che stanno all’origine dell’opera, ma più di queste circostanze, ad
interessare sono il progetto e la sua realizzazione. Il progetto è ben riassunto nel titolo che parla di
catholic engagement with world religions; non si tratta, quindi, né del dialogo interreligioso né di
una teologia delle religioni – anche se questi temi restano inevitabilmente sullo sfondo – ma del
catholic engagement cioè della prospettiva teoretico-pratica con cui il cattolicesimo guarda alle
religioni mondiali.
L’intento è di sicuro fondamentale, ma la tematica, anticipata dal titolo, lascia aperti almeno due
interrogativi ai quali la lettura del testo non offre risposte precise. Il primo riguarda l’aggettivo
catholic: che cosa si intende con questo termine? Il già ricordato Preface e la lettura di molte parti
del testo sembrerebbero intenderlo nel senso di una accezione stretta del termine, praticamente nel
senso di dottrina magisteriale; ciò che qui catholic significa andrebbe precisato meglio sia per non
appiattirlo su una semplice ermeneutica del magistero sia per delinearlo nella sua diversità da altre
visioni cristiane.
Il secondo interrogativo che il titolo ed il progetto suscitano riguarda le world religions: che cosa
si intende per religioni mondiali? Uno sguardo alla quarta parte prende atto che queste religioni
mondiali sono in questo progetto l’ebraismo, il confucianesimo, il buddismo, l’induismo e l’islam;
si tratta di un elenco che comprende anche alcune religioni largamente nazionali, che tali sono
restate anche quando hanno magari alquanto ampliato la loro area di influenza. Basti pensare
all’induismo e al confucianesimo, ma anche all’ebraismo. Restano invece escluse da queste
considerazioni lo sciamanesimo, diffuso in larghe zone dell’Asia come la Mongolia, le religioni
tradizionali africane, quelle afro-americane e le religioni indie. In forza di cosa la diffusione nel
continente indiano o cinese è un criterio di mondialità o di particolare valore teoretico? Inoltre la
reprimenda che i curatori rivolgono (p. xxxii) a chi non sa distinguere tra religions e way of life non
trova qui grande applicazione.
Pur con queste imprecisioni, il progetto resta notevole sotto molti profili anche là dove, come
succede in tutti i testi di tale mole, sono presenti punti non ben coordinati tra loro. Attorno al loro
progetto, i due curatori – i prof. Karl J. Becker, professore emerito di Teologia dogmatica, e I.
Morali, professore straordinario e pro-direttore del Dipartimento di Missiologia nella Facoltà di
Missiologia, entrambi della Pontificia Università Gregoriana di Roma – hanno raccolto uno staff di
25 specialisti, loro compresi, e si sono avvalsi della particolare collaborazione dei prof. M.
Borrmans, emerito del PISAI, e del prof. G. D’Costa, professore di Teologia e Scienze religiose
all’Università di Bristol. Il risultato di tre anni di lavoro è quest’opera destinata a lasciare una
traccia: 24 capitoli per 605 pagine.
La struttura del lavoro è chiara: è organizzata attorno ad un capitolo introduttorio sul concetto di
religione (pp. 1-20) ed a quattro parti che riflettono sul modo con cui la fede cattolica pensa ed
opera a proposito del destino ultimo dei non-cristiani. La prima parte (pp. 21-150) traccia un quadro
delle dottrine dall’epoca patristica al Vaticano II ed al magistero post-conciliare; la seconda (pp.
151-314) richiama quei fondamenti della fede cristiana che non possono né essere ignorati né essere
messi in discussione nell’incontro con altre fedi e nel dialogo con loro; la terza (pp. 315-379) offre
una indicazione degli orientamenti prevalenti di teologia delle religioni, mette a fuoco la questione
del pluralismo in termini teologici e nei suoi presupposti filosofici e conclude con la presentazione
della economia cristiana di salvezza; la quarta (pp. 381-508) richiama la auto comprensione che le
religioni hanno di se stesse e mette a fuoco il loro rapporto con il cristianesimo. Completano il
lavoro un’introduzione – Foreword (pp. xxvii-xxx) – di William R. Burrows, direttore generale
della collana Faith Meets Faith della Orbis Books ed una prefazione – Preface (pp. xxxi-xxxv) –
dei due curatori; lo concludono poi una riflessione conclusiva – Conclusion: Looking Backward and
Forward (pp. 509-511) – degli stessi due curatori. Un centinaio di pagine di note (pp. 513-599)
arricchisce un lavoro già di per sé imponente.
Il testo è inserito da un capitolo introduttivo che tratta dell’origine, della storia, dei problemi e
delle categorie del concetto di religione (pp. 1-20) da Cicerone a Schleiermacher. Lascia perplessi
che un testo di teologia affidi la delineazione della categoria fondamentale del suo progetto di
ricerca – la religione – ad una disciplina diversa dalla teologia per metodo e impostazione come la
filosofia. Perché non anche un lavoro teologico di base? Questa introduzione è firmata da P.
Henrici, vescovo emerito di Coira e, prima ancora, professore emerito di Filosofia alla Gregoriana.
L’impostazione seguita da P. Henrici per l’epoca patristica e medievale richiama i principali autori,
ma soprattutto, cerca di inquadrarli nello spirito e nelle dinamiche di fondo dell’epoca. Quanto
all’epoca moderna, offre un lungo panorama sul “deismo” inglese, francese e tedesco e, al di là di
esso, conclude con la trattazione di Kant, Hegel e Schleiermacher; a quest’ultimo attribuisce una
influenza maggiore di quella di Hegel ed a riprova ricorda – solo i nomi (p. 18) – le “scuole di
pensiero” rappresentate da A. Ritschl, E. Troeltsch e R. Otto.
Francamente lascia perplessi il fermare l’analisi a F. Schleiermacher, un pensatore che muore nel
1834, a meno di aver già deciso che il problema è l’illuminismo moderno. Se fosse così ci si
taglierebbe fuori da tutta una fenomenologia della religione che, al seguito di R. Otto, ha sviluppato
un’ampia fenomenologia del sacro recuperando così uno spazio originale sul rapporto tra il divino e
l’umano che la teologia non può non guardare con interesse. Se a questo si aggiunge il fatto che, in
un progetto sulle religioni mondiali come questo, la nozione moderna di religione è sviluppata nei
termini della sola filosofia occidentale, addirittura della sola filosofia tedesca, il disagio non può
non farsi maggiore.
La prima delle quattro parti (pp. 21-150) è costituita da 5 capitoli ed 1 appendice ed è, nella sua
totalità, opera della prof.ssa I. Morali e del prof. J. Carola, docente di patristica presso la
Gregoriana. Questi capitoli sviluppano la storia dell’atteggiamento della Chiesa verso i non-cristiani
e ne analizzano il destino nell’intera storia della Chiesa. Il lavoro è di sicuro impegnativo, ampio,
documentato e largamente condivisibile. Stupisce un poco che, nell’ampio spazio dedicato alle tesi
della scuola francese sul valore delle altre religioni, ci si fermi solo su H. De Lubac e J. Danielou
(pp. 113-119), indubbi capifila del pensiero teologico e storico.
Mi piace richiamare qui autori come A. Durand, L. Capéran e Y. Congar. Il primo – Le problème
théologique de la mission (1942) – affianca alla tesi tradizionale della missione come invio quella
della missione come attrazione che il crocifisso-risorto, alla luce di Gv 12,32, esercita sull’intera
umanità. Di L. Capéran, menzionato a p. 112 per le due edizioni dei volumi sulla salvezza degli
infedeli, vale la pena di segnalare gli articoli su La mission de l’Église et les missions dans le plan
providentiel du salut comparsi tra il 1945 ed il 1947 che parlano di una grazia difficilmente
riducibile alla sola dimensione personale. Allo stesso modo di Congar, ricordato più volte per i suoi
contributi ai testi conciliari, interessano alcuni scritti precedenti; in particolare tre articoli
ripresentati nel lavoro del 1959 Vaste monde ma paroisse. Verité et dimensions du salut in cui si
spinge a parlare di una grazia prima della grazia, di una salvezza prima della salvezza, temi certo
alquanto oscuri nel linguaggio, ma chiari nell’intenzione. Pur non affrontando esplicitamente il
tema delle religioni non cristiane, resta difficile limitare le loro tesi alla sola salvezza degli individui
non tanto perché i soggetti sono inseriti in una dimensione socio-culturale e religiosa, ma
soprattutto perché la loro impostazione è teologica ed offre una teologia che quasi naturalmente
dovrebbe allargarsi alle religioni.
I punti per me più importanti e più belli di questa prima parte restano i paragrafi II (pp. 125-132)
e III (pp. 132-142) del Capitolo VI – Salvation, Religions and Dialogue in the Roman Magisterium
– dedicati rispettivamente al magistero conciliare e post-conciliare. Di primo acchito non si capisce
il perché di questa delimitazione in the Roman Magisterium dato che, nei capitoli precedenti,
magistero e teologia sono trattati unitariamente. Di fatto, per l’epoca contemporanea,
l’insegnamento magistrale è trattato qui nella prima parte, mentre quello teologico troverà spazio
nella terza parte. La loro diversificazione risponde probabilmente a criteri di quantità più che di
coerenza, ma resta discutibile.
A guardare con attenzione i due paragrafi finali della lunga trattazione della prof.ssa Morali, si
deve però dire che contengono una precisa scelta teologica, ma lo fanno presentandola come
ermeneutica del magistero, con un ovvio incremento di pretesa di autorità. La caratterizzazione
teologica dei due paragrafi appare in particolare nell’impegno di offrire un quadro rigorosamente
unitario ed organico dell’insegnamento conciliare; più di un commentatore, invece, ha fatto rilevare
sia la presenza di non piccole differenze di impostazione e di contenuto teologico tra i Padri
conciliari, sia la ricerca di un “compromesso” ideale e linguistico tra mentalità diverse. A mio
parere, ma non solo mio, questi “compromessi” non sono semplici aggiustamenti, ma sono frutto di
un pensiero che riteneva che quanto univa fosse più importante di quanto divideva. La pretesa di
offrire un pensiero unitario ed organico conduce ad un irrigidimento dell’interpretazione del
concilio e del magistero.
Con tutto questo, credo che i due contributi della prof.ssa Morali restino tra i testi più completi
per ampiezza di ricerca e più nitidi per rigore tra i molti pubblicati su questa tematica. Proprio
perché riconosco il valore di questi due contributi, credo che debbano stare alla base di un aperto e
franco dialogo. Per conto mio ritengo eccessivamente sbrigativa la presentazione di Gaudium et
Spes e di Dignitatis Humanae come testi “non tanto dottrinali ma pratici”, ribadendo poi un identico
giudizio per Nostra Aetate (p. 126); il rimando alla citazione del card. Bea che il testo offre a
convalida della propria posizione andrebbe ambientato nei complessi rapporti tra le varie
Commissioni e interpretato prima in quel senso più che come testimonianza di una volontà
conciliare. Certo la prof.ssa Morali ha più di una ragione quando denuncia un common trend che
attribuisce più valore dogmatico a Nostra Aetate che a Lumen Gentium, ma resta il fatto che il
capitolo IV della prima parte della Gaudium et Spes – la missione della Chiesa nel mondo
contemporaneo – non può non entrare nella ricezione conciliare. Mi trovo poi in dissenso con lei
quando riconduce i semina Verbi alla sola pedagogia divina (p. 128) e quando interpreta il quidquid
enim boni et veri apud illos invenitur di Lumen Gentium 16 ed il quidquid boni in corde menteque
hominum vel in propriis ritibus et culturis populorum seminatum invenitur di Lumen Gentium 17
come un semplice linguaggio sociale, privo di ogni rapporto con la grazia (p. 129).
Pur pienamente d’accordo nell’escludere ogni interpretazione rahneriana del concilio, resto
convinto che alcune affermazioni – tutte ricordate in questi due contributi e, in loro, ampiamente
discusse – abbiano una particolare densità che va rispettata anche nella loro relativa oscurità fino a
che il successivo cammino della fede non riesca a render loro pienamente ragione. Penso in
particolare al “raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini” (Nostra Aetate 2; poi ripreso
con il plurale “raggi” in Redemptoris Missio 56); alle viis sibi notis che descrive il misterioso agire
universale di Dio (Ad Gentes 7, poi ripreso in Gaudium et Spes 22 che però sostituirà il termine viis,
dal sapore più cristologico, con il più semplice modo Deo cognito); ai semina Verbi di Ad Gentes 11
(presente con l’uso del verbo seminatum in Lumen Gentium 17); a quella grazia salvifica di Cristo
che non chiede di entrare nella Chiesa pur mantenendo con essa una arcanam necessitudinem, ma
illumina le persone modo congruenti eorum interiori condicioni rerumque temporumque adiunctis
(Redemptoris Missio 10). Sicuramente legittima, l’interpretazione della prof.ssa Morali mi sembra
ecceda in uno sforzo di chiarezza e di unitarietà che finisce per non rispettare fino in fondo quella
nuova sensibilità ecclesiale che ancora non aveva trovato un pensiero completo ed un linguaggio
preciso.
Ancora più difficile risulta lo sviluppare una rigorosa e unitaria interpretazione per tutto il
periodo postconciliare, anche per le differenze tra il magistero di Paolo VI, Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI. La documentazione offerta è completa e, al solito, l’interpretazione è molto
accurata. Il punto nuovo è qui rappresentato dalla tesi delle “mediazioni partecipate” di Redemptoris
Missio 5 (pp. 136-137). Al di là di osservazioni non influenti, l’interpretazione offerta sviluppa un
parallelo tra questo passo e Lumen Gentium 62, un testo sulla mediazione mariana:
l’improponibilità di ogni parallelo tra la mediazione di Maria e le mediazioni partecipate delle
religioni non-cristiane escluderebbe ogni ricorso alla nozione di mediazione per le religioni noncristiane.
Credo che la conclusione non sia affatto convincente; tralasciando i dibattiti sulla mediazione
mariana, resta il fatto che Lumen Gentium 62 richiama due – diremmo consolidati – esempi di
mediazione: la partecipazione del sacerdozio ordinato e del sacerdozio dei fedeli all’unico
sacerdozio di Cristo e quella delle creature modis diversis alla unica bonitas Dei. Sulla base
dell’insegnamento di Lumen Gentium 62 che “l’unica mediazione del Redentore non esclude ma
suscita nelle creature una varia cooperazione partecipata dall’unica fonte” è difficile escludere che
questa tematica non possa applicarsi alle religioni non cristiane. Il richiamo del passo sopra
ricordato di Redemptoris Missio 10 non farebbe che confermare quanto sto dicendo: parla, infatti, di
una grazia che “proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito santo” e
insegna che non solo non obbliga formalmente ad entrare nella Chiesa, ma illumina queste persone
“in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale”, della quale fa certamente parte la
religione. Non a caso la stessa Dichiarazione Dominus Iesus 14 invita i teologi ad “approfondire il
contenuto di questa mediazione partecipata, che deve restare pur sempre normata dal principio
dell’unica mediazione di Cristo”.
La seconda parte (pp. 151-314) comprende otto contributi, stesi da nove autori ed offre un
quadro dei punti fondamentali della dottrina cattolica circa Dio, Gesù Cristo, lo Spirito, la
Rivelazione, l’Antropologia, la Chiesa ed i Sacramenti, la Missione, la Fede e le credenze. Il senso
di questa esposizione è semplice: li considera come presupposti indispensabile per impegnarsi in un
incontro inter-religioso; di conseguenza la trattazione non è particolarmente approfondita, ma mira
ad offrire un insieme di conoscenze basilari del patrimonio cattolico sia a chi cattolico non è sia a
che si affaccia a queste tematiche senza una vera e propria preparazione teologica. Come è tipico di
questo genere di contributi, la trattazione è molto diversa da autore ad autore. Questa intenzione di
fondo permette di considerarla come relativamente ovvia per chi affronta abitualmente e
professionalmente queste tematiche.
La terza parte (pp. 315-380) si compone di quattro contributi, opera di tre autori; a questo si
aggiunge una breve nota di completamento della prof.ssa Morali. Il titolo della parte è pretenzioso:
Theology of Religions after Vatican Council II ma non trova una vera e propria esecuzione. Questi
contributi offrono una veloce inquadratura del tema tramite autori tedeschi e francesi, sviluppano il
nodo del pluralismo in termini teologici e filosofici ricordando unicamente autori di lingua inglese,
se consideriamo tale anche R. Panikkar, e concludono disegnando il quadro teologico della
economia cristiana di salvezza.
Se tralascio qui il contributo di G. D’Costa, lo faccio non certo per disinteresse nei confronti del
suo pensiero, ma solo perché è intervenuto più volte su questo tema, in particolare sul pensiero di J.
Hick e P. Knitter, a cui qui aggiunge R. Panikkar ed il lavoro sul dialogo interreligioso di H. Pinto.
La diffusione del suo pensiero, ben conosciuto, permette di non riprenderlo in questa recensione.
Tralascerò anche il contributo sui presupposti filosofici del pluralismo di P, Rebernik per
concentrarmi sui due contributi del card. K.J. Becker.
Leggendo il primo – History of German Theology of Mission (pp. 317-325) a cui l’aggiunta di
una appendice su alcuni sviluppi della letteratura francese ed italiana da parte della prof.ssa Morali
permette di dare un pomposo sopratitolo: Trends in German, French and Italian Writings on
Theology [of Religions] – non si può che rimanere colpiti dalla abbondanza delle citazioni e dalla
meticolosa ricostruzione del succedersi degli interventi. Questa enorme conoscenza di opere ed
autori non riesce però ad offrire una pertinente inquadratura del dibattito teologico e delle rispettive
ragioni; le stessi conclusioni (p. 324) riassumono in poche righe una trattazione da cui sarebbe
legittimo aspettarsi molto di più. Il secondo contributo – Theology of the Christian Economy of
Salvation (pp. 357-379) – è decisamente teologico ed affronta diverse questioni; quella che
comunque riveste particolare importanza è quella del significato delle religioni nella economia
cristiana di salvezza (pp. 368-379). Diversamente dal precedente, questo contributo non richiama
degli autori, ma si limita strettamente ad una presentazione del pensiero cattolico. Dopo una prima
parte sul metodo e sulla chiarificazione del carattere teologico di questo tema, la seconda sviluppa
prima la problematica della Rivelazione in ordine alla comprensione delle altre religioni e poi quella
del loro significato nel disegno cristiano di salvezza. Quest’ultimo è certamente centrale nella
economia di questa trattazione.
Per svilupparlo, il prof. Becker distingue tra teologia delle religioni e teologia comparativa delle
religioni ed intende la prima come un interrogarsi sul significato che la semplice esistenza di queste
religioni ha per la proclamazione della fede cristiana. Riprendendo il paradigma del giudaismo e dei
suoi rapporti con Cristo così come è spiegato nell’episodio dei discepoli di Emmaus, il card. Becker
conclude che la Pasqua di Cristo è il compimento delle Scritture e la pienezza del cammino
religioso ebraico; applica questo paradigma giudaico anche alle altre religioni e conclude che sono
una preparazione al messaggio ed alla vita cristiana impersonate da Cristo e testimoniate dai suoi
discepoli. Si tratta di una tesi che appartiene a tutto il volume.
Lascia perplessi il fatto che un testo così attento al magistero non abbia un cenno per quella
“alleanza noaica”, distinta da quella ebraica e da quella cristiana, che ha trovato una ammissione
magisteriale nei nn. 56-58 del Catechismo della Chiesa Cattolica. Stupisce perché già Veritatis
Splendor 12 aveva distinto chiaramente tra il cammino religioso di popoli che si ricollegano a Dio
attraverso la creazione e quello del popolo di Israele, “creando l’uomo e ordinandolo con sapienza e
amore al suo fine, mediante la legge inscritta nel suo cuore” (n. 12), Dio si prende cura delle
persone e dei popoli anche al di là dei confini israelitico-cristiani. Anche in loro si dà un cammino
religioso verso l’unico Dio di tutti, il Padre, perché interrogarsi sul bene “significa rivolgersi in
ultima analisi verso Dio, pienezza della bontà […] e la bontà, che attrae e al tempo stesso vincola
l’uomo, ha la sua fonte in Dio, anzi è Dio stesso” (n. 9). Da qui la conclusione di Giovanni Paolo II
che, nel n. 94 della stessa enciclica, insegnava che “in questa testimonianza all’assolutezza del bene
morale i cristiani non sono soli: essi trovano conferme nel senso morale dei popoli e nelle grandi
tradizioni religiose e sapienziali dell’Occidente e dell’Oriente, non senza un’interiore e misteriosa
azione dello Spirito di Dio”. Queste indicazioni non dovrebbero venir trascurate.
La quarta Parte (pp. 381-508) consta di sei contributi, opera di dodici autori. Dopo un capitolo
introduttivo sul dialogo interreligioso vengono affrontate le religioni concrete: il popolo giudaico, il
confucianesimo, il buddismo, l’induismo nelle sue varie forme e l’Islam con alcune appendici su
esperienze di dialogo tra queste forme religiose ed il mondo cristiano. Questa tematica è
interessante per il teologo e gli è addirittura utile, ma non rappresenta un ambito in cui sia per lui
naturale esprimere una motivata valutazione.
In conclusione si può dire che questo lavoro è il frutto di un progetto maturato nell’ambito di
alcuni docenti della Pontificia Università Gregoriana e volto ad offrire una visione dichiaratamente
cattolica delle religioni a chi ne fosse in cerca ed a permettere ai cattolici una visione di insieme ed
una documentazione in grado di legittimare e motivare il senso della loro partecipazione ad incontri
inter-religiosi. Per conto mio aggiungerei che non è l’unica visione cattolica.
Un lavoro a progetto, come questo, è un lavoro che ottiene il suo scopo solo se diventa l’origine
di un dibattito in grado di ampliare il consenso o anche di originare motivati dissensi. Nel mio caso
si tratta di un dissenso su alcuni punti precisi, nel quadro di una più generale condivisione della
unicità e universalità della rivelazione e della salvezza operate dalla grazia di Cristo e della
missione universale della Chiesa. Nel quadro della ricerca sul senso delle altre religioni nella
economia cristiana, una prima conclusione a cui questo progetto arriva è quella della praeparatio
evangelica. Si può però discutere se sia l’unica come ho provato a suggerire in questa recensione.
Poiché questi argomenti restano centrali per l’oggi e per il domani di una Chiesa ormai apertasi a
popoli e culture diverse, questi temi sono destinati a restare cruciali per molto tempo. Per questo
meritano attenzione. Nel fervore del confronto, spetta a noi ricordare che una verifica evangelica
comincia sempre con una conversione, la nostra; solo poi si spalanca il cammino della ricerca nella
fedeltà. - Gianni Colzani.