Il suicidio ed il tentato suicidio dei bambini e degli adolescenti

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Il suicidio ed il tentato suicidio dei bambini e degli adolescenti
UNIVERSITE EUROPEENNE JEAN MONNET
ASSOCIATION INTERNATIONALE SANS BUT LUCRATIF
BRUXELLES - BELGIQUE
THESE FINALE EN
SCIENCE CRIMINOLOGIQUE
IL SUICIDIO ED IL TENTATO SUICIDIO
DEI BAMBINI E DEGLI ADOLESCENTI
Relatore: Dr.ssa Martina Focardi
Specializzando: Maria Elena Mungo
Matricola n. 2947
Bruxelles, Ottobre 2013
ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
MARIA ELENA MUNGO – SST IN SCIENZE CRIMINOLOGICHE - TERZO ANNO A.A. 2012– 2013
Indice dei Contenuti
INTRODUZIONE
CAPITOLO 1
IL TENTATO SUICIDIO E IL SUICIDIO DEI BAMBINI
pag. 3
pag. 11
1.1 I bambini che giocano con la morte
pag. 11
1.2 Le possibili cause del suicidio infantile
pag. 14
1.3 Il concetto di morte per i bambini
pag. 16
CAPITOLO 2
GLI ADOLESCENTI CHE NON VOGLIONO VIVERE
pag. 18
2.1. L'incidenza del suicidio nell'adolescenza
pag. 18
2.2. Il significato del suicidio adolescenziale
pag. 27
CAPITOLO 3
IL CYBERBULLISMO E IL SUICIDIO DEGLI ADOLESCENTI
pag. 36
3.1. Il bullismo
pag. 36
3.2. Differenze tra bullismo e cyberbullismo
pag. 37
3.3. Le tipologie di cyberbullismo
pag. 38
3.4. In cosa consiste la pericolosità del cyberbullismo
pag. 39
3.5. Come cercare di tutelare i minori contro il cyberbullismo
pag. 45
CAPITOLO 4
L'INFLUENZA DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA
SULLE CONDOTTE SUICIDARIE
pag. 48
4.1. L'esplosione dei media e il loro consumo da parte degli adolescenti
pag. 50
4.2. L'effetto Werther: le ipotesi di Davi d Phillips sul suicidio imitativo
pag. 51
4.3. Le condotte suicidarie come processi imitativi veicolati dai media:
limiti metodologici e interpretativi del fenomeno
4.4. È possibile fare informazione sul suicidio senza correre il rischio di indurlo?
CAPITOLO 5
CONCLUSIONI: COME ARGINARE IL FENOMENO
pag. 54
pag. 57
DEL SUICIDIO DEI MINORI
pag. 60
BIBLIOGRAFIA
pag. 80
SITOGRAFIA
pag. 84
2
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INTRODUZIONE1,2,3,4
Secondo il Dictionary of psychological medicine di Tuke, il termine suicidium compare
in Occidente solo al termine del XVII secolo grazie all'Abate Des Fontaine, ed indica
l'atto con cui l'uomo dispone definitivamente di se stesso.
Stenghel scrive che: “In un qualche momento del percorso dell'evoluzione, l’uomo deve
aver scoperto di poter uccidere non solo gli animali ed i suoi simili, ma anche se stesso.
Si può presumere che da quel momento la vita per lui non sia stata più la stessa”.
La sofferenza è parte della vita e costringe l’essere umano a confrontarsi con gli aspetti
della sua interiorità che richiedono ancora la ricerca di un senso. La sofferenza può
essere essenziale per trovare se stessi così come può stravolgere e far impazzire.
Per l’adolescente, così come per i bambini e gli adulti, il dolore e la psicopatologia non
hanno una relazione lineare fra loro.
Quando un bambino o un adolescente soffrono difficilmente si esprimono con le parole:
lo fanno più spesso con i silenzi, l'isolamento, i disturbi dei comportamenti alimentari, il
consumo di droga. A volte arrivano persino ad accarezzare l'idea del suicidio, tentativo
estremo, paradossale e disperato per affermare la propria esistenza.
L'adolescenza sembra essere il trauma per eccellenza, nel senso che è il periodo della
vita più esposto ai traumi. Per alcuni autori l'evento traumatico fondamentale dell'adolescente è la trasformazione puberale del suo corpo. Ma altri gravi traumi possono
aggiungersi: la morte dei genitori, la loro separazione, una gravidanza inaspettata, una
violenza sessuale subita. Due sono gli aspetti dell'esperienza traumatica che può essere
osservata in analisi: trauma attuale che può attivare esperienze traumatiche pregresse e
rimosse e trauma come "posteriorità" o rielaborazione di un trauma subito prima
dell'adolescenza. I comportamenti traumatofilici di certi adolescenti "a rischio" rappre1 depressionesintomi.it/...adolescenza/suicidio-in-adolescenza-.html
w3.uniroma1.it/biondi/.../Il%20rischio%20di%20suicidio%20negl.pdf
psicologia.doctissimo.it/.../il-suicidio/suicidio-adolescenti.html
www.psicologi-italia.it/.../adolescenza/.../suicidio-adolescenza.html
2 Lifestyle.tiscali.it/.../Il-suicidio-negli-adolescenti-gli-indicatori-per-individuare-i-casi-a-rischio.html
www.msd-italia.it/altre/manuale/sez19/2742594.html
www.famigliacristiana.it/.../adolescenti-il-perche-dei-suicidi.aspx
www.uneba.org/il-suicidio-degli-adolescenti-i-segnali-del-rischio-i-pregiudizi-da-sfatare/
www.governo.it/bioetica/pdf/32.pdf
www.psicologi-psicoterapeuti.info/articoli-Il-suicidio-degli-adolescenti.php?
3 www.progettoitaca.org/area.../la.../88-il-suicidio-fra-i-giovani
www.rivistapragma.it/pragma/trentatre/03.HTM
www.psichiatriabrescia.it/depressioneadolescenti.html
www.federicobaranzini.it/il-suicidio-rimane-un-problema-anche-tra-gli-adolescenti-in-cura/ www.prevenzionesuicidio.it/ts%20ricerca.html
www.ogginotizie.it/206428-eurispes-15-degli-adolescenti-cerca-online-aquot-anoressiaaquot-e-aquot-suicidioaquot/
4 www.marssrivista.it/home2/.../rischio-di-suicidio-in-adolescenza.doc
www.psicoterapia.it/rubriche/print.asp?cod=13887
nuke.itff.it/LinkClick.aspx?link=134&tabid=83 - C
raffaelebarone.wordpress.com/.../prevenire-il-suicidio-in-adolescenza/
www.alessandragraziottin.it/pdf/articoli.php?ART_TYPE=VODOM...
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sentano un esame delle capacità di angoscia e cioè un tentativo disperato di
padroneggiare l'angoscia prodotta dal trauma originario.
La teoria winnicottiana del trauma sviluppa l'aspetto oggettuale della teoria freudiana,
sottolineando la funzione della madre nel garantire il sentimento di sicurezza e le
conseguenze per l'Io adulto del fallimento a questo riguardo. Le conoscenze sul trauma
e la dissociazione, sull’attaccamento, sulla diade madre-neonato hanno ancora molto da
dire per la costruzione di modelli clinici adeguati al lavoro con adolescenti .
Il suicidio è un fenomeno presente in tutte le aree geografiche, in tutte le epoche ed in
tutte le culture, con radici e significati diversi nei diversi popoli, nelle diverse culture,
nelle diverse filosofie.
Il suicidio è un fenomeno estremamente complesso e non può essere concepito come un
fenomeno unitario e univoco. Di unitario e di univoco c’è solo il fatto che una persona
pone, o cerca di porre fine, alla propria vita mediante un attacco diretto all’integrità del
proprio corpo. Tale attacco al corpo è l’ultimo anello di una catena, la conclusione di un
lungo processo psichico che ha differenti livelli di consapevolezza. E’ caratterizzato da
differenti strutture ed è motivato da una grande varietà di impulsi, angosce, desideri,
fantasie, stati affettivi. Nessun suicidio è uguale a un altro come del resto nessuna
persona e nessuna vita è uguale a un’altra, e può essere considerata l’azione più
personale che un individuo può compiere, come una sfida al mondo che lo circonda.
Ricerche internazionali proposte dall’OMS segnalano che, negli ultimi anni in quasi tutti
i paesi occidentali, le condotte suicidarie in età adolescenziale si stanno diffondendo
sempre più e stanno diventando un fenomeno di cui è necessario capire il significato in
quanto hanno raggiunto livelli tali da poter considerare questa fascia di età a rischio
maggiore in almeno un terzo delle nazioni.
Suicidio e tentato suicidio possono essere considerati come indicatori delle difficoltà che
la nostra società sta attraversando, come misura del cambiamento sociale e della qualità
della vita individuale e di relazione. Sono l’espressione di un’anomalia comportamentale, di una vulnerabilità caratteriale. L’espressione di un disagio, di un sentimento
di inadeguatezza rispetto all’ambiente in cui si vive, di una difficoltà di comunicazione
con gli altri. Ma sono anche segnali di cosa potrà essere il nostro futuro, in quanto il
disagio può essere utile se stimola a trovare una nuova modalità di soluzione dei
problemi, ma non lo è se determina paura ed insicurezza. Per questi motivi il suicidio,
soprattutto quello adolescenziale, fa paura ed è difficile ammettere che non si è in grado
di offrire ai ragazzi un ambiente che li faccia sentire sicuri e protetti.
Comunque mai come oggi, il confine tra il concetto di vita ed il concetto di morte è stato
tanto confuso, non perché si è perso il senso della vita, quanto perché la nostra esistenza
non è più qualcosa di effimero ed improbabile.
I ragazzi di oggi si costruiscono un significato della morte e della vita dove il limite fra
fantasia e realtà è sempre più confuso. E’ inutile quindi chiedersi per quale motivo non
danno importanza alla vita, e arrivino in casi estremi ad uccidere o uccidersi. E’
attraverso l’elaborazione della morte di una persona importante affettivamente che si
percepisce la realtà della propria morte. E’ attraverso la percezione e l’elaborazione dei
sentimenti di angoscia e di separazione, del dolore e della nostalgia che il concetto di
morte diventa reale. Al suicidio mancano i significati attribuiti alla morte e quanto più
questa sarà considerata in modo superficiale, tanto più alto sarà il rischio di uccidersi.
Inoltre la società pone il successo ed il confronto con gli altri come obiettivi fonda4
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mentali per dimostrare il proprio valore, ma spesso questo determina sensazioni di
fallimento e di incapacità, che possono portare un ragazzo a mettere in atto
comportamenti suicidari.
Le manipolazioni violente del corpo, il tentato suicidio e il suicidio riuscito,
nell'infanzia e soprattutto nell’adolescenza, sono realtà sempre più diffuse, drammatiche
e difficili da comprendere.
Perché alcuni adolescenti arrivano a sentirsi talmente spaventati, disperati e confusi da
ritenere che la morte rappresenti per loro l’unica soluzione ai loro problemi?
Nei 15 paesi dell’unione europea, nel periodo compreso tra il 1983 ed il 1993, sono
deceduti quasi 250.000 giovani tra i 15 ed i 25 anni per cause accidentali o violente. Il
suicidio ha rappresentato la seconda causa di morte5. Le morti accidentali o violente
costituiscono i due terzi di tutte le cause di morte per l’età considerata. Esiste una
relazione fondamentale tra tentato suicidio e suicidio, infatti, un tentativo di suicidio
eleva la possibilità di morte prematura di 15 volte per il sesso maschile e di 9 volte per il
sesso femminile rispetto all’attesa. Su 2782 soggetti di età superiore ai 15 anni il 15% di
tutti quelli che avevano compiuto un tentativo di suicidio sono deceduti, per suicidio, nei
5 anni successivi il gesto suicidario.
In tutti i paesi occidentali si osserva un notevole aumento del tentato suicidio in età
evolutiva ed in particolare in adolescenza, tanto che esso è diventato un problema di
salute mentale di primaria importanza.
Per tentare di capire la reale portata del fenomeno sono state utilizzate due diverse
modalità di rilevazione:
1) attraverso self report: le indagini sono state effettuate su un campione ampio di
popolazione, prevalentemente studenti, ai quali è stato proposto un questionario dove
dichiarare se, nell'ultimo anno, avessero compiuto, un tentativo di suicidio.
Il limite principale a questo metodo è dato dalla possibilità che venissero dichiarati gesti
compiuti anche quando si tratta solo di un progetto suicidario, probabilmente, studiato
nei dettagli ma non realizzato, anche per le implicazioni che ne derivano nell’organizzazione di interventi di prevenzione.
2) presso le strutture sanitarie come pronto soccorso, strutture psichiatriche, medici di
base. In questo caso la rilevazione di tentativi di suicido è stata fatta prendendo in esame
tutti i casi che si sono rivolti, in un certo periodo di tempo, a centri sanitari per le
conseguenze di un gesto suicidario. Questo tipo di rilevazione è stata svolta in città
relativamente piccole in modo da poter poi derivare la prevalenza per l’intera
popolazione.
Nel caso di rilevazioni fatte presso strutture sanitarie abbiamo il problema opposto: non
tutti i tentativi di suicidio realizzati in età evolutiva sono gravati da conseguenze
sanitarie, c’è una forte tendenza a negare l’intenzione suicidaria e a spiegare le eventuali
conseguenze come accidentali. E’ stato, infatti, osservato direttamente come l’ingestione
di quantità tossiche di farmaci o di altre sostanze velenose può essere presentata come
accidentale in adolescenti depresse così come tagli con cutter al polso sinistro in
adolescenti maschi. In molti casi la famiglia tende a colludere negando anche lo stato di
malessere del minore.
5 Bellini M. (a cura di), Suicidai behaviour in Europe. Recent research trends, John Libbey, London -
S. Il presagio dell'assurdo (pag.101 a 119).
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La necessità di disporre di dati attendibili e legati alle realtà locali è fondamentale per
capire se vi sia la possibilità di programmare progetti di prevenzione, ogni tentativo di
suicidio, infatti, è sempre espressione di un grave disagio psichico, sia la conseguenza
dell’interazione di numerosi elementi.
In generale vengono considerati fattori di rischio6:
1) Patologia psichiatrica (disturbi dell’umore, disturbi da abuso di sostanze e della
condotta)
2) Struttura del nucleo famigliare: instabilità dei rapporti famigliari con forte
conflittualità, perdite, morte di un genitore. Squilibrio genitoriale con manifestazioni
psicopatologiche come: suicidalità, gravi problemi psichiatrici, abuso di sostanze,
negligenza, abuso sessuale e fisico).
3) Difficoltà nei rapporti con i coetanei.
4) Disturbo di apprendimento specifico e/o come conseguenza di difficoltà emotive.
Calo del rendimento scolastico, abbandono scolastico.
5) Eventi di vita sfavorevoli o stressanti: preoccupazioni circa l’identità sessuale,
suicidio in famiglia, perdite di famigliari o di coetanei, insuccessi scolastici, traumi
psicologici).
6) Rigidità cognitiva (suicidalità come risposta a problemi personali in carenza di
soluzioni più adattive ovvero carenze di problem solving, deformazione cognitiva
dell’idea della morte).
Sono da considerare indici di alto rischio per suicidio in adolescenza precedenti
tentativi, uso di droghe, alterazioni dell'umore ed i maschi sono più a rischio delle
femmine. Si considera presente un rischio immediato in caso di disturbo depressivo
maggiore e stato di agitazione/irrequietezza.
Sussistono dei fattori di rischio intra-famigliari, come la presenza di patologie
psichiatriche in uno dei genitori, come hanno dimostrato molti studi che hanno indagato
la relazione tra depressione in un genitore e tendenza al suicidio dei figli. In numerosi
lavori si sottolinea il rischio di suicidio nei minori di madre depresse. Alla base vi
sarebbe mancanza di sostegno emotivo, stress e presenza di elevata conflittualità
intrafamigliare. Inoltre, il rischio potrebbe essere legato all’esposizione a tentativi o
suicidio del famigliare malato, oppure ad una vulnerabilità biologica con aumento del
rischio suicidario o di depressione. Da indagini cliniche è risultato che il numero degli
adolescenti, giunti al servizio sanitario dopo un tentativo di suicidio, che hanno un
famigliare con disturbo psichiatrico grave, è superiore al 50%. Anche i problemi di
alcool in famiglia rappresentano un fattore di rischio per il suicidio, e sarebbero
particolarmente sensibili a questo problema i bambini e gli adolescenti di età compresa
tra i 10 ed i 14 anni. Importante ricordare che proprio in questa fascia di età è
raddoppiato il numero di suicidi negli anni compresi tra il 1979 ed il 1997.
Un altro aspetto importante si ricava dall’analisi del rischio di suicidio rispetto alla
percezione della propria famiglia. Coloro che hanno compiuto un gesto suicidario
riferiscono con maggior frequenza di non aver ricevuto dai famigliari abbastanza
attenzioni e di aver avuto con i genitori forti conflitti e di essere scappati da casa.
6 Condini A., et al., "Sulla psicopatologia delle condotte suicidarie in preadolescenza", Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza 64, pp. 275-282,
1997..19.
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Secondo alcune teorie si ipotizza che il tentativo di suicidio adolescenziale sia leggibile
come un forte messaggio inviato ai famigliari per ottenere aiuto e sostegno. Per altro
moltissime ricerche sostengono come la famiglia rappresenti un fondamentale fattore
protettivo. E’ risultata una variabile fondamentale in ricerche su soggetti che
presentavano disabilità di diversa natura come: dislessia, disabilità motorie, difficoltà
emotive. In altre ricerche svolte su un ampio numero di adolescenti, circa 13.000
studenti, avere una percezione di buone relazioni con la propria famiglia è risultato un
fattore protettivo importante per tutti gli intervistati. Si è osservato che la percezione di
un’elevata coesione famigliare e presenza di sostegno emotivo era associata ad un basso
livello di ideazione suicidaria e depressione. Tra i due aspetti descritti, coesione e
sostegno, il secondo sembra avere un ruolo predominante. L’importanza sembra non
essere tanto e solo nel funzionamento famigliare effettivo, ma soprattutto nella
percezione dello stesso da parte dell’adolescente. Quindi, non sarebbero solo i fattori
famigliari determinanti ma anche la comprensione che l’adolescente ha della sua
famiglia Moltissimi ricercatori sostengono poi che la famiglia può svolgere un ruolo
attivo per la prevenzione del suicidio giovanile in particolare limitando l’accesso all’uso
delle armi da fuoco. Questo è uno di mezzi più frequentemente utilizzato dai giovani
maschi che sono i soggetti a maggior rischio di suicidio.
Per quanto riguarda eventi particolari della vita, come la presenza di un evento
traumatico negli ultimi 12 mesi è risultata molto significativa come pure appare
significativa la presenza di sintomi della Sindrome Post-Traumatica da Stress. Nel caso
in cui l’adolescente abbia subito lutti, è ben noto come la perdita di un genitore possa
rappresentare un fattore di rischio significativo. Sembra non tanto o non solo la perdita
del genitore in quanto tale quanto il fatto che alla perdita del genitore non segua la
possibilità di elaborazione del lutto per le caratteristiche disfunzionali famigliari, stesso
orientamento sembrerebbero suggerire ricerche sull’incidenza che può avere una
separazione/divorzio, infatti potrebbe costituire semplicemente un altro indicatore di
una situazione di disagio intra famigliare. Se la separazione/divorzio si verifica in età
precoce o in adolescenza è possibile rappresenti una condizione di maggior rischio.
In molte ricerche si tende a valutare il peso dell’associazione di diversi fattori. Infatti,
spesso si sottolinea come i soggetti a rischio di suicidio erano cresciuti in famiglie
caratterizzate da avversità socio-economiche, rottura del matrimonio, attaccamento
parentale inadeguato. Le conseguenze di questi fattori risultavano comunque fortemente
mediate da eventuali problemi mentali in adolescenza e dall’esposizione ad eventi di
vita stressanti in adolescenza. Se consideriamo la combinazione dei fattori: presenza di
famiglie separate, preoccupazioni economiche e conflitti in famiglia il numero di
adolescenti che attentano alla loro vita è significativa. Un’altra possibile associazione
riguarda la valutazione complessiva di tre fattori noti per avere un peso rilevantissimo: il
disturbo psichiatrico intra famigliari, i problemi di alcol in famiglia, l’abuso con
contatto fisico intra famigliari.
L’uso quotidiano di cannabinoidi è risultato significativamente diverso tra gli adolescenti che avevano dichiarato di aver compiuto un gesto suicidario (27%) Alcuni autori
hanno evidenziato come l’abuso di cannabis esponga a rischio di gravi tentativi di
suicidio. Nella loro ricerca avevano osservato che il 16.2% degli adolescenti che erano
stati ricoverati a causa di un tentativo di suicidio rispondevano ai criteri DSM III R per
abuso/dipendenza da cannabis. Per altro gli autori sottolineano come chi abusa di
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cannabis proviene più frequentemente da una situazione sociale svantaggiata, inoltre
l’abuso/dipendenza dalla cannabis è spesso associato ad altri disturbi mentali che a loro
volta sono, in modo indipendente, fattori di rischio per comportamenti suicidari.
Nonostante i limiti descritti gli autori sostengono che la dipendenza/abuso di cannabis
può direttamente o indirettamente, peggiorare il disturbo mentale sottostante aumentare
il rischio suicidario.
Per quanto riguarda l’uso dell’ecstasy da sudi svolti negli Stati Uniti viene che l’11%
degli studenti di scuola superiore negli USA ha utilizzato ecstasy. Alcuni autori
sostengono che nonostante sia considerata una sostanza relativamente poco pericolosa
sono riportati, negli ultimi 10 anni in letteratura, più di 30 casi di disturbi psichiatrici
gravi indotti dell’ecstasy e tra questi suicidi oltre a psicosi croniche e disturbi di panico.
Ricerche svolte su ampi campioni di studenti di scuola superiore hanno evidenziato che
l’uso di varie droghe ed in particolare di cocaina e crack aumentano ideazione e
comportamenti suicidari. In ricerca svolta tra i 1992 ed il 1993 che ha coinvolto 9268
adolescenti è stato sottolineato che i principali comportamenti a rischio (manifestazioni
antisociali, incidenti, tentativi di suicidio) risultano aumentati tra chi usava marijuana
rispetto al gruppo di controllo ed ancora di più se si associavano anche altre sostanze
come oppiacei, cocaina, allucinogeni o stimolanti.
Ho già in precedenza evidenziato come la dipendenza da alcol in famiglia rappresenti un
significativo rischio di comportamenti suicidari in adolescenza. Naturalmente anche il
consumo diretto rappresenta un fattore di rischio. A questo proposito è risultata
significativa la differenza tra i due gruppi per i fattori: “ebbrezza” ed “ubriachezza
alcolica mensile” e per “aumento recente del consumo di alcol”. Quest’ultimo aspetto è
stato introdotto con la consapevolezza che l’aumento dell’uso dell’alcol è frequente nel
periodo che precede un tentativo di suicidio. In ricerche svolte con autopsia psicologica
è stato evidenziato che su 27 soggetti di età compresa tra i 15 ed i 24 anni deceduti per
suicidio non risulta significativo l’uso di droghe ma una percentuale elevata dei soggetti
presentava problemi di alcol e di abuso di farmaci. In un altro studio sempre svolto
tramite autopsia psicologica su 46 soggetti deceduti per suicidio in età compresa tra gli
11 ed i 16 anni il 22% di loro utilizzavano sostanze stupefacenti ed alcol.
Numerose ricerche hanno avuto come obiettivo quello di indagare quale influenza
poteva esserci tra i suicidi o i tentati suicidi e le relazioni con i coetanei, con
l’andamento scolastico, l’orientamento sessuale, l’abuso sessuale, ed eventi traumatici.
La relazione con i coetanei è risultata insoddisfacente per il gruppo che ha compiuto un
tentativo di suicidio in modo statisticamente significativo, così come l’autovalutazione
del rapporto con gli altri. Chi ha tentato suicidio almeno una volta appare più isolato
socialmente, infatti, dichiara di frequentare poco i coetanei. Una recente tendenza
all’isolamento sociale, in un soggetto depresso, è un fattore particolarmente significativo
di rischio suicidario immediato, così come un peggioramento repentino del profitto
scolastico risulta essere un segnale di allarme che conferma il valore dell’intervento di
prevenzione primaria nelle scuole. Numerosissime ricerche dimostrano come il crollo
del rendimento scolastico, le difficoltà di relazione con i coetanei ed il corpo docente,
l’abbandono scolastico rappresentino tutte variabili altamente significative e di cui tener
conto nel corso di valutazione del rischio suicidario attuale.
L’abuso sessuale con contatto fisico, si è rivelata una variabile altamente significativa.
Sono numerose le ricerche che sottolineano come l’esposizione all’abuso sessuale
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rappresenti una componente importante nel profilo dei giovani a più alto rischio
suicidario.
Numerose ricerche hanno cercato di analizzare quale rapporto sussista tra i tentativi di
suicidio e la presenza di psicopatologie negli adolescenti e pare esserci un generale
consenso sul fatto che gli adolescenti vittime di suicidio soffrano di un disturbo
psichiatrico. In particolare, depressione e bassa autostima sono fenomeni psicopatologici che molto frequentemente si associano al comportamento suicidario. Inoltre è
frequente l’associazione tra precedenti tentativi di suicidio, presenza di ideazione
suicidaria e depressione. Questi risultati suggeriscono che il trattamento degli
adolescenti suicidari potrebbe beneficiare di strategie focalizzate sulla riduzione dei
sentimenti di depressione e disperazione. Alcuni Autori sottolineano una interessante
relazione tra gli aspetti psicopatologici e le modalità del processo suicidario verificando
che i disturbi dell’adattamento e la depressione mostrano processi di breve durata con
nessun tentativo pregresso e nessuna comunicazione dell’intento e stressors psicosociali
di minor severità; mentre i disturbi mentali di lunga durata quali la schizofrenia e il
disturbo borderline hanno più processi suicidari lunghi caratterizzati da maggiori
comunicazioni e più severi eventi psicosociali associati anche all’abuso di sostanze.
Anche la differenza di genere appare avere una discreta influenza sul processo:
l’intervallo fra la comunicazione del gesto e la sua attuazione é più breve negli uomini
che nelle donne. Focalizzare l’attenzione sul processo suicidario potrebbe offrire
prospettive preventive più efficaci. Anche i disturbi del comportamento alimentare
risultano significativamente correlati ai tentativi di suicidio, soprattutto la bulimia, il
senso di inadeguatezza, la sfiducia interpersonale, la consapevolezza enterocettiva,
paura della maturità, impulsività e insicurezza sociale. Tutte queste sottoscale
descrivono clinicamente il disturbo bulimico con scarso controllo degli impulsi ed una
bassa autostima. Diversi autori sottolineano come nella bulimia il comportamento
autolesivo è spesso un tentativo di suicidio e che una storia di tentato suicidio è
prevalente nell’anoressia con binge/eating purging e nella bulimia con purging rispetto
ad altri tipi di disturbi del comportamento alimentare. Si è concordi nel ritenere che
l’importanza dei fattori di rischio aumenta con la loro associazione; ad esempio si sa che
nelle ragazze con disturbo alimentare è frequente osservare una significativa
associazione tra tentato suicidio, comportamento autolesivo impulsivo oltre ad una
storia di abuso sessuale e di depressione.
Che rapporto sussiste invece tra l’ideazione suicidaria, l’autolesionismo ed il tentato
suicidio. Gli adolescenti che hanno presentato ideazione suicidaria sono stati il 19%
(101/517). La percentuale dei ragazzi che ha dichiarato di aver compiuto atti di
autolesionismo è stata del 9 % (46/517) quella che ha dichiarato di aver tentato il
suicidio è stata del 5% (26/517). Le femmine hanno presentato percentuali estremamente più elevate rispetto ai maschi. In particolare le femmine hanno presentato una
percentuale tripla di tentato suicidio rispetto ai maschi.
Dalla letteratura sappiamo che esiste una significativa differenza nella frequenza dei
gesti suicidari tra femmine e maschi. Approssimativamente la percentuale è di 1,6:1 a
favore del sesso femminile. Il nostro campione conferma questo dato anche se la
differenza tra i due gruppi è diversa. Il campione è fortemente sbilanciato a favore del
sesso femminile ed il numero complessivo di soggetti maschile è troppo basso per
permettere indicazioni attendibili. Per altro in uno studio svolto su studenti tra gli 11 ed i
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18-19 anni si ricava che la percentuale di tentativi di suicidio femmine è del 5.1%
mentre quella maschile è del 2.0%. Nello stesso studio considerando l’età compresa tra i
15 ed i 18-19 anni la percentuale di tentativi di suicidio saliva al 6% per le femmine e
rimaneva invariata per i maschi. Alcuni ricercatori valutando i fattori di rischio
suicidario in un campione di 4590 adolescenti hanno evidenziato che le ragazze più
spesso dei loro coetanei maschi riferivano problemi personali, conflitti con i loro
famigliari, inattività fisica, attenzione e controllo del peso, uso di droghe psicoattive,
alto livello di depressione e bassa autostima oltre che, sempre in misura maggiore
rispetto ai coetanei maschi, ideazione e tentativi di suicidio. In definitiva le adolescenti
femmine presenterebbero un disagio psichico maggiore rispetto ai coetanei maschi e
questo giustifica la maggior prevalenza, al loro interno, di ideazione suicidaria e tentato
suicidio.
I risultati estremamente elevati sono sovrapponibili a quanto si osserva in altri paesi
occidentali. La presenza di ideazione suicidaria può essere considerata come
l’equivalente di un modico stato di disagio psichico. L’importanza che riveste nella
prevenzione la rilevazione di questo aspetto è conseguente all’osservazione che i
tentativi di suicidio sono sempre preceduti da persistente ideazione suicidaria.
Diverse ricerche hanno dimostrato, attraverso la somministrazione di questionari
anonimi e nominali allo stesso gruppo di adolescenti, come l’anonimato faciliti la
dichiarazione di tentativi di suicidio rispetto a quanto si verifica con questionari
nominali. Nel caso di questionari nominali si osservava una sottostima del fenomeno
legata principalmente alla preoccupazione delle conseguenze che avrebbe potuto avere
la rivelazione di un tentativo di suicidio.
A sostegno degli interventi di prevenzione si sottolinea come il gesto suicidario venga,
spesso, comunicato prima di essere realizzato. Nel nostro campione questo si è verificato
nel 42% dei casi, mentre il 46% ha segnalato il suo gesto solo dopo averlo tentato. Nel
54% dei casi si sono rivolti a coetanei, nel 23% ai genitori e la restante parte non
specifica. Solo il 15% ha ricevuto cure mediche come conseguenza del gesto suicidario e
questo è coerente con quanto già segnalato e spiega la discrepanza della prevalenza del
tentato suicidio in relazione al metodo di valutazione.
Drammatico appare anche il fatto che solo il 31% dei soggetti ha ricevuto (o riceve)
come conseguenza del gesto suicidario cure farmacologiche o psicologiche. Al contrario
la possibilità di cure dopo un gesto suicidario, oltre a rappresentare un’occasione
importante per uscire da uno stato di sofferenza intollerabile, riveste un ruolo
fondamentale nella prevenzione del suicidio.
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CAPITOLO 1
IL TENTATO SUICIDIO E IL SUICIDIO DEI BAMBINI
1.1. I bambini che giocano con la morte
Inizierò l'analisi del drammatico fenomeno dei tentati suicidi dei bambini partendo dal
racconto e dall'analisi di due casi realmente esistiti7.
1) R., al momento dei fatti aveva solo sette anni. Appena entrata nella stanza dove
l’attendeva lo psicologo scolastico, dapprima era visibilmente spaventata per quanto
stava per accadere, ma pian piano si rinfrancò, si tolse il cappello, e slacciò il pesante
soprabito e gli chiese se poteva usare i fogli e le matite che erano state preparate per lei.
Invitata a farlo iniziò a tracciare due linee parallele per indicare una strada, che
rapidamente riempì di macchine. Poi disegnò una ragazzina su di un lato della strada, e
una donna sull'altro. Soddisfatta del suo lavoro, mi domandò se sapevo cosa stava
disegnando. Lo psicologo esitava, non volendo azzardare un'ipotesi e lei proseguì:
«Questa ragazzina vuole buttarsi sotto». Alla domanda del perché la bambina volesse
venire investita, la stessa rispose: «Perché questa donna vuole che muoia», ed una volta
interrogata sul perché la donna desiderasse una cosa del genere. Replicò: «È proprio
questo il problema. Perché la signora vuole che vada sotto?». A quel punto gli occhi di
R. si riempivano di lacrime e la bambina ripeteva disperata: «Perché vuole che la
ragazzina muoia?». Lo psicologo allora arrischiò cautamente qualche domanda, ma la
bimba volle terminare il colloquio. «Devo andare ora, ma tornerò ancora», disse, e lasciò
la stanza.
Questa bambina era la figlia maggiore in una famiglia composta da una madre che era
stata ricoverata per disturbi paranoidi in una serie di istituzioni psichiatriche, un padre
che lavorava come operaio non specializzato, e due fratelli, per i quali
era stata posta diagnosi di ritardo mentale. I problemi di R. erano iniziati tre giorni dopo
la nascita, quando fu portata dalla madre a casa. Bastò alla madre una sola occhiata per
convincersi che R. non era veramente sua figlia, che all'ospedale c'era stato uno scambio.
Nonostante ciò, la madre non consentiva che nessun altro, oltre lei, la toccasse. Tra
madre e figlia si sviluppò una relazione di dipendenza e distruttività. Un giorno, quando
R. ebbe cominciato ad apprendere
lettura e scrittura, capitò che la bambina esibisse orgogliosa le sue capacità. La risposta
della madre fu: «Che pensi di essere, migliore di noi altri o cosa?». Può essere stato
quello il momento in cui R., per la prima volta, si mise a recitare la parte della bambina
ritardata, per rimettersi in riga con i fratelli e recuperare l'amore della madre. Oltre a ciò
la bambina spesso aveva lividi, graffi che rappresentavano il risultato di punizioni
imprevedibili date senza alcuna ragione apparente dalla madre. A volte, la stessa le
negava cibo per una giornata intera o la faceva stare tutta la notte in piedi. Un giorno era
7 Orbach I. (1988) “Children Who Don't Want to Live: Understanding and Treating the Suicidal Child” (Jossey-Bass Social & Behavioral Science”.
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giunta addirittura a rinchiuderla a chiave in una stia per polli. La bambina era a tutti gli
effetti il bersaglio degli accessi di rabbia e frustrazione della madre. Da tutto ciò ne era
derivato che la figlia, per mesi aveva studiato piani suicidari: aveva spesso provato a
correre nel traffico per farsi investire. Le sue tendenze fatali erano state scoperte dalle
sue insegnanti che avevano timore di portarla alle gite scolastiche. In un’occasione, era
stata realmente investita da un'automobile riportando traumi lievi. Le attenzioni
riservatale dal personale medico in quell’occasione rappresentarono forse per lei la
prima esperienza di un contatto affettuoso.
L’obiettivo dello psicologo, alla luce di questa storia, era di dare a R. il più possibile di
«cure parentali compensatorie». Durante quell'ora o due la settimana in cui era nelle
mani del personale specializzato, provavamo a fornirle calore, amore, accettazione, e
sicurezza, e confini.
La bambina metteva in atto il suo messaggio «Se non mi amate, non c'è vita». Uno dei
medici che la seguivano, a quel punto, la sollevava dalla sedia, e tutti l'abbracciavamo e
la rassicuravano promettendole che nessuno le avrebbe fatto più del male. Era
inevitabile che questo tipo di risposta da parte dei sanitari nei confronti dei
comportamenti “ricattatori” della bambina ne provocassero un forte sentimento di
contentezza quando li minacciava di saltare verso la morte. Com'era prevedibile, il
trattamento incrementava soltanto la frequenza iniziale di queste minacce.
Qualche volta, i giochi di morte di R. divenivano più bizzarri. Ad esempio, un giorno
entrò nella stanza arrabbiata ed accigliata, chiusa in se stessa; poi tirò fuori una spilla
metallica e provò ad introdurla in una presa di corrente per fulminarsi. In una giornata
d'inverno, tentò di gettarsi su una stufa elettrica. Questo comportamento andava oltre la
ricerca d'attenzione per esprimere rabbia, protesta e disperazione. Voleva uccidersi per
dividere la morte con il mondo intero. Questa modalità spesso compariva dopo una notte
di maltrattamenti da parte della madre, cui suo padre assisteva senza darle aiuto. Si
arrivò al punto che R. entrava, si sedeva e scoppiava in lacrime. «Voglio morire. Non
posso più sopportarlo». Questi atti suicidari non erano affatto semplici giochi per
ottenere attenzione, ma rappresentavano una drammatica lotta tra la vita e la morte.
Un bel giorno lo psicologo scolastico decise di affrontare con lei il problema della
morte, chiedendo alla bambina se abbia mai visto qualcuno morto e che cosa significa
morire. La stessa risponde dicendo che morire è come dormire.
Le domanda poi se ha mai visto un animale morto e che cosa succede dopo la sua morte,
la bambina impallidisce e risponde che lo seppelliscono. Si volse verso il medico con
un'espressione di terrore dicendo che doveva andarsene e che sarebbe tornata. Qualcosa
in lei si era sbloccata era come se avesse improvvisamente realizzato l'esistenza di una
connessione fra i suoi tentativi di suicidio e la morte, un legame di cui fino ad allora non
era stata consapevole. Sembrava che R., semplicemente, non avesse associato la sua
conoscenza della morte negli animali o nelle persone con i propri giochi suicidari, e da
quel momento li abbandonò, limitandosi ad esprimere verbalmente i suoi desideri di
morte, manifestando la propria angoscia in modo diretto.
Dopo un anno e mezzo di terapia, Rina fu inserita in un convitto per ordine del
Tribunale. Il confronto legale con i genitori consentì di entrare a contatto con loro per
renderli consapevoli dell'aiuto di cui avevano bisogno. La vita della bimba migliorò
improvvisamente perché il sentimento assolutamente negativo che esisteva fra madre e
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figlia si ridusse sostanzialmente e la bambina un tempo ritenuta ritardata si trasformò in
una delle alunne migliori della classe.
Dal breve racconto della storia e della terapia di aiuto per salvare R. risultano chiari i
motivi del comportamento suicidario di R.: il rifiuto esasperato da parte di una madre
mentalmente disturbata, il maltrattamento fisico e morale, un attacco massiccio alla
identità, il senso di estraneità verso la famiglia, e la totale assenza del padre che
assisteva in maniera passiva alle punizioni inflitte dalla moglie alla loro figlia, senza
correre in suo aiuto.
2) M. aveva dieci anni quando entrò nella stanza di terapia dopo aver tentato di
impiccarsi. Era la più piccola della famiglia. Suo padre era rientrato dal lavoro in
anticipo e l'aveva trovata in piedi sul tavolo da pranzo mentre cercava di fissare una
corda ad un lampadario. M. ripeteva che era solo un gioco e non aveva intenzione di
farsi del male. Anche i genitori assicurarono che la bambina non aveva certo inteso
uccidersi.
Erano convinti che il suo comportamento non rappresentasse che una tattica per ottenere
attenzione. Comunque, non sapevano immaginare perché ella sentisse la necessità di tali
strategie. A scuola, era una brava alunna, aveva molti amici, ed era impegnata in molte
attività extra scolastiche. Per tutta la durata della seduta, M. rimase rannicchiata sulla
sedia come se avesse voluto essere da tutt'altra parte tranne che lì. Quando i genitori la
interpellavano, assentiva timidamente con il capo, mostrandosi d'accordo su tutto.
Quando i sanitari le chiedevano qualcosa, dapprima scrutava l'espressione dei genitori e
poi assentiva o negava col capo, o semplicemente si stringeva nelle spalle.
Nelle sedute successive, i medici decisero di ascoltare M. da sola. Sembrava molto a
disagio. In seguito, quando iniziò a sentirsi più a proprio agio, rivelò che a volte sentiva
che avrebbe preferito non essere viva. Aveva spesso pensato ad uccidersi, ma aveva
paura di farlo. Tradiva una grande tristezza e disperazione, ma non riusciva ad
individuare alcun motivo preciso per i suoi sentimenti. Senza mostrare alcun tipo di
emozione un giorno rivelò che quando il padre l'aveva sorpresa aveva realmente tentato
di impiccarsi, ma non era certa di aver voluto davvero morire. Accennò anche al fatto
che la sera precedente aveva sentito alla televisione la notizia di una ragazzina che si era
impiccata. Col succedersi degli incontri terapeutici, iniziò ad esprimere alcuni dei suoi
sentimenti in modo più concreto, dicendo che per lei in casa non c'era una stanza, un
posto da poter ritenere tutto suo, e dovunque cercasse di mettersi veniva cacciata:
doveva dividere una camera con la sorella maggiore, ma era costretta a !asciarla ogni
volta che sua sorella si riuniva con i suoi amici. Il fratello maggiore non le consentiva di
rimanere nella sua stanza nemmeno per cinque minuti, e non poteva seguire i suoi
spettacoli televisivi preferiti perché disturbavano suo padre.
E' evidente che queste proteste non possono certo essere considerate motivi di suicidio,
ma senz'altro riflettono un senso di rifiuto. Questi sentimenti, infatti, affioravano dopo
un certo numero di incontri con M. e con diversi membri della sua famiglia. Come
divenne chiaro in seguito, la madre non aveva gradito la gravidanza di M. La donna
aveva progettato di riprendere gli studi e cominciare una lunga carriera come decoratrice
di interni. Il padre si era categoricamente opposto all'idea di un aborto.
Inoltre, egli aveva idee molto rigide sui ruoli dei mariti e delle mogli nella vita familiare:
l'uomo è colui che provvede ai bisogni materiali, e la donna il supporto e l'educatrice
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emozionale. Pretendeva di avere molti bambini. La madre cedette, e M. venne al mondo
a simbolo e memoria del profondo conflitto parentale.
Le frustrazioni della madre crebbero quando il suo autoritario marito la confinò in
cucina alle prese con le mansioni domestiche, frantumando il suo sogno di una propria
carriera personale.
Ogni volta che la donna chiedeva ai figli di aiutarla nelle faccende domestiche, il padre
l'accusava di interferire con i loro compiti scolastici.
Era particolarmente rigido riguardo a M., che considerava la più intelligente della
famiglia. La incitava costantemente a progredire negli studi e reprimeva ogni sua
iniziativa di aiutare la madre, incoraggiandola verso attività più importanti. La rabbia
della madre si trasformò in un risentimento passivo verso la figlia minore. Ammetteva di
aver avuto difficoltà nel toccarla quando era molto piccola e quando le venne suggerito
che inconsciamente aveva ritenuto M. responsabile delle proprie frustrazioni, fu
d'accordo. I medici scoprirono in seguito che M. aveva compiuto il suo tentativo di
suicidio dopo un serio litigio fra i suoi genitori.
Come andava interpretato il comportamento suicidario di M.?
Quali problemi avvertiva concretamente nelle relazioni e nelle dinamiche familiari tali
da spingerla a gesti suicidari? Quali segni avevano lasciato nell'esperienza emozionale e
nella mente di M. queste dinamiche ed altri eventi in grado di spingerla a giochi simili?
Circostanze di vita o caratteristiche di tendenze suicidarie rispetto alla genesi di altri tipi
di disturbo? Inoltre, in qual misura l'esperienza interiore di questa bambina di dieci anni
è paragonabile a quella di un adulto suicida?
1.2. Possibili cause del suicidio infantile8
Il suicidio infantile può essere compreso in base agli stessi principi psicologici
ipocizzati per il suicidio degli adulti?
Quello che viene spontaneo chiedersi è se bambine come R. o M. conoscono veramente
il significato della morte e se siano in grado, visto la tenera età, di associare
correttamente il proprio comportamento suicidario alla morte? Le risposte vengono
ricercate in varie direzioni: nelle teorie sul suicidio dell'adulto e nella loro validità come
modello interpretativo del suicidio infantile; negli studi sul significato del comportamento suicidario nei bambini; ed in una disamina approfondita delle ricerche sulle
caratteristiche di personalità, quali la depressione, la debolezza delle funzioni dell'Io e la
mancanza di autocontrollo che potrebbero concorrere a determinare il suicidio infantile.
Per tentare di rispondere a questi interrogati è necessario esaminare anche le reali
condizioni di vita dei bambini che presentano comportamenti autolesivi e suicidari,
compresi aspetti quali perdite, maltrattamenti, caratteristiche della famiglia, e richieste
scolastiche.
Fondamentale è poi conoscere come il concetto di morte si sviluppi nei piccoli, e che
comprensione possono avere della stessa, nel senso di capire in qual modo gli
atteggiamenti verso la morte e le conoscenze sulla morte diventano parte integrante del
processo suicidario.
8 Orbach I. (1988) “Children Who Don't Want to Live:Understanding and Treating the Suicidal Child” (Jossey-Bass Social & Behavioral Science”.
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Da dati clinici, aspetti teorici e ricerche, emerge un'ipotesi principale, secondo la quale
le tendenze autodistruttive nei bambini, ed in una certa misura negli adolescenti, sono
fortemente correlate a dinamiche familiari piuttosto che a fattori di personalità. La
tendenza al suicidio può avere origine nella prima infanzia, nel momento in cui il
bambino è fortemente attaccato alla sua famiglia, sebbene l'atto in se stesso possa non
concretizzarsi fino ad un'età successiva. Viene presentata l'elaborazione teorica di alcune
delle possibili dinamiche familiari in gioco.
Sulla base di modelli diversi, sono state formulate varie teorie sul suicidio infantile. Il
modello psicoanalitico, ad esempio, esplora il ruolo della perdita e della colpa nel
suicidio dell'adulto e le loro implicazioni nell'età infantile. Un altro modello enfatizza il
ruolo della famiglia nel processo suicidario. Un terzo modello considera il
comportamento suicidario come una conseguenza di processi evolutivi specifici
graduali.
Altri modelli per la comprensione del suicidio fra i giovani comprendono una teoria
multidinamica, un modello biochimico e modelli basati su ricerche sistematiche.
Dall'analisi critica dei differenti modelli scaturisce un nuovo concetto, a mio giudizio
esplicativo delle dinamiche proprie del suicidio infantile. Si tratta del concetto del
problema irrisolvibile. Benché questo concetto non sia in contraddizione con altre
interpretazioni, la sua integrazione con le altre concezioni teoriche consente di
determinare quando un evento o un atteggiamento, come il divorzio o il rifiuto, possono
risultare potenzialmente letali e quando produrranno effetti meno dannosi. Il problema
irrisolvibile, in sostanza, è un problema complesso e nascosto all'interno della famiglia,
che si presenta apparentemente come un problema del solo bambino. Su di lui vengono
esercitate pressioni per la risoluzione di un problema che è irrisolvibile per sua propria
natura, o che è al di sopra delle sue forze.
Contemporaneamente, i tentativi del bambino di risolverlo vengono ostacolati. Egli non
può adottare approcci nuovi, allo stesso tempo, non può sfuggire al confronto con il
problema e la sua persistenza da un lato, e le continue pressioni a risolverlo dall'altro,
sembrano condurre all'estremo verso desideri suicidari.
Nella storia di M. si può riconoscere l'esistenza di un problema irrisolvibile. M. era
costretta a risolvere un antico problema fra i suoi genitori. Veniva usata come valvola di
scarico per l' ostilità della madre verso il padre, ed era anche utilizzata dal padre per
esprimere il proprio disprezzo per la moglie. I genitori rifiutavano di riconoscere tali
sentimenti reciproci. Nello stesso tempo, la mantenevano coinvolta nei loro rapporti
ostili e non le consentivano di evitare il conflitto.
M. era presa in un fuoco incrociato. Così, si era creata per lei una situazione impossibile
o un problema irrisolvibile.
Il concetto di problema irrisolvibile, accanto ad altri validi concetti teorici e dati clinici,
conduce alcuni studiosi alla formulazione di un più ampio modello teorico, il modello
fenomenologico. Alla base di questo modello vi è l'ipotesi che il comportamento
autodistruttivo rappresenti il risultato finale determinato da forze conflittuali. Quattro di
queste forze vengono distinte ed elaborate nella forma di atteggiamenti verso la vita e la
morte; attrazione verso la vita, repulsione per la vita, attrazione verso la morte, e
repulsione per la morte. Ognuno di questi atteggiamenti può essere considerato una
costellazione complessa di concetti cognitivi, tensioni emozionali e tendenze
motivazionali.
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Le diverse combinazioni di atteggiamenti vengono trasformate ed influenzate da varie
dinamiche che possono determinare od accentuare il comportamento suicidario. Sebbene
tali forze contrastanti esistano in tutti i bambini, esse costituiscono una costellazione
peculiare nei bambini con tendenza al suicidio ed aumentano il rischio di comportamenti
autodistruttivi. Questo modello viene elaborato, ed il suo valore esplicativo viene
illustrato attraverso la presentazione di storie cliniche e la discussione di studi
sperimentali.
Il modello viene anche applicato alla diagnosi, alla prognosi ed alla scelta di strategie
terapeutiche per i bambini con comportamenti suicidari.
Nell’arco di 30 anni in Italia 374 bambini tra 10 e 14 anni di età si sono tolti la vita. Il
numero tuttavia è solo indicativo, poiché ci sono tutti quei fatti che lasciano il dubbio se
si sia trattato di suicidio e non di incidente. Da alcune indagini è emerso che a fine anni
’90 il fenomeno si è stabilizzato». Ma questo non deve rassicurare perché al tempo
stesso è diminuita la mortalità tra i più giovani per altre cause, dagli incidenti alle
malattie. Ciò vuol dire che «ben poco è stato fatto in termini di prevenzione, a partire da
una maggiore informazione sul problema nelle scuole».
La valutazione diagnostica e la terapia dovrebbero svolgersi all'interno del contesto
familiare. Processi tanto complessi quali il problema irrisolvibile, le relazioni distruttive,
ed altre dinamiche non possono venire esaminati o trattati senza la partecipazione
dell'intera famiglia, infatti nascono e si evolvono all'interno della stessa, ed è
assolutamente doveroso individuare l'origine dei conflitti, quale ne sia la trama, per poter
ricercare i problemi dei singoli membri, e come essi siano alla base dei conflitti e della
sofferenza che ne scaturisce.
1.3. Il concetto di morte per i bambini9
Per capire, interpretare ed affrontare le condotte suicidarie è necessario tenere conto
delle curiosità infantili riguardo alla morte. Molto spesso i bambini manifestano una
spiccata curiosità nei confronti della morte e le loro domande riguardano aspetti molto
concreti e non necessariamente angoscianti. Queste curiosità riflettono il crescente
interesse che il bambino ha verso se stesso.
Il processo di elaborazione cognitivo-affettivo dell’idea di morte si evolve durante tutto
l’arco dell’esistenza ed è determinato sia da avvenimenti esterni che da modifiche del
nostro mondo interno. All’inizio l’idea della morte è del tutto estranea all’essere umano.
I primi sentimenti che la persona vive sono angosce di annullamento, di frammentazione, di dispersione nel vuoto, l’idea della morte si forma poco alla volta ed il più delle
volte in modo inconscio. Questo processo di apprendimento è messo in moto dalla
constatazione della morte di altre persone e rimane per molto tempo un evento che
riguarda solo gli altri. La percezione di eventi e fatti che modificano il mondo interno ed
i cambiamenti relativi al proprio corpo rendono possibile l’integrazione dell’idea della
morte.
La prima esperienza che il bambino10 fa della morte è nel primo anno di vita, in
9 Orbach I. (1988) “Children Who Don't Want to Live: Understanding and Treating the Suicidal Child” (Jossey-Bass Social & Behavioral Science”.
10 Pfeffer C. R., (1986) “The suicidal child”, Guilford Press New York.
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coincidenza con l’esperienza di separazione dalla madre quando associa l’assenza alla
non-esistenza. Se la persona è assente è come se non esistesse, il primo concetto di
morte coincide quindi con il concetto di assenza, di separazione.
Il bambino però scopre anche di poter controllare questo avvenimento: se è vero che la
madre sparisce è altrettanto vero che lui può farla tornare mettendo in atto dei
comportamenti “ricattatori” ed annullare così l’angoscia per la perdita. In questo stadio
dello sviluppo il concetto di morte, legato all’idea assenza-separazione, è dunque un
concetto reversibile.
Un primo cambiamento nel concetto di morte si ha tra i due ed i quattro anni quando il
bambino comincia ad aver paura della morte vissuta come qualcosa di simile alla perdita
degli oggetti che lo circondano, o legata ad un evento atmosferico, al buio o in rapporto
ad un sentimento di frustrazione o di rabbia.
Fantasie di morte possono essere rivolte a persone a cui si è legati da un forte sentimento
affettivo ma che determinano anche sentimenti di aggressività; ci si può sentire in
pericolo, e quindi aver paura di morire, per mano di soggetti fantastici come la strega
delle fiabe; il mostro dei cartoni. Il concetto di morte è, in questo periodo, ancora legato
ad una visione magica e misteriosa.
Dopo i nove anni il concetto di morte perde la sua connotazione magica e transitoria per
diventare un evento definitivo, universale e irreversibile. E’ un evento uguale per tutti, è
causa della cessazione della vita biologica è può essere attribuita ad una persona diversa
da sé. Evidentemente non in tutti i bambini che hanno superato i nove anni il concetto di
morte subisce questa trasformazione, lo sviluppo del concetto di morte è determinato,
oltre che dall’età, anche dallo sviluppo emotivo e cognitivo. E’ solo nella prima fase
dell’adolescenza che l’idea di morte inizia a comprendere anche i primi desideri di
morte riferiti a se stessi.11 Desideri che vengono visti come la possibile soluzione di un
conflitto, di un malessere. Tali fantasie possono concretizzarsi in atto nella seconda fase
dell’adolescenza quando si sviluppa la capacità di programmazione mentale, di
previsione e controllo delle variabili ambientali, di scelta delle soluzioni più adeguate al
proprio problema.
Da quanto detto risulta evidente che l’adolescenza è un periodo molto delicato per i
ragazzi. In questo periodo della vita devono dimostrare di essere capaci di affrontare e
risolvere i problemi senza l’aiuto della famiglia, ma contemporaneamente devono far
fronte alle difficoltà della definizione della propria identità e autonomia. Le crisi e le
difficoltà, proprie di questo periodo, possono avere ripercussioni sulla formazione della
personalità, determinare sfiducia nelle proprie capacità, una visione negativa e
pessimistica delle relazioni sociali, perdita di aspettative verso il futuro. Tutti elementi
che possono costituire una premessa alla formazione di un proponimento suicidario, e
che hanno portato ad elaborare diverse teorie per individuarne le reali o probabili cause.
11 Duché D. J., (1978) “Suicide et tentative de suicide del l'enfant” Acta Paedopsychiatrica, 43, 209-211.
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CAPITOLO 2
GLI ADOLESCENTI CHE NON VOGLIONO VIVERE12
2.1. L'incidenza del suicidio nell'adolescenza
La “sofferenza” adolescenziale può essere considerata una “normale” condizione
esistenziale oppure il campanello di allarme di un potenziale disagio psicologico futuro.
La complessità dei compiti evolutivi adolescenziali espone l'individuo a vissuti di
incertezza e di vuoto dovuti alla sospensione tra la perdita dell'immagine infantile e la
non ancora strutturata identità adulta. Gli interrogativi esistenziali accompagnano
l'adolescente nei tentativi di riconoscersi e capirsi durante le trasformazioni in corso.
Il materiale oggetto di studio riguarda 14 casi di suicidio di bambini e adolescenti
registrati presso il settorato dell'Istituto di Medicina Legale dell'Università di Firenze 13,
in un periodo che va dal l Gennaio 1980 al 31 dicembre 2004. l suicidi di soggetti
minorenni, esaminati nell'area fiorentina, durante i 24 anni risultano costituire il 3,4%
dei decessi di minori avvenuti in quel lasso di tempo.
Le notizie circostanziali ed anamnestiche sono state rilevate dai registri presso l'Istituto
di Medicina Legale e tramite la consultazione dei giornali dell'epoca presso alcune
biblioteche di Firenze. L'analisi sembra indicare una certa casualità di distribuzione del
fenomeno, a fronte di una sua sostanziale costanza nel tempo, non rilevandosi né un
incremento né, purtroppo, un evidente decremento.
Facendo riferimento al parametro delle stagioni dell'anno si rileva un aumento nelle
stagioni cosiddette «calde» ed al passaggio tra una stagione e l'altra, ma indipendentemente dalla stagione, infatti, la fine dell'anno scolastico, che coincide con l'inizio
dell'estate, è comunque il periodo in cui si ha la conclusione dell'anno scolastico, che
può incidere profondamente sullo stato d'animo di un adolescente.
Rispetto al sesso, si riscontra una netta prevalenza dei soggetti di sesso maschile (11 a
3), mentre per quanto riguarda i tentati suicidi emergono dati indicativi della prevalenza
di donne rispetto ai maschi. Per quanto attiene all'incidenza in rapporto all'età, quella
maggiormente rappresentata è quella tra i 16 ed i 18 anni. Ci sono due casi di sedicenni
e di quattordicenni, ed uno relativo ad una dodicenne.
La modalità suicidiaria più frequente risulta essere l'impiccamento, con sei casi, seguita
dalla precipitazione quattro casi, e dall'utilizzo di arma da fuoco tre casi nonché un
isolato caso perpetrato tramite assunzione di sostanze tossiche.
12 Ivi, pag.3, note 1, 2, 3 e 4.
13 AA.VV. “Il Suicidio dell'Adolescente: considerazioni criminologiche su una casistica” in Rassegna Italiana di Criminologia, anno XVI, Fasc. 42005.
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L. ragazza di 19 anni con una struttura di personalità borderline, che inizia a sentirsi
sempre più depressa, isolata, inutile, fino ad arrivare alla conclusione che i problemi che
la affliggono siano insolubili.
Una mattina d'estate si alza all'alba: la vista del sole, del mare e l'assenza di persone le
inducono un senso di calma "oceanica", si sente a tal punto in contatto con la natura da
avere il desiderio di perdersi in questa "pace".
Ritorna a casa, prende un enorme quantitativo di farmaci e si reca sulla spiaggia per
ingerirli e, finché non perde coscienza, continua a vivere questa sensazione in maniera
quasi euforica.
Al risveglio, dopo cinque giorni di coma, con fatica ma anche con dispiacere per essere
ancora "su questa terra", racconta queste sue emozioni: “Per me non si trattava di
morire, era invece una rinascita in un mondo totalmente diverso da questo”.
Le donne tendono ad utilizzare sistemi meno violenti, trascurando, ad esempio,
l'impiccamento, l'uso di armi da fuoco o la precipitazione, preferendo l'assunzione per
via orale di farmaci o altre sostanze; i maschi, invece, attuano più frequentemente
modalità autolesive cruente. E' il caso per esempio di P.D che si era sparato un colpo di
fucile in bocca sdraiandosi nella vasca da bagno, dopo aver avvolto il fucile del padre in
due guanciali. Ha azionato poi i grilletti della doppietta del padre facendo leva con i
piedi su un marchingegno artigianale predisposto dallo stesso suicida proprio per tale
scopo. Secondo i familiari aveva “turbe dell'umore” da quando era partito per il servizio
militare.
Questa osservazione è beninteso di ordine statistico; ci sono ragazzi che utilizzano
l'ingestione di farmaci- metodo suicida definito "dolce" e ragazze che effettuano un
passaggio all'atto "distruttivo". direzione della patologia.
E' tipico dei ragazzi a disagio privilegiare il ricorso all'aggressività manifesta e alla
violenza intenzionale.14 Essi mettono in atto e coniugano il verbo "sfasciare" in tutte le
sue diverse accezioni. Sfasciare15, per un ragazzo in difficoltà, significa per esempio
rompere ogni rapporto in modo palese provocatorio per ripiegarsi bruscamente su se
stesso. F. diciassette anni, viene ricoverato in ospedale per essersi ferito al cuoio
capelluto con una scarica di pistola a piombini. Da due giorni se ne sta rinchiuso in
camera rifiutandosi di rispondere alle sollecitazioni dei genitori che non sanno che fare.
Da due settimane F. non era più lui di solito gentile e dolce, aveva preso a rispondere
male, si arrabbiava per un nonnulla. Faceva così anche con i compagni. Poi ha sfasciato
il motorino. I genitori hanno voluto parlarne con lui, ma F. ha cominciato a insultarli,
poi è salito a barricarsi in camera sua. Si rifiutava di scendere per mangiare e, quando
cercavano di ragionare con lui attraverso la porta, metteva la musica al massimo. Ci
aveva provato anche il medico di famiglia, ma inutilmente. Fu quando il padre ha
cercato di sfondare la porta che udito la detonazione. La sua camera era tutta sotto
sopra, F. giaceva sul letto. Aveva strappato tutti i poster, c'erano pezzi di carta e foto
sparsi dappertutto sembrava che avesse combattuto contro un intero reggimento.
Sfasciare significa anche compiere atti antisociali16 (vandalismi, scritte sui muri con le
bombolette spray), addirittura compiere in bande vere e proprie trasgressioni
14 Tabachnick N. (1971) “Theories of self-destruction” American Journal of Psychoanalysis 32, pag. 53-61.
15 Pommerau X. (2010) “La tentazione estrema. Gli adolescenti e il suicidio” PGreco Editore.
16 Anderson R., “Violenza e suicidio e loro relazioni nell’adolescenza”, Frammenti, Rivista di psichiatria 2, pp. 3-18, 1996.
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organizzate. Dall'effrazione di luoghi vietati, allo "sfascio" di negozi, dalla spedizione
punitiva contro altri "clan", all'aggressione contro minoranze etniche, esiste un'intera
gamma di comportamenti delittuosi che hanno spesso un carattere meramente "gratuito".
Questi sconfinano talvolta in passaggi all'atto di estrema gravità, che vanno dallo stupro
di gruppo alla caccia all'uomo e all'omicidio. Si è evidentemente lontani, in apparenza,
dal comportamento suicida, a parte il fatto che gli autori di simili violenze spesso le
attuano "a viso scoperto", lasciando dietro le loro bravate una scia di indizi in grado di
condurre direttamente alla loro cattura. S., sedici anni, è incensurato. Frequenta la terza
scientifico e viene considerato un buon allievo a giudizio di tutti i suoi insegnanti.
Insieme a tre compagni, anch'essi senza precedenti penali, S dice di "aver fatto una botta
di vita". Venerdì sera hanno bevuto molta birra e fumato delle canne a casa di uno di
loro, guardando la cassetta di un film. Verso mezzanotte, sono usciti "per fare un giro".
A S. è venuto in mente di "prendere in prestito" il fuoristrada di un vicino tanto per
scherzare e il quartetto ha deciso di farci un rodeo. All'inizio avevano solo voglia di
vedere se si poteva salire sui marciapiedi e scavalcare i guardrail, e poi hanno iniziato a
far paura anche ai passanti, sfiorandoli fino a quando non hanno investito un
malcapitato. A quel punto hanno preso coscienza di quello che avevano combinato e
sono scappati a gambe levate, ma S. aveva lasciato il portafogli nel veicolo rubato e due
ore dopo agenti di polizia erano a casa sua. Il ragazzo era costretto a confessare tutto
l'accaduto ed a fare subito il nome dei suoi complici.
Assumersi il rischio di "sfasciarsi" significa anche adottare ogni tipo di comportamento
da quelli motorizzati ("furia di vivere" inscenata nei parcheggi deserti, "roulette urbana")
a quelli para sportivi (sfide in luoghi impervi, prove di velocità) o pseudo iniziatici
("nonnismo", giochi pericolosi con esplosivi). La quantità di queste sfide è diventato un
fenomeno preoccupante. Tali comportamenti sono favoriti dalla disinibizione derivante
dall'assunzione di alcolici e sostanze stupefacenti. L'uso di droghe lecite o illecite sono
strettamente collegati ad un medesimo desiderio di "sfasciarsi", di "sballarsi". Benché i
ragazzi siano ancora statisticamente quelli più dediti all'impiego di simili espedienti,
soprattutto di droghe pesanti, le ragazze sono oggi quelle che ricorrono di più ad alcol e
hashish.
Comportamenti di rottura scolastica o professionale accompagnano spesso queste messe
in atto, alcune delle quali sono del resto all'origine dell'abbandono scolastico o del ritiro
sociale. Tali eventi realizzano una serie di rotture che alterano la continuità del processo
di socializzazione e riordano, nella forma, la peculiare instabilità dei casi che in
psichiatria vengono chiamati stati-limite. L'auto aggressività, altra forma di "sfascio", si
esprime mediante le violenze che il soggetto infligge a se stesso "per farsi del male"
(pugni o testate contro superfici dure, bruciature di sigaretta ecc.). Ma il conforto
procurato al soggetto dal suo passaggio all'atto è di breve durata.
D., diciotto anni, faceva l'apprendista da un carrozziere. Da qualche giorno sembrava
fuori di sé. Era finita con la sua ragazza; i genitori (madre e patrigno) gli impedivano di
uscire la sera perché frequenta cattive compagnie. D. si era messo in testa che i genitori
avessero un debole per C., il fratellastro di sette anni. D. aveva iniziato a soffrire di crisi
che gli prendevano la testa. Sentiva il bisogno di farsi del male, a suo dire lo calmava
prendere a pugni il muro fino a spaccarsi le dita.
Tutte queste componenti si ritrovano, in qualche misura, negli adolescenti maschi che
tentano il suicidio. Qualunque sia l'intensità del desiderio di morte, la rottura con cui
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mirano a sottrarsi a un vissuto per loro insopportabile è sinonimo di cancellazione, più o
meno definitiva, di un 'esistenza giudicata invivibile.
Nei ragazzi in difficoltà, questo tratto di rabbia e disperazione assume infatti spesso la
forma di un proiettile o di una corda. La violenza potenziale del metodo utilizzato è di
per sé una molla potente, per questo qualsiasi fallimento o ripensamento viene percepito
come vile e spregevole.
L'impulsività è un'altra componente della violenza al maschile. Essa sembra spingere i
ragazzi suicidi a proiettare o far esplodere all'improvviso la loro sofferenza in faccia al
mondo, sia in senso letterale che figurato. E., diciotto anni, da qualche tempo non si
sentiva all'altezza. Era appena stato bocciato agli esami, si mostrava sempre troppo
timido con le ragazze e viveva nella costante impressione di deludere i genitori,
soprattutto il padre, coltivatore diretto, che voleva che il figlio continuasse la sua
attività. E. si rifiutava perché non voleva andarsi a sotterrare in quel buco, in realtà
desiderava proseguire gli studi di orticoltura e poi lavorare in città. Questo suo desiderio
era stato però compromesso dall'insuccesso scolastico appena subìto. Un giorno,
rientrando a casa, prendeva la risoluzione di farla finita, ricordandosi che nel granaio il
padre teneva le armi. Lo stesso sopravvissuto al suo tentativo di suicidio raccontava che
dopo aver premuto il grilletto dell'arma aveva visto dei bagliori poi più niente. Pensava
di essere morto Poi si era ripreso e si vedeva pieno di sangue ed era stato soccorso dal
padre che si trovava proprio fuori dal granaio.
E. oggi ha ventun anni. Vende articoli per l'agricoltura in un grande magazzino
specializzato. Non presenta alcuno strascico psicomotorio del tentativo di suicidio
benché abbia ancora la pallottola nella testa, in un punto inoperabile.
A pari livello di sofferenza psicologica, le ragazze manifestano il proprio desiderio di
rottura per lo più attraverso comportamenti quali il cancellarsi o il ritrarsi, fuggire o
praticare un assenteismo scolastico o professionale più o meno cronico. Fanno sempre
più volentieri ricorso a cocktail di droghe "leggere" (alcolici, hashish, tranquillanti).
L'espressione del disagio al femminile passa normalmente attraverso il dileguarsi del
soggetto, termine che di volta in volta assume un significato concreto o astratto. Come
render conto altrimenti di certe repentine scomparse in seguito a una lite o a una
delusione e di certe perdite di conoscenza che colpiscono quelle che, come reazione alle
stesse situazioni, sono vittime di sincopi? S., quindici anni, aveva effettuato un primo
tentativo di suicidio quando ne aveva tredici. Come i suoi familiari, parlava pudicamente
di "overdose farmacologica" alludendo ai numerosi passaggi all'atto che da allora aveva
effettuato. Attribuiva questi gesti alle angosce che la invadevano. Era ripetente di terza
media poiché da due anni la sua frequenza scolastica risultava costellata di assenze per
malattia che si protraevano anche per sei settimane consecutive. All'insaputa dei
genitori, la ragazza fumava hashish e moltiplicava per due o per tre la dose giornaliera di
calmanti che le era stata prescritta. I genitori continuavano a cambiare dottore per
trovarne uno che riuscisse a guarire la figlia, e si dichiaravano assolutamente contrari a
ricorrere all'aiuto di uno psicologo che consideravano un ciarlatano.
In materia di comportamento suicidario, la ricerca della fuga rispetto a una realtà
interiore o esteriore insopportabile è da questo punto di vista, tipicamente femminile.
Nelle ragazze, molti fattori concorrono a fare dell'avvelenamento da farmaci il metodo
suicidario per eccellenza.
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Per quanto possa apparire strano, le ragazze fanno meno spesso ricorso a metodi violenti
perché desiderano preservar, anche nella morte, la propria integrità corporea. In esse, la
rappresentazione mentale di una morte violenta accompagnata da lacerazioni o
mutilazioni corporali è il più delle volte associata a un'intollerabile idea di sofferenza. Il
desiderio di sparire senza soffrire porta così un gran numero di ragazze in difficoltà a
optare per un metodo suicidario non traumatico.
Nel caso dell'avvelenamento volontario, si constata che le sostanze utilizzate sono per lo
più quelle ritenute capaci di indurre un sonno profondo. Al gas utilizzato negli anni
cinquanta e divenuto sempre meno tossico si sono largamente sostituiti i farmaci
psicotropi. Il loro uso a scopo di suicidio va di pari passo con la loro diffusione tra la
popolazione: dopo i barbiturici degli anni sessanta-settanta, i tranquillanti (ansiolitici e
ipnotici) vengono oggi ingeriti in sette tentati suicidi su dieci. Per molte ragazze animate
da desideri suicidi, morire addormentandosi rappresenta una modalità dolce e tanto più
attraente da mettere in opera in quanto si tratta di farmaci innocenti e facilmente
accessibili. È percepibile l'intreccio, operante in loro, fra il sonno e la morte, Hypnos e
Thanatos, i fratelli gemelli della mitologia greca.
Ma è sempre la morte reale quella a cui si mira? Come viene sottolineato da alcuni
psicologi, prendere delle compresse per dormire non è tanto un modo per mascherare la
voglia di morire, quanto il segno attraverso il quale un soggetto può volere sprimere il
proprio bisogno di riprendere le forze per vivere.
L'ingestione in dosi massicce di calmanti o sonniferi realizza una rappresentazione
metaforica della morte sonno eterno) e del riposo transitorio (sonno ristoratore). Si
tratta di una messa fra parentesi che lascia al destino decisione se il fermo immagine
sarà momentaneo o definitivo.
Rappresenta anche un modo per smettere di pensare, è l'obiettivo di coloro, maschi e
femmine, per i quali il sonno anche comatoso, è un mezzo per neutralizzare, paralizzandole, rappresentazioni psichiche dolorose. La letargia tossica è ricercata perché
attacca i pensieri addormentandoli, mentre il corpo stesso è abbandonato come un
oggetto da vedere poiché mima la fissità della morte. È del resto sorprendente constatare
che spesso le giovani che hanno deciso di avvelenarsi si sono messe in ghingheri prima
di effettuare il loro gesto, come se si fossero preparate per una cerimonia funebre. La
messinscena a volte faraonica di queste belle addormentate e l'erotizzazione suscitata dal
loro abbandono contribuiscono al rifiuto difensivo di cui queste pazienti sono vittime da
parte degli altri. Come nel caso, in particolare, di alcuni operatori del pronto soccorso
che parlano di isteria, per loro sinonimo di commedia.
Questo metodo di suicidio è caratteristico del sesso femminile perché procura sollievo
coniugando oblio, immobilità, assenza di dolore e preservazione dell'integrità
corporea17.
Una volta risvegliatesi dal coma, le ragazze che hanno tentato un suicidio cercano
spesso, del resto, di spiegare il loro gesto più come il desiderio di sospendere il corso del
tempo che come un effettivo anelito di morte: «Non volevo più pensare a niente»,
«Bisognava che si fermasse», «Così non poteva durare» Questa lettera di addio, lasciata
da una ragazza di sedici anni, è assai significativa riguardo alla ricerca di questa no
man's land mentale: “non posso continuare a vivere così. La vita sta diventando sempre
17 Pommerau X. (2010) “La tentazione estrema. Gli adolescenti e il suicidio” Pgreco Editore.
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più impossibile per me. Mi rendo conto che sto rendendola impossibile anche a voi [i
genitori] che non lo meritate. Stasera ho dunque deciso d'inghiottire un intero tubetto di
compresse. Non so che effetto mi farà, forse starò benissimo, ma potrei anche essere
morta... Ho fatto dunque il bilancio della mia vita, è una vita inutile che vi dà solo
pensieri. Ho già fatto un sacco di sciocchezze, come la mia fuga... Ho fatto anche il
bilancio del mio avvenire. Non lo vedo molto allegro, sempre da sola, senza amici, con
tutti i miei pensieri... E tuttavia, ingoiando queste compresse, non ho intenzione di
uccidermi, ecco perché ne prendo solo un tubetto, sennò le inghiottirei tutte. Voglio solo
poter restare in coma perché non so cosa c'è dopo la morte. Così non sarò né morta, né
viva, finalmente senza pensieri: non penserò a niente... Non so che effetto faranno le
compresse, forse mi risveglierò in piena forma”. L'obiettivo di chi tenta il suicidio non è
sempre quello di morire, ma piuttosto quello di ricostituirsi, di rinascere dopo una morte
che non sarà definitiva. Quest'ultimo concetto è centrale nella struttura di molte fiabe
popolari: una ragazza con una difficile situazione affettiva cade, per effetto di una droga,
in un sonno profondo analogo alla morte; grazie all'intervento di un principe o di Eros in
persona, si risveglia e conosce la felicità. Uno degli esempi più antichi di questo tipo di
favola è rappresentato dal racconto di Amore e Psiche. Più presenti nella nostra
memoria, le favole di Biancaneve e della Bella addormentata nel bosco ne sono evidenti
illustrazioni.
Cadere in un sonno profondo è un metodo di risoluzione magica della situazione di crisi:
non si tratta di mobilitarsi per uscirne, ma al contrario di immobilizzare il conflitto nella
speranza che qualcun altro si occupi di risolverlo. Il desiderio di fuga porta tuttavia
qualche ragazza animata da intenzioni suicide a ricorrere d'impulso a un metodo
particolarmente traumatico: precipitarsi nel vuoto. Conoscendo la gravità delle tappe
psichiche che un simile procedimento implica, non è lecito scorgervi una contraddizione
con quel che si è detto riguardo alla propensione femminile a evitare di attentare in
maniera troppo devastante alla propria integrità corporea? In uno studio retrospettivo
basato, nell'arco di cinque anni, su un campione di centodieci superstiti e si è potuto
stabilire che questo metodo suicida è spesso correlato, in entrambi i sessi, a una
patologia mentale conclamata: la metà di coloro che tentano il suicidio lanciandosi nel
vuoto soffre di disturbi mentali a carattere psicotico. Sfuggire a persecutori immaginari
e reagire all'angoscia da frazionamento derivante dalla rottura dell'unità fra corpo e
psiche sono le motivazioni che sembrano spingere questi soggetti a uscire da limiti
avvertiti come ostili o terribilmente indifferenziati. Siano o meno presenti disagi
strutturali di questa natura, diverse caratteristiche fenomenologiche ci sono apparse
comuni alla maggior parte delle osservazioni riscontrate. Per esempio,il carattere spesso
non premeditato dell'atto, la sua urgenza, la sua necessità antologica. L'impulsività è tale
che si parla di raptus, mentre la rapidità dell'azione, la sua repentinità, vengono
implicitamente rese dal termine precipitazione, che evoca anche velocità e
accelerazione. Oppure l'atmosfera tutta particolare nella quale viene effettuato il
passaggio all'atto: i soggetti descrivono un vissuto analogo a un'esperienza di
depersonalizzazione, un vero disancoraggio simbolico, non lontano da quello che si
osserva in certi delitti, indotto o aggravato dalla concomitante assunzione di sostanze
tossiche. O infine la materializzazione di un passaggio liberatorio che si esercita
dall'interno verso l'esterno, dal troppo pieno verso il vuoto o, viceversa, dal vuoto
interiore allo spazio pieno d'ogni possibilità.
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“Ho guardato il cielo” ricorda V., una giovane psicotica di vent'anni “e ho spiccato il
volo dietro agli angeli che mi indicavano la strada”. Al di là di ogni riscontro
nosografico, pare proprio che questa modalità di suicidio sia la traduzione esemplare di
un fallimento dell'identità e dunque del narcisismo, che rinvia all'essenziale problematica del doppio.
Lesi nella propria identità, eseguendo alla lettera un estremo tentativo di vicarianza della
propria immagine, i giovani suicidi che si precipitano nel vuoto non sono precisamente
coloro che si gettano a corpo morto attraverso lo specchio, infrangendo a un tempo la
propria immagine e il proprio doppio, spezzando in un solo colpo ogni prospettiva
dialettica del corpo e della mente. Quanto alla flebotomia, così diffusa e così
tipicamente femminile, essa non rappresenta affatto un attentato all'integrità fisica nel
senso di un progetto suicida mirante a disperdere o dislocare, in tutto o in parte, il corpo
stesso. È piuttosto il sintomo attraverso il quale si rivela, anche in questo caso,
l'inefficacia delle barriere simboliche fra contenuto corporeo e psichico. L'attacco è
diretto infatti all'involucro, la pelle, la cui effrazione, superficiale e quasi indolore
quando si riduce a semplici scarificazioni, permette di "diffondere" de visu un dolore
provato a un altro livello. Senza averne consapevolezza, l'adolescente che si scarifica
offre alla [propria] vista una piaga che testimonia della sua ferita affettiva. li sangue che
sgorga concretizza tanto meglio la sofferenza psichica avvertita - questa sì,
incomunicabile.
La frequenza delle tendenze al suicidio caratterizzate dall'illusione e dalla ricerca di una
soluzione magica dei problemi porta a negar loro, a torto, ogni reale gravità. Un simile
punto di vista riguarda d'altronde tanto l'adolescente che passa all'atto quanto chi tenta il
suicidio in età più adulta. Nei tentativi di suicidio per ingestione, le sostanze utilizzate,
la cui tossicità è spesso irrilevante di per sé, rappresentano per alcuni un elemento a
favore dell'inautenticità del gesto o della scarsa volontà di morire che si presuppone ne
sia all'origine. Di conseguenza il fallimento affettivo e il disagio del soggetto non sono
più considerati come espressione di un'autentica sofferenza. Alcuni arrivano a
circoscrivere l'atto nell'ambito di una pietosa manipolazione istrionica, riferendosi al
fatto che la maggior parte di questi comportamenti sono messe in scena che celano un
evidente godimento, per quanto inconscio e profondamente morboso.
Per quanto concerne il luogo di accadimento, l'abitazione propria è il luogo
maggiormente rappresentato, in presenza di un solo caso verificatosi in aperta
campagna. Tra i casi esaminati 10 riguardano giovani residenti in Firenze, mentre solo
4, tutti maschi, abitavano in piccoli paesi del circondario fiorentino. Sicuramente la vita
in città è qualitativamente molto diversa da quella della provincia, nelle metropoli i
giovani si trovano ad affrontare una maggiore solitudine, indifferenza. Nella maggior
parte dei casi i minori non hanno lasciato alcun tipo di messaggio ai familiari, tanto che,
come nel caso di I.E.M.R., studentessa di 19 anni, non è stato possibile capire con
certezza se la stessa si sia suicidata o sia stata vittima di una tragica fatalità. Infatti fu
ritrovata sui binari nei pressi della stazione di Firenze Rovezzano. Era originaria della
Sicilia dove frequentava il Liceo e si trovava in gita scolastica. Era ripartita insieme ai
compagni dalla stazione di S.M.N., verso le 21.20 e circa mezzora dopo qualcuno
presente sul treno si era accorto della presenza di una porta del vagone aperta. Effettuato
l’appello la studentessa era risultata assente. Sembra non fosse affetta da disturbi
mentali né preoccupazioni familiari o sentimentali. Certo appare strano che il padre,
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giunto da Trapani, volesse sapere assolutamente se la figlia fosse vergine al momento
della morte.
In 5 casi la vittima ha lasciato un biglietto a motivazione del proprio gesto, tutti
indirizzati ai genitori, dove cerca di giustificare il proprio gesto, come nel caso della
bimba di 12 anni che chiede scusa ai familiari per il suo egoismo, ma dice di non poter
continuare la sua esistenza perché i suoi problemi hanno preso il sopravvento. Fra quei
messaggi c'è anche uno di rimprovero al padre con il quale il ragazzo di 14 anni aveva
avuto dei litigi inerenti il rendimento scolastico. Egli lascia scritto un drammatico:
“adesso sarai contento”.
Integrando le informazioni desumibili da questi «messaggi» con le notizie circostanziali
raccolte, le motivazioni che sembrano aver condotto le vittime a mettere in atto un gesto
così estremo possono ricondursi a insuccessi scolastici, delusioni amorose, lutti in
famiglia.
Appare comunque molto difficile poter standardizzare in categorie predefinite un
fenomeno così complesso in quanto, il suicidio dei giovani risponde a dinamiche
interpersonali, coinvolgendo tutto l'ambiente in cui vive: la scuola, la famiglia, gli amici,
ecc ...
Nella nostra casistica solo in un caso, anamnesticamente, vi è stato un tentato suicidio
nell'ambito di una «depressione», disturbo dell'umore che sembra caratterizzare due
casi, peraltro senza il sostegno di una diagnosi clinica; per contro, in tutti gli altri il
suicida è stato descritto come un soggetto «normale», e l'evento imprevedibile, cioè in
assenza di apparenti comportamenti premonitori. A tal riguardo appare evidente
l'importanza di riuscire a creare dei parametri valutativi che possano in qualche modo
aiutare ad interpretare particolari atteggiamenti di un soggetto al fine di poterlo
considerare a rischio o meno di evento suicidiario. E' necessario porre una particolare
attenzione sul suicidio tentato18, sottolineando come esso debba essere sempre
considerato un gesto premonitore e quindi evento d'allarme che deve indurre
quantomeno una sorveglianza del soggetto a rischio, se non addirittura l'inserimento in
un programma terapeutico. Per valutare il rischio
suicidiario oggigiorno esistono delle vere e proprie scale di valutazione psicopatologica,
che si propongono, valutando in termini di punteggio alcuni parametri considerati veri e
propri fattori di rischio, di quantificare la tendenza di un soggetto a commettere l'atto
autosoppressivo. Le più utilizzate sono la «scala per l'autostima (TMA)19», la «scala per
la depressione (SVSD)», la «scala dei disturbi del comportamento alimentare (EDI-2)»,
e la «scala atteggiamento nei confronti vita e morte (MAST) », ognuna delle quali valuta
dei parametri, come la patologia psichiatrica, la struttura del nucleo familiare, le
difficoltà interpersonali e gli eventi di vita sfavorevoli, che, insieme, permettono di
meglio definire il profilo di un soggetto predisposto all'atto suicidiario, o quantomeno al
suo tentativo.
Alcuni studiosi hanno effettuato ricerche per quanto riguarda la genesi del tentato
suicidio, su 106 pazienti di età compresa tra gli 8 ed i 14 anni affetti da disturbo
psichiatrico, di cui il 79% aveva tentato il suicidio o quantomeno presentato una
ideazione suicidiaria nei sei mesi precedenti, presentando tra i fattori di rischio più
18 Aguglia E., Riolo, M., De Vanna, M., " Disturbi d’ansia e tentati suicidi”, Giornale italiano di suicidologia, 6, 1, pp. 39-46, 1996.
19 Bracken B. A. (1993) “Test di valutazionedell'autostima” Edizioni Erikson, Trento.
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significativi proprio il disturbo affettivo, e, più in generale, quello psichiatrico, insieme
all'isolamento sociale ed alle relazioni intra familiari problematiche. Sono stati indagati
anche i meccanismi di difesa, osservando che il tentato suicidio e l'ideazione suicidiaria
sono frequentemente collegati ad impulsività, ridotta tolleranza alle frustrazioni, scarsa
capacità di posticipare una reazione, incapacità di programmare un'azione, difficoltà di
scelte alternative e di incapacità di valutazione oggettiva delle situazioni esterne. Nel
79% del campione esaminato i meccanismi di difesa più utilizzati sono risultati la
proiezione, la regressione la compensazione e la formazione reattiva.
La delicata fase di sviluppo trova nel comportamento genitoriale una delle più forti
cause di sofferenza. Il non trovare nel genitore un concreto soccorso ai problemi è una
condizione che per una personalità ancora non interamente definita, come quella
adolescenziale, porta a mettere in dubbio tutte le certezze fino allora conquistate; le
condizioni che non permettono di trovare il soccorso nel genitore possono essere
molteplici: un divorzio, una malattia, l'indifferenza, il lutto.
Grande rilevanza dovrebbe avere anche il ruolo dell'insegnante, figura che nel tempo è
andata modificandosi, passando da un vecchio modello in cui le era richiesta una sola
trasmissione nozionistica d’informazioni ad uno più recente che prevede anche una
maggiore interrelazione con i giovani. L'insegnante, dovrebbe valutare gli atteggiamenti, le parole ed i silenzi del giovane. La scuola più in generale, dunque, ha il dovere
formativo nei confronti del giovane, nonché quello di aiutarlo nel suo sviluppo
psicosociale valutando singolarmente ogni singolo caso, non potendo in nessun modo
generalizzare il comportamento di un singolo individuo. Questa riflessione si collega al
caso di una coppia di fidanzatini quattordicenni di Firenze, che avevano deciso di
suicidarsi insieme, ma all'ultimo la ragazza desiste dall'intento e lui si uccide sparandosi
un colpo di arma da fuoco a proiettile unico. Il ragazzo, due giorni prima di suicidarsi
aveva scritto un biglietto indirizzato ai genitori in cui parlava del suo tragico proposito e
lo aveva consegnato all'insegnante, che credendo ad una bravata aveva gettato il
biglietto senza fare parola con i genitori di tale fatto.
La casistica esaminata ci permette di delineare un profilo, nella realtà sociale di Firenze
e della sua provincia, del fenomeno suicidiario in soggetti giovani.
Si tratta di un numero sicuramente basso, se paragonato per esempio al numero dei
morti della stessa età per sinistri stradali nello stesso spazio temporale, restando sempre
e comunque un fenomeno allarmate sotto il profilo sociale per gli importanti risvolti in
tema di disagio e malessere dell'infanzia e dell'adolescenza di cui si connota.
È fondamentale conoscere l'esistenza di questa realtà e non sottovalutare il problema,
ma anzi, attivarsi con programmi di prevenzione per cercare di ridurre questo
drammatico fenomeno che altro non è se non lo specchio di una difficoltà del giovane ad
inserirsi nella realtà quotidiana che gli viene offerta. È importante, dunque, capire quali
possono essere i disagi, le preoccupazioni, le difficoltà, e più in generale tutte quelle
problematiche interiori che possono spingere un adolescente a compiere un gesto così
estremo.
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2.2. Il significato del suicidio adolescenziale20
Il momento in cui un giovane agisce un attacco al sé corporeo, indipendentemente dalla
gravità del gesto, costituisce un segnale di un urgente bisogno di aiuto che non può
essere chiesto, ma che necessita di un altrettanto urgente, immediata, significativa
risposta dal mondo adulto. Gli adulti si trovano così confrontati con una realtà
complessa, che sollecita profondi sentimenti d’impotenza e d’inadeguatezza. Nascono
impellenti degli interrogativi: perché? Che senso ha? È possibile trovare dei significati
di questa azione apparentemente senza senso? Come intervenire? Come impedire le
recidive? Come prevenire? Molti studiosi affermano che chi compie un tentativo di
suicidio è un individuo che non riesce a regolare il suo equilibrio interno perché
fortemente ancorato a fattori esterni e da essi dipendente. La possibilità di aiutarlo passa
attraverso fattori esterni, che gli consentano di riprendersi dall'evento traumatico. È
dunque l'azione, la realtà esterna, il limite concreto, di cui sono portatori più adulti in
stretta interazione tra loro, il punto di partenza che può rimettere in moto un qualche
desiderio di prendersi carico di se stesso e di porsi in modo attivo di fronte alle proprie
problematiche e alle proprie carenze. Il suicidio in adolescenza non è quasi mai sintomo
di una malattia mentale Aspetti rilevanti nella dinamica di questo gesto sono l'età e la
fase evolutiva del soggetto, infatti l'aumento drammatico dei morti per suicidio fra i 14 e
i 24 anni nei paesi europei e nordamericani non fa che confermare questa ipotesi. Il
modello di intervento proposto si basa anche sulla convinzione che il tentativo di
suicidio è comprensibile e trattabile solo all'interno delle relazioni significative
dell'adolescente: l'intervento non può quindi evitare di coinvolgere profondamente anche
i genitori. Il tentativo di suicidio è sempre un messaggio: lugubre, atroce, il più delle
volte assolutamente imprevisto per i suoi destinatari. È necessario capire a chi sia
destinato e quale sia il suo contenuto non comunicabile a parole: quasi sempre è rivolto
ad uno dei due genitori e l'impresa più urgente è proprio aiutare il destinatario ad
accoglierlo, comprenderlo e darvi una risposta tempestiva e coerente.
Un'altra costante emersa dai numerosi colloqui in cui si è cercato puntigliosamente di
ricostruire gli eventi esterni ed intrapsichici che hanno portato alla scelta di tentare la
morte, è la presenza di uno specifico affetto: la vergogna. A fare da regista di questa
impresa disperata è infatti il tentativo concitato e impulsivo di mettersi al riparo da una
possibile esperienza di umiliazione e mortificazione, scomparire, sottrarsi alla tragedia
dello smascheramento, della perdita della bellezza narcisistica. Ricomporre questi tre
aspetti è un passo necessario per ridurre, o almeno per sperare di ridurre, l'importanza e
l'urgenza dei motivi che hanno spinto l'adolescente verso un passo tanto disperato.
Il suicido ancora oggi è la seconda causa di morte tra i giovani, dopo gli incidenti
stradali (seguono le cadute accidentali e gli avvelenamenti). Nel 2010 sotto i 25 anni
(dati Istat 2012) sono 138 i casi di suicidio accertato: 111 maschi e 27 femmine, con un
tasso totale di suicidio del 5,1 su 100mila ragazzi. Il rapporto tra maschi e femmine è di
4 a 1 in tutte le età, ad eccezione della fascia di età 14-17 in cui il rapporto scende a 2 a
1. Secondo l'Oms, Organizzazione Mondiale della salute (dati 2005), il 40% dei ragazzi
che non riesce a suicidarsi e non riceve un trattamento adeguato fa un secondo tentativo.
20 Laufer M. (a cura di), (1998), “L’adolescente suicida” Edizioni Borla, Roma.
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Conoscere il nemico è il primo passo per poterlo affrontare e, grazie anche a questa
ricerca che ha fatto luce su numerosi aspetti del suicidio adolescenziale, potremmo avere
in mano strumenti preziosi per capire cosa porta gli adolescenti a un atto così disperato.
Quando un adolescente cessa volontariamente di esistere, si compie un fallimento.
Qualcosa s’inclina irrimediabilmente in uno o nei tanti sistemi di vita di cui egli è
partecipe. Fallimento familiare, scolastico, sociale, relazionale, una disfatta incontrovertibile per tutte quelle persone che potevano essere presenti, capire, posare l’occhio
emotivo laddove lo sguardo quotidiano non arrivava. Il tema del suicidio in adolescenza,
per quanto discusso e analizzato nei tempi e con plurime modalità, resta sempre un
argomento intriso di grande coinvolgimento affettivo, aldilà delle teorie o dei modelli
interpretativi a cui ogni professionista si ispira. Il viaggio di un ragazzo o di una ragazza
verso dimensioni solitarie del vuoto, della disperazione e di uno smarrimento “noioso”
all’interno di un mondo frenetico, viene ripercorso lentamente fino al passaggio
conclusivo, al tempo ultimo dove l’impulso, la rabbia o la lucida freddezza donano una
forza sufficiente per sospendere, con un gesto, ogni legame e ogni possibilità di vita.
Seguono domande, spesso insolute, tentativi di un “rewind” temporale, alla ricerca di un
segno, un messaggio, un’inclinazione della voce che avesse potuto aprire un varco nelle
segrete stanze della demolizione adolescenziale; spesso resta solo un silenzioso
rammarico.
Molte storie di ragazzi preadolescenti e adolescenti prendono forma da un suicidio: le
scopriamo tra le pagine dei quotidiani, nelle bacheche rumorose di un social network
seguite dalla processione infinita dei “mi piace” all’ultimo commento postato, ma anche
tra le fila di un corposo esercito che compone le statistiche attuali del disagio in Italia e
nel mondo. Altre storie invece, con uno sfondo simile e una stessa intenzionalità esitano
in tentativi non riusciti: si bloccano sul parapetto di una finestra, nel conteggio delle
pastiglie da ingoiare o semplicemente riescono a “salvarsi nonostante tutto” per
rimandare la morte di un altro giorno. Le stime più recenti descrivono un trend sempre
più crescente di ragazzi che attentano alla vita, così come nella pratica clinica,
aumentano vertiginosamente gli accessi nei reparti di emergenza per atti
anticonservativi.
Il lavoro di un neuropsichiatra dell’età evolutiva, che presta sevizio in una struttura
sanitaria pubblica, parte spesso da qui, dalla richiesta di una consulenza urgente da parte
del Pronto Soccorso o dalla necessità di un ricovero in un reparto di Degenza di
Psichiatria per adolescenti, quando il percorso evolutivo di un adolescente si arresta e
necessita di un’attenzione o una cura, indagandone, in certi casi, una dimensione
psicopatologica sottesa. I ragazzi che hanno attentato alla loro esistenza appaiono,
inizialmente, assorbiti in una dimensione atemporale, condensata di emozioni
indistricabili su cui si posano gli sguardi di un mondo adulto: medici, psicoterapeuti,
infermieri e non ultimi i genitori; madri e padri inconsapevoli, stravolti e confusi. Il
processo di cura e comprensione delle ragioni, nascoste in questo atto è arduo ma
doveroso: secondo molti studiosi le cause possono essere molteplici, sociali, familiari,
interpersonali, ma l’atto suicidale si compie solo quando l’individuo viene soverchiato
da un dolore psichico, una sofferenza così intensa non risolvibile se non con la
cessazione della vita. Questo dolore definito come “Psychache” racchiude in se un senso
di disperazione, di sconfitta, vergogna e abbandono; l’obiettivo ultimo per un
adolescente coinvolto in questa spirale emotiva è arrestare il flusso della sofferenza,
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eliminare il “nemico che dilania l’anima”. Scegliere la strada del suicidio è inoltre, per
molti sopprimere automaticamente questo dolore: “quando si raggiunge questa decisione
in modo risoluto, si prova una certa sensazione di serenità derivata dal fatto che la
situazione insostenibile stia per finire definitivamente” e le narrazioni dei giovani
“attentatori “ lo confermano. Rievocano l’ultimo atto, descrivendo in un composito
puzzle di sentimenti ed episodi, la sensazione leggera di liberarsi da uno schema di
pensiero o da uno scenario ambientale e familiare insopportabili; molti giovani, tuttavia,
spesso preadolescenti si avvicinano lentamente all’idea di uno “scarso piacere verso la
vita,” attraverso altre modalità e dimensioni spesso non collocabili all’interno di una
cornice diagnostica.
Una ricerca effettuata presso il Reparto di Degenza (UOC A NPI) su un campione di
adolescenti ricoverati per autolesionismo intenzionale ripetitivo, ha messo in evidenza
quanto l’alta frequenza degli atti unita ad un progressivo aumento di alcuni sintomi
depressivi, disregolazione affettiva, e ad una dimensione crescente e grave di “ridotta
attrazione alla vita” fossero elementi predittivi di rischio suicidario. Sebbene il concetto
di autolesionismo non sia ancora, nella letteratura clinica, del tutto univoco, e sia
utilizzato a volte in modo incoerente, spesso eccessivo, è possibile osservare l’esistenza
di un continuum tra condotte autolesive ripetitive non suicidarie (NSSI: No suicidal self
injury) e i gesti deliberatamente non conservativi. Il self cutter “impara ad anticipare o a
ritirarsi dagli stati di distress generati dall’interazione e, progressivamente, diventa
dipendente dalle forme di autoregolazione solitarie ed esternalizzate piuttosto che
sviluppare una forma di autoregolazione interattiva efficiente”. In questa dimensione di
alterata “presa in carico di sé” egli comunica, protesta o infine “sopprime i pensieri”
anche quelli legati alla morte.
È evidente che non tutti i ragazzi che ricorrono al suicidio praticano atti autolesivi ma
esistono ipotesi concrete che confermano quanto un dato “atteggiamento verso la vita e
la morte” associato ad un attacco al corpo ripetuto con scarsa percezione del dolore
possa favorire comportamenti suicidari futuri. Nel mare magnum di queste “fratture
esistenziali” riuscire a fornire risposte competenti e mai banali, diventa un dovere etico
ma anche altamente complesso: un medico o uno psicoterapeuta che affrontano queste
tematiche possono e debbono avvertire un sentimento di paura senza esserne governati.
Il timore di non aver dato abbastanza ascolto agli impercettibili messaggi che il paziente
comunicava o lo spettro di un passaggio non idoneo durante l’incontro con l’altro,
rappresentano elementi reali di rischio solo quando non vengono “rimaneggiati” e poi
evitati con cura e capacità. Il compito del clinico è invece quello di trovare forze ed
energie per “tenere in vita” questi adolescenti ed evitare il pericolo di una recidiva: serve
presenza, offerta di relazione e condivisione del tempo fermo, quello carico di
sentimenti di vuoto e di disperazione, “I ragazzi che corteggiano” la morte non sono
controllabili ma possono costruire vincoli stretti e affettuosi, legami silenziosi ma
profondi”. Sono queste le premesse essenziali per ogni scelta terapeutica e i criteri
fondamentali per poter organizzare una risposta adulta competente: l’atto comunicativo
espresso con l’attentato suicidario richiede una tempestiva posizione di ascolto e di
responsabilità clinica. Il modello terapeutico proposto si avvale in primis di una presa in
carico globale dell’adolescente; l’intervento con il giovane risulta imprescindibile da
quello dei familiari. Il ragazzo deve esperire il senso della relazione, l’accoglienza e la
capacità di trasformare ogni azione in parola, sia come narrazione orale che scritta. La
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creazione di uno spazio intimo, riservato all’ascolto e alla “frequentazione” condivisa
dei pensieri di morte, la rappresentazione verbale delle fantasie mortifere e dei
sentimenti di angoscia generati da esse, permettono all’adolescente di costruire un
legame intra e interpersonale; le modalità con cui si attua questo progetto sono
strutturate e organizzate secondo la costituzione di un’alleanza terapeutica con
l’adolescente: i colloqui diagnostici uniti alla valutazione con test psicometrici e
successivamente i colloqui clinici sono uno step fondamentale per il riconoscimento e il
trattamento del gesto suicidario; parallelamente a questa fase, sono fondamentali i
colloqui con la coppia genitoriale, il supporto continuativo e coraggioso verso padri e
madri bramosi di indicazioni e di soluzioni. Il coinvolgimento delle figure che
appartengono al mondo “vissuto” dell’adolescente possono essere anche esse, risorse
preziose per la costruzione di una rete di legami “riparati” o autentici; il ragazzo, infine,
deve essere consapevole della presenza di un’equipe professionale che conserva e “tiene
a mente” le sue istanze e il suo bisogno di aiuto. A questo scopo la comunicazione con il
medico di riferimento, con il terapeuta o con altre figure professionali, può intraprendere
strade e percorsi assolutamente originali e creativi: permettere la condivisione degli
scritti sottoforma di diari, messaggi di carta o rappresentazioni artistiche da lasciare al
proprio uditore, significa investire sul legame e acquisire l’esperienza di una
differenziazione.
In un’epoca in cui ogni crisi esistenziale si interseca e si amplifica all’interno di una
“crisi” di valori e di crollo sociale e economico, in un momento storico in cui gli adulti
faticosamente riescono ad essere solidi punti di riferimento per i giovani in crescita, il
dovere clinico di un Neuropsichiatra infantile e della sua equipe è quello di saper
accogliere coraggiosamente la fragilità emotiva di un adolescente, fornendo una
possibilità di cura efficace e autorevolmente concreta.
Molti adolescenti, più di quanto si possa immaginare, non sono soddisfatti, non sono
felici; soffrono di una solitudine profonda nonostante la “serenità” che offrono gli agi
della vita quotidiana con la sua molteplicità di relazioni sociali. Questo è purtroppo
testimoniato dal fatto che tra le prime cause di morte fra gli adolescenti e i giovani vi sia
proprio il suicidio.
Se il suicidio e il tentativo di suicidio hanno, come eventi, una fisionomia ben definita
ed un significato univoco – quello di togliersi la vita – essi sono invece, dal punto di
vista psicologico, sociale ed etico, eventi assai complessi sia nella fenomenologia che
nelle dinamiche.
Il problema del suicidio da parte degli adolescenti può essere adeguatamente compreso
se viene posto in relazione con le caratteristiche della loro personalità che, d’altronde, è
caratterizzata da tratti non sempre omogenei. Osservando il modo in cui si manifesta
l’adolescenza da una generazione ad un’altra, da una cultura all’altra, da un ambiente
sociale all’altro, si perviene facilmente alla conclusione che come non esiste
l’adolescenza in quanto fase universale ed uniforme, ma esistono piuttosto gli
adolescenti, così le cause, le dinamiche, le caratteristiche degli atti suicidari
nell’adolescenza si presentano come una realtà variegata e tutt’altro che omogenea.
La condotta suicidaria non può essere isolata dal contesto individuale, familiare e
sociale nel quale avviene e atti apparentemente simili possono nascondere significati e
motivazioni non univoci.
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Per comprendere il contesto in cui può germogliare un’idea suicida, innanzi tutto
dobbiamo tener conto di fattori legati alla personalità dell’adolescente e alla sua
peculiare condizione, contraddistinta da una identità incompiuta e fragile, in cui sono
carenti le dimensioni portanti dell’identità, come lo sviluppo morale e la dimensione
relazionale, sotto l’influsso del quadro valoriale di oggi, alquanto sbiadito per la caduta
di valori forti e per l’accumulo di disvalori. Gli adolescenti vivono un senso di
precarietà psicologica causata da appartenenze plurime, ma spesso incerte; sono
sommersi da messaggi e valori contrastanti; devono fare i conti con visioni
culturalmente condizionate dei ruoli maschili e femminili che appaiono ancora scarsamente aperte alle dimensioni della reciprocità e della complementarità. Il bisogno di
sostegno e di modelli di riferimento precisi e autorevoli si fa diffuso e si rende ancora
più forte nel caso della marginalità e della trasgressività sociale.
Oltre che con il proprio particolare mondo interiore, l’adolescente è confrontato anche
con un insieme di rapporti esterni.
Il fattore più incisivo nel processo di sviluppo adolescenziale è il rapporto con la
famiglia21, che risulta il modello fondamentale e strutturale nell’ambito dei rapporti
interpersonali. Quando un membro della famiglia entra nell’adolescenza, viene rimesso
in questione l’intero equilibrio familiare e il successo o il fallimento dello sviluppo
adolescenziale dipendono dai cambiamenti che adolescenti e genitori sono in grado di
compiere. Se non si raggiunge tale equilibrio, aumentano nelle famiglie di adolescenti
quelli che gli specialisti considerano come fattori di rischio per l’equilibrio del ragazzo e
quindi per il comportamento suicidario: mancanza di coesione e integrità del nucleo
familiare e soprattutto separazioni dei genitori; ostilità o indifferenza reciproca tra i
genitori e nei confronti dei figli; atteggiamenti affettivi ambivalenti dei giovani verso i
genitori; problemi di comunicazione all’interno della famiglia; alta proporzione di
elementi conflittuali e incapacità di risolverli in maniera costruttiva; scarso appoggio e
sostegno dei genitori nei confronti dei figli; confusione o rigidità dei confini tra le
persone; cancellazione delle differenze generazionali; antecedenti in famiglia di
alcolismo e soprattutto di atti suicidi nella famiglia, genitori o ascendenti. In realtà,
come numerose ricerche sottolineano, l’adolescente suicida, appare spesso prigioniero di
situazioni familiari anomale e patogene, e il comportamento suicidario può costituire un
messaggio inviato alla famiglia per esprimere il proprio disagio e per tentare di indurre
un cambiamento nelle relazioni.
A questi fattori individuali e familiari che incidono sulle condotte suicidarie degli
adolescenti vanno aggiunti infine quelli legati alla società odierna, tutta concentrata su
pseudovalori e sul conseguimento del benessere e del successo, in una esasperata ricerca
di gratificazione di bisogni insostenibili, che alla fine fanno piombare l’adolescente nella
frustrazione e nel vuoto esistenziale.
Tutti questi fattori di natura personale, relazionale e sociale concorrono a generare negli
adolescenti di oggi un particolare atteggiamento di fronte alla morte e ai cosiddetti
pensieri di morte.
Le varie teorie, tutte ancora bisognose di ulteriori ricerche, hanno in genere assolutizzato
uno o più elementi o fattori causali che interagiscono nel suicidio adolescenziale. È
21 Luccattini A. et al., " Fattori di rischio e prevenzione familiare del suicidio nell’adolescente", Supplemento al Giornale italiano di suicidologia, 1,
pp. 105-107, 1993.
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probabile tuttavia che il fattore psicosociale, soprattutto quello familiare, costituisca un
elemento di primaria importanza nell’ermeneutica del gesto suicida, in quanto si
configura come il terreno di incrocio delle varie serie causali. Resta infine vero che
ciascun suicidio si presenta come un caso a sé e che, pertanto, comporta di volta in volta
la necessità di una ricerca empirica che convalidi le diverse interpretazioni.
Molto spesso i motivi che portano l’adolescente a uccidersi o a cercare la morte
sembrano poco importanti, sproporzionati rispetto alla gravità dell’atto, talvolta
addirittura futili, anche se non mancano all’adolescente situazioni realmente disperate
(come per esempio la morte di una persona cara o la separazione dei genitori). E quasi
sempre si tratta di motivazioni che si ripetono in maniera monotona e che tutti gli autori
riportano infatti con le stesse parole: un brutto voto a scuola o la perdita del lavoro, una
discussione in famiglia o un rimprovero dei genitori, un rifiuto, un penoso senso di
colpa, la perdita di un’amicizia, la paura di essere punito, un torto subito, l’esclusione
dal gruppo, la fine o l’impossibilità di una relazione affettiva.
Sorge una domanda: la frequente apparenza di scarsa importanza dipende soltanto dalla
prospettiva in cui si pone l’adulto, oppure in realtà per l’adolescente si tratta in ogni caso
di motivi molto seri?
La ricerca ci ha portato ad osservare che di solito, dopo il tentativo di suicidio,
l’adolescente stesso, per primo, denuncia la sproporzione tra la sua reazione e i motivi
apparenti. Non è dunque vero che tutti, ad eccezione del giovane, s’ingannano sul
carattere contingente delle situazioni scatenanti. Se le più piccole circostanze sono
sufficienti a scatenare un gesto auto-distruttivo, è perché questo è potenziale e il
soggetto non attende che l’occasione propizia per metterlo in atto, e non già perché
l’avvenimento esteriore lo susciti in maniera determinante. Si potrebbe quasi dire che
l’evento esterno è solo l’occasione, attesa e in certo modo anticipata, in cui il ragazzo
trova la conferma della sua infelice situazione personale, a cui non è possibile portare
altro rimedio. Considerati isolatamente gli avvenimenti possono non rivestire grande
importanza; è la loro sommatoria che conferisce un significato, nel senso che ad ogni
sbocco che si chiude, l’adolescente vede gradualmente cadere le soluzioni alternative e
venir meno le risorse. Ad un certo momento sorge una sorta d’impazienza, nulla è più
sopportabile perché nessun ritardo è più ammissibile: sembra quasi che il tempo vissuto
sia ristretto alle dimensioni dell’avvenimento immediato e prenda, allora, il carattere
dell’irrimediabile.
Non va dimenticato che nell’adolescenza vengono a mancare i motivi di sicurezza
infantili prima che si siano affermate le certezze dell’adulto.
Sotto l’aspetto psicopatologico, al suicidio possono essere attribuite diverse funzioni.
Molte volte esso sanziona semplicemente e drammaticamente la rottura di un dialogo: è
la risposta ad una realtà ostile, un’estrema protesta, un gesto punitivo o vendicativo nei
confronti di chi è stato (o si ritiene che possa essere) la causa dei propri mali.
Ma prima di rompere un dialogo si cerca di ristabilirlo. Uno degli aspetti essenziali del
tentativo di suicidio è il suo carattere di appello, generalmente inconscio: se dovessimo
rappresentare con un simbolo pittorico il tentativo di suicidio, si può rappresentare come
un Giano bifronte, con una faccia rivolta verso la distruzione e la morte, l’altra verso il
contatto umano e la vita. Non è dunque il bisogno d’incontro che è venuto meno, bensì
la capacità di realizzarlo. L’atto manifesta al tempo stesso la propria impotenza e il
desiderio di un rapporto.
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C’è sempre del resto una certa ambiguità del desiderio di morte. Ci si può chiedere se
colui che pone in atto una condotta suicidaria percepisca veramente la morte come fine
irrimediabile della vita; se si uccida per non più esistere o per esistere in altro modo. Il
suicidio insomma può essere soltanto una fuga dalla vita più che una ricerca della morte.
Il suicido può essere quindi visto dall’adolescente come l’unica affermazione ancora
possibile della propria personalità, l’unico modo per essere ancora un protagonista,
nonostante la condizione di fallimento e il sentimento d’impotenza.
Proprio per questo i pronunciamenti più recenti del Magistero della Chiesa, segnano un
affinamento nella valutazione morale del suicidio: benché il gesto continui ad essere
considerato oggettivamente grave e sbagliato, ne attenuano la responsabilità soggettiva.
L’attenuazione della responsabilità morale soggettiva, non toglie però il fatto che il
suicidio, specie se compiuto da un adolescente, resta una tragedia che esige un comune e
massimo impegno per essere superata. Tale impegno si concentra soprattutto nella
prevenzione. Poiché il suicidio dell’adolescente è strettamente collegato ad un
inadeguato sviluppo della personalità dell’individuo, la prevenzione si propone innanzi
tutto di promuovere la formazione delle nuove generazioni, che non potrà limitarsi al
semplice inserimento occupazionale o alla creazione di rapporti sociali stabili, ma alla
costruzione concreta dell’identità personale e sociale capace di affrontare il nuovo della
vita e pianificare abitualmente le proprie scelte. In tal senso possono avere grandissima
utilità la scuola, che ha sott’occhio ogni giorno preadolescenti ed adolescenti ed è in
grado, attraverso opportuni messaggi e sollecitazioni, di monitorare le condizioni di
rischio; i medici di base, perché numerosi studi hanno dimostrato che i giovani suicidi o
i loro familiari si sono rivolti al medico di famiglia nel periodo precedente il gesto
autolesivo; la comunità ecclesiale e in particolare la parrocchia come luoghi di
aggregazione giovanile e di trasmissione di modelli e di valori. Il lavoro di tali entità
darà i suoi frutti più efficaci se condotto, per quanto possibile, in équipe e l’opera di
prevenzione deve essere attuata tenendo presenti la personalità dell’adolescente e i
fattori di rischio e la loro effettiva influenza nel suo suicidio. I problemi sempre più
estesi del rischio e del disagio evolutivo richiedono che l’adolescente venga
maggiormente seguito e aiutato nel superare i suoi momenti critici, mentre
l’allungamento dell’arco di anni dei processi di identità dilata sempre più i tempi del
sostegno alla crescita e quindi della prevenzione.
Nell’ambito della prevenzione è importante che ogni minaccia da parte dell’adolescente
venga presa sul serio, anche se non deve essere enfatizzata, essendo sempre poco adatta,
e talvolta foriera di drammi, una risposta carica di angoscia. C’è spesso la tendenza da
parte dell’adulto a banalizzare il tentativo di suicidio dell’adolescente, per
l’inconsistenza dei motivi e per l’apparente valore ricattatorio. Ogni tentativo di suicidio
è l’espressione di una domanda d’amore, domanda di essere riconosciuto come persona,
compreso e desiderato. Tale domanda deve essere tempestivamente accolta, se non
vogliamo che l’adolescente cerchi di cambiare con il suicidio la propria situazione, non
potendo cambiare quella del mondo.
L’esigenza della formazione ad accogliere imprevisti, precarietà e cambiamento fa
entrare in crisi i modelli pedagogici tradizionali, che tendevano all’integrazione
dell’individuo nel patrimonio preesistente di conoscenze, valori e comportamenti. Ormai
l’aiuto educativo va rifocalizzato sulla condizione del ragazzo o della ragazza che
cercano il proprio posto in un mondo in continua evoluzione. Perciò, più che alla
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semplice proposta dei valori, gli interventi vanno orientati a incrementare le esperienze
dei valori da parte dell’adolescente perché egli li acquisisca ed interiorizzi in modo più
personale. Solo così potrà entrare in un clima di costruttività etica in cui saprà affrontare
il pluralismo culturale, la varietà delle agenzie formative e informative, restando
coerente con le proprie scelte e motivazioni.
Concludendo questa sintesi di un lavoro ben più ampio, possiamo affermare che la
tragedia del suicidio dell’adolescente, così strettamente collegata alla sua personalità e ai
diversi fattori esterni che su essa influiscono, pone molteplici problemi di ordine morale
ed educativo, ma pone anche l’esigenza ineludibile che le diverse istanze familiari,
sociali, scolastiche ed ecclesiali compiano uno sforzo comune per prevenirla, aiutando
l’adolescente a maturare la sua personalità, ancorché spesso ferita, perché sappia
cogliere o riacquistare il senso e il gusto della bellezza della vita.
Il problema del suicidio dei bambini e degli adolescenti rappresenta solo la punta di un
iceberg sotto il quale si cela un mondo, quello del disagio adolescenziale, ancora non del
tutto indagato dal punto di vista medico-scientifico e soprattutto scarsamente tutelato dal
sistema sanitario nazionale. A lanciare l’allarme, evidenziando la «necessità di
sensibilizzare le istituzioni a investire di più, presto e bene nella prevenzione, per
intercettare le situazioni problematiche prima che si cronicizzino» fino a sfociare nel
Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) o, peggio, nell’atto estremo, è un antesignano
nel campo della tutela della salute mentale degli under 18, lo psicoterapeuta Emilio
Bonaccorsi, direttore dell’Unità operativa complessa (Uoc) per la tutela dell’adolescenza
presso la Asl Roma E. Un servizio, racconta il Prof. Bonaccorsi che dal 1992 «si occupa
di prevenzione, cura e riabilitazione delle patologie psichiatriche in età giovanile,
arrivando oggi a operare capillarmente con un’equipe di circa 30 esperti su un territorio
abitato da oltre 500mila persone». Tutto è cominciato nel centro di Roma, quartiere
Prati, con un piccolo presidio territoriale utilizzato come rampa di lancio dai medici
verso le circa venti scuole presenti nell’area coperta dalla odierna Asl RmE, con
l’obiettivo primario di informare i giovani dell’esistenza di un servizio a loro
disposizione anche solo per ascoltare problematiche non direttamente riconducibili a
uno stato patologico più o meno grave. «Col tempo – racconta Bonaccorsi – siamo
diventati un punto di riferimento oltre che per i ragazzi, anche per i loro genitori e
soprattutto gli insegnanti, con molti dei quali c’è una proficua collaborazione nell’opera
di intercettazione delle situazioni a rischio». In concreto questo si è tradotto nell’arco dei
venti anni nella cura di quasi cinquemila giovani e nel “contatto” degli esperti con oltre
100mila persone. Man mano è stato possibile integrare al meglio l’azione “mobile” sul
campo con delle strutture fisse «come il centro diurno terapeutico che può ospitare dalle
8 alle 20 fino a 10 ragazzi e come la “residenza protetta” che serve a evitare quanto più
possibile il ricovero obbligatorio per i casi più gravi». E qui Bonaccorsi denuncia un
problema storico. I Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), cioè i reparti
psichiatrici per adulti collocati negli ospedali generali, sono gli unici luoghi dove può
essere effettuato il Tso in Italia, oltre ai servizi di neuropsichiatria infantile. Non
esistono cioè, salvo rari casi, luoghi deputati espressamente al ricovero di persone di età
compresa tra i 12 e i 18 anni, con tutto ciò che ne consegue in termini di assistenza e
cura. E di rischio. Inutile sottolineare cosa comporta «tenere un “esordio” psicotico
agitato in un reparto dove ci sono bimbi di 8 anni». Motivo in più, spiega, per puntare
sulla prevenzione organizzando una fitta rete specifica di assistenza agli adolescenti che
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interagisca con i servizi pubblici di neuropsichiatria infantile da un lato e con quelli per
l’età adulta dall’altro. Un modello efficace, del resto, c’è ed è rappresentato dall’Unità
operativa complessa Tutela adolescenza che Bonaccorsi dirige.
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CAPITOLO 3
IL CYBERBULLISMO E IL SUICIDIO DEGLI ADOLESCENTI22
3.1. Il bullismo
Il termine “bullismo” è la traduzione letterale della parola inglese “bullying”, usata in
letteratura per descrivere il fenomeno delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo.
Il bullismo viene definito come “un comportamento legato all’aggressività fisica,
verbale o psicologica: un'azione di prevaricazione, singola o di gruppo, che viene
esercitata in maniera continuativa, da parte di un singolo o di un gruppo di ragazzi
definiti bulli nei confronti di una vittima predestinata. Non si tratta dei normali conflitti
o litigi che avvengono tra studenti, ma di vere e proprie sopraffazioni preordinate, di
soprusi, che sistematicamente, con violenza fisica e psicologica, vengono reiteratamente
imposti su soggetti particolarmente deboli e incapaci di difendersi, portandoli spesso a
una condizione di soggezione, sofferenza psicologica, isolamento ed emarginazione”.
Esistono diversi tipi di bullismo e di prepotenze, ma quelli principali sono:
1. fisico: colpi, calci, pugni, sottrazione di oggetti personali;
2. verbale: prese in giro, scherno o dileggio (anche tramite le nuove forme di bullismo
per e-mail e telefono);
3. esclusione sociale: “Non puoi giocare con noi”;
4. indiretto: diffusione di calunnie, intimazione ai compagni di non giocare con
qualcuno (rilevato più frequentemente tra le bambine e ragazze).
Secondo il 10° rapporto Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza,
presentato da Eurispes e Telefono Azzurro risulta che 27 % degli intervistati ha subito
più volte nell’ultimo mese offese immotivate e provocazioni. Il 22 % denuncia che sono
state diffuse informazioni false sul proprio conto; sino al 15% che ha subito danni.
22 www.ilmattino.it/...suicida_cyberbullismo/notizie/284030.shtml
www.liberoquotidiano.it/.../Novara--Save-the-Children-su-14enne-suicida--contrastare-cyber-bullismo.html
cervelliamo.blogspot.com/.../vicenda-suicidio-carolina-il.html
t.safely.yahoo.com/suggerimenti-per-impedire-il-cyberbullismo-000039876.html
www.ilfattoquotidiano.it/2013/.../cyberbullismo-e...e.../465249/
www.avoicomunicare.it/.../cyberbullismo-e-adolescenza-tutta-colpa-dei-social-network
www.ilgruppoetico.it/1/bullismo_e_cyberbullismo_984329.html
www.reginamundi.info/rassegna-stampa.../rassegna-stampa.asp?
www.ilgiornale.it/.../cyberbullismo-e-sexting-tecnologie-cambiano-i-comportamenti-875511.html
spazio-psicologia.com/.../cyberbullismo-e-suicidio-adolescenziale/
www.psicologimagenta.it/news_dett.asp?id=127
www.citta-invisibile.it/int_rischi_altri_cyberbullismo.html www.personaedanno.it/.../cyber-bullismo-ne-e-vittima-il-10-degli-adolescenti-europei -
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In questi ultimi anni si assiste anche a forme di cyberbullismo, che si manifestano
attraverso l’ausilio di sms, mms, mail, foto, video, chiamate telefoniche; il
cyberbullismo rischia di essere una forma ben più grave di bullismo, perché la vittima in
questo caso verrà perseguitata dovunque vada dalla sua "fama" virtuale, ciò significa
che è anche molto più difficile fermare una maldicenza, proprio per il numero di persone
coinvolte e questo, inevitabilmente, ci fa riflettere sulla vittima e sui drammatici risvolti
che può provocare si di essa. Anche il razzismo trova nel cyberbullismo un alleato
perfetto, infatti, entrambi sono un'umiliazione volontaria nei confronti di qualcuno più
debole o semplicemente diverso dal branco e i siti internet, soprattutto fra i giovani,
possono diventare luoghi perfetti per ospitare offese e discorsi razzisti nei confronti di
compagni di scuola di origine straniera. Fra le caratteristiche della vittima di bullismo
troviamo la timidezza, unita all’assunzione di modalità comportamentali basate sulla
passività e sulla remissività e che indicherebbero l’incapacità di risposta ad eventuali
attacchi fisici o verbali. Le conseguenze a breve e a lungo termine del bullismo e delle
sue forme virtuali possono essere varie e preoccupanti, implicano infatti rischi
gravissimi e, nei casi peggiori, irreversibili, sia dal punto di vista fisico che psicologico.
Possono infatti comportare o no somatizzazioni, disturbi del sonno, problemi scolastici,
svalutazione del sé, depressione, comportamenti autodistruttivi/autolesivi, fino ad
arrivare alla conseguenza più grave che consiste nel suicidio. E' di pochi giorni fa la
notizia del suicidio di una ragazzina di soli 14 anni a Novara. Dietro la vicenda molte
voci e, forse, ancora poche certezze. La magistratura sta indagando sul caso, ma da
quello che trapela e da quello che i ragazzini, suoi coetanei mormorano, sui media e
davanti alle scuole, ci sarebbe lo spettro del cyberbullismo.
3.2. Differenze tra bullismo e cyberbullismo
Le caratteristiche, che lo differenziano dal bullismo, si possono riassumere nel seguente
modo:
 Anonimato del molestatore: in realtà, questo anonimato è illusorio: ogni
comunicazione elettronica lascia delle tracce. Però per la vittima è difficile risalire da
sola al molestatore.
 Difficile reperibilità: se il cyberbullismo avviene via SMS, messaggeria istantanea o
mail, o in un forum online privato, ad esempio, è più difficile reperirlo e rimediarvi.
 Indebolimento delle remore etiche: le due caratteristiche precedenti, abbinate con la
possibilità di essere "un'altra persona" online (vedi i giochi di ruolo), possono indebolire
le remore etiche: spesso la gente fa e dice online cose che non farebbe o direbbe nella
vita reale.
 Assenza di limiti spazio-temporali: mentre il bullismo tradizionale avviene di solito
in luoghi e momenti specifici (ad esempio in contesto scolastico), il cyberbullismo
investe la vittima ogni volta che si collega al mezzo elettronico utilizzato dal cyberbullo.
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3.3. Le tipologie di cyberbullismo23
Nancy Willard, Direttore del centro americano per l'utilizzo sicuro e responsabile di
Internet (Center for safe and responsible internet use), nel suo libro "Educator's Guide
to Cyberbullying" ha individuato differenti tipologie di cyberbullismo:
1. Flaming: spedizione di messaggi online offensivi e volgari indirizzati ad un singolo o
ad un gruppodi persone. Il caso tipico è rappresentato da insulti verbali all'interno di
forum di discussione on-line.
2. Molestie (Harassment): spedizione ripetuta e ossessiva di messaggi insultanti mirati a
ferire qualcuno.
3. Denigrazione (Put-downs): spedizione di mail, sms, post su blog a diversi soggetti
con lo scopo di danneggiare gratuitamente la reputazione di un singolo.
4. Sostituzione di persona (Masquerade): farsi passare per un'altra persona per
spediremessaggi o per pubblicare contenuti volgari e reprensibili.
5. Rivelazioni (Exposure): rendere pubbliche informazioni riguardanti la vita privata e
intima di una persona.
6. Inganno (Trickery): ottenere la fiducia di qualcuno con l'inganno per ottenere
confidenze, racconti privati, spesso imbarazzanti, al fine di renderli pubblici o
condividerli con un gruppo di persone.
7. Esclusione (Exclusion): esclusione intenzionale di un soggetto da un gruppo online
("lista di amici"), da una chat, da un game interattivo o da altri ambienti protetti da
password.
8. Cyber-persecuzione(cyberstalking): molestie e denigrazioni ripetute e minacciose
mirate a incutere paura che spesso sfocia in vero e proprio terrore per la propria
incolumità fisica.
9. Cyberbashing o happy slapping: comportamento criminale che ha inizio nella vita
reale (un individuo un gruppo di individui molestano fisicamente un soggetto mentre
altri riprendono l'aggressione con il videotelefonino) e che poi continua, con
caratteristiche diverse, on line: le immagini, pubblicate su internet e visualizzate da
utenti ai quali la rete offre, pur non avendo direttamente partecipato al fatto, occasione
di condivisione, possono essere, commentate e votate. Il video 'preferito' o ritenuto il più
'divertente' viene, addirittura, consigliato.
Niente più dell'umiliazione è in grado di annientare l'autostima, soprattutto se si tratta di
soggetti minori. Purtroppo, è estremamente difficile impedire o rimuovere le
informazioni offensive presenti su Internet, che di conseguenza sono visibili da milioni
di persone. La maggior parte di episodi di cyberbullismo si verifica in assenza degli
adulti, quindi genitori e insegnanti notano spesso soltanto la depressione e l'ansia che
23 Spitzberg, B. H., (2002), “Cyberstalking and the technologies of interpersonal terrorism”,
New Media and Society, 4, 71-92.
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colpiscono la vittima, ma non ne conoscono la causa. Questo danno a livello emotivo
può durare tutta la vita.
3.4. In cosa consiste la pericolosità del cyberbullismo24
 Amplificazione: il materiale online può essere decontestualizzato e condiviso con un
numero elevato di utenti, amplificando, di conseguenza, l'impatto che il bullismo
esercita su un individuo.
 Anonimato percepito: ritenendo di essere nell'anonimato e quindi di non andare
incontro a conseguenze, gli individui, inclusi anche i bambini, tendono a diventare più
maligni e a diffondere pettegolezzi più facilmente.
 Mancanza di relazioni: l'anonimato offerto dai mezzi di comunicazione digitale rende
il problema più grave poiché spesso le azioni sono separate dalle conseguenze.
 Decisioni istintive: i più giovani non si soffermano a pensare attentamente e a
riflettere su ciò che stanno per dire.
 Legame con il sexting: il cyberbullismo diventa ancora più complicato se unito al
sexting (invio di foto a sfondo sessuale esplicito).
 Tentativo di suicidio fra gli adolescenti: il cyberbullismo, come è già accaduto, può
portare gli adolescenti al suicidio. Il verificarsi di episodi di Cyberbullismo è stato
spesse volte positivamente correlato con gli aumentati tassi di suicidio adolescenziale.
Una recente ricerca ha cercato di studiare meglio il fenomeno del suicidio
adolescenziale e se effettivamente l’associazione cyberbullismo-suicidio adolescenziale
sia statisticamente significativa quanto si crede. Ai fini della ricerca, guidata da Wood e
recentemente presentata ad un convegno organizzato dall’Associazione Americana di
Pediatria (AAP), sono stati selezionati su Internet vari rapporti di suicidi adolescenziali
in cui è menzionata la presenza di episodi di Cyberbullismo. Sono state inoltre raccolte
informazioni demografiche sui protagonisti dei rapporti e sono state analizzate
l’incidenza di malattia mentale pre-esistente negli adolescenti, la co-presenza di altre
forme di bullismo e le caratteristiche dei mezzi elettronici associati a ciascun caso di
suicidio.Lo studio ha identificato in totale 41 casi di suicidio (24 femmine, 17 maschi)
avvenuti in un’ età compresa tra i 13 e i 18 anni, negli Stati Uniti, in Canada, nel Regno
Unito e in Australia. Tale studio ha fatto luce su diversi aspetti del suicidio
adolescenziale: il 24% dei ragazzi è stato vittima di bullismo omofobico (di cui solo il
12% è identificato come realmente omosessuale). L’incidenza dei casi di suicidio,
inoltre, è notevolmente aumentata nel corso del tempo: il 56% dei suicidi si è verificato
dal 2003 al 2010, il restante 44% si è verificato nel breve periodo dal gennaio 2011
all’aprile 2012. Secondo tale studio, il 78% degli adolescenti che hanno commesso
suicidio sono stati vittime di bullismo sia a scuola che on-line, mentre solo il 17% sono
stati esclusivamente vittime di cyberbullismo. Gli autori dello studio hanno così
concluso che il Cyberbullismo è un fattore presente in alcuni suicidi, ma quasi sempre ci
24 Spitzberg, B. H., (2002), “Cyberstalking and the technologies of interpersonal terrorism”, New Media and Society, 4, 71-92.
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sono altri fattori come la malattia mentale o la presenza di altre forme di bullismo, come
quello faccia a faccia. Il Cyberbullismo in genere rientra nel contesto del normale
bullismo. Oltre ad aver dimostrato la scarsa correlazione, sostenuta invece da tanti, tra
cyber bullismo e suicidio adolescenziale, lo studio in questione ha anche il merito di
aver evidenziato le modalità più frequenti in cui avviene il Cyberbullismo: Formspring e
Facebook specificamente sono i mezzi più utilizzati per molestare i coetanei, così come
sms ed mms.
Conoscere il nemico è il primo passo per poterlo affrontare e, grazie anche a questa
ricerca che ha fatto luce su numerosi aspetti del suicidio adolescenziale, potremmo avere
in mano strumenti preziosi per capire cosa porta gli adolescenti a un atto così disperato.
Se da una parte i social network accorciano i tempi per le amicizie come anche
accorciano le distanze nei vari rapporti, il bullismo come la parola stessa definisce
sembra un grosso problema che affligge i giovani dell’era di Facebook e Twitter. La
conferma giunge dagli ultimi accadimenti di cronaca che hanno visto una serie
importante di suicidi giovanili come da tempo non accadeva. Carolina Picchio, Amanda
Todd, Andrea, il ragazzo dai pantaloni rosa, Tim Ribberink fino aRehtaeh Parsons,
adolescente canadese che si è impiccata in bagno domenica 7 aprile nella sua casa in
Nova Scotia.Lungo, triste e drammatico l’elenco delle vittime del cyberbullismo. Il
bullismo, anonimo e vigliacco, che si mostra con molestie, insulti e minacce scritte
tramite il Web, tramite i Social Network.
Amanda Todd il primo caso. 15 anni. Un seno mostrato su internet ad uno sconosciuto,
una bravata da adolescente. Poi la foto che si diffonde su Facebook, diventa virale, viene
pubblicata sulla bacheca di tutti gli amici. Ogni condivisione una pugnalata alla schiena.
Fino al suicidio. Amanda è morta per colpa di un cyber-bullo: un uomo conosciuto su
Facebook,come riportano i media, col quale aveva intrapreso un rapporto speciale,
anche se solo virtuale. La ragazzina, cedendo alle sue lusinghe, ha messo in rete una
foto del suo seno. Poco dopo però, lui ha iniziato a minacciarla di diffondere sul web le
immagini di lei in topless, se Amanda non avesse accettato di esibirsi in uno
spettacolino hard. Dalle minacce è passato ai fatti, e le foto sono finite sul social
network, visibili da chiunque. La vita della ragazzina è quindi diventata sempre più
difficile, tanto che i genitori si convincono a farle cambiare scuola e città. La richiesta
d'aiuto. Il 7 settembre lancia un disperato sos attraverso un video su YouTube, una serie
di cartelli scritti a mano nei quali racconta la sua storia e chiede di essere lasciata in
pace. Ma non è servito a farla uscire dalla spirale verso l'abisso nella quale è finita, fatta
di ansia, attacchi di panico, depressione, alcool e droghe. Dopo il trasferimento a
Coquitlam, sempre in Canada, la situazione era infatti cambiata in peggio: Amanda ha
conosciuto un altro uomo, più grande di lei e già fidanzato, che ha iniziato a flirtare con
lei. La partner di lui però l'ha cercata, e dopo averla raggiunta fuori da scuola l'ha spinta
a terra e ha iniziato a picchiarla.
“Cari mamma e papà, tutta la mia vita sono stato deriso, preso in giro, menato ed
escluso dagli altri. Voi siete meravigliosi. Spero non vi arrabbierete. Fino a quando non
ci incontreremo di nuovo”. 14 novembre 2012. Questo l’ultimo messaggio ai genitori di
Tim Ribberink ventenne olandese, prima di suicidarsi. I genitori decidono di pubblicare
il messaggio, l’ultima disperata lettera sui giornali per combattere i bulli, per fermare la
‘mattanza’. Voleva diventare un insegnante di storia. Gli amici lo prendevano in giro sul
Web: “Sono un perdente e un omosessuale”.
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Il 22 novembre 2012 il Corriere della Sera racconta la storia di un quindicenne di Roma,
un ragazzino che non aveva paura ad indossare jeans rosa e smalto, “il ragazzo dai
pantaloni rosa”. La storia ha commosso l’Italia. E’ stato il padre a ritrovare il suo corpo
appeso alle scale. Anche il fratello più piccolo era in casa quando è successo. La sua
morte però rimane avvolta ancora dal mistero. Andrea veniva preso in giro per i suoi
vestiti, perché era gay. Ma ancora non è chiaro cosa abbia spinto Andrea al suicidio.
“Motivi intimi” forse. Bullismo continua a sostenere qualcun altro.
Il 4 gennaio 2013. Carolina Picchio, studentessa delll’Itc “Pascal” di Romentino,
piccolo centro di Novara, decide di farla finita e si butta dal balcone del terzo piano
dell’abitazione del padre. Gli amici, disperati, riversano la loro rabbia su Facebook e
Twitter, un atto d’accusa contro i bulli, anche compagni di scuola, che avrebbero più
volte insultato Carolina. Nessuna lettera d’addio ma “Carolina soffriva” affermano gli
amici. Soffriva perché presa in giro su Facebook. Sul social network in blu le cattiverie
maggiori venivano da un ex fidanzatino protagonista di alcuni messaggi ritenuti acidi.
Inoltre apparve in rete un video in cui dei ragazzi prendevano in giro la giovane,
registrato durante una festa a cui aveva partecipato Carolina lo scorso 4 gennaio, ovvero
poche ore prima di morire”. In questi giorni l’ultimo caso. Rehtaeh Parsons, 17 anni, si è
impiccata in bagno domenica 7 aprile nella sua casa in Nova Scotia, Canada. Era
depressa e disperata dopo esser stata violentata durante una festa da un gruppo di
coetanei quando aveva 15 anni. Umiliata dopo che le foto della violenza sessuale
vengono pubblicate su Facebook. Un click, una condivisione per trasformare la vita in
un incubo. Prima viene emarginata, poi le chiamate durante le quali veniva offesa
pesantemente. La denuncia, inutile, alla polizia, poi il suicidio. In ogni suicidio una
sconfitta, una nuova sconfitta per Facebook e il Web. Nessuna illusione. Il Web non è
meglio della realtà che ci circonda. Holly Grogan, 15 anni, di Cheltenham (Regno
Unito), si è gettata da un ponte perché depressa: per mesi è stata perseguitata su
Facebook da un gruppo di suoi coetanei con messaggi denigratori, offensivi e derisori.
Gli sfottò tra adolescenti, purtroppo, non sono cosa nuova. Più o meno gravi che
appaiano agli adulti, possono avere e spesso hanno un impatto devastante su chi li
subisce, in primis per un fattore anagrafico. L’adolescenza, ormai lo sanno tutti, è l’età
difficile per antonomasia, quella in cui l’equilibrio con se stessi è così fragile, così
labile, che basta un nonnulla per farlo crollare. L’età in cui non si sa ancora
precisamente come si è fatti, cosa piace e cosa no, l’età in cui tutto ciò che conta sembra
l’essere accettati dal gruppo dei pari, dai coetanei, pena l’isolamento. La fragilità dei
giovani non è qualcosa di impossibile da gestire. Se alla sua evidenza gli adulti si
arrendono come impotenti, ogni minima perturbazione, ogni minimo ostacolo, può
diventare la goccia che fa traboccare il vaso e tutti noi sappiamo, per esperienza diretta o
indiretta, quanto la vita sia colma di questi ostacoli, di queste difficoltà e quanto stia a
noi imparare ad affrontarle al meglio, sviluppare quella che gli psicologi chiamano
resilienza, cioè la capacità, diversa per ciascuno di noi, di affrontare le avversità della
vita e addirittura di uscirne rafforzati.
E’ chiaro come gli adulti abbiano nei confronti dei ragazzi l’obbligo, educativo e
morale, di aiutarli a sviluppare al meglio le proprie risorse per affrontare la vita. Non
possiamo trincerarci dietro ad una società sempre più spesso malata, dietro ai bulletti
della scuola, quando ci troviamo di fronte all’estrema fragilità dei nostri figli.
L’impotenza che si avverte nelle parole della madre del ragazzo romano (“l’hanno
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crocifisso!”) è tanto evidente da far rabbrividire. Possibile non ci fosse nulla da fare?
Possibile che questo ragazzetto fosse totalmente in balia delle debolezze tipiche della
sue età e che nulla si potesse per impedire che dei volgari sfottò lo uccidessero?
Il rischio che si corre dando di fatti di cronaca come questi una visione troppo
semplicistica è quello di distogliere lo sguardo dalle risorse concrete che ci
permetterebbero di difendere i nostri adolescenti dalla cattiveria della vita. I ragazzi
vanno temprati, preparati e, in questo modo, protetti, difesi non solo da un mondo
sempre più crudo e cinico, ma anche da loro stessi, dalle loro fragilità, dalle loro
debolezze. Titoli di giornali come “l’ha ucciso la rete!” forse ci faranno sentire un po’
meno responsabili, come se non ci potessimo fare nulla, come se a sopravvivere fosse
solo il più forte, come nella jungla, quando invece non è così. Quando attribuiamo tutte
le responsabilità del caso ad un contesto sociale, mentiamo a noi stessi : siamo noi, gli
adulti, in primis, a dover difendere prima i nostri bambini e poi i nostri adolescenti. E
possiamo farlo domandando, osservandoli, chiedendoci se sappiano come affrontare
certe avversità. Solo così possiamo renderli più forti e solo così, il piccolo bullo, anche
lui nostro figlio, anche lui nostra responsabilità, non avrà più un potere tale da togliere la
vita ad un coetaneo. Un coetaneo con cui, il giovane bullo certo una cosa in comune : la
paura tipica di un’età difficile.
Alcuni studiosi americani guardano l'altra faccia della medaglia e sostengono che i
Social Network potrebbero essere invece impiegati per prevenire il suicidio tra i giovani.
Su Facebook, infatti, molti adolescenti comunicano non solo i propri stati d’umore, ma
anche le paure, il disagio esistenziale, e in alcuni casi si tratta di veri e propri campanelli
d’allarme.
Secondo i dati diffusi nel convegno «Cyberbullismo e rischio devianza», organizzato
dal ministero dell’Istruzione, uno studente italiano su quattro compie o subisce atti di
prevaricazione via web: il 26% di ragazzi ne è vittima, mentre il 23,5% si definirebbe
cyberbullo. La ricerca condotta su 2.419 adolescenti dall’Osservatorio Open Eyes, di cui
fanno parte oltre al Miur anche l’associazione ChiamaMilano, l’Istituto Niccolò
Machiavelli, il dipartimento di Psicologia dell’Università di Napoli, arriva a stilare una
top-ten delle persecuzioni online.
Anche gli Stati Uniti si stanno interrogando sul tragico suicidio di un adolescente
omosessuale. Il 18enne Tyler Clementi, violinista prodigio della prestigiosa Rutgers
University, è morto buttandosi dal George Washington Bridge. Il tutto perché due suoi
‘amici’ hanno messo in rete un video girato di nascosto, in cui il giovane faceva sesso
con un uomo, esponendolo così agli sberleffi e agli insulti omofobi dei compagni di
corso e di tutto l’ateneo. Non contenti, la coppia ha commentato via Twitter la
performance sessuale del timido e riservato Tyler, che non ha saputo reggere all’urto
violentissimo della vergogna e dell’umiliazione pubblica, decidendo così di fare un
ultimo volo, per oltre 100 metri. I responsabili di questa ‘bravata’, sono stati denunciati
per violazione della privacy, ma uno dei due è anche accusato di aver tentato di mettere
su Internet la seconda parte di questo piccante video amatoriale. Proprio da un suo
commento su Twitter sarebbe iniziata questa spirale inarrestabile di voyeurismo e
bullismo: “Il mio compagno di stanza ha chiesto di rimanere solo fino a mezzanotte.
Accendo la webcam e vado da Molly. Si vede con un tizio”. Subito dopo, i due
prepotenti hanno impietosamente inviato il video agli amici di Tyler e al resto del corso
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tramite il programma Ichat, e in pochi minuti tutta l’università sapeva delle gesta
erotiche della matricola. Secondo la legge dello stato del New Jersey, raccogliere o
visionare immagini di nudo o di sesso relativi ad altri individui senza il consenso di
questi è considerato reato, ma molto più grave è il crimine di trasmettere o distribuire
materiale, immagini o video: il giovane studente e la sua complice rischiano ora fino a
cinque anni di reclusione. Poco prima di suicidarsi, a poche ore dalla comparsa del
video tape, lo studioso e promettente Tyler aveva lasciato uno straziante biglietto di
addio: “Mi sto buttando dal ponte. Scusate”. Di lui restano soltanto il suo portafoglio,
abbandonato sul quel ponte dove ha lasciato anche le sue speranze per il futuro e la
paura che provava verso gli altri.
Chi, in questi casi, deve attivare i dovuti controlli? I genitori degli sconsiderati
colpevoli? La famiglia del minore che naviga indisturbato su internet? Il social network
stesso, tenuto a risarcire i danni per le condotte dei propri utenti?
Il Garante della Privacy ha scritto una lettera al ministro Profumo, ricordando i recenti
casi di adolescenti che hanno abbracciato il suicidio per essersi sentiti violati nella loro
dignità da insulti e offese laceranti. C’è bisogno di affrontare il tema dell’uso
responsabile dei social network, continua nella lettera l’Authority, mentre sollecita le
scuole affinché trattino il tema della tutela della riservatezza e della dignità delle
persone nel mondo online.
“È aiutandoli a conoscere realmente gli strumenti che abitualmente usano, ma di cui
spesso ignorano i pericoli, che potremmo garantire loro un’autentica capacità di
costruire se stessi, di sviluppare in libertà e armonia la loro identità’‘.
Oggi il 34% del bullismo avviene online ed è definito cyberbullismo. Questo termine
indica atti di bullismo e di molestia effettuati attraverso mezzi elettronici come l’e-mail,
la messagistica istantanea, i blog, i telefoni cellulari, i cercapersone e i siti web. Si
prende di mira chi è ritenuto “diverso“, solitamente per aspetto estetico, timidezza o
orientamento sessuale. L’esito più diffuso di tali molestie è l’isolamento, che implica
seri danni psicologici, come la depressione o, nei casi peggiori, il suicidio. Levar la
mano su di sé, cosi veniva tradotto in Italia uno degli ultimi libri (1999) dell’intellettuale
austriaco Jean Amery (passato anche attraverso l'esperienza dei campi di
concentramento), che affrontava il tema della morte volontaria. Recenti notizie di
cronaca hanno portato di nuovo alla ribalta il fenomeno della depressione e delle
condotte autolesionistiche tra gli adolescenti.
La novità è che i tentativi di suicidio sono stati messi in collegamento più del passato
con i nuovi strumenti virtuali di comunicazione, in particolare le chat e i social network
come facebook e twitter. Questi spazi esistenti nella rete hanno reso ancora più potenti
ed incontrollabili le dinamiche di esclusione e di etichettamento spesso presenti nei
gruppi dei ragazzi, perché la cassa di risonanza di un giudizio negativo o di una
semplice insinuazione nei confronti di un compagno è maggiore in questo caso e il
pubblico che ne viene a conoscenza molto più vasto. Frequentemente questi fenomeni di
bullismo virtuale vengono compiuti attraverso la circolazione di voci fasulle, l’uso di
fotomontaggi o l’invio di post malevoli. La vittima di un atto di bullismo virtuale si può
sentire ancora più sola e disarmata di fronte ad accuse, calunnie e critiche spiacevoli e
questo contribuisce ad alimentare i sentimenti di fragilità e di scarsa autostima già
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particolarmente intensi in un’età di passaggio come quella adolescenziale e
preadolescenziale. In particolare per le ragazze atti innocui come quelli di condividere o
postare una foto o un video in pose ammiccanti o provocanti possono essere fraintesi ed
usati per diffondere immagini squalificanti. Nel web sembra che gli stereotipi di genere
assumano forme ancora più rigide e senza sfumature così il ragazzo che appare sensibile
e premuroso verso gli altri diventa nei social network automaticamente un omosessuale
mentre la ragazza più disponibile ad entrare in relazione con l’altro sesso diventa
direttamente una poco di buono. Per alcuni ragazzi più fragili o che stanno passando
semplicemente un periodo di maggiori difficoltà il tentativo di suicidio rappresenta un
estremo tentativo di comunicazione, di uscire da una situazione ingestibile ed
intollerabile per esprimere ed urlare al mondo intero piuttosto che alla cerchia dei propri
familiari e compagni la propria solitudine, rabbia e disperazione. L’atteggiamento degli
adulti più vicini e dei coetanei della vittima è fondamentale perché possono rompere il
muro di silenzio e di indifferenza che spesso circonda i fenomeni di stigmatizzazione e
di bullismo che si verificano tra i ragazzi dimostrandosi solidali con chi subisce gli
attacchi e prestando attenzione, non sottovalutando, quanto sta accadendo. Chiara infatti
si era trovata al centro di un caso di sexting: era stata filmata con il telefonino ed era
finita in rete su YouTube. Quello dell’uso degli mms e delle foto postate sul web è il
classico esempio in cui la capacità dei genitori di intervenire sulla vittimizzazione dei
figli è molto limitata a causa del “digital divide” o incompetenza d’uso del computer.
Ecco perché vale la pena di ripercorre la strada dei consigli ai genitori e di dare alcune
indicazioni per evitare di trovarsi a subire oltre all’affronto patito dai propri figli, anche
lo smacco del sentirsi genitori impotenti ed incompetenti. Non è utile regalare telefonini
di ultima generazione ai propri figli se poi finiscono per essere oggetto attraverso il
quale offendere o molestare. Così com’è importante che i genitori sappiano come viene
utilizzato il PC dal proprio figlio. Occorre riflettere anche sul fatto che le vittime,
soprattutto se femmine, spinte dalla visione del mondo al femminile offerta dai mass
media finiscono spesso per essere lusingate dal fatto che il loro corpo possa apparire su
Facebook o su Twitter, salvo poi capire l’errore e innescare meccanismi o di tipo
distruttivo o atteggiamenti di auto colpevolizzazione. Sentirsi indegne è l’unico modo
per queste ragazze e per certi ragazzi per attenuare il senso di vergogna e il dolore che
spesso accompagnano le vessazioni tramite la rete. Molte ragazze bullizzate con
frequenza, se l’adulto non interviene, finiscono per convincersi che meritano tutto ciò
che subiscono. È un meccanismo di sopravvivenza che solo in parte aiuta la vittima
soprattutto se alla violenza subita segue una delle consegne più tipiche del bullismo “: il
silenzio. Questa consegna nel caso di Chiara è durata anni e quello del sexting che l’ha
riguardata un fenomeno collaterale al bullismo subito non nel mondo virtuale ma reale .
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3.5. Come cercare di tutelare i minori contro il cyberbullismo25
Spetta ai genitori quindi, oltre che vigilare sull’utilizzo del computer, saper leggere
anche le manifestazioni tipiche di chi è vittima a scuola. Sarebbe utile pertanto che si
seguano queste poche regole per capire se il proprio figlio è una vittima sia nel mondo
reale che virtuale, senza pretendere ed aspettare che lui o lei, a fronte dei casi più gravi,
trovino la forza e il coraggio di parlare.
- Osservate con attenzione i cambiamenti repentini nell’andamento scolastico,
“spiate”… se necessario la frequenza delle telefonate e valutate se vostro figlio/a si isola
e non frequenta più le stesse compagnie.
- Controllate il suo PC, evitate che lo tengano nella propria stanza, ponete delle chiavi
d’accesso e filtri che non consentano di frequentare certi siti.
- Insospettitevi se vi chiede più danaro del solito, il danaro è la merce di scambio e il
mezzo di ricatto preferito dai bulli e cyberbulli.
- Non trascurate i cambiamenti di umore attribuendoli sempre al periodo adolescenziale
e quando il mattino si lamenta un po’ troppo spesso per i mal di pancia, evitate di
attribuirne sistematicamente la causa alla paura delle interrogazioni.
- Chiedete che vi venga reso conto di eventuali lividi o graffi o strappi sul grembiule,
vestiti o di scarabocchi e strappi sui quaderni.
- Valutate se rispetto al solito vostro figlio torna nervoso e scontento della scuola ed ha
improvvisi risvegli notturni, scoppi di pianto o ripete con stizza alle vostre domande
“non è successo niente”.
- Cercate di capire se e perché è uscito dal giro degli invitati ai compleanni o è escluso
dalle uscite per il cinema e passa ore intere di fronte al PC.
- Ma soprattutto seguite le regole auree che vi dovrebbero sempre aiutare a stare vicini
ai vostri figli: 1) stabilite un clima di fiducia, di dialogo aperto ed un clima familiare
caldo e disposto all’ascolto; 2) ascoltatelo anche se siete stanchi e prendete in seria
considerazione le “sue” paure; 3) non pretendete che impari a cavarsela sempre da solo
perché se no potrebbe soccombere; 5) prendete molto seriamente le “cose” che vi dice
evitando di etichettarle come ragazzate; 6) create uno spazio “fisico” perché possa
raccontare con in suoi tempi e con le sue parole anche quelle che vi sembrano fesserie;
7) bandite dal vostro vocabolario espressioni tipo: ma sei sicuro… dai non posso
crederci!
Parole violente, minacce, insulti pesanti digitati in modo convulso e irresponsabile.
Rabbia vomitata e abbandonata, spesso in forma anonima, alla rete, ma che arriva forte e
chiara al destinatario che si trova da solo a fronteggiare attacchi multipli, organizzati
esclusivamente secondo le regole e i numeri del web. Tutto questo è cyberbullismo, un
fenomeno che è già da tempo emergenza negli Stati Uniti e in Europa e che più
lentamente ha guadagnato terreno anche in Italia.
25 Spitzberg, B. H., (2002), “Cyberstalking and the technologies of interpersonal terrorism”,
New Media and Society, 4, 71-92.
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Tra le caratteristiche specifiche di questa forma di violenza, sopraffazione e
discriminazione effettuata utilizzando le nuove tecnologie e i new media, segnaliamo:
 Anonimato e difficile reperibilità dei responsabili di cyberbullismo: anonimato
perlopiù illusorio perché qualunque azione sul web lascia tracce, ma sicuramente
possibilità di non essere facilmente identificabili e rintracciabili.
 Indebolimento delle remore etiche: la difficoltà ad essere rintracciati e la possibilità
di agire attraverso identità fake indeboliscono le remore etiche.
 Assenza di limiti spaziotemporali: mentre il bullismo tradizionale avviene di solito in
luoghi e momenti specifici (la scuola), il cyberbullismo colpisce la vittima ogni volta
che si questa è online.
I numeri del cyberbullismo in Italia. Alcune indicazioni sulle proporzioni del fenomeno
ci arrivano dall’Osservatorio “Open eyes” del Miur: sembra che i cyberbulli siano più
maschi che femmine, che operino soprattutto attraverso invio di messaggi a contenuto
violento, denigrazione e offesa attraverso la rete, utilizzo di identità fittizie per
minacciare o discriminare. Su un campione di 2.419 ragazzi intervistati, il 23,5 % dice
di praticato atti di cyberbullismo e il 26% di averlo subito. Se le famiglie spaventate
sono più propense a responsabilizzare i social network e le nuove tecnologie e a
intervenire censurandone l'utilizzo, tanto il mondo della scuola quanto quello della
comunicazione sono consapevoli dell'ampiezza e complessità del fenomeno, che ha una
rilevanza psicologica quanto culturale e sociale.
Queste alcune delle parole chiave della prevenzione e dell’intervento: imparare a
riconoscere il fenomeno e le sue manifestazioni; educare bambini e adolescenti a un uso
più consapevole e responsabile della rete e dei social network (segnaliamo, tra i tanti
attivi online, il), con attenzione particolare ai temi dell’identità, del rispetto dell’altro,
della dignità e dell’integrazione; incentivare la condivisione e il racconto degli episodi
per evitare l’isolamento delle vittime; garantire reti di supporto, anche psicologico come
il progetto “Navigare Sicuri”, capaci di farsi carico del problema; creare nelle scuole e
fuori luoghi di dialogo e confronto nei quali del fenomeno, e delle sue estreme
conseguenze, giovani e adulti parlino insieme. Il cyberbullismo è un fenomeno
relativamente recente ma in costante crescita. È un comportamento che mira a
danneggiare emotivamente altre persone, attraverso veri e propri atti di crudeltà. Una
delle molestie più frequenti consiste nel tempestare di commenti a carattere offensivo,
minaccioso o anche a sfondo sessuale la vittima, soprattutto sui social network come
Facebook o Twitter. Questo è quello che emerge dalla ricerca “I ragazzi e il
cyberbullismo”, realizzata da Ipsos per Save The Children lo scorso febbraio, nella
quale i social network sono al primo posto, per il 61 per cento dei ragazzi intervistati,
come luogo elettivo per il cyberbullismo. I cyberbulli aggrediscono i coetanei
soprattutto attraverso la diffusione di foto e immagini offensive e calunniose (59 per
cento) o attraverso la creazione di veri e propri gruppi chiusi “contro” la vittima
designata (57 per cento). Il cyberbullismo viene subito dal 67 per cento degli adolescenti
intervistati per l’aspetto fisico, dal 56 per cento per l’orientamento sessuale, dal 43 per
cento perché stranieri. In alcuni casi si è subito cyberbullismo perché disabili. Sembra
una lotta contro la diversità, in tutte le sue svariate accezioni.
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La ricerca di “Save The Children” è stata diffusa alla vigilia del “Safer Internet Day” (5
febbraio 2013), la giornata istituita dalla Commissione Europea per la promozione di un
utilizzo sicuro e responsabile dei nuovi media tra i più giovani. L’indagine è stata
realizzata lo scorso gennaio attraverso 810 interviste con questionari compilati on line a
ragazzini di età compresa fra 12 e 17 anni. Un altro dato inquietante emerso dal
sondaggio è che il cyberbullismo, riconosciuto dagli adolescenti come la loro maggiore
minaccia attuale, nel 57 per cento dei casi esaminati ha portato a serissime conseguenze
psicologiche, come la depressione e l’isolamento. Inoltre, per l’80 per cento dei
ragazzini intervistati, la scuola rappresenta il luogo ideale di nascita del bullismo, sia
reale che virtuale. I ragazzi trascorrono gran parte del loro tempo fra i banchi di scuola
ed è lì che sperimentano una buona fetta della loro socialità. Il ruolo della scuola è di
primaria importanza per valutare e implementare interventi mirati contro il dilagare del
cyberbullismo. Il ruolo degli insegnanti dovrebbe essere quello di intercettare e leggere
ciò che accade alle dinamiche relazionali all'interno della scuola stessa.
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CAPITOLO 4
L'INFLUENZA DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA SULLE
CONDOTTE SUICIDARIE26
Molte furono le morti per suicidio che si sono succedute con un ritmo agghiacciante a
partire da quelle di tre ragazzi di un paesino vicino a Merano, in Alto Adige. Era la fine
dell'agosto del 1990, tutto era accaduto la notte di un venerdì. I tre, amici da lunga data,
avevano una ventina d'anni ed erano sempre vissuti in quel paese; stesse scuole, stesso
bar, stessa vita tutti i giorni. Avevano un lavoro e non gli mancavano i soldi per
divertirsi un po'; tutto dunque normale, come la vita di migliaia di loro coetanei. Poi, una
sera, la decisione di andare fino in fondo a quella che fino ad allora era stata
probabilmente solo una battuta scambiata tra amici, una sbruffonata buttata lì dopo
qualche bicchiere di birra per il gusto di sbalordire o di ravvivare una serata noiosa.
Quella notte, però, non andò così.
I tre, lasciata la solita compagnia, prendono la macchina ed escono appena dal paese, si
fermano ed eseguono un rituale che ha tutta l'aria di essere stato già molte volte
discusso: infilano un'estremità di un tubo di plastica allo scappamento del motore, l'altra
dentro un finestrino; accendono il motore; bevono le birre che si sono portati; aspettano
la morte abbandonati nella loro musica preferita. La mattina seguente li trovano redini
sui sedili, come se si fossero addormentati dopo una nottata di baldoria.
Un po' per la drammaticità di quelle morti, un po' perché nel mese di agosto gli spazi nei
notiziari sono sempre abbondanti, al triplice suicidio viene data un'evidenza
sensazionale: prime pagine dei quotidiani, radio e telegiornali offrono con dovizia di
particolari quelle povere vite per calamitare l'attenzione di un'opinione pubblica
distratta dagli ozi estivi. Seppure qualcosa di quella drammatica sera sembra avere
lasciato il segno: da quel giorno una lunga serie di tragiche notizie analoghe sembrano
rincorrersi in tutto il paese. A poche ore di distanza, altri uomini e altre donne, in gran
parte giovani, scelgono di togliersi la vita con la stessa modalità descritta dai giornali e
dalla televisione. La lista di suicidi si allunga di giorno in giorno, di settimana in
settimana; sembra non voler trovare una fine. Giornalisti, direttori di reti televisive e
quotidiani iniziano a interrogarsi sulla natura di un fenomeno tanto inusitato e
inquietante: queste morti non sono forse, almeno in parte, indotte dal clamore cui essi
stessi hanno contribuito riportando la descrizione del suicidio dei ragazzi di Merano e di
tutti quelli che li hanno seguiti? Esiste un nesso causale tra il modo con il quale si offre e
si presenta la notizia di un suicidio e il suo diffondersi tra chi ne è informato? Insomma,
una decisione tanto terrificante come quella di togliersi la vita può essere influenzata dai
mezzi di comunicazione di massa? A queste domande vengono date risposte diverse:
alcuni decidono di interrompere l'informazione sulla catena di suicidi, altri preferiscono
continuare a parlarne, magari richiedendo l'opinione di esperti del settore, altri infine
scelgono di limitarsi a darne notizie brevi, senza risalto.
26 Paolo Crepet, (1993) “Le dimensioni del vuoto. I giovani e il suicidio”, Feltrinelli Editore, Milano.
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A un paio di mesi di distanza da quella tragica notte di Merano, il fenomeno
gradualmente si spegne e con esso il clamore, i dubbi dei giornalisti e i commenti degli
esperti. Oggi sappiamo che buona parte di quelle polemiche non era mal posta.
Alcuni dati statistici testimoniano che qualche perplessità sul comportamento dei mezzi
di comunicazione in quella circostanza era pur giustificata: infatti è emerso che, tra il
1990 e il 1991, la crescita del numero delle morti per suicidio in Italia è quasi
interamente addebitabile alle morti compiute con l'introduzione dei gas di scarico
nell'abitacolo dell'automobile (questo specifico aumento ha superato il 150 per cento) e
che la gran parte di tali suicidi sono stati compiuti da persone sotto i trent'anni.
Quanto tutto ciò giustifichi l'ipotesi di una relazione tra la diffusione delle condotte
autolesionistiche dei giovani e il contenuto delle notizie, da una parte, e la modalità con
cui tali notizie vengono date, dall'altra, è stato l'oggetto di uno dei più interessanti
contributi della ricerca suicidologica recentemente proposta a livello internazionale.
Gia' Durkheim27 parlava di concetto di imitazione in un periodo storico in cui i mezzi di
comunicazione di massa non erano così diffusi come oggi. Riteneva che i giovani,
specialmente quelli più impressionabili, corressero il rischio di essere facilmente
coinvolti, manipolati e indotti a imitare ciò che era descritto da un romanzo, un racconto
o in un giornale. Tale convinzione assunse i caratteri di vero e proprio panico collettivo
quando, a seguito della pubblicazione del romanzo di Wolfgang Goethe I dolori del
giovane Werther, si diffuse in Europa la voce che molti giovani alla lettura della
drammatica fine del protagonista ne avevano insanamente imitato il gesto disperato.
Tale fu l'impressione che in molte città del continente il libro fu addirittura messo al
bando.
Anche se è evidente che le probabilità di imitare il messaggio veicolato dai mezzi di
comunicazione di massa sono enormemente più alte da quando questi hanno invaso la
nostra vita quotidiana, tuttavia il concetto di imitazione è dunque noto da più di un
secolo. Era già stato affrontato da Durkheim il quale indicava tre condizioni facilitanti:
l. La presenza di un fenomeno chiamato di livellamento che insorge all'interno di uno
stesso gruppo sociale tra individui soggetti all'azione per una stessa causa quando
ognuno di essi si trova a pensare allo stesso modo degli altri. Allora l'imitazione implica
la proprietà, che hanno tutti gli stati di coscienza simultaneamente presenti in persone
diverse, di far agire, ciascuno come gli altri, di modo che le diversità si appiattiscono e
la loro combinazione dà forma a un corpo nuovo, risultante dall'omologazione delle
individualità. Tale combinazione è dovuta a un’imitazione reciproca.
2. La propensione di un individuo a mettersi in armonia con la società di cui fa parte,
adottando a tal fine i modelli di pensiero e di comportamento della cultura dominante;
3. La tendenza a ripetere un atto avvenuto in nostra presenza o giunto a nostra
conoscenza unicamente perché è accaduto davanti a noi o perché ne abbiamo sentito
parlare. In questo caso, non lo imitiamo né perché lo giudichiamo utile, né per metterei
in assonanza con esso, ma semplicemente per ripeterlo.
Possiamo dunque affermare che una condotta individuale, come appunto quella
autolesionistica, può venir messa in atto anche per contagio imitativo, ovvero attraverso
la sola riproduzione meccanica dell'azione di cui si è venuti conoscenza attraverso un
mezzo di comunicazione di massa? Secondo lo stesso Durkheim, la possibilità che ciò
27 Durkheim E. (1897), “Suicide. An étude sociologique” (tr. it., UTET, Torino).
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possa avvenire riguarda un numero ristretto di casi. Egli annota: "L'imitazione non può
essere interpretata come causa di una condotta suicidaria: essa, infatti, non fa che
rendere visibile uno stato che è la vera causa generatrice dell'atto e che, con tutta
probabilità, avrebbe trovato comunque il modo di produrre il suo effetto.
Fortissima, infatti, deve essere la predisposizione, se così poca cosa è sufficiente a farla
passare all'atto". Per Durkheim, dunque, l'imitazione di un comportamento suicidario
può costituire solo un fattore precipitante per un individuo che ha già deciso di compiere
questo gesto: in altre parole, il processo imitativo influenza solo la modalità e il tempo
nel quale viene presa la decisione di passare all'atto.
Durkheim, tuttavia, non aveva assistito alla silenziosa rivoluzione planetaria provocata
dalla diffusione dei media, né poteva immaginare il potere che questi mezzi avrebbero
acquisito solo a pochi anni di distanza dalla sua morte: se molte delle sue intuizioni sono
state straordinariamente illuminanti, non altrettanto utili, quindi, si sono rivelate alcune
conclusioni del grande sociologo francese.
4.1. L'esplosione dei media e il loro consumo da parte degli adolescenti28
Ciò che Durkheim non poteva immaginare non riguarda tanto la diffusione quantitativa
della carta avvenuta peraltro con ritmi un secolo fa assolutamente imprevedibili che solo
negli ultimi trent'anni, almeno per quanto riguarda i paesi occidentali, hanno mostrato
una graduale flessione, pur continuando a rappresentare per circa il 50 % dell'opinione
pubblica il mezzo di comunicazione preferito, quanto piuttosto il profondo mutamento
che i media hanno indotto nell'organizzazione della nostra vita quotidiana.
Se pensiamo che negli Stati Uniti, e in buona parte dei paesi europei, negli ultimi
trent'anni il calo (valutabile tra il 3% e il 25% per cento) dei consumi culturali di massa
(teatro, concerti di musica classica o moderna) va di pari passo con la riduzione del
tempo libero e con la crescita dell'uso di prodotti di intrattenimento casalingo, si può
ben comprendere la portata dei mutamenti sociali, oltre che culturali, imposti
dall'avvento dei mezzi di comunicazione di massa. Se quindi ciò vale per l'intera
popolazione, quali modificazioni ha prodotto l'invasione dei media nella vita quotidiana
dei bambini e degli adolescenti? Assieme agli anziani questi sono, come è risaputo, i
maggiori fruitori dei media, soprattutto televisione e periodici. Si calcola infatti che
quotidianamente i giovani passano davanti alla televisione una media di 4-5 ore negli
Stati Uniti e di 2-3 ore in Italia, senza considerare tutto il tempo che viene speso davanti
al computer.
Se, dunque, l'ipotesi che i media possono influenzare il comportamento dei giovani era
stata avanzata con notevole cautela il secolo scorso, oggi il problema si ripropone con
ben diversa consistenza. Essa è stata utilizzata per interpretare alcuni fenomeni che in
tempi recenti hanno sconvolto il mondo giovanile come per esempio lo spaventoso
incremento di violenze: omicidi, rapine a mano armata, stupri. Il tasso di criminalità
giovanile è infatti raddoppiato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna tra gli anni
cinquanta e gli anni settanta, mentre in Italia negli ultimi vengono denunciati per delitti
commessi più di dieci minorenni al giorno in media. Molti sociologi hanno imputato
tale incremento allo sconcertante aumento di scene di violenza nei media destinati ai
28 Ruof S., Harris J., (1986 b) “Suicide contagion: guilt and modeling”, ”Communique”, vol. 16, 17, p. 8.
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giovani: una ogni due minuti nei programmi televisivi pomeridiani. Studiosi americani
hanno stimato che, al compimento dei suoi 14 anni, un bambino europeo e americano
avrà assistito in media a più di undicimila omicidi televisivi. Se a tutto ciò si aggiunge
quanto contenuto in molti periodici per ragazzi (quali, recentemente, alcuni fumetti
d’importazione giapponese), senza parlare dei video giochi, spesso al centro di
polemiche per l'ispirazione data nel compimento di delitti, sorge il sospetto che almeno
una parte consistente della crescente violenza sia eterodiretta così come di quella
autodiretta, abbia un qualche legame con il contenuto veicolato dai mezzi di
comunicazione di massa.
Tale ipotesi è stata negli ultimi trent'anni al centro di un’interessante quanto accesa
disputa scientifica. David Phillips, titolare della cattedra di sociologia all'Università di
San Diego in California, è probabilmente il più noto e convinto assertore dell'esistenza
di un effetto dei media sulle condotte suicidarie, soprattutto adolescenziali, fenomeno
da lui stesso chiamato, in omaggio all'opera di Goethe, "effetto Werther".
Cercherò dunque di analizzare il suo punto di vista e le prove che l'autore porta a
conferma della validità metodologica della propria teoria ipotesi.
4.2. L'effetto Werther: le ipotesi di David Phillips sul suicidio imitativo
Tale studio parte da una considerazione generale: il suicidio è un fenomeno determinato
da fattori cronici e acuti. Nel primo caso esso rappresenta il momento culminante di un
processo che può durare nella persona anche venti o trent'anni; tale processo viene a
interrompersi, in modo spesso apparentemente improvviso, e la persona decide di
passare all'atto. In questo secondo momento, il processo acuto, la decisione viene presa
in tempi molto brevi: ore o giorni, raramente settimane.
Dal punto di vista metodologico si possono studiare i due ordini di fattori cercando di
correlare nel luogo o nel breve periodo le due variabili: quella dipendente, la frequenza
del suicidio, e quella indipendente, il fenomeno che s’ipotizza essere in relazione al
suicidio.
Nel primo caso è possibile studiare la correlazione tra la frequenza del suicidio in una
data popolazione (di una città, di una regione o di un'intera nazione) e alcuni fattori di
rischio endemicamente presenti in quella popolazione (per esempio, l'alcolismo,
l'isolamento sociale, il divorzio o la disoccupazione di massa). Si potrà così valutare
attraverso calcoli statistici se e come tali fenomeni mostrano, nell'intervallo preso in
esame, un andamento significativamente correlabile. È evidente che in questo caso è
impossibile determinare un rapporto di causalità tra i due fenomeni, dal momento che
molte altre variabili possono entrare in gioco, essendo il periodo di osservazione, per
definizione, lungo. Questi studi sono dunque utili solo in quanto provano che gli eventi
indagati, dimostratisi correlati per molto tempo, possono fornire alcune ipotesi
interpretative: esse dovranno, però, essere ulteriormente convalidate da indagini ad hoc.
Nel secondo caso invece, i due fenomeni da studiare, nell'esempio che stiamo trattando,
l'incidenza di suicidi e la presenza di storie di suicidi riportate da quotidiani e
telegiornali, si susseguono nell'intervallo di poche ore o di pochi giorni. La correlazione,
questa volta, deve essere dimostrata da un aumento del tasso di suicidi nelle ore e nei
giorni immediatamente successivi all'apparizione della notizia e da un ritorno nella
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norma nel tempo immediatamente successivo. Dal momento che l'intervallo considerato
è breve, la possibilità che intercorrano variabili esterne estranee alle due indagate è
minima; ciò rende la correlazione ancor più pulita rispetto all'interferenza di altri fattori
e, dunque, i risultati ancor più convincenti. Inoltre, in questo caso, la distinzione tra la
variabile dipendente (la frequenza di suicidi) e quella indipendente (la pubblicizzazione
delle notizie di suicidi) è chiara e incontrovertibile: diventa così possibile ritenere che è
stata la pubblicizzazione della morte per suicidio di, facciamo l'esempio, Marilyn
Monroe ad aver provocato un aumento dell'incidenza di suicidi e non il contrario. Nello
studio di una correlazione sul lungo periodo non si può invece fare una tale chiara
differenza, in quanto le due variabili possono sempre essere invertite: l'incremento del
tasso di alcolismo può produrre quello di suicidi, ma anche viceversa.
Per queste ragioni di ordine metodologico, David Phillips sostiene che gli studi
concernenti l'analisi dei processi imitativi sono assai meno esposti a critiche di quelli
che analizzano le correlazioni attraverso lunghi periodi di tempo. Ecco perché, secondo
questo autorevole studioso, le indagini sui processi imitativi che legano l'impatto dei
media al fenomeno del suicidio, soprattutto quello giovanile, ricoprono un alto valore
scientifico nel novero degli studi eziologici, quelli cioè che tentano di scoprire le cause
di un fenomeno.
La produzione scientifica riguardo allo studio degli effetti dei media sulle condotte
suicidarie è andata intensificandosi a partire dagli anni cinquanta, dall'inizio cioè della
diffusione di massa della televisione, diventando uno dei terreni più interessanti e
produttivi dell'intero ambito delle indagini empiriche sul suicidio.
Lo psichiatra californiano Jerome Motto fu uno dei primi a porsi l'obiettivo di valutare
l'impatto delle notizie riguardanti suicidi riportate dai quotidiani. Quando uno sciopero
di giornalisti ne impedì l'uscita in alcune città nordamericane, l'autore ipotizzò che,
essendosi interrotto il flusso di notizie, sarebbe risultato impossibile per chiunque
trovare la fonte sulla quale modellare il proprio eventuale comportamento suicidario. I
risultati di questa indagine, come di una simile condotta da Blumenthal e Bergner, non
sono riusciti a confermare del tutto questa ipotesi. Qualche anno più tardi, però, lo
stesso Motto, nonché Phillips, Baraclough e loro collaboratori, riuscirono a dimostrare
che quando i quotidiani (in questo caso americani e inglesi) davano risalto a un suicidio,
specie se riguardante una personalità di spicco, nei giorni immediatamente successivi i
tassi di suicidio crescevano significativamente e che tale aumento era direttamente
proporzionale all'importanza e al risalto conferiti alla notizia. Risultati sovrapponibili
sono stati successivamente raggiunti anche in riferimento alle notizie riportate dai
telegiornali: in questo caso l'effetto si è manifestato per un periodo medio di dieci
giorni.
Più recentemente, Phillips e Carstens hanno studiato l'effetto di notizie televisive
riguardanti i suicidi compiuti da adolescenti americani sull'andamento delle condotte
suicidarie dei loro coetanei in un lungo periodo di tempo. I risultati hanno dimostrato
un incremento dei suicidi adolescenziali notevolmente più alto delle normali
fluttuazioni: l'entità della crescita si era dimostrata proporzionale al numero delle reti
televisive americane che avevano pubblicizzato tali eventi.
Non tutti i ricercatori che hanno replicato le indagini di Phillips e colleghi hanno
concordato con le conclusioni del sociologo americano.
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Tuttavia, anche i più convinti detrattori delle teorie di Phillips hanno ammesso che
l'ipotesi del suicidio per imitazione ha una base scientifica, se non altro quando la
notizia trasmessa dai notiziari televisivi o dai quotidiani riguarda un personaggio
conosciuto dalla gran massa dei telespettatori dei lettori. D'altra parte, l'effetto imitativo
non sembra riguardare qualsiasi notizia di questo tipo data attraverso i mass media:
l'esempio del suicidio di massa degli aderenti alla setta della città di Jonestown nella
Guyana avvenuto nel 1978, pur essendo stata riportata dai media americani con
un'enorme enfasi e per un lungo periodo di tempo, non ha prodotto alcun rialzo
nell'andamento dei suicidi. Evidentemente, a determinare un effetto imitativo non è solo
l'importanza attribuita alla notizia, ma una serie di altri elementi qualitativi, non ultimo
il contesto culturale nel quale il fatto si è svolto.
Lo studio degli effetti di romanzi, commedie, allestimenti teatrali, film, nonostante il
tema del suicidio sia tutt'altro che infrequente, una minore quantità di risultati empirici
rispetto all'indagine riguardante gli effetti delle cronache giornalistiche. 29
Neanche in questo caso, comunque, i risultati si sono dimostrati univoci. Uno studio
condotto da Jackson e Potkey agli inizi degli anni settanta ha valutato gli effetti di una
commedia teatrale, Quiet Cries, incentrata sulla morte di un giovane per suicidio e
replicata per diverso tempo in alcuni licei americani: gli autori, infatti. non hanno
registrato alcuna variazione né nella sintomatologia depressiva, né nell'ideazione
suicidaria tra gli allievi di quelle scuole.
Molto più nota è l'indagine condotta negli Stati Uniti e in Germania sugli effetti
provocati dal serial televisivo Morte di uno studente; si tratta di una commedia in sei
puntate ciascuna delle quali inizia con la ripetizione del suicidio compiuto da un giovane
di 19 anni che si toglie la vita gettandosi sotto un treno. Questo serial è stato dapprima
programmato negli Stati Uniti e successivamente, in Germania: in ambedue i casi
un'équipe di ricercatori ha cercato di misurarne gli effetti sull'incidenza di suicidi tra i
giovani. Tuttavia, mentre nell'indagine americana gli autori hanno affermato, senza però
poterlo confermare statisticamente, di aver riscontrato un aumento di suicidi nei giorni
immediatamente successivi alla programmazione del programma, Hafner e Schmidtke
sono riusciti a dimostrare, questa volta anche dal punto di vista statistico, che in
Germania le puntate erano state seguite da una crescita significativa di suicidi compiuti
da coetanei del tragico protagonista: infatti, tra i giovani tedeschi l'aumento registrato è
stato del 175% tra i maschi e del 167% per cento tra le femmine.
Anche alcune soap operas sono state al centro di indagini volte a valutare l'effetto dei
loro contenuti di morte. Phillips ha, ancora una volta, evidenziato la crescita di suicidi
compiuti da giovani statunitensi di razza bianca (quindi con caratteristiche
corrispondenti al personaggio imitato) nella settimana seguente la trasmissione da parte
di un'emittente americana
Analoga metodologia è stata scelta da Ellis e da Walsh per misurare gli effetti della
programmazione di Eastenders (gli abitanti dei quartieri orientali di Londra,
notoriamente socialmente degradati), una soap opera inglese trasmessa dalla Bbc che
racconta la storia di una ragazza che si uccide con una overdose di eroina.
29 Phillips D., Carstensen L., ((1986) “Clustering of teenage suicides after television news stories about suicide”, New England Journal of Medicine
vol. 315, pag. 685-689.
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Nei giorni immediatamente successivi alla trasmissione il numero dei giovani portati al
pronto soccorso di sessantatré ospedali generali inglesi a causa di una overdose da
eroina era infatti cresciuto significativamente: del 14,6% nel giorno seguente alla messa
in onda di Eastenders, al 31% nei tre giorni successivi. Un'ulteriore conferma di questi
risultati è stata ottenuta da due recenti indagini. La prima è stata compiuta da Madelyn
Gould e David Shaffere ha riguardato lo studio dell'andamento dei tentativi di suicidio di
adolescenti dai 14 ai 19 anni ricoverati in sei ospedali generali di New York e dei suicidi
registrati prima e dopo la trasmissione, avvenuta tra l'ottobre del 1984 e il febbraio del
1985, di quattro sceneggiati televisivi, ognuno dei quali incentrato su storie di
adolescenti suicidi. In questo caso, la crescita del numero sia dei tentati suicidi sia dei
suicidi è stata enorme: da un minimo del 54% a un massimo del 400%, secondo i diversi
sceneggiati.
La seconda, e più recente, indagine è stata condotta da ricercatori californiani che hanno
analizzato le reazioni (ideazione suicidaria, eccitazione emotiva) di un gruppo di
studenti universitari, senza alcun precedente tentato suicidio, prima e dopo la visione di
tre film: il primo, Surviving, è un film prodotto per la televisione in cui i due adolescenti
protagonisti, con notevoli problemi familiari, si tolgono la vita; il secondo, Death Wish,
non contiene storie di suicidi ma di violenza (omicidi, stupri); il terzo, utilizzato come
elemento di controllo, è un film musicale di intrattenimento. I risultati di questa indagine
hanno dimostrato una crescita significativa dell'ideazione suicidaria alla visione del
primo film che è durata circa due settimane.
Una simile crescita è stata misurata anche riguardo all'aumento di aggressività e di
eccitamento comportamentale seguito alla visione del secondo film; entrambi questi
risultati hanno dimostrato differenze significative dal punto di vista statistico rispetto
alla visione del terzo film.
4.3. Le condotte suicidarie come processi imitativi veicolati dai media: limiti
metodologici e interpretativi del fenomeno
Alcune delle indagini riportate hanno dovuto affrontare problemi metodologici non
indifferenti e hanno suscitato qualche dubbio riguardo alla validità dei risultati ottenuti.
Può, dunque, essere utile citare le critiche principali che hanno suscitato e le repliche dei
ricercatori interessati: infatti la comprensione dei punti principali di obiezione possa
facilitare la riflessione sull'interpretazione del fenomeno dei processi imitativi.
Un primo limite è rappresentato dall'influenza di fattori esterni che possono inquinare i
risultati ottenuti; uno dei più citati riguarda la stagionalità. Prendiamo per esempio le
indagini che cercano di valutare gli effetti dei mass media in un
lungo periodo di tempo (mesi o anni). In questo caso, gli incrementi registrati nei tassi di
suicidio potrebbero dipendere non tanto dai processi imitativi, quanto dalla fluttuazione
stagionale tipica delle condotte suicidarie. In letteratura è noto che vi sono dei periodi,
per esempio intorno al mese di maggio, nei quali i valori sono generalmente più alti e
altri durante i quali essi sono sensibilmente più bassi. È importante, dunque, che i
risultati siano sempre messi a confronto con quelli raccolti in epoche stagionali
sovrapponibili, così com’è indispensabile che i dati emersi siano confrontati con dati
analoghi registrati nella stessa stagione sia prima sia dopo l'evento trasmesso dai media:
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se, per esempio, la crescita dei tassi di suicidio è stata misurata a seguito di una notizia
diffusa ai primi giorni del mese di novembre occorre poter dimostrare che essa è
risultata superiore a quella registrata nel mese di novembre dell'anno precedente e in
quello dell'anno successivo a tale evento.
Un secondo punto critico riguarda la questione della reazione individuale a un evento, la
morte, che è comunque luttuoso per chiunque: si può infatti ritenere che non sia tanto la
notizia del suicidio di una persona, in questo caso ci si riferisce a un personaggio noto al
grande pubblico, a determinare l'aumento dei suicidi, quanto piuttosto il senso di
profondo sconforto che può colpire l'individuo nell'apprenderne la morte. A questa
critica è possibile rispondere misurando l'effetto della notizia della morte di una persona
famosa avvenuta per cause diverse dal suicidio: se l'ipotesi fosse fondata, anche in
questo caso si dovrebbe verificare un aumento del tasso di suicidi nel periodo
immediatamente successivo alla diffusione della notizia.
Un'ulteriore obiezione alle indagini riportate riguarda l'esistenza di condizioni a priori
che possono aver causato l'incremento rilevato indipendentemente dalla comunicazione
dei mass media. Uno degli esempi più frequentemente utilizzati riguarda l'andamento
dei tassi di disoccupazione: è noto, infatti, che un periodo di forte instabilità economica
influisce negativamente sull'andamento dei tassi di suicidio. A questo proposito occorre
però ricordare sia che l'incremento indotto dai mass media avviene solo dopo la
diffusione della notizia, sia che investe un periodo di tempo molto limitato, sia infine
che è proporzionale all'importanza conferita all'evento: si tratta evidentemente di
caratteristiche che ben poco si adattano a un fenomeno ad andamento lento e durevole
come quello tipico degli effetti dei cambiamenti economici sulla salute, misurabili anche
a molti anni di distanza dal momento della crisi economica. È comunque sempre utile
verificare che il periodo preso in esame non sia concomitante con fattori in grado di
aumentare la frequenza del suicidio in una data popolazione a prescindere dall'influenza
esercitata dai mass media.
L'ultima e più frequente obiezione si basa sulla già menzionata ipotesi di Durkheim,
secondo la quale il contagio imitativo può funzionare solo ed esclusivamente come
fattore precipitante, in grado di affrettare i tempi di una decisione già presa: in altre
parole si suiciderebbero per imitazione solo persone che avevano già deciso di farlo. Se
così fosse, ribatte però Phillips30, la crescita di suicidi dovrebbe essere immediatamente
seguita da un altrettanto rapido decremento (a causa di una sorta di esaurimento
temporaneo dei potenziali suicidi, dal momento che una parte di chi aveva comunque
deciso di agire ha, per così dire, affrettato i tempi). Ciò non è però confermato dai dati:
la crescita evidenziata dopo la comunicazione dei mass media non è seguita da un
decremento analogo: al contrario, l'andamento tende a normalizzarsi allivello
precedentemente conseguito.
Ciò che si evince dalla maggioranza delle indagini svolte e dalle opinioni dei ricercatori
coinvolti sembra dunque contrastare sia con le classiche ipotesi durkheimiane sia con
gran parte delle obiezioni più recenti. Al momento attuale non si può che affermare che i
mass media rivestono un ruolo di enorme importanza sull'andamento del fenomeno
suicidario, soprattutto adolescenziale.
30 Phillips D., Carstensen L., ((1986) “Clustering of teenage suicides after television news stories about suicide”, New England Journal of Medicine
vol. 315, pag. 685-689.
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Tuttavia si corre il rischio di conferire ai mezzi di comunicazione di massa un potere
ancor più spaventoso di quanto già non abbiano; né, d'altra parte, i risultati delle ricerche
citate devono portarci a demonizzare giornali, televisione, cinema o quant'altro riempie,
nel bene e nel male, le nostre vite. Per orientarci meglio in questo fenomeno complesso
e contraddittorio occorre, ancora una volta, precisare che esistono condizioni
sperimentali che ci possono dire se e in quale misura si può parlare di effetti induttivi di
suicidio da parte dei media. Si possono così riassumere:
a) l'effetto dei media deve essere misurabile: ciò significa che non può essere basato su
opinioni, ma deve rispondere a criteri rigidamente statistici;
b) l'effetto dei media deve essere misurabile in un 'area geograficamente circoscritta:
rispetto alle ricerche a livello nazionale, sono più convincenti quelle condotte in aree più
ristrette (città, regioni) in quanto, se la popolazione è meno estesa, la fonte dell'informazione (quotidiani o televisioni locali, per esempio) è più efficacemente controllabile e
verificabile;
c) la crescita del numero di suicidi deve essere contenuta (anche se sono stati dimostrati
aumenti molto rilevanti, in media non supera l'8-10%). È importante ricordare che
quanto ora detto vale per i suicidi avvenuti, mentre quando si fa riferimento ai tentati
suicidi il valore della crescita può essere molto superiore, come è stato dimostrato da
Gould e Shaffer. Tale crescita deve comunque essere messa a confronto con i valori
misurati nello stesso periodo dell'anno precedente e successivo. Perché si possa parlare
correttamente di influenza, la latenza entro la quale viene misurato l'aumento di suicidi
non deve essere estesa nel tempo e, comunque, non supera quasi mai le due settimane;
d) la consistenza della crescita del numero di suicidi deve essere correlata all'importanza
conferita dai media all'evento (soprattutto se si tratta del suicidio di una persona nota): è
importante sapere, per esempio, se la notizia è stata pubblicata in prima pagina, se la
parola suicidio è stata menzionata nel titolo dell'articolo, se è stata riprodotta l'immagine
della persona suicida.
e) infine, la condizione forse più specifica riguarda il grado di somiglianza tra gli
individui appartenenti alla popolazione entro la quale viene misurata la crescita del
numero di suicidi e le caratteristiche del suicida descritto dai mass media: in altre parole,
più vago risulta il grado di appartenenza del suicida a tale popolazione, più è difficile
sostenere che si tratta di un fenomeno di imitazione.
Facciamo l'esempio della fiction Morte di uno studente: in questo caso il protagonista è
un ragazzo di 19 anni, bianco, suicidatosi sotto un treno. Se dunque, volendo verificare
l'aumento dei suicidi nella popolazione generale che ha assistito (o si suppone abbia
assistito) alla fiction televisiva, ci riferiamo al dato complessivo, dovremmo ammettere
che possa riguardare anche una persona, supponiamo, di pelle nera, anziana, suicidatasi
con un revolver immediatamente dopo una puntata di quella fiction. Ciò mi sembra
davvero difficilmente condivisibile.
Se, invece, la crescita del numero di suicidi viene calcolata solo rispetto alla
popolazione con caratteristiche simili al modello e se la modalità dell'atto è simile a
quella descritta dal media preso in esame, allora l'ipotesi del processo imitativo prende
consistenza e credibilità. Nel caso della fiction Morte di uno studente, infatti, si è potuta
accreditare tale ipotesi in quanto la crescita di suicidi riguardava giovani maschi bianchi
che si erano tolti la vita con lo stesso mezzo utilizzato dal personaggio televisivo.
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Nonostante le prove empiriche addotte dalle molte ricerche citate e i limiti metodologici
entro i quali queste prove devono essere comunque interpretate, rimangono a mio parere
aperte alcune domande, poste del resto più volte da uno dei più noti esperti americani di
suicidio, Ronald Maris.
Egli, infatti, afferma che non è di per sé sufficiente dimostrare l'avvenuta crescita di
suicidi a seguito del messaggio dei media, in quanto il problema è comprendere perché
essa avvenga.
Le questioni principali, dunque, rimangono le seguenti: chi e perché sceglie di imitare
quella morte pubblicizzata dai media e chi e perché invece non lo fa? Quali sono le
caratteristiche che rendono diverse queste persone? La gran parte delle ricerche che ho
citato non rispondono esaustivamente a tali
domande, soprattutto, io credo, non a causa della loro inconsistenza quanto piuttosto
della complessità della materia trattata.
Se è vero che mancano studi qualitativi, più finalizzati a livello micro sociale, ciò non
toglie che i risultati finora ottenuti, soprattutto per quanto riguarda gli adolescenti, hanno
comunque contribuito a fornire basi scientifiche all'ipotesi del suicidio imitativo.
Un'indagine condotta a Vienna da Gernot Sonneck e dai suoi collaboratori sembra
confermare la suddetta teoria. All'inizio degli anni ottanta, in questa città era stato
segnalato un preoccupante aumento di suicidi nella sotterranea (fenomeno peraltro assai
diffuso in molte metropoli occidentali); i quotidiani e le televisioni locali ne davano
puntualmente e diffusamente notizia. Sonneck e i suoi collaboratori, supponendo che
tale tragico crescendo fosse in qualche modo collegato al clamore suscitato dai mass
media, decisero di intervenire proponendo ai giornalisti della città una serie di incontri
per informarli delle loro ipotesi e per verificare la possibilità di mettere a punto una
strategia alternativa che potesse contrastare quel fenomeno. Fu dunque concordato un
codice di comportamento comune a tutti i mezzi d'informazione che ebbe in breve
tempo un effetto estremamente significativo: il numero delle persone che si tolsero la
vita gettandosi sotto la metropolitana diminuì, fino a tornare ai valori medi registrati nel
periodo precedente i fatti narrati.
È interessante notare che le misure adottate dai giornalisti ebbero un chiaro effetto
inibitore, almeno per un certo periodo di tempo, anche nei confronti del fenomeno
suicidario nel suo complesso.
L'importanza di questa ricerca/intervento sta nel fatto che è riuscita a dimostrare ex
adiuvantibus l'esistenza di un rapporto tra le modalità di informazione scelte dai media e
la loro influenza sul comportamento suicidario. Ciò propone un quesito a mio parere
fondamentale: se ipotizziamo l'esistenza e l'incidenza di questo legame, possiamo
ritenere che, influenzando i media a cambiare le modalità della loro comunicazione,
è possibile prevenire almeno in parte la crescita di suicidi indotti dall'imitazione? In che
cosa può consistere, dunque, questa prevenzione? In che modo influenzare i media
perché l'effetto imitativo sia il più possibile ridotto?
4.4. È possibile fare informazione sul suicidio senza correre il rischio di indurlo?
Tornando alla storia dei tre ragazzi di Merano di cui ho parlato prima, non vi è dubbio
che, anche alla luce di quanto stato esposto in questo capitolo, qualcosa non ha
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funzionato nel modo in cui il mondo dell'informazione italiano ha trattato l'intera
vicenda: forse superficialità e leggerezza, ma forse anche non conoscenza della portata
della disinformazione.
La crescita dei suicidi compiuti da giovani che scelsero il gas dell'automobile per
togliersi la vita non lascia spazio a incertezze.
Il problema semmai è un altro: che cosa avrebbero potuto/ dovuto fare giornali e
televisione? I ricercatori viennesi hanno brillantemente dimostrato che si possono e si
devono combinare due esigenze apparentemente in contrasto tra loro: quella del diritto
all'informazione (o la libertà di affrontare qualsiasi argomento, anche il più scabroso) e
quella di non influenzare negativamente chi, soprattutto se si tratta di un giovanefruisce degli strumenti di comunicazione.
Del resto molte redazioni di reti televisive (oltre a quella austriaca già citata, alcuni
network americani e olandesi) e di quotidiani (recentemente a questo proposito è stato
raggiunto un accordo nell'Associazione dei direttori dei principali quotidiani
statunitensi) si sono sforzate di ripensare al modo con cui questo argomento è stato
generalmente trattato e hanno convenuto, attraverso la consulenza di esperti, di attenersi
ad alcune regole base ritenute le più idonee ed efficaci anche da un'apposita
commissione istituita dall'Organizzazione mondiale della sanità. Ne illustro i punti
principali:
a) non "romanticizzare" il caso di suicidio: evitare cioè ogni riferimento a fatti e
avvenimenti che possono rendere il gesto suicida un evento positivo e accettabile. Per
esempio, dovrebbero essere evitate sottolinea tutto e troppo evidenti e dettagliate del
rapporto tra il suicidio e la fine di una storia d'amore: si tratta di una situazione in cui
molti giovani si possono identificare e che può rendere il gesto suicidario un esito
comprensibile e giustificabile;
b) evitare di pubblicare notizie di suicidi sulla prima pagina (o tra le prime notizie di un
telegiornale);
c) evitare di pubblicare una fotografia della vittima. Ciò rende più facile l'identificazione
del lettore (o dello spettatore) con il suicida;
d) evitare di utilizzare la parola "suicidio" nel titolo della notizia
e) evitare di tornare sull'argomento nei giorni immediatamente successivi alla notizia:
creerebbe un inutile rafforzamento del messaggio di morte evitare di pubblicare dettagli
sulle modalità del suicidio: le informazioni possono infatti suggerire modalità pratiche
di attuazione precedentemente solo latenti nell'intenzionalità dell'individuo; ciò è di
grande importanza soprattutto quando il mezzo utilizzato è inusuale (istiga la curiosità) e
indolore (come per esempio il gas di scarico introdotto nell'abitacolo dell'automobile).
Secondo l'esperienza di molti ricercatori queste semplici regole, se messe
continuativamente in atto, possono contribuire a ridurre gli effetti dell'imitazione del
comportamento suicidario senza peraltro negare la necessaria informazione su fatti e
notizie che ogni cittadino ha diritto di conoscere.
Ciò premesso, nasce un’ulteriore questione: possiamo affermare che lo stesso
ragionamento vale anche per il genere fiction? Certamente in questo caso non è in causa
il diritto all'informazione, ma la libertà culturale. Se chi lavora nella comunicazione di
massa fosse a conoscenza del potere di manipolazione e d’induzione all'imitazione dei
modelli comportamentali che essa comporta, forse anche in questo caso si potrebbe
migliorare la qualità del messaggio mediale senza per questo imitarne i contenuti.
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Al di là di ogni pur lodevole tentativo di informazione e di convincimento, credo
tuttavia sia bene tener presente che nessuno nemmeno il migliore degli esperti, ha il
diritto di imporre ciò che può apparire come una sorta di precetto onnipotente, in grado
di eliminare qualsiasi rischio dalla vita di un giovane solo per tentare (peraltro del tutto
improbabilmente) di proteggerlo. Del resto a ben vedere, come dice Ronald Maris, una
vita totalmente al riparo di rischi è l'antitesi della crescita.
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CAPITOLO 531
CONCLUSIONI: COME ARGINARE IL FENOMENO DEL SUICIDIO DEI
MINORI
Lo scopo dello studio era quello di evidenziare la frequenza del tentato suicidio in
adolescenza e nello stesso tempo verificare come il comportamento suicidario in età
evolutiva sia una manifestazione complessa, dall’eziopatogenesi multifattoriale.32
La storia personale di un adolescente che tenta il suicidio è caratterizzata da situazioni di
grande disagio che interessano il nucleo famigliare, dall’uso di sostanze e da eventi
traumatici recenti oltre che nella storia passata.
Abbiamo inoltre evidenziato che il gruppo formato da soggetti che hanno dichiarato di
aver compiuto un gesto suicidario presenta, a differenza del gruppo di controllo,
mediamente, un alto punteggio alla scala della depressione, bassa autostima, disturbo
bulimico con scarso controllo degli impulsi.
La grande quantità di informazioni raccolte contribuisce a rendere credibili le risposte
raccolte attraverso il self report. Abbiamo visto che alla domanda “hai mai fatto un serio
tentativo di toglierti la vita” il 6% delle ragazze ed il 3% dei ragazzi hanno ammesso di
averlo fatto negli ultimi 12 mesi.
Molti dubbi, come abbiamo visto, si possono avanzare sul reale compimento di un gesto
suicidario in un numero così elevato di adolescenti.
La complessità e la coerenza interna dei questionari proposti è tale da far pensare che
anche se alcuni adolescenti possano aver confuso le minacce o un progetto suicidario
con un gesto compiuto era presente, in ogni caso, un alto livello di sofferenza personale.
Abbiamo provato a valutare quali fattori di rischio erano maggiormente significativi
all’interno del nostro campione, un modello di regressione logistica evidenzia 4 variabili
in particolare: il peggioramento recente del profitto scolastico, l’aumento recente del
consumo di alcool, la non frequentazione di un gruppo di coetanei ed infine la sottoscala
relativa alle difficoltà relazionali della scala di valutazione psicopatologica della
depressione (SVSD). Il modello costruito con tali variabili permette, nell’ambito della
nostra casistica, una corretta classificazione del comportamento nell’85,2% dei casi (54
su 63). In particolare individua il comportamento suicidario nel 70,8% dei casi ed
individua l’assenza di tale comportamento nel gruppo dei controlli con un indice di
riconoscimento del 94,6%.
Alcune considerazione in merito alla possibilità di svolgere attività di prevenzione del
suicidio in età evolutiva.
I fattori di rischio rappresentano un elemento importante da considerare per valutare il
rischio suicidario in un soggetto che lamenti difficoltà emotive. Come abbiamo visto
non sono tanto i singoli fattori di rischio a dover preoccupare quanto, piuttosto, la loro
varia e molteplice associazione.
Sebbene tra questi, alcuni risultino particolarmente importanti, come può esserlo aver
31 Ivi, pag. 3 note 1, 2, 3 e 4.
32 Amodio D., Fornari U., "Il suicidio e il tentato suicidio nell’adolescente", Rivista Sperimentale di Freniatria, Vol. CXII, Suppl. n. 6, pp. 1452-
1482, 1988.
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compiuto un precedente gesto suicidario.
Da rilevazioni svolte all’interno di scuole superiori, i risultati come abbiamo visto, sono
preoccupanti possiamo ritenere che almeno il 5% degli studenti si trovi in una situazione
di rilevante disagio psichico e pertanto richieda aiuto.
E’ facile pensare che la storia personale degli studenti sia spesso conosciuta dagli
insegnanti ed alcune manifestazioni di disagio, per le loro stesse caratteristiche, non
possono sfuggire all’osservazione della scuola. In particolare il disagio interpersonale, le
difficoltà nel rendimento scolastico ed anche, sebbene in minor misura, l’uso di
sostanze. Pertanto una collaborazione sistematica tra scuola e servizi di salute mentale è
auspicabile.
Vi sono molti dubbi sull’utilità di screenings realizzati attraverso questionari e mirati ad
individuare i soggetti a rischio di suicidio. Effettivamente il suicidio giovanile rimane un
evento relativamente raro sebbene rappresenti la seconda o la terza causa di morte, a
seconda dei paesi, all’interno della comunità Europea. In questo senso può apparire uno
sforzo sproporzionato un intervento, non selettivo, mirato alla sua prevenzione. Secondo
la nostra lettura dobbiamo immaginare, però, che il suicidio in un adolescente
rappresenti la meta finale di un lungo cammino nella sofferenza. Se il suicidio è
all’apice di un’alta piramide possiamo considerare che alla base della stessa, troviamo
l’ideazione suicidaria, nei gradini successivi le minacce ed il progetto suicidario ancora
più in alto il tentativo. Esistono associazioni che, sulla base di un finanziamenti erogati
soprattutto da privati, vengono messe in grado di stipulare degli accordi con alcune
équipes dei servizi psichiatrici, di neuropsichiatria infantile, di pediatria e psicologia
clinca ecc, riescono a realizzare delle procedure di collaborazione per la presa in carico
congiunta di ragazzi che tentino il suicidio di età compresa fra i 14 e i 24 anni e che
transitino per il pronto soccorso di ospedali.33
Tali servizi sono gratuiti e consistono la presa in carico del ragazzo e dei suoi adulti di
riferimento per il periodo di tempo che serve a scongiurare l'eventuale ripetizione del
tentativo di suicidio.
Questa è la prima cosa che è necessario capire e che incoraggia ad intervenire. I ragazzi
che tentano il suicidio ripeteranno il loro gesto appena liberi dai controlli degli adulti
allarmati? A distanza di quanto tempo? E se dovesse ripetersi il trauma che ha
determinato il tentativo di morire?
E' la questione più urgente ed è la domanda più difficile. Abbiamo visto che i ragazzi
che tentano il suicidio sono ad altissimo rischio di poterlo ripetere anche se ci sembra
improbabile lo facciano a breve scadenza. Perciò c'è tutto il tempo che serve per tentare
di impedirglielo, ho detto tentare, solo tentare. Se non si fa nulla ci sono elevate
possibilità che l'adolescente ripeta il tentativo e la volta successiva è sempre peggiore
della prima: a volte è l'ultima. Ciò dicono tutte le statistiche del mondo.
Il tentativo di suicidio in adolescenza è sovradeterminato ed ha sempre cause molteplici;
perciò è improbabile attenuarle tutte in una prospettiva di prevenzione secondaria. Ce
n'è però una che si può tentare di ridurre nella sua capacità di innescare il processo che
esita nel nuovo tentativo di suicidio. Quando un ragazzo, più spesso una ragazza tenta il
33 De Vanna M., Schenardi C., Filippuzzi L., Aguglia E., " Ruolo della medicina di base nella prevenzione del comportamento suicidario" , Giornale
italiano di suicidologia, 4, 1, pp. 39-44, 1994.
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suicidio, una parte dei motivi per cui lo fa concerne gli adulti di riferimento,
direttamente o indirettamente. Il tentativo di suicidio è anche un messaggio34: potente,
lugubre, disperato, vendicativo. Guai però a considerarlo solo un messaggio rivolto ai
genitori, ai propri docenti, all'oltraggioso oggetto d'amore: è la peggiore delle
semplificazioni ed è la causa principale delle banalizzazioni che preludono all'oblio e
alla derubricazione del gesto dal rango che gli spetta, quello di significante della morte e
della violenza primitiva per annoverarlo nei lapsus, negli incidenti di percorso, nelle
esagerazioni dovute all' età, riconducendolo all'incontinenza emotiva e all'incapacità di
rendersi conto delle conseguenze. Guai a considerarlo solo un messaggio ma è
altrettanto grave non rintracciare i destinatari reali per renderli partecipi ed aiutarli ad
erogare una ricevuta di ritorno che sia all'altezza della situazione e non sia irridente,
sarcastica, infantilizzante o vendicativa per l'oltraggio che il suicidio comunque è per i
suoi destinatari.
Questo lavoro si può tentare di farlo, è sicuramente utile, non è difficilissimo. Se il
messaggio non viene recepito ed anzi viene rifiutato si mette male, molto male: la volta
successiva bisognerà parlare più chiaro e c'è il rischio che i ragazzi pensino che solo
l'ostentazione del cadavere possa avere ascolto e il dovuto successo.
Perciò è assolutamente necessario che il servizio faccia da postino e recapiti il
messaggio. Naturalmente non sempre gli adulti aprono la porta e le orecchie. A volte
non aprono neppure la busta perché presumono di sapere tutto ed invece a volte non
conoscono il dettaglio che decide della vita e della morte quando si è adolescenti ed il
proprio dolore è per statuto invisibile agli adulti.
L'esperienza conferma però che bisogna essere tempestivi. Il tempo a disposizione è
pochissimo, in men che non si dica la disponibilità a capire e cambiare da parte degli
adulti lascia il posto al ripristino delle difese scompaginate per qualche ora dal boato del
tentativo di suicidio. Naturalmente è necessario essere sicuri di aver ben capito l'indole
del messaggio ed aver individuato il destinatario ultimo e decisivo dietro la copertura
dei vari prestanome inopportunamente coinvolti in conflitti che vengono da lontano e
passano sopra la loro testa sbigottita dall'intensità della reazione allo stimolo da loro
erogato.
Perciò a nostro avviso l'équipe che si confronta con l'enigma del tentato suicidio dei
ragazzi deve assolutamente riuscire a coinvolgere i genitori, almeno i genitori, sia come
risorse sia come destinatari dell'intervento stesso; E se c'è un padre in circolazione è
obbligatorio precettarlo perché c'è sicuramente bisogno di lui se è successo quello che
non doveva succedere: poi si vedrà se ha la stoffa o se è meglio esonerarlo da un lavoro
che non è in grado di fare e nel quale la cosa peggiore che possa succedere è che al posto
del padre sia seduto un uomo che non è riuscito ad entrare nella parte ed ora si guarda
attorno senza capire cosa sia veramente successo e perché ci siano tanti dottori attorno a
sua figlia che non pareva avesse bisogno di nulla.
Nel frattempo si parla con il reduce dal tentativo di suicidio che in realtà quattro volte su
cinque è una ragazza. Per capire il dolore mentale che funge da regista del tentativo di
suicidio in adolescenza mi sembra sia utile partire dal presupposto che possa essere
ispirato dalla gravità della mortificazione e della vergogna, dalla presenza nel campo
34 D’Urso C.D., et al., " Problemi metodologici nell’approccio clinico al preadolescente che ha tentato il suicidio" , Supplemento al Giornale italiano
di suicidologia, 1, pp. 99-100, 1993.
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relazionale di un ostacolo invalicabile dal punto di vista evolutivo, dalla disponibilità ad
essere utilizzato come luogo di scarica della rabbia narcisistica di un corpo non ancora
integrato e luogo di vita del sé, dall'impossibilità di mentalizzare e verbalizzare la
mortificazione narcisistica destinata a tracimare in azione satura di funzioni di appello
nei confronti degli adulti di riferimento.
Se tutto ciò ha un fondamento sia pur minimo ne derivano alcune conseguenze operative
dotate di una vaga legittimità. Innanzitutto è ben diverso intervenire nel regno della
colpa rispetto a ciò che si deve fare quando si interagisce col regno della vergogna. Il
fatto è che se si cerca di aiutare un adolescente a trovare le parole per dirlo è ben diverso
se si parte dal presupposto che l'ostacolo a farlo sia la colpa o invece la vergogna.
Secondo me i ragazzi reduci da un tentativo di suicidio hanno il problema della
vergogna e debbono svelare il loro mortificante segreto. Seduto vicino a loro c'è
l'ostacolo insormontabile che ora piange ed è finalmente disponibile ad ascoltare
qualsiasi cosa e a perdonare tutto; bisogna approfittarne alla grande prima che tutto torni
come prima, anzi peggio perché ora c'è da tollerare anche la vergogna di essere finito all'
ospedale per niente, per una ragazzata.
Lavorare sulla vergogna significa elaborare un affetto molto evoluto, tipicamente
adolescenziale, generalmente muto ma in caso di tentativo di suicidio invece facilmente
verbalizzabile e rappresentabile; nella mia esperienza è sufficiente ipotizzarne l'esistenza
perché si sveli.
Una volta svelata la vergogna è relativamente facile individuare chi la promuove e
ricostruire la trama delle identificazioni proiettive che hanno costruito l'oggetto capace
di svergognare. L'acquisizione di rappresentazioni più nitide della vergogna consente di
individuare la sua infiltrazione in molte aree relazionali nelle quali realtà interna e realtà
esterna interagiscono fra loro in modo caotico ed indistinto.
Siccome la vergogna attacca desideri e bisogni del vero Sé diventa possibile cominciare
a fare un inventario di rappresentazioni di sé fino a quel momento ritenute non
socializzabili. Più si legittima come veridico e parzialmente legittimo il desiderio del
vero Sé e più rapidamente scema la vergogna e la paura dell'intrusione violenta che
lacera i confini determinando la paura della mortificazione e della conseguente rabbia.
La vergogna è micidiale perché non la si può riparare; non si può chiedere perdono
come nel caso della colpa; la vergogna è senza scampo, pervasiva, fonte di un dolore
intollerabile, non simbolizzabile perché corrode il fondamento del Sé che è la autostima;
la vergogna uccide proprio per questo motivo, denutrisce il Sé, lo costringe a ritirarsi, lo
induce a scomparire e quando è indebolito lo attacca con la minaccia dell'umiliazione
suprema, la nudità oltre il limite estremo del pudore. Per questo motivo l’ostacolo
diviene insormontabile: perché porta una minaccia troppo pericolosa per la
sopravvivenza psichica. La difesa nei confronti del pericolo totale è la morte biologica
che serve a tenere in vita lo spirito, l'anima, il Sé nella sua insostenibile leggerezza. La
mortificazione imminente o quella appena sopraggiunta sono mortali per il corpo perché
il Sé sparisce e lo dà in pasto all'ostacolo, ostentandolo come cadavere, mettendolo in
vetrina nel suo aspetto terrificante di cadavere senz'anima. Lo studio che fa l'aspirante
suicida della scena del ritrovamento del cadavere è spesso minuziosamente studiato per
aggredire come in un film horror l'ostacolo insormontabile che dovrà fare i conti con
l'apparizione imprevista del cadavere nel suo aspetto terrificante, vendicativo e
accusatorio; il tentativo di suicidio rimane, almeno la prima volta, solo un tentativo,
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spesso appena accennato perché l'aspirante non vuole perdersi la scena del ritrovamento
del suo corpo manomesso che in realtà si limita ad essere solo un morto apparente, una
ragazza svenuta, in precoma, una bella addormentata in grado di raccogliere di persona
le prime reazioni all'incontro col suo corpo che non diverrà cadavere a causa del precoce
ritrovamento, ma che lo sarebbe divenuto se non avesse prevalso il desiderio di assistere
alla scena dell'incontro fra l'oggetto insormontabile e il corpo ferito, avvelenato,
frantumato, quasi morto, somigliante ad un cadavere, solo che respira ancora, sarebbe
morto se non fossero arrivati ad interrompere il processo avviato. La scena del
ritrovamento è satura delle intenzioni vendicative e punitive che pervadono il tentativo
di suicidio e contiene tutti gli elementi che avranno svolgimento nel periodo successivo
al gesto: l'ostacolo insormontabile, i cortigiani che non lo hanno saputo trattenere dal
diventare insormontabile o che hanno legittimato ed approvato la sua condotta vengono
ripagati con la stessa moneta; ora debbono vergognosamente starsene seduti dinnanzi al
medico del pronto soccorso, e poi raccontare la storia allo psichiatra di turno, e ancora
affrontare il temuto ed oltraggioso psicologo che prima ancora di entrare nella stanza per
il solo fatto di esistere li mette alla gogna e li addita al ludibrio del gruppo di
appartenenza ove figuravano come mestieranti di buon livello e nessuno poteva
sospettare potessero in realtà avere quel po' po' di problema in casa e per di più non si
sono accorti di nulla, sordi, ciechi, irresponsabili. Denudati in pubblico, forse finiranno
nella cronaca cittadina del giornale e la vendetta si compirà: esposti nudi, oltraggiati fino
al desiderio di scomparire, cambiare casa, città, non affrontare l'inferno dello sguardo
dell'altro.
Siccome la vergogna deriva il più delle volte dalla paura di potersi trovare in una
situazione nella quale si verrà umiliati e perciò ci si vergognerà. orribilmente, colui che
ti denuderà e denuncerà al mondo la tua bassezza diviene ovviamente l'ostacolo
insormontabile.
L'ostacolo insormontabile è costruito attraverso la proiezione su un oggetto esterno che
si presti ad accoglierla, o per caratteristiche di personalità, più spesso per il ruolo sociale
che ricopre nella relazione col soggetto (insegnante, educatore, partner di coppia, gruppo
di amici, allenatore, mentore, eccetera) di aspetti molto primitivi dell'Ideale dell'Io che
giudica in base a criteri di bellezza, prestazione insolita e talentuosa, legame di indistinta
appartenenza, devozione fino al sacrificio di molti altri Sé potenziali, disponibilità ad
accettare l'appartenenza segreta e fusionale reciproca come destino fatale, fedeltà al
progetto sottoscritto segretamente di una grandiosa ed esibizionistica realizzazione
vissuta come mission affidata all'eletto perché vocato a realizzarla ma impossibilitato a
concretizzarla compiutamente se non in segreta alleanza simbiotica con l'oggetto che
garantisce della validità della promessa. L'ostacolo insormontabile nasce dalla
mostruosa metamorfosi del rifornitore di preziosità e unicità in esattore della prestazione
convenuta, minaccioso controllore capace di ritorsioni crudeli perché reso furibondo dal
voltafaccia imprevedibile, annichilito dalla diserzione, addolorato al di là delle sue
esigue capacità di tolleranza e risimbolizzazione da ciò che nell'ombra il soggetto ha
invece combinato, un altissimo tradimento, una diserzione per il pugno di lenticchie o di
dollari di soddisfazioni immediate e di infimo profilo invece che la paziente e raffinata
realizzazione del progetto segreto, della luminosa mission che legittimerà i sacrifici
imposti ad altri Sé messi a tacere dal coprifuoco decretato dalla difficoltà di adempiere
all'alto compito che compenserà della vita sacrificale e spesso masochistica che il
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soggetto ha dovuto praticare.
L'ostacolo diviene insormontabile perché è strutturalmente debole e bisognoso della fede
e della sacrificalità del soggetto che nel frattempo ha ampiamente speculato sui vantaggi
che l'attribuzione della missione speciale gli ha erogato. La debolezza dell'ostacolo, i
suoi aspetti vanesi ed egoistici, la sua infatuazione smodata fanno temere un tragico
voltafaccia, una rappresaglia totale, una denuncia a tutto il mondo della ignominia
subita, la messa alla gogna, l'insopportabile esternazione del dolore inflitto dalla serpe in
seno, bugiardo, velenoso, vile, che mentiva da mesi conducendo una doppia vita
imbrogliona, godereccia, immemore del patto sottoscritto e dei voti spergiurati.
Con l'ostacolo insormontabile il soggetto aveva nel tempo dell'idillio e della reciproca
estatica contemplazione stabilito una relazione capace di far vivere le sue proiezioni
nella mente dell'oggetto, costringendo a sentirle come sue emozioni e fantasie,
avvinghiandolo fino a diventare un prolungamento delle intenzioni del Sé, che nel
frattempo si sentiva sempre più autorizzato a credere nella falsa credenza del luminoso
progetto futuro che sanciva come tollerabile lo stile masochistico della vita condotta.
L'ostacolo è insormontabile perché tanto più il soggetto diviene adolescente e avverte
perciò la necessità di svincolarsi dalle sue trame e dalle proprie, tanto più esose
divengono le richieste implicite dell'oggetto e sempre maggiore il bisogno della sua
tutela poiché il soggetto stenta a trovare altre forme di rifornimento di valore, unicità e
preziosità.
Al di là dell'ostacolo insormontabile c'è il nulla, non c'è mai stato altro, tutta la crescita
si è consumata all'interno del suo orizzonte: l'adolescenza consente di intravedere al di là
del vecchio oggetto alcuni barbagli di nuovi ed indefinibili oggetti, tutti però
caratterizzati dall'inquietante tendenza ad erogare imprevedibili frustrazioni e ambigue
richieste di trasformazione in vista di un negoziato abbastanza umiliante rispetto ai
vantaggi che promette.
L'ostacolo è insormontabile perché non ha alternative credibili: è obbligatorio
ammansirlo, evitare la ritorsione impensabile della perdita del suo sguardo di ritorno che
eroga il nutrimento narcisistico indispensabile alla sopravvivenza psichica del falso Sé
che è comunque l'unico in grado di funzionare in attesa dell'arrivo dei terrestri che
potrebbero riportare con i piedi per terra e rendere pensabile un destino comune al posto
della missione speciale di cui si sono intravisti solo sporadici segnali premonitori pagati
a prezzo inscusabile.
L'ostacolo insormontabile deve il proprio potenziale annichilente al fatto di essere
situato in mezzo alla strada della crescita: la sbarra, non c'è nulla da fare, è un passaggio
stretto e decisivo: lo scontro frontale con l'ostacolo insormontabile proprio in quanto
l'ostacolo è tale comporta inevitabilmente che il soggetto soccomba poiché la possibilità
di avere accesso al futuro e alla realizzazione piena del Sé è perduta. L'ha requisita
l'ostacolo e sottratta al soggetto, destinato a rimanere quello che è per sempre,
eternizzato nell'assenza di valore e scopo comprensibile.
Perché ha qualche possibilità di successo l'elaborazione dei motivi che hanno portato
alla costruzione dell'ostacolo insormontabile piuttosto che il tentativo di collegare
l'ostacolo adolescenziale attuale alle nefandezze sublimi e indimenticabili dell'oggetto
primario cattivo, anzi un po' buono e molto cattivo quando gli pareva a lui? Perché è
possibile ipotizzare che dopo il tentato suicidio ci sia una particolare arrendevolezza
dell'ostacolo insormontabile ed una ripresa sia degli aspetti arcaici della relazione che il
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rilancio della politica del suo disinvestimento in vista di allocare le risorse sui nuovi
oggetti: è una fase di breve durata, destinata, se non sostenuta e pilotata dalle risorse
evolutive, a nuovi scontri, sempre più pericolosi e definitivi. Però c'è un nuovo spazio
virtuale di elaborazione e le rappresentazioni del Sé alle prese con le aspettative e le
seduzioni dell'ostacolo insuperabile possono diventare molto nitide come se il tentativo
di suicidio autorizzasse ad una sia pur breve vacanza, ad un piccolo carnevale in cui
ogni scherzo vale anche quello di pensare e capire che la forza dell' ostacolo consiste
nella sua debolezza di ora e di sempre.
Se è questo il motivo per cui lo si è compiaciuto fino all'olocausto allora, in
considerazione della licenza speciale ottenuta grazie all'essere adolescente, si può
prendere in considerazione anche la prospettiva di sacrificarsi meno e divertirsi un po' di
più, prospettiva su cui apparentemente sembra concordare anche qualche sodale
dell'ostacolo insormontabile che lancia messaggi di consenso, che a sostenere la
debolezza dell'oggetto ci pensa lui e intanto il soggetto può tentare uno svincolo che
senza tentato suicidio non sarebbe neppure stato pensabile. E' in questo senso che mi
sembra lecito sostenere che, in questa specifica circostanza, il ricorso al modello
evolutivo suggerisca un tipo di intervento clinico che ha forse più chances di quello
messo a disposizione dal modello psicopatologico, che ha ogni tipo di diritto a
pretendere di decretare quale debba essere la strategia dell'intervento in quanto modello
più forte, collaudato e adatto a fronteggiare i rischi di situazioni cliniche tanto esposte,
ma che può temporaneamente cedere il passo al più agile ed astuto modello evolutivo
che dispone di maggiore ed efficace alleanza con le motivazioni fase specifiche a trovare
soluzioni adattive in tempi sopportabilmente brevi anche se di durata più aleatoria.
Al Sé adolescenziale, o a quella parte di Sé ancora capace di sperare interessa molto nel
periodo della crisi suicidale capire come mai il suo protettivo ed inalienabile oggetto
primario sia divenuto così pericoloso tanto da sembrargli impossibile la sopravvivenza
se non dopo averlo placato e al tempo stesso averlo messo in scacco con un gesto atroce,
frutto di una crisi di vergogna ingovernabile con azioni più miti. Le proiezioni possono
essere più facilmente ritirate e i comportamenti e le proiezioni dell'oggetto possono
mitigarsi notevolmente sotto l'onda d'urto del trauma che induce a mitissimi consigli e
spesso a interessanti rinegoziazioni quanto meno del livello di aspettative e
conseguentemente della implicita minaccia di svergonare dinnanzi al tribunale della
storia famigliare. Ritirando le proiezioni e ammorbidendosi le aspettative segrete
dell'oggetto insormontabile, divenuto temporaneamente disponibile ad abbassarle a zero
pur di essere rassicurato di non essere causa di morte invece che fonte di vita, si riduce
rapidamente l'incubo di vedersi la strada sbarrata dal patto sottoscritto a propria insaputa
vendendo l'anima al diavolo in cambio di un sorriso compiaciuto e pieno di ammiccanti
sottintesi. Diviene possibile la confessione della propria ignominia seguita dal
sorprendente consenso proprio da parte dell'ostacolo insormontabile ad essere quel nulla
che si è sempre stati; è finita l'era dei prodigi, s'avvicina il tempo della resurrezione,
l'agnello sacrificale s'appresta a farsi uomo, più spesso donna, dato il numero ben
maggiore di ragazze che tentano il suicidio rispetto ai ragazzi che quando decidono di
attaccare il corpo poco si curano della sua bellezza e perciò lo deturpano con strumenti
letali.
Sono convinto che ci si vergogni a tutte le età, ma che in adolescenza ci si vergogni tutti,
molto e che sia uno dei tanti problemi dell'adolescenza quello di diventare svergognati e
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moderatamente spudorati senza rischiare di perdere il senso del limite e della decenza.
Per alcuni adolescenti la vergogna diventa il problema principale (vergogna del corpo,
della famiglia, della statura, della voce, della follia, della sessualità eccetera), soprattutto
vergogna per non essere all'altezza di una nebulosa aspettativa interna orientata a
denigrare comunque qualsiasi risultato e performance. La pervasività di questo affetto
doloroso ma formativo è molto elevata e, a mio avviso le difese che l'adolescente
escogita per non provare crisi acute di vergogna assomigliano alle difese rispetto alla
ferita narcisistica, ma non lo sono del tutto poiché non sono in grado di organizzare tutto
il sistema di rappresentazioni. Ad esempio le fobie impostate dalla vergogna non hanno
certamente le caratteristiche delle fobie nevrotiche ma la perentorietà delle proiezioni,
delle massicce e concrete identificazioni proiettive o sono effimere, oppure
ingravescenti fino a rasentare il delirio di trasformazione corporea, la negazione
massiccia della realtà corporea o del giudizio sociale. Insomma la vergogna
adolescenziale ha delle caratteristiche di consapevolezza, di accesso alla
rappresentazione e alla parola che non ha certo la crudezza inaccessibile del cupo e
remoto dolore narcisistico dei disturbi della personalità anche se possono diventarlo,
preluderlo, prepararlo o essere da lui stesso generate e alimentate. Inoltre ha la
caratteristica di determinare implosioni acutissime, disorganizzanti, non gestibili,
appunto insormontabili, crisi acutissime di vergogna che hanno delle manifestazioni
peculiari sia nel mondo interno sia per i comportamenti che innescano fra i quali anche
la crisi suicidale nel corso della quale purtroppo può imporsi l'illusione che si possa
scomparire senza morire, attaccare il corpo senza ucciderlo, sparire dalla scena e spiare
da dietro le quinte l'effetto che fa. Questi sono problemi legati al percorso evolutivo,
all'età, non necessariamente ad una patologia, ad una grave crisi evolutiva della quale è
incerto l'esito. Ci si può ammalare ma può darsi che aiuti a crescere, che sia la soluzione
atroce ad un piccolo problema che si è amplificato a dismisura nella cassa di risonanza
della mente adolescenziale ancora incapace di tollerare il dolore mentale, di
simbolizzarlo, verbalizzarlo e conseguentemente organizzare difese adattive.
Generalmente le cure spontanee degli adolescenti sono peggiori dei mali che vorrebbero
curare o comunque sono smodate, monumentali, prodighe e ricche di effetti secondari
assai nocivi alla salute scolastica, sociale, familiare e mentale.
Ecco perché un intervento clinico che decida di favorire l'elaborazione di tematiche
specifiche dell'adolescenza, affetti fisiologici ma che per l'intensità e l'inesperienza della
mente adolescenziale divengono micidiali, vengono espulsi assieme ad altri contenuti
mentali e vengono proiettati sul corpo guardato in cagnesco come fosse il responsabile
del disonore o di tutti i propri fallimenti.
Ricordo una frase di un paziente molto anziano del quale stavo raccogliendo le notizie
cliniche da giovanissimo medico assistente in un reparto di medicina generale che
sollevando le coperte ed indicando il suo pene mi disse: "Lo vede, è lui la mia malattia;
è lui il responsabile di tutte le mie disgrazie; me lo tagli; è l'unica cura possibile; lo
chieda a lui cosa mi ha costretto a fare e subire". Gli adolescenti in certi casi la vedono
così: guardano l'immagine deteriorata ed incompleta del corpo, scuotono il capo e
sussurrano: "Così non và, meglio eliminarlo". Se sono femmine possono limitarsi a
dimagrirlo, se sono maschi possono anche sparargli, o appenderlo come un salame ad
una corda. In quel momento sono pazzi? Forse, ma se si salvano è meglio non
considerarli sempre e comunque tali, ma aiutarli a ricostruire i motivi per i quali hanno
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escogitato una soluzione atroce e folle ad un problema grave ma che non sempre è
dovuto all'essere del tutto pazzi; ci vuol tempo per impazzire, anche se spesso lo si
diventa in un attimo, ma può succedere che durante una grave crisi evolutiva ci si
comporti come dei pazzi senza esserlo davvero. Regalare l'identità di malato mentale ad
una ragazzina in crisi è un lusso che non possiamo concederle; se ne approfitterebbe e
sarebbe uno dei tanti vizi che diamo ai ragazzi; è più educativo imporre una forte
assunzione di responsabilità nei confronti di ciò che si è e si è fatto e non accampare
folli pretesti che autorizzano a considerarsi degli irresponsabili
E' una passerella stretta quella su cui transita l'intervento clinico in adolescenza nel
corso delle concitate consultazioni in occasioni di gravi crisi, espressione di un dolore
mentale profondo, che ha origini remote e che sicuramente è alimentato da una lunga
storia di traumi cumulativi, di deprivazioni, spesso di violenze ed inadeguatezze
educative familiari e del contesto di crescita allargato. Una passerella sospesa fra il
sempre disponibile ritorno all'uso del paradigma psicopatologico col suo setting
collaudato e il terreno, a mio avviso infido, dei colloqui cosiddetti di sostegno, di
spensierata presa in carico psicologica in attesa di imperscrutabili e spesso inesistenti e
millantati sviluppi successivi, troppo banali per non sconcertare ragazzi molto sofferenti,
in attesa di interventi più intelligenti di quelli che già gli adulti di riferimento hanno
tentato senza esito appunto perché troppo banalizzanti, rassicuranti, cioè privi di
empatia, retorici, esortativi, spesso moralisticamente sbrigativi, molte volte impauriti da
ciò che i ragazzi in crisi lasciano intravedere, che di null'altro parlano se non della follia
e della morte.
Si tratta di essere risoluti nell'accettare la sfida di un lavoro tempestivo imposto ma
anche concesso dallo scompaginamento delle difese, che consente di intercettare
problematiche affettive e relazionali attuali, caratteristiche dell'adolescenza che sta
fallendo, che s'è ingarbugliata nell'intrico di relazioni familiari, amicali, scolastiche,
sentimentali di cui l'adolescente ha perso del tutto il controllo, a volte anche cognitivo,
di cui non riesce a parlare perché è confuso lui quanto lo è l'ambiente in cui vive in cui
ormai si risponde colpo su colpo, a cortocircuito, nel frastuono dello smottamento di
macerie educative, rivolte inconcludenti, repressioni vendicative e figlicide. Nel caso
della crisi suicidale si appalesano delle dinamiche del tutto fase specifiche su un ordito
tessuto negli anni precedenti: se ci si avventa sulle dinamiche fase specifiche si sceglie
la strada della tempestività, dell'intervento di crisi, della presa in carico intensiva che
non rinvia nulla, che drammatizza ciò che gli altri banalizzano, che estende l’intervento
a tutto il gruppo umano di cui l'adolescente fa parte e che soffre come lui, nella
convinzione che "metterla giù dura" sia molto meglio che metterci una pezza che rischia
di rendere la piaga cancrenosa.
L'intervento clinico su ambedue i genitori come obbligatorio potremmo considerarla
un'altra caratteristica della presa in carico dell'adolescente reduce da una crisi suicidale.
Molti gruppi di psicoanalisti dell'adolescenza guardano da tempo alla famiglia
dell'adolescente come ad uno degli interlocutori privilegiati del loro intervento. Sembra
del tutto vero che ambedue, ma più spesso più uno dell'altro, sono i reali destinatari
dell'acting commesso dal figlio o dalla figlia, al di là dei falsi bersagli dichiarati dietro i
quali si intravede abbastanza chiaramente la sagoma del genitori disturbante.
Considerare uno dei due genitori non tanto come la causa o comunque il promotore
dell'acting del figlio, quanto come il destinatario dell'appello che l'acting contiene,
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induce a prendere in seria considerazione il progetto di recapitarlo affinché il figlio non
sia costretto ad alzare il volume e la gravità dei gesti da compiere per riuscire a farsi
intendere. Mi sembra una della funzioni cruciali dell' intervento clinico quella di
distillare l'acting e intercettare il messaggio rivolto al genitore; senza un esperto che
sappia come procedere in questa complessa opera di mediazione è elevatissimo il rischio
che l'acting lungi dal contribuire ad una migliore intesa, complichi ancor più la
comunicazione, distorcendo ulteriormente le immagini reciproche e aumentando il
livello di ansia e conseguentemente la rigidità delle difese e dei pregiudizi dopo una
breve luna di miele ed uno sfoggio di buone intenzioni innescate dalla scoperta delle
impensabili capacità di commettere gesti apparentemente insensati del figlio.
Generalmente35 il processo all'interno del quale si addensano i conflitti più gravi, meno
verbalizzati, a volte neppure pensati è ovviamente quello della individuazione, della
separazione, della rottura della dipendenza. Le angosce “genetiche", soprattutto
sperimentate dalla madre, sono a volte di eccezionale intensità e promuovono difese
molto rigide che interagiscono con le ansie di abbandono, i sentimenti di colpa e di
vergogna del figlio che rischia di dovere esercitare la forza della disperazione per darsi
la dimostrazione momentanea di potercela fare e di non essere condannato a rimanere
figlio per sempre sequestrato dall'ansia della madre e dalla propria rinnegata dipendenza
che tracima dai travestimenti pseudo emancipati ed individuati, spesso energicamente
pseudo aggressivi.
La natura del messaggio è generalmente di marca prettamente adolescenziale; si tratta di
bisogni emergenti altamente conflittuali, vissuti profondamente come inaccettabili
narcisisticamente dalla madre e ritenuti dal Sé infantile dell' adolescente potenzialmente
distruttivi dell'oggetto nei cui confronti vige ancora la fantasia di doversi assumere
elevatissime responsabilità di natura depressiva. Come salvare la madre dal tornado
adolescenziale è spesso il tema centrale di molte adolescenze sia maschili che femminili;
il problema è come tenerla in vita mentre la si uccide e la questione appare spesso
insolubile soprattutto se la madre sfoggia la propria debolezza ed il fondato timore che
la perdita del sostegno narcisistico del figlio possa deprimerla oltre il livello di
tolleranza per altro già manifestamente piuttosto basso.
D'altra parte il figlio condivide spesso le angosce genetiche della madre; neppure lui sa
come andrà a finire la propria metamorfosi ed è lungi dal poter rassicurare che dalla
crisalide uscirà una bellissima farfalla e non un rivoltante scarafaggio. La metamorfosi
ha per statuto un esito aleatorio e nessuno sa come andrà a finire, né la madre, né il
figlio; e se il bambino d'oro diventasse un orribile tossicodipendente, un'artista di strada,
un giocoliere impenitente, una donnaccia senza pudore e dignità? Madre e figlio
guardano l'orizzonte della crescita ma la nebbia impedisce di vedere cosa si profili; nel
frattempo quello che succede e più spesso proprio il fatto che non succeda mai nulla,
non rassicura costringendo la madre a gestire angosce sempre più motivate ed il figlio a
trovare soluzioni rapide, decisive e perciò spesso perigliose ed incerte negli esiti. In
queste condizioni di stallo può succedere che il figlio debba mandare un messaggio
urgente alla madre, ma che non sappia e non possa farlo con le parole. Se il messaggio
non viene recepito e non produce trasformazioni si profilano ulteriori guai.
Penso che non sia affatto semplice capire quale messaggio contenga l'acting andandolo a
35 Crepet P. (1993), “Le dimensioni del vuoto. I giovani e il suicidio” Feltrinelli Editore Milano.
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chiedere direttamente o indirettamente al figlio, blindandosi nella relazione
riservatissima con lui aspettandosi che dagli incontri segreti si possa uscire col
messaggio decriptato e recapitarlo al legittimo destinatario. In realtà spesso non è affatto
sufficiente chiederlo al protagonista, è necessario ascoltare a lungo i genitori e porsi nel
crocevia della loro interazione più che decennale col figlio nella prospettiva di
ricostruire il puzzle di una comunicazione spesso di imprevedibile complessità.
Soprattutto nelle famiglie a bassissima conflittualità, che utilizzano il sistema educativo
della vergogna, dotate di armadi ricchi di scheletri, con patrimonio normativo
minimalista, che ovviamente sono attualmente molto diffuse ma che comunque sono la
tipologia di famiglia più frequente alle spalle di figli che commettono atti sacrificali nei
confronti del corpo biologico, è molto difficile ricostruire la vicenda segreta che si è
conclusa col tentativo di uccidersi con le proprie mani da parte del figlio.
C'è stata istigazione da parte della madre depressa o da parte del padre rivale, disertore,
geloso dell'adolescenza sia del figlio maschio che della figlia femmina? Perché la
vicinanza quasi simbiotica non è stata in grado di raccogliere e dare valore ai segnali di
disagio del figlio, anche se debbo ammettere che è solo col senno di poi che certe
segnalazioni antecedenti all'acting acquistano significato premonitore? Qual’è il sistema
educativo utilizzato in famiglia, in che senso il gesto del figlio potrebbe esprimere
l'impossibilità di dire di no, di dire di sì, di decidere? Perché aspettative così elevate, da
quale livello generazionale provengono, perché contava più la bellezza della persona che
la sua eticità? Perché non era facile mentalizzare la corporeità sessuata e generativa
all'interno di quelle relazioni con i genitori? Quali traumi recenti hanno minacciato o
realizzato di mortificazione o di umiliazione il figlio? Come si è costruito l'ostacolo
insormontabile? In che senso l'azione violenta e disperata del figlio può aprire un varco
comunicativo e consentire il ritiro delle reciproche proiezioni mettendo le premesse di
possibili processi di individuazione e marchingegni capaci di elaborare il lutto
narcisistico in modi meno spericolati? Perché è nato il bambino, quale mission doveva
adempiere, perché era così difficile dare le dimissioni come succede in tante altre
famiglie in cui in occasione dell'adolescenza i figli annunciano di dimettersi dalle
cariche e missioni narcisistiche loro attribuite durante l'infanzia, spesso anche su
incarico dei nonni, e di volersi ritirare a vita privata, preferendo di gran lunga essere
prima uguale agli altri e poi diverso, perché se lo si dà per scontato di essere diverso
diventa molto difficile sia farsi degli amici che inserirsi davvero nella vita della coppia
eterosessuale? Quante possibilità ci sono che la competenza di ruolo consenta ad almeno
uno dei due di porsi in posizione di ascolto del messaggio del figlio onde organizzare
una risposta intelligente che non sia banalizzante o espressione di esagerata
colpevolizzazione o subdolamente vendicativa per l'affronto subito?
Per riuscire a far presto e relativamente bene sia opportuno interagire con la madre e il
padre del reduce dal tentativo di suicidio separatamente, offrendo loro due psicologi
clinici diversi che siano esperti di valutazione della competenza di ruolo e sia motivato a
raccogliere la rappresentazioni del ruolo materno e del ruolo paterno tentando di evitare
la peraltro inevitabile contaminazione da parte del ruolo coniugale e della relativa
conflittualità e tentando anche di preservarlo dall'influenza che ha la cultura della coppia
genitoriale sulla maternità e paternità. Non si tratta di un compito semplice, ma non è
neppure impossibile porre ascolto selettivo al linguaggio della cultura affettiva della
madre, sempre così diverso da quello che viene intonato quando a raccontare la storia e
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le bugie sono i due genitori assieme che presentano la cultura della coppia genitoriale,
spesso davvero difforme dalla storia e dalle invenzioni di ciò che ha capito il padre nella
sua privata e ben diversa gestione della genitorialità, spesso molto critica nei confronti
di come esercita la funzione di genitore l'altro partner, sospettato nell'occasione di non
aver sorvegliato e provveduto e prevenire l'incidente di percorso.
Ciò è soprattutto vero per ciò che concerne il padre, destinato se lo si ascolta assieme
alla moglie madre a patire la maggior quantità di informazioni di cui ella dispone e a
ripetere in sede di colloquio ciò che succede a casa e cioè di delegare i contatti col
mondo delle istituzioni para familiari e ritirarsi in uno sprezzante Aventino educativo. Il
padre ascoltato da solo racconta storie diverse da quelle che lascerebbe raccontare alla
madre se fossero assieme; racconta la storia della propria formazione ed è proprio il
canto del padre che egli intona, non quello del genitore che è altra faccenda, ben diversa
perché nasce dalla mediazione con la prospettiva materna e si discosta anche dalle
rivelazioni che potrebbe essere indotto a fare se lo si ascoltasse come marito della madre
del figlio, cioè complice di una coppia coniugale inopinatamente trasformatasi in coppia
genitoriale all'interno della quale può succedere che il padre taccia e acconsenta fino al
giorno in cui il figlio rischia di morire ed allora comincia a raccontare e parla a titolo
personale36. Può anche succedere che non si riesca ad aiutare il padre a parlare da padre
e si debba accontentarsi delle rivelazioni che può fare un marito o un genitore che sono
spesso utili e interessanti ma non aiutano a realizzare l'obiettivo per cui si è lì riuniti che
è di capire quanto il padre in quanto padre sia disponibile a mettere le proprie risorse di
ruolo al servizio della ripresa evolutiva del figlio. E' noto infatti che spesso le crisi
adolescenziali hanno come obiettivo strategico quello di riuscire a rendere il padre meno
assente col figlio e più vicino alla madre.
Quanto alla madre anch'essa va ascoltata individualmente perché è urgente che
emergano le rappresentazioni prevalenti del processo di separazione dal figlio
inesorabilmente fallito dato il motivo per il quale ci si ritrova a parlarne. E' necessario
che ella possa intonare il proprio canto materno solitario e disperato e sia aiutata ad
utilizzare tutte le proprie competenze di ruolo per recepire il messaggio del figlio e
negoziare con lui la fine delle ostilità e l'organizzazione di una pace conveniente per
tutti. Sul tema della vergogna, umiliazione, mortificazione, rabbia e desiderio di
vendetta del figlio, sulle ragioni profonde per cui il figlio non sia riuscito a mentalizzare
il proprio corpo e abbia quindi potuto attaccarlo come non fosse lui stesso ma un
burattino o un piccolo robot, sui motivi che possano averlo indotto ad uno scacco grave
della capacità di simbolizzazione e costretto a concretizzare atrocemente la resa
all'ostacolo insormontabile, la madre ha molto, anzi tutto da dire ed aiuta a capire; se
non si capisce come è possibile anche solo immaginare di poter aiutare gli altri a capirci
qualcosa di ciò che è successo e potrebbe ancora succedere?
Quando si è riusciti a capirci qualcosa, il più tempestivamente possibile è quanto mai
opportuno, anzi obbligatorio organizzare un incontro fra i genitori ed il figlio per
restituire tutto ciò che si è riusciti bene o male a capire e formulare assieme il progetto
che dovrebbe garantire una rapida ripresa evolutiva anche se la durata del lavoro
complessivo è generalmente piuttosto lunga. Nella nostra esperienza si tratta di un
36 Richman J., (1979), " Family determinants of attempted suicide. Proceding 4 the international conference of suicide prevention" Family Process
18, pp. 131-142.
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intervento clinico di elevata complessità e dotato di obiettivi motivanti ma anche fonte
di notevole ansietà. E' naturale che i genitori arrivino all'incontro portatori della
domanda cruciale: "Allora dottore ci dica cosa è veramente successo? Perché l'ha fatto?
Lo rifarà? E' un sintomo di malattia o è stata un disgrazia, un raptus, l'effetto degli
spinelli?". E che il figlio sopraggiunga con la richiesta di tornare alla normalità dopo che
si sia fatta chiarezza sulla natura del messaggio che ha lanciato compiendo il gesto
terroristico e disperato.
Non si tratta certo di aspettative di basso profilo e naturalmente non è affatto vero che si
voglia fare luce davvero su questioni tanto complesse; il più delle volte direi che è più
una aspirazione del clinico che un bisogno del terzetto familiare quello di fare chiarezza,
distillare il gesto, donargli senso, individuare il destinatario dell'intento comunicativo
che costituisce uno dei fattori che lo ha promosso, recapitarglielo, accertarsi che sia stato
ben compreso, elaborare la gravissima ferita narcisistica che il rifiuto di continuare a
viver quella vita ha inflitto ai genitori, temperare la vergogna nei confronti dell'onta di
famiglia, riorganizzare la speranza che non tutti i mali vengano per nuocere, che anzi ci
voleva il trauma per sistemare molto meglio le cose e garantirsi futuri più liberi e sereni,
ma che comunque c'è un grosso lavoro da fare, le medicazioni non hanno concluso il
lavoro ma anzi hanno decretato l'urgenza di iniziarlo quanto prima e di buonissima lena.
Individuare perciò gli obiettivi di questo incontro che per il momento trovo pertinente
definire di "restituzione" non è affatto semplice in quanto esso rappresenta da un lato la
chiusura della fase di intervento di emergenza ma è del tutto necessario evitare di
autorizzare il terzetto a ritenere chiusa la partita che in realtà è appena iniziata e nessuno
può sapere quanto durerà e come si concluderà. Trovo corretto il termine restituzione
perché di fatto l'incontro prende le mosse proprio dal tentativo del clinico di riferire cosa
si sia compreso dal confronto fra i diversi materiali emersi nei colloqui con la madre, da
quelli col padre, da quelli col figlio; emergono delle ipotesi, un universo di
rappresentazioni, narrazioni diverse o convergenti, insomma, nel clima concitato e
spesso assai angosciato dei primi giorni dopo il tentativo di suicidio, ognuno ha detto la
sua verità, impegnandosi moltissimo nella speranza di essere perdonati, assolti o
condannati a pene miti, anche se l'auspicio prevalente è che si possa considerare il tutto
una ragazzata, una bravata, un impulso di collera più che di dolore, un modo per farsi
notare per attirare la ambigua benevolenza che fin dalla porta del pronto soccorso è
destinata al giovane aspirante suicida che spesso viene più rimproverato per quello che
ha combinato che diventare destinatario delle richieste di perdono da parte degli altri
protagonisti del dramma.
Si tratta di restituzione anche perché effettivamente si restituisce ai legittimi proprietari
il significato simbolico di ciò che hanno detto, il valore relazionale di ciò che hanno
sostenuto, il senso educativo di ciò che hanno detto di aver fatto o omesso di fare. La
restituzione dovrebbe svolgere la funzione di elaborare il lutto patito e tuttora in corso
attraverso una apertura del processo di simbolizzazione intrafamiliare e nel contempo o
in rapidissima successione dovrebbe aprire la partita della riorganizzazione della
speranza e pertanto della formulazione di un progetto che funzioni in modo radicalmente
preventivo nei confronti della recidiva del gesto suicidale; questo è un risultato
irrinunciabile e costituisce la motivazione centrale del cambiamento almeno per quanto
riguarda i genitori e il loro accettare di coinvolgersi in un lavoro di larghissimo respiro,
tutt'altro che facile, senza dubbio abbastanza doloroso.
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A questo intervento nelle vicinanze temporali del gesto suicidale faranno ovviamente
seguito altri colloqui che materializzano il progetto che è stato predisposto nel corso del
colloquio di restituzione. Si tratta di un processo più o meno lungo, il termine del quale
è raggiunto allorché si abbia ragione di ritenere che i principali fattori che potrebbero
congiurare ad ispirare una recidiva dell' atto suicidale sono largamente sotto controllo e
divenuti oggetto di franca discussione e di elevato livello di consapevolezza. Si tratta in
genere di una trasformazione importante del modello educativo, del ritiro delle
proiezioni, di un più moderato uso dell'umiliazione e della mortificazione nella relazione
col figlio, di un più austero livello di aspettative nei confronti della realizzazione sociale
e scolastica della sua unicità e splendore originario. E’ a nostro parere preferibile che il
padre e la madre seguano percorsi separati poiché è la funzione materna e quella paterna
che deve essere riabilitata, non la più vaga e meno pregnante funzione genitoriale di
coppia che gestisce fenomeni molto meno complessi poiché lavora nell'area delle norme
e dei limiti più che nell'area della bellezza e dell'unicità del figlio.
Ritengo che il setting che si viene a configurare abbia così una sua specificità anche
grazie a questo forte investimento nell'area della riabilitazione della funzione materna e
paterna: d'altra parte abbiamo fondati motivi che per capire appena decentemente come
funziona la mente di un adolescente non è sufficiente avere una mappa fedele degli
oggetti interni ma bisogna conoscere altrettanto bene anche quelli esterni che sono
spesso molto più imprevedibili di quelli interni. I genitori dell'adolescenza sono spesso
assai diversi da quelli dell'infanzia; sono molto peggiori: quando il figlio era piccolo
qualche ritegno l'avevano ma ora possono dirglielo chiaro e tondo che se vuole
scomparire dalla circolazione è libero di farlo, che la casa è una pensione e che abitare lì
ha un prezzo e bisogna pagare la pigione altrimenti ci si trova il bagaglio in strada.
Nel complesso sembra di riscontrare che la psicodinamica del gesto suicidale ha
parecchio a che vedere col tentativo di comunicare ad uno dei due genitori un messaggio
importante che è contemporaneamente di richiesta di aiuto e di odio per l'umiliazione
che il suo modello educativo o il suo atteggiamento somministra alla figlia che sta
cercando, in quanto adolescente, di separarsi proprio dalle esigenze tuttora vive di
ottenere il consenso o quanto meno il rispecchiamento di ciò che sta succedendo. Nei
casi in cui il genitore più coinvolto nel dramma ha saputo fornire una ricevuta
abbastanza convincente si aprono, a nostro avviso, delle prospettive più tranquillizzanti
rispetto al pericolo di una possibile recidiva del gesto suicidale perché almeno questo
fattore di rischio sembra se non eliminato almeno ridotto nella sua pervasività. Da tempo
medici e studiosi si domandano se sia possibile prevenire e in qualche modo arginare il
problema del suicidio adolescenziale. Tale prevenzione dovrebbe articolarsi attraverso
tre fasi:
1) La prevenzione primaria37
La prevenzione primaria pone attenzione al grado di fragilità e vulnerabilità
dell’adolescente si rivolge ai ragazzi, alle famiglie, agli insegnanti ed ha come obiettivi:
- mantenere e preservare un buono stato di salute mentale;
- impedire la crisi eliminando i rischi o apportando modifiche a situazioni problematiche;
37 Soft P., (1989) “Prevenzione del Suicidio nell'Adolescenza. Interventi nella scuola” Edizioni Erickson.
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- promuovere nell’adolescente abilità di empowerment e problem solving;
- consolidare i legami affettivi del ragazzo;
- informare il ragazzo sulle cause che possono portarlo a condotte autolesioniste;
L’elemento principale su cui interviene la prevenzione primaria è il livello di autostima.
Gloria Steineman afferma che l’autostima è “a capacità di/la propensione ad apprezzare il valore e l’importanza della propria persona, nella consapevolezza di poter fare
affidamento su se stessi e di agire responsabilmente nei confronti, oltre che di se stessi
anche degli altri”.
All’interno dei programmi preventivi rivolti agli adolescenti, il concetto di autostima è
importante in quanto è strettamente collegato alla capacità di individuare gli eventi
negativi della vita e riuscire a fronteggiarli.
E’ un elemento fondamentale del concetto di sé, si forma, man mano che il bambino
cresce, all’interno delle relazioni affettive più significative ed è determinato da diversi
fattori. Commenti e giudizi degli altri, norme e valori culturali, attenzioni che riceviamo
dagli altri, ma anche e, forse soprattutto, dalle esperienze di successo o fallimento che
ognuno di noi fa e dalla loro elaborazione cognitiva.
Aiutare un adolescente a migliorare la propria autostima e quindi il proprio concetto di
sé significa aiutarlo ad avere una maggiore fiducia nelle proprie capacità di far fronte
agli eventi negativi della vita.
Un ragazzo che non riesce a prendere iniziative, che non riesce ad essere autonomo, che
ha un costante senso di sfiducia nelle cose e nelle persone, svilupperà problemi di
adattamento sociale e di difficoltà individuali che potrebbero portare a comportamenti
come l’abuso di alcol o di sostanze stupefacenti, ad avere scarsi risultati scolastici, a
sviluppare una sindrome depressiva. A questo punto il passaggio a condotte auto
lesionistiche o comportamenti suicidari è breve.
Nei programmi di prevenzione primaria delle condotte suicidarie, attuati soprattutto
nelle scuole, molta attenzione viene data alla qualità del clima e all’atmosfera
psicologica della classe.
Inoltre, in tali programmi, vengono passate agli insegnanti informazioni riguardo la
differenza del livello di autostima tra ragazzi e ragazze: nelle ragazze in genere è più
basso che nei ragazzi.
Viene suggerito di trattare l’allievo con rispetto, di rinforzare gli aspetti positivi della
sua personalità, di evitare di mettere a confronto il comportamento di un ragazzo con
quello di un altro, di ascoltare gli adolescenti con attenzione ed interesse, in quanto
questo significa dar valore al suo punto di vista ed incoraggiarlo ad esprimere e
difendere le proprie opinioni e le proprie sensazioni siano esse negative che positive.
E’ importante ricordare che un ragazzo con un basso livello di autostima spesso
proviene da una famiglia nella quale gli viene costantemente richiesto di fare di più e di
meglio, per cui è importante interrompere questa pressione spesso intollerabile ed
inutile. In un programma di prevenzione primaria, al ragazzo viene insegnato a
riconoscere la differenza fra il sentirsi amato e l’essere amato.
2) La prevenzione secondaria
La prevenzione secondaria si rivolge soprattutto agli insegnanti ed ha come obiettivi:
a) riconoscere i segnali premonitori di una condotta autolesionistica o suicidaria;
b) intervenire quando questi assumono una rilevanza preoccupante;
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c) riuscire a limitare i danni che questa condotta può determinare;
d) prevenire eventuali ricadute;
e) stabilire contatti con le risorse disponibili sul territorio.
E’ importante per gli insegnanti imparare a distinguere e riconoscere le tre categorie di
segnali:
- I segnali verbali sono le frasi a contenuto inequivocabile o dal contenuto meno
chiaro ma che possono suscitare allarme.
- I segnali comportamentali riguardano situazioni che potrebbero apparire come
normali, ma se visti in un contesto più ampio possono rivelarne la pericolosità.
Segnali comportamentali possono essere:
1- tristezza e pianto improvviso;
2- aumento o diminuzione del sonno;
3- aumento o diminuzione dell’appetito;
4- calo dell’attenzione e della capacità dell’attenzione;
5- peggioramento del rendimento scolastico;
6- cambi repentini del tono dell’umore;
7- tendenza ad arrabbiarsi ed a litigare;
8- tendenza alla solitudine;
9- aumento dell’uso di alcol e di droghe;
10- allusioni, nei temi, nelle poesie ed in altri scritti, alla morte;
11- disinteresse per l’elaborazione di piani per il futuro.
I segnali situazionali sono quelli che permettono di contestualizzare i segnali verbali e
comportamentali. I principali sono:
1- rottura di una relazione affettiva significativa;
2- difficoltà di comunicazione con i genitori;
3- guai con la giustizia;
4- gravidanze indesiderate;
5- disturbi psicofisici;
6- cambi di abitazione o città;
7- separazione o divorzio dei genitori;
8- morte inaspettata di una persona cara.
Individuati precocemente alcuni di questi segnali è fondamentale non farsi prendere
dalla paura di parlarne, non temere di affrontare il problema. Diventa importante
affrontare l’argomento suicidio in modo aperto e chiaro, senza perifrasi; permettere il
confronto ed il dialogo fra gli allievi; mostrare interesse e considerazione per la persona.
Nella prevenzione secondaria è utile capire se esistono piani specifici riguardo al
suicidio, l’eventuale intenzione di scrivere lettere a genitori o amici, distinguere chi
pensa alla morte in modo generico e chi invece ha immaginato dettagliatamente come
uccidersi.
3) La prevenzione terziaria
La prevenzione terziaria riguarda il lavoro con i sopravvissuti ad un suicidio: genitori,
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compagni di scuola, insegnanti, e si prefigge una serie di interventi per minimizzare gli
effetti del contagio e massimizzare quelli della prevenzione.
Non ci sono molte indicazioni su cosa fare con chi resta, comunque la cosa più
importante sembra essere la modalità che viene utilizzata per parlare del suicidio.
L’ambito di intervento della prevenzione terziaria è, come per la prevenzione
secondaria, la scuola. Quando si verifica il suicidio di uno studente, è importante porre
attenzione alle risorse della scuola per aiutare compagni ed insegnanti, a superare il
dolore, la paura, la rabbia, i sensi di colpa che spesso accompagnano l’evento.
Il suicido di un allievo ha un profondo impatto disgregatore sulla comunità scolastica. Il
compito della prevenzione terziaria è l’elaborazione ed il superamento del dolore. Il
ritorno alla normalità avviene molto meglio attraverso attività programmate che
permettono, al personale insegnante ed agli studenti, di parlare dei loro sentimenti.
Quello di cui, soprattutto i ragazzi, hanno bisogno per fronteggiare la crisi è una
comunicazione chiara, non false raccomandazioni che tutto andrà per il meglio. Hanno
bisogno di poter esprimere i loro sentimenti e le loro emozioni.
Quindi si suggerisce alla scuola di non enfatizzare o romanticizzare l’azione avvenuta,
ma seguire il più possibile le procedure normali previste, per esempio, in caso di morte
di un alunno. E’ utile riconoscere la morte ed il fatto che si è trattato di un suicidio, ma
non è necessario dare dettagli sulle modalità usate.
Sarebbe meglio parlare di quanto accaduto in piccoli gruppi piuttosto che in una grande
assemblea. La partecipazione ai funerali, da parte di insegnanti ed allievi, dovrebbe
seguire la procedura prevista per le morti avvenute per cause diverse dal suicidio. E’
meglio evitare lapidi o altre modalità di commemorazione.
Comunque counselor o altro personale specializzato dovrebbe assistere insegnanti,
allievi e famiglie per aiutarli fronteggiare l’evento e la conseguente situazione di crisi.
Da quanto detto, si può concludere che le misure di prevenzione nella fase
adolescenziale rivestono una grande importanza. I comportamenti autolesionistici e
suicidari possono essere contrastati con un‘educazione, una cultura ed una formazione
consapevoli. Le famiglie, la scuola, le associazione e le politiche sociali e
dell’istruzione, dovrebbero farsi sempre più carico della prevenzione, soprattutto di
quella primaria, anche se la diminuzione dei suddetti comportamenti, una volta iniziato
un intervento di prevenzione, si vedrà solo nel lungo tempo.
I cinque obiettivi del trattamento.
1. Migliorare le relazioni familiari:
- Il terapeuta aiuta l’adolescente a descrivere la sua depressione: in questo modo il
terapista utilizza la gravità/serietà del disturbo come arma per motivare la famiglia a
sperimentare comportamenti alternativi.
- Il terapista suscita nell’adolescente e nei suoi familiari sentimenti di rimorso/colpa
per la distanza e i conflitti che si sono verificati nel nucleo familiare per via della
depressione. Per fare questo chiede: “Quando vostro/a figlio/a è stato/a così male,
da desiderare di morire, come mai non è venuto/a da voi a chiedere aiuto?”; “In
che modo, ora, potete diventare una risorsa per vostro/a figlio/a?” Queste domande
aiutano la famiglia a spostare l’attenzione dai sintomi ai processi/eventi che hanno
contribuito a danneggiare il sentimento di fiducia reciproca e hanno compromesso la
comunicazione.
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Questa fase si conclude suggerendo ai genitori che solo riducendo le distanze che si
sono create tra loro e il proprio figlio le tensioni si ridurranno, la comunicazione
migliorerà e l’adolescente potrà ritrovare un po’ della sicurezza perduta.
2. Costruire l’alleanza con l’adolescente:
Questo colloquio si tiene alla sola presenza dell’adolescente (senza i genitori) e ha lo
scopo di costruire un legame di alleanza/fiducia con il terapeuta. Il terapeuta deve,
innanzitutto, mostrarsi interessato al contesto sociale dell’adolescente e al suo mondo
(hobbies, interessi, amicizie ecc.).
Successivamente il terapeuta deve fissare gli obiettivi che intende raggiungere
attraverso il trattamento. Tali obiettivi devono essere significativi per l’adolescente e
condivisi. Questa fase costituisce il primo passo verso l’obiettivo del ri-attaccamento. La
conversazione continua cercando di identificare i problemi di vecchia data tra
l’adolescente e i suoi genitori.
Nella terza fase il terapeuta si deve assicurare che l’adolescente sia disposto a
collaborare al compito del ri-attaccamento. In genere gli adolescenti che soffrono di
depressione non hanno più speranze di poter ottenere dei cambiamenti nella FF.OO.,
oppure hanno una visione idealizzata dei loro genitori e non riescono a criticarli. Il
compito del terapeuta, allora, è quello di modificare queste credenze e aiutarli a
sviluppare nuove capacità cognitive ed affettive necessarie a rinegoziare la propria
autostima. In pratica, il terapeuta deve insegnare all’adolescente a comunicare con più
efficacia.
3. Costruire l’alleanza con i genitori - colloquio con i soli genitori.
Il terapeuta inizia ad esplorare aspetti della vita dei genitori, indipendenti dalle
problematiche del figlio adolescente, come il lavoro, gli hobbies, le amicizie, eventuali
disturbi psichiatrici, eventi stressanti e conflitti di coppia e indaga sulle tematiche
intergenerazionali (raccoglie informazioni sui rapporti tra loro e le rispettive famiglie di
origine). L’obiettivo di questa indagine è quello di aumentare la motivazione a
proteggere la nuova generazione (i propri figli) dalle ingiustizie/torti subiti e quindi
cambiare il copione transgenerazionale. In secondo luogo, il terapeuta indaga sulle teorie
dei genitori su come devono essere gestite le emozioni in famiglia. E per finire il
terapeuta concentra l’attenzione sul ruolo genitoriale all’interno della famiglia. Questa
prima fase culmina con l’esplorazione di quelle tematiche (es.: stress, storia familiare,
conflitti genitoriali, meta-emozioni) che possono complicare il compito, di per sé già
difficile, di essere genitori di un adolescente depresso.
Il terapista introduce il tema del ri-attaccamento e invita i genitori a prepararsi a questa
fase dicendo: “OK, questo è ciò che voglio fare ora! Io penso che vostro/a figlio/a abbia
dei pensieri in testa, che voi dovreste sapere. Ascoltarli potrebbe essere doloroso, ma
finché non li ascolterete e non li capirete lui/lei non potrà fidarsi di voi! Volete
ascoltare questi pensieri?”. A questo punto i genitori potrebbero mostrare delle
resistenze. Il terapeuta, allora, li rassicura sul fatto che il processo di ri-attaccamento non
ha nulla a che vedere con le colpe, ma serve all’adolescente per sviluppare un
sentimento di sicurezza e di giustizia e le capacità interpersonali per superare il senso di
ingiustizia subita.
Se i genitori accettano tale spiegazione e superano le loro resistenze, il terapeuta procede
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nel compito del ri-attaccamento che consiste nell’insegnare ai genitori una serie di
capacità/abilità affettive:
a - accettare le forti emozioni;
b - ascoltare in modo empatico;
c - validare e riconoscere i sentimenti.
Queste abilità aiutano i genitori ad ascoltare i bisogni dei figli, fare loro domande, essere
curiosi e a non mettersi sulle difensive con atteggiamenti troppo rigidi. Il successo del
trattamento dipende dalla capacità di comprensione dei genitori e dalla loro abilità di
usare questi suggerimenti nella successiva seduta congiunta.
4. Il Riattaccamento - sedute congiunte genitori e figli
Se il terapeuta è stato in grado di creare una buona alleanza con i membri della famiglia,
si inizia ad introdurre il tema delle lacune relazionali. Il terapeuta incoraggia
l’adolescente ad esprimere il proprio punto di vista in merito alla relazione con i genitori
e al tempo stesso sostiene i genitori affinché possano essere pazienti e ricettivi col
figlio/a. I genitori possono raccontare la propria storia (parlare dell’uso di sostanze,
storie di abusi subiti, o della loro stessa depressione). Questo momento crea un
sentimento di profonda intimità, come se due persone adulte stessero condividendo le
loro tragiche storie di vita. La soluzione dei conflitti non provoca automaticamente una
riduzione dei sintomi depressivi, ma dissipa le tensioni e l’ostilità che inibiscono la
fiducia e la comunicazione e fornisce alla famiglia un’esperienza positiva circa
l’autonomia psicologica dell’adolescente.
5. Promuovere le sedute congiunte genitori e figli
Obiettivi:
1) Aumentare la quantità e la qualità delle competenze esperienziali dell’adolescente.
2) Ridurre l’isolamento sociale.
3) Fare in modo che i genitori divengano una risorsa effettiva per l’adolescente.
Seduta centrata sul cambiamento del comportamento dentro e fuori casa. Questi
cambiamenti comportamentali sono sostenuti dalle abilità interpersonali sviluppate nella
prima metà del trattamento. In particolare il terapeuta ora incoraggia i genitori a
sostenere l’adolescente nel suo percorso di autonomizzazione. Allo stesso modo, il
terapeuta incoraggia l’adolescente ad essere meno richiedente, prendere la propria vita
più seriamente e ad accettare più responsabilità. In questa fase il terapeuta deve
mantenere la propria attenzione focalizzata su due fronti: i processi interpersonali (come
comunicano i membri della famiglia) e gli obiettivi comportamentali (es.: il
reinserimento scolastico dell’adolescente).
Il terapeuta incoraggia la famiglia a discutere di ogni argomento. I genitori sono istruiti
a sostenere l’adolescente nel suo processo di autonomizzazione e miglioramento delle
proprie competenze. Il terapeuta, inoltre, invita i genitori a mostrarsi interessati alle
attività svolte dal figlio/a, senza essere troppo coinvolti o controllanti, oltre che a farsi
delle aspettative realistiche nei suoi confronti.
Per alcuni adolescenti prendere decisioni in merito alla scuola o al lavoro può essere un
obiettivo importante. Idealmente, l’adolescente dovrebbe essere coinvolto nella
negoziazione di queste decisioni. Un importante passo nel processo di promozione delle
competenze è quello di migliorare la rete sociale e le risorse esterne alla famiglia. Il
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terapeuta dovrebbe, sin da subito, prendere contatti con i membri della famiglia estesa, il
personale scolastico e i servizi sociali. Questo sistema di supporto può fornire un
contesto e aiutarci ad identificare importanti obiettivi terapeutici.
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