Acta n.4-1958 articolo 10

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Acta n.4-1958 articolo 10
Istituti Ortopedici del Mezzogiorno d'Italia ­ Reggio Calabria ­ Messina Direttore: Prof. F. Faggiana I MODERNI CONCETTI NEL TRATTAMENTO DEI PARAPLEGICI DA FRATTURE MIELICHE VERTEBRALI di LUIGI EMANUELE FRANCO SCALABRINO Ancora qualche anno fa il traumatizzato vertebrale con sezione midollare era un soggetto dalla sorte segnata: tale era il risultato di una terapia puramente palliativa e incapace a modificare la prognosi di solito severa e troppo spesso infausta. In parte questo era dovuto alla frequente unilateralità con cui, da parte dei vari specialisti, si affrontava la questione terapeutica, realizzandosi in tal modo una mancanza di visione d'insieme che permettesse di risolvere in maniera concatenata i vari aspetti del problema. Così volta a volta l'ortopedico guardava al paraplegico come a colui del quale si doveva ridurre la frattura, non curandosi eccessivamente del quadro generale del malato, e lasciandosi a poco a poco scoraggiare dalla desolante impotenza dei suoi tentativi. D'altra parte il medico o l'urologo affrontavano gli aspetti generici dell'alterato metabolismo o delle turbe urinarie risolvendo forse il quadro, ma non ottenendo un miglioramento del malato. Noi intendiamo oggi sostenere che di fronte ad un paraplegico non si deve più assumere quell'atteggiamento di rassegnata aspettativa purtroppo necessario fino a venti anni fa: oggi di fronte ad un mieloleso è necessario predisporre ogni accorgimento per superare il difficilissimo momento fisico e psicologico, caratteristico di questi malati; fisico per il complesso delle lesioni dirette o riflesse che entrano a far parte del quadro clinico, psicologico per la scarsa reattività ove si pensi che essi sentono sfuggire a poco a poco da se ogni favilla di vita e si debbono rassegnare ad essere considerati da se e dagli altri dei relitti umani, immobili tronchi in un letto di dolore. Il problema dei paraplegici ha ricevuto un definitivo impulso dallo studio dei neurochirurghi americani, i quali di fronte al moltiplicarsi dei casi osservati furono costretti a creare una vera e propria patologia clinica del neuroleso.
184 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO Essi furono così in grado di indicare le possibilità terapeutiche che le diverse discipline, dalla ortopedia alla neurochirurgia alla urologia avevano sfiorato ma non messo a punto. Così oggi possiamo seguire uno schema di principi generali che concernono il trattamento dello shock traumatico e spinale, e cure urinarie e intestinali, la prevenzione delle ulcere da decubito ed il ritorno ad una vita professionale utile attraverso lo stadio del recupero e della rieducazione funzionale. La lesione midollare è di solito dovuta ad un trauma diretto; meno frequentemente la causa agisce indirettamente sul rachide. La compromissione del midollo per traumatismi chiusi vertebrali è l'eventualità più frequente in pratica civile (incidenti automobilistici. cadute dall'alto, tuffi in acqua poco profonda). Si tratta abitualmente di una frattura vertebrale con o senza spostamento dei frammenti ossei o abbastanza spesso di lussazioni vertebrali. In alcuni casi non si trova però alcuna traccia clinica o radiologica di lesione rachidea; in questi casi si tratta di una commozione midollare, e bisogna pensare ad un tentativo di lussazione spontaneamente ridotto. Esistono nel rachide sedi caratteristiche di minor resistenza ai traumi, in genere al passaggio tra i vari tratti del rachide; questo soprattutto nei casi in cui il trauma si esercita per via indiretta o trasmessa, ripetendo l'esagerazione di un movimento fisiologico. Tra le cause indirette, più rare certamente di quelle agenti direttamente sul rachide, citeremo l'elettrochoc e lo spostamento d'aria da esplosione. Bisogna altresì ricordare i casi meno frequenti di traumatismi midollari da ferite vertebrali aperte, dovuti generalmente a ferite da proiettile che possono ledere il midollo tanto direttamente, quanto mediatamente attraverso un frammento osseo. In genere il primo effetto della lesione midollare è l'interruzione più o meno durevole o completa dell'influsso nervoso dei fasci midollari, interruzione che riveste il suo aspetto più schematico nei casi di sezione, ma che può essere notevole anche in caso di semplice compressione, di contusione, o di commozione midollare. In questi casi, e particolarmente nella commozione, i disordini nervosi sono tali da far escludere ogni causa anatomica grossolana e da far pensare invece ad alterazioni fini, quali ad esempio l'edema, l'ematomielia, o la mielomalacia. Di solito il trauma midollare porta uno sconvolgimento locale del pur suscettibile di regressione, porta in breve all'asfissia del tessuto nel regime circolatorio che attraverso una fase transitoria di edema, che, sono di per sé par­
I moderni concetti nel trattamento del paraplegici ecc. 185 ticolarmente sensibile alla mancanza di ossigeno e successivamente alla degenerazione ed alla necrosi. Un particolare rilievo deve essere dato al reperto istologico della ematomielia e della mielomalacia. L'ematomielia, massiva nella contusione, a microfocolai nella commozione, colpisce particolarmente la sostanza grigia, nella quale porta i veri fenomeni distruttivi secondari (focolai di necrosi insulare di dimensioni variabili, che possono invadere gran parte dell'asse midollare o a lesioni sclerotiche con trasformazione connettiva del midollo). * * * La correlazione tra gli aspetti fisiologici, patologici e terapeutici del problema dei paraplegici ha permesso di individuare i dati più importanti. E' quindi inutile passare in rassegna tutti i disordini fisiopatologici del traumatismo midollare, di cui molti non sono affatto caratteristici di questo genere di lesioni. Bisogna riferirsi invece agli aspetti peculiari della sezione midollare, che sono stati messi in evidenza dallo studio sistematico del così detto « uomo­spinale » ossia di quel particolare mieloleso in cui sia stata dimostrata la sezione completa del midollo. In questi casi di interruzione dell'asse nervoso i fenomeni più evidenti sono: lo shock spinale, le alterazioni del tono muscolare e dei riflessi tendinei, del metabolismo, le alterazioni trofiche e neurovegetative, le turbe urinarie ed intestinali. Lo shok spinale non deve essere confuso con lo shock traumatico, che presenta una evoluzione del tutto diversa; esso è invece lo stato di depressione dei riflessi spinali di carattere generalmente transitorio che sopravviene dopo la sezione spinale nei segmenti del corpo situati caudalmente alla lesione (FULTON e MCCOUCH). In genere possiamo farlo risalire alla abolizione brusca nell'organismo delle funzioni nervose periferiche. Il criterio fondamentale per giudicare dell'esistenza di uno shock spinale è la mancanza di ogni riflesso muscolo­tendineo, neurovegetativo o l'abolizione di ogni funzione viscerale, prevalentemente vescicale. D'altra parte la fine dello stato dello shock spinale è rivelato dalla ricomparsa di una attività riflessa muscolo­tendinea, dei riflessi dei muscoli lisci, della contrazione del darthos, dal ripristino dell'attività secretoria delle ghiandole sudoripare e, infine, dalla regolarizzazione del funzionamento vescicale. Le modificazioni del tono muscolare sono evidentissime durante il periodo dello shock spinale; una volta regredito lo shock i muscoli riacquisteranno un certo tono; si parla in questi casi di un tono plastico, che segnerebbe la ripresa dell'attività del simpatico.
186 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO E' necessario a questo punto ricordare che la legge di BASTIAN, secondo la quale la sezione totale del midollo si traduce in una paraplegia flaccida con perdita dei riflessi tendinei e cutanei non è del tutto esatta. In realtà nel primo periodo immediatamente seguente al trauma, scompare ogni funzione motrice, ma in realtà il tono muscolare è conservato, almeno se si considerano separatamente gli elementi che caratterizzano clinicamente il tono muscolare: il rilievo e la consistenza dei muscoli, la resistenza passiva, l'estensibilità. Dopo alcuni giorni la paraplegia non è più interamente flaccida. Le mobilizzazioni passive spinte a gradi o a velocità differenti permettono di osservare che non ci si trova in presenza di una massa completamente inerte; una mobilizzazione passiva un po’ più rapida, più brusca, da l'impressione di una resistenza più marcata. In questo periodo i riflessi puramente tendinei sono completamente assenti, i riflessi cutanei sono assenti mentre non sono ancora comparsi quelli che sono ritenuti riflessi patologici: il riflesso plantare è quasi sempre assente, e quando è presente si svolge ordinariamente in flessione ma la regola non è assoluta, e il riflesso in estensione può essere presente già nel corso della seconda settimana. La fine di questo 1° periodo è da alcuni messa in relazione con i primi segni di attività autonoma midollare (riflessi cutanei e tendinei e riflessi di difesa). La comparsa dei riflessi di difesa è di solito la più precoce, anche se è molto difficile fissare il momento in cui il paraplegico esca dal periodo di shock per entrare in quello di riattivazione. Il passaggio si svolge con un andamento molto variabile a seconda degli individui e in genere non se ne può fissare la durata. Si ammette generalmente, secondo l'opinione sostenuta da LHERMITTE che la tonicità muscolare può tornare allo stato normale o addirittura portarsi ad un grado superiore alla norma. Il tono e l'attività riflessa presentano un andamento parallelo, o meglio, il tono muscolare è proporzionale all'intensità dell'attività riflessa. L'opinione di LHERMITTE non è completamente esatta; abbiamo infatti notato che il tono non torna mai completamente normale. In genere resta abolito proprio un aspetto importantissimo del tono muscolare ossia il così detto tono di postura di SHERRINGTON che è l'attività statica dei muscoli nel mantenimento di certe posizioni o della stazione eretta. Poiché questo tono di postura interessa particolarmente i muscoli estensori, ossia quei gruppi muscolari che regolano la stazione eretta, il potenziale tonico è essenzialmente dominato dai centri sopraspinosi (IV° ventricolo, cerebellari). E' quindi logico ammettere che questo tono di postura è definitivamente abolito, dopo la sezione del midollo. Secondo la terminologia attuale si
I moderni concetti nel trattamento del paraplegici ecc. 187 ammette una differenza fondamentale tra i riflessi di difesa e i riflessi di automatismo midollare, corrispondenti a fenomeni differenti nell'uomo, in quanto i primi non implicherebbero necessariamente la soppressione di ogni controllo dei centri superiori sul midollo, mentre i secondi sarebbero l'espressione dell'automatismo del midollo, liberato da detto controllo. E' evidente che, nei riflessi cutanei di difesa, una migliorata attività midollare è alla base della loro comparsa. In caso di sezione totale del midollo alcuni AA pensano ad una irritazione cronica del troncone midollare isolato, che porterebbe ad una esaltazione riflessa supplementare. I risultati clinici e sperimentali di BARRE e WARTER hanno dimostrato che il midollo possiede una attività cutaneo­riflessa di difesa solo se resta in comunicazione con l'influsso nervoso centrale; quindi il ritorno di una attività riflessa di difesa sarebbe l'indice di una lesione incompleta del midollo. Noi abbiamo seguito per un periodo variabile da 1 a 4 anni un gruppo di 22 mielolesi. In essi abbiamo accertato che l'attività riflessa segue un andamento ben determinato, anche se variabile da soggetto a soggetto, in rapporto al tempo ed all'intensità. Pur considerando le variazioni individuali, abbiamo potuto dividere l'attività riflessa in 4 fasi: a) ­ Periodo di arefiessia completa corrispondente grosso modo al periodo di shock spinale, b) ­ Periodo della attività riflesso­cutanea in flessione. c) ­ Attività riflesso­cutanea mista o fase di transizione. d) ­ Attività riflessa prevalentemente in estensione. Quando dalla fase di shock spinale si passa al 11° periodo, il paziente presenta ancora una areflessia pressoché totale. Solo raramente si osservano degli accenni di contrazione riflessa degli adduttori e del tensore della fascia lata. Il riflesso cutaneo plantare è assente o torpido. Non v'è differenza, almeno in questa I3 fase, nel comportamento del riflesso plantare, nei pazienti in cui è stata accertata una sezione totale del midollo da quelli in cui la sezione è parziale. Nella II2 fase le contrazioni riflesse iniziano con dei movimenti indecisi delle estremità distali degli arti inferiori e con la contrazione del sartorio e del tensore della fascia lata. Le contrazioni, sempre più forti e durature, si estendono poi ai flessori della coscia sul bacino e della gamba sulla coscia ed infine ai flessori delle dita ed al tibiale anteriore. Ricompaiono i riflessi anale e cremasterico (che d'altronde in caso di sezione incompleta possono mantenersi anche durante il periodo di shock) e i bulbo­ cavernosi. E' caratteristico in questo periodo un atteggiamento ad anche addotte
188 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO e intrarotate, ginocchia flesse, piedi equini addotti. I muscoli più interessati dalla reazione sono quelli aventi una posizione più mediana, come gli adduttori, il sartorio e il semimembranoso (WALSCHE). La zona reflessogena in questa fase è caratteristica: 1) ­ Piede in cui l'eccitazione provoca una serie di contrazioni brusche, consistenti sopra tutto in movimenti delle dita, in flessioni dorsali del piede e flessione della gamba e della coscia. In questi movimenti è compreso il riflesso plantare (o segno di BABINSKY), che nel 30 dei nostri casi è in estensione. 2) ­ Zona genitale comprendente la regione pubica e la parte interna delle cosce. In essa si distinguono due gruppi di reazioni: a) ­ flessione dell'arto inferiore che si inizia dai gruppi muscolari prossimali con interessamento scarso del piede e delle dita, b) ­ riflessi locali (bulbocavernoso, sfìnterico­anale, cremasterico). Man mano che i riflessi si intensificano e si generalizzano, le zone riflessogene si estendono. Ai movimenti su descritti degli arti inferiori cominciano ad associarsi le contrazioni dei muscoli della massa sacro­lombare. Siamo nella III fase o fase transitoria: la paraplegia non è più sin dalla II fase una paraplegia flaccida ed i muscoli hanno acquistato un tono molto superiore al normale. Alla fine di questa fase compaiono le prime contrazioni dei muscoli estensori. In genere l'attitudine in flessione degli arti inferiori non è più un atteggiamento di flessione permanente. Si è accentuata la lordosi lombare. Possono in questa fase riapparire, sia pure in maniera incostante e appena accennata, i riflessi tendinei. 4) ­ Attività riflessa in estensione. Ogni lesione del midollo completa o incompleta porta a questa fase. Abbiamo visto nella III3 fase come l'attività riflessa in estensione inizi dai muscoli sacro­lombari laterovertebrali. Le contrazioni si estendono ai muscoli prossimali degli arti. In questa fase non si hanno delle zone reflessogene determinate, ma piuttosto dei riflessi proporzionali agli stimoli. Il riflesso è ordinariamente istantaneo, ma spesso ha bisogno di uno stimolo iterativo. In particolare gli stimoli principali sono: l'estensione della coscia; la compressione rapida di alcuni gruppi muscolari, o una pressione sulla faccia plantare delle dita. Completiamo questo aspetto del problema fisio­patologico dei paraplegici con una constatazione; l'attività riflessa non è del tutto in relazione con il tipo di lesione midollare. Si è molto parlato in passato di «uomo spinale» ma in realtà
I moderni concetti nel trattamento dei paraplegici ecc. 189 gli aspetti patologici dell'uomo spinale ossia dell'uomo in cui vengano a mancare totalmente gli afflussi nervosi centrali sono comuni a quelli dei soggetti in cui la lesione del midollo non sia completa. Gli effetti possono, è vero, variare di intensità ma fondamentalmente restano gli stessi. E' del tutto differente invece il caso in cui l'effetto del trauma sia una commozione midollare: le reazioni patologiche sono minori e tendenti alla risoluzione. ALTERAZIONI DEL METABOLISMO Benché le alterazioni siano fondamentalmente simili a quelle che si riscontrano in un comune traumatizzato, in realtà il quadro clinico è più grave nei paraplegici, in quanto coesistono aspetti clinici collaterali che ne aggravano le condizioni: le infezioni urinarie e la stasi intestinali portano ad alterazioni della eliminazione dei cataboliti, mentre le piaghe cutanee conseguenti alle ulcerazioni trofiche conducono in definitiva ad una notevole perdita di plasma. La caratteristica dell'alterato metabolismo è costituita da iperglicemia e abbassamento del tasso di azoto. L'aumento del glucosio nel sangue sembra dovuto a scariche di adrenalina che favoriscono la depolimerizzazione del glicogeno epatico. Inoltre si ha una riduzione del consumo di ossigeno nei tessuti con conseguente alterazione dell'equilibrio tra prodotti di scissione anaerobi e processi ossidativi con accumulo nel sangue di metaboliti acidi (acido piruvico, acido lattico, corpi chetonici). E' quindi presente una acidosi non gassosa che provoca un rallentato metabolismo cellulare con ipoossia ed aumentata distruzione proteica con bilancio azotato negativo. La denutrizione progressiva dei paraplegici è perciò dovuta a perdita di azoto con azoturia considerevole. Poiché la somministrazione parenterale di protidi è seguita da un aumento della azoturia, noi riteniamo che l'alterazione del bilancio azotato sia dovuta ad una turba di escrezione e non ad un mancato assorbimento. L'azoturia è compresa tra 22 e 29 gr. di azoto al giorno per una somministrazione azotata non eccedente i 12 gr. Il bilancio azotato resta negativo per circa un mese e non è possibile correggerlo con la razione alimentare. Il calcio, il potassio e il sodio sono in quantità normali, mentre è frequente un abbassamento dei cloruri. Il bilancio azotato va graduatamente migliorando dal III0 al V° mese, periodo nel quale migliorano i segni di funzionalità epatica. Ricordiamo ancora che è stata descritta una alterazione del catabolismo proteico dovuto ad una alterazione dell'asse epato­renale.
190 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO LE TURBE TROFICHE E NEUROVEGETATIVE. I disturbi trofici nei soggetti neurolesi rappresentano una complicanza non solo scarsamente evitabile, ma sopra tutto difficilmente curabile; GUIOT diceva che una escara di comparsa precoce e di rapida estensione nel corso di una lesione midollare grave è la conseguenza necessaria della lesione nervosa, contro la quale siamo fatalmente impotenti, qualunque precauzione abbiamo preso. Le moderne concezioni tendono a togliere alla lesione dei centri trofici del midollo un ruolo patogenetico troppo esclusivo, che potrebbe infine condurre ad una concezione terapeutica troppo astensionistica. Vari fattori entrano nella patogenesi delle turbe trofiche cutanee, generali e locali; tra i primi bisogna ricordare il fattore midollare trofico che si rivela quando sia scomparsa la sensibilità superficiale e lesi i centri simpatici trofici situati in particolare nel tratto intermedio laterale della sostanza grigia, ed il fattore tissulare: in seguito alla lesione dei centri midollari, si manifestano nella pelle e nei piani ad essa immediatamente sottostanti delle regioni distali alla lesione, perturbazioni della vasomotilità con perdita dei riflessi locali. Si instaurerebbe così una stasi con accumulo dei cataboliti. Abbiamo notato anche che il semplice ristagno di liquido negli spazi tissulari porta a turbe distrofiche gravissime con alterazioni dell'equilibrio osmotico, alterazioni dei capillari, ristagno delle scorie, progressiva acidosi tissulare e povertà di scambi nutritivi endo e pericellulari. Diminuendo la nutrizione e l'ossigenazione dei tessuti, questi si avvicinano decisamente verso la necrobiosi. A questo punto entrano in gioco i fattori locali, meccanici. Essi rappresentano l'evento non necessario, come la lesione midollare, ma contingente e per questo evitabile. Bisogna pensare che basta una pressione continua di due ore per far apparire un inizio di necrosi e solo di un quarto d'ora quando la pelle sia irritata da urine e feci. Ogni pressione, di qualsiasi genere e di qualsiasi intensità applicata alla pelle ha una importanza essenziale. Bisogna dire d'altronde che, al contrario, non esistendo ogni pressione, qualsiasi sia il tipo e l'estensione della lesione midollare, non compare alcuna ulcerazione. Le ulcere di solito si caratterizzano per una tendenza alla rapida estensione sia in superficie che in profondità, per una scarsissima tendenza alla rigenerazione cellulare, per una assoluta torpidità del terreno. Sono spesso preda di infezioni sostenute da una flora batterica mista, da una circolazione capillare pressoché abolita, da un abbondante e spesso strato di tes­
I moderni concetti nel trattamento dei paraplegici ecc. 191 suti necrotici non capaci di un processo rigenerativo e costituenti un ricco pabulum per i microbi. La perdita delle normali correlazioni neurovegetative provocano oltre a turbe trofiche cutanee disturbi di vario genere: variazioni della temperatura cutanea, anidrosi, tensione arteriosa aumentata agli arti inferiori, edemi polmonari di origine simpatica, turbe secretorie gastriche, congestioni viscerali. Importanza particolare rivestono poi nell'economia generale dell'organismo del mieloleso alcune alterazioni a carattere trofico delle pareti intestinali, consistenti in vere e proprie ulcerazioni da decubito, che si producono per cause simili a quelle delle ulcere cutanee: ne sono alla base cioè fattori nervosi e meccanici. Ad una distensione delle pareti intestinali, con diminuzione delle forze contrattili, con vaso­costrizioni endoparietali e conseguenti ischemie, si accompagna un notevole ristagno di materiale fecale duro, difficilissimo ad evacuare, che in breve tempo conduce alla formazione, su pareti inerti, di ulcerazioni ovalari, dure, rapidamente infiltranti, fino alla perforazione totale della parete. I decubiti intestinali sono più frequenti nel colon, specialmente nel traverso e nel discendente, meno nell'ascendente e nel sigma. Abbiamo accennato di passaggio alle turbe della funzione addominale. L'inerzia dell'intestino si manifesta immediatamente nel periodo di shock Qualora questa atonia intestinale receda, ad una buona ripresa della funzione osta in un grandissimo numero di casi (dal 60 dei fratturati cervicali all'80 dei fratturati lombari e sacrali), una persistente paralisi del retto e dello sfintere anale. Gli spasmi sono più frequenti delle incontinenze, nel periodo iniziale. Le feci sono dure per la disidratazione dei malati, e le scibali di volume aumentato per l'atonia intestinale. A livello del retto si producono inoltre fenomeni di pressione da parte del collo vescicale protundente posteriormente. KUHN per mezzo di palloni manometrici ha dimostrato che il tono dello sfintere anale si abbassa allorché per un riempimento vescicale si ha una energica contrazione del detrusore e viceversa aumenta allorché la vescica si svuota. Esiste la possibilità di una defecazione riflessa, che si può produrre spontaneamente allorché esiste una incontinenza, oppure con l'uso ii regolari lavaggi endointestinali per mezzo di clisteri. Come vedremo per la vescica, esiste per il retto e lo sfintere anale la possibilità di rieducare l'intestino regolando esattamente quantità e intervalli dei clisteri e, ove questo sia possibile, istruendo il malato a collaborare con la contrazione attiva del diaframma e dei muscoli addominali, aiutandolo con pressioni sulla parete addominale. Le lesioni dell'apparato urinario sono le più evidenti e forse le più importanti di
192 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO quante sono prodotte nell'organismo dal trauma midollare. Ciò in quanto, contrariamente a quanto si ritiene comunemente, non è solo la vescica ed in genere l'apparato escretorio ad essere leso, ma si provocano a lungo andare delle lesioni dell'apparato secretore con danni progressivamente irreparabili di tutto il bilancio idrosalino dell'organismo. E' comprensibile quindi che alle turbe urinosecretorie ci si debba rivolgere con mezzi adatti non solo a curare, ma soprattutto a prevenire. I neurologi americani, cui si debbono i migliori studi sul funzionamento vescicale, hanno dato grande importanza alle lesioni della vescica, trascurando le conseguenze infiammatorie meccaniche. Noi sappiamo che la vescica è dominata da un triplice sistema nervoso : A) ­ II parasimpatico che dal centro vescicale di BUDGE dei primi segmenti sacrali domina la contrazione del detrusore e secondo alcuni il rilasciamento durante la minzione dello sfintere liscio. Noi siamo contrari a questa interpretazione, in quanto lo sfintere liscio o interno è formato in gran parte da fibre muscolari che derivano direttamente dal detrusore, di cui sono il prolungamento, e solo in parte da fibre autonome circolari; è quindi impossibile che nello stesso muscolo l'innervazione presieda contemporaneamente a due funzioni contrastanti. B) — II simpatico, che assicura la contrazione del detrusore e la chiusura dello sfintere liscio. C) ­ II sistema volontario cerebrale che, attraverso i pudendi interni, innervando lo sfintere striato, assicura la chiusura volontaria del collo vescicale; inoltre attraverso l'innervazione dei muscoli addominali e del diaframma interviene spesso nei traumatizzati midollari a sostituire, almeno in parte, l'azione mancante del detrusore. Nell'uomo questa triplice innervazione permette di controllare la minzione attraverso centri corticali e midollari volontari ed involontari. I centri corticali assicurano essenzialmente la minzione controllata, ricevendo dai nervi afferenti lo stimolo del riempimento vescicale e permettendo la minzione con il cessare della loro attività inibitrice. I centri corticali assicurano inoltre una collaborazione attiva allo svuotamento della vescica attraverso la contrazione dei muscoli addominali ed un controllo per mezzo dello sfintere striato. I centri midollari sono preposti allo svolgersi ed al normale coordinamento dei riflessi della minzione normale (sensazione di distensone vescicole ­ nervo pelvico centro midollare ­ nervo pelvico + contrazione del detrusore ­ rilasciamento degli sfinteri – sospensione del tono simpatico degli stessi.
I moderni concetti nel trattamento dei paraplegici ecc. 193 Lo stimolo sull'uretra posteriore delle prime gocce di urina attiva questi riflessi). Esiste ancora un centro vescicale autonomo rappresentato da gangli simpatici intraparietali, che assicurano il tono del detrusore e la chiusura degli sfinteri. Lo shock spinale porta sempre una ritenzione di urina immediata e durevole, che non è da attribuire alla flaccidità ed alla atonia dei muscoli vescicali, ma ad un complesso di reazioni neuro­muscolari interessanti il sistema degli sfinteri uretrali. Il tono del detrusore in realtà resta inalterato, essendo assicurato dai gangli simpatici intraparietali. Gli stessi gangli liberati dai controlli superiori possono portare a tenui contrazioni del detrusore attraverso la fase transitoria della cosiddetta minzione autonoma. A lungo andare però se uno svuotamento regolare della vescica non è assicurato, la sovra­distensione porta ad una atrofia del detrusore, che è quindi meccanica e tardiva e non neurologica e precoce. Quando la lesione midollare sia alta si può stabilire sotto il controllo del centro di BUDGE una minzione automatica che parte da stimoli di distensione vescicale. Privo del controllo dei centri superiori il detrusore si contrae, però in maniera abnorme e lentamente si ipertrofizza riducendo la capacità vescicale. Altri stimoli della minzione automatica possono partire dalla mucosa del glande, dalla faccia della coscia, dallo scroto o dalla cute perianale. La vescica può trasformarsi anche in un vero e proprio organo di passaggio: ciò accade allorché esista una completa atonia del detrusore con incontinenza sfinterica o una totale perdita delle influenze simpatiche e parasim{patiche sulla vescica. Si stabilisce la minzione per rigurgito, nella quale esiste in vescica un ristagno permanente di urine. In questi casi ed in genere in tutti quelli in cui non si provveda in tempo o nei dovuti modi alla evacuazione della vescica è estremamente frequente lo stabilirsi di una infezione. In passato questa era così frequente da giustificare la convinzione corrente che ogni neuroleso fosse un cistitico. Secondo i nostri studi scarsissima importanza è stata finora data a quello che è il lato fondamentale della questione, ossia lo stendersi dell'infezione all'intero albero urinario, evenienza gravissima perché rappresenta la principale causa di morte dei neurolesi. L'economia biochimica dell'organismo è infatti affidata all'asse epato­renale. L'alterazione del rene, del suo apparato escretore, legata alla imponente disidratazione dei malati in breve tempo conduce alla compromissione seconda­
194 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO ria del parenchima epatico. Insorge così una insufficienza subacuta epato­renale, che si stabilisce in un soggetto già defecato e per il carattere stesso della malattia, e per il prolungato stato settico. In breve, anche per la scarsa reattività dell'organismo si giunge fino agli stadi estremi dell'uremia. Di fronte quindi ad un paraplegico, nostro compito è di evitare che insorga una alterazione del delicatissimo albero urinario. Da un punto di vista molto pratico divideremo quest'ultimo in due parti: una alta ed una bassa, e porremo il confine al livello dell'ostio uretero­vescicale per comprendere quali siano i pericoli legati alla patologia di esso. Tralasciando la descrizione della costituzione anatomica della vescica e del tratto vescico­ureterale, ci interesseremo solamente delle recenti acquisizioni circa la costituzione dello sbocco uretero­vescicale, la cui importanza è stata fin qui trascurata da coloro che hanno studiato le complicanze urinarie nei neurolesi. CENNI DI ANATOMIA DELLO SBOCCO URETERO­VESCICALE. L'uretere, entrando nello spessore della vescica forma con questa un angolo più o meno acuto, angolo che in media è di 115°. Nel suo tragitto intraparietale, che è lungo circa 1­1,5 cm. esso forma inoltre una piccola dilatazione fusiforme delineata da due formazioni muscolari pseudo­sfinteriche con ufficio di chiusura ed apertura dello sbocco ureterale: 1) il fascio di Versario­Courtade e Guyon, Tono e Vecchietti di provenienza sicuramente vescicale, disposto ad ansa con concavità rivolta in alto abbraccia l'uretere nel punto in cui questo raggiunge la parete vescicale, cioè all'inizio della porzione intramurale. Esso agisce nella fase cinetica della vescica ed anche durante la distensione passiva. 2) II fascio di Disse, Marsella o meglio di Ruotolo che lo chiama formazione sfinterica del meato e che lo ha descritto e dimostrato recentemente con grande esattezza, è di pertinenza sicuramente ureterale: ha la concavità rivolta in basso ed è posto ove l'uretere si apre in vescica. Per effetto di queste due formazioni, che distano fra di loro quanto è lunga la porzione intramurale, già si intravede l'esistenza, nell’estrema porzione ureterale, di un tratto a costituzione anatomica assai complessa, delimitato da due formazioni pseudo­sfinteriche probabilmente ad azione funzionale opposta, che dipendono da due impulsi funzionali differenti (vescica­uretere) e che con grande verosimiglianza hanno la funzione di creare, durante l'inversione di pressione tra uretere e vescica, che accompagna la fase di contrazione del detrusore, una specie di camera di compensazione per impedire che l'orina refluisca dalla vescica in senso inverso alla normale escrezione fisiologica. Siccome poi questi due fasci, uno ureterale e l'altro vescicale, pur
I moderni concetti nel trattamento dei paraplegici eco. 195 essendo indipendenti tra loro, mandano propaggini o meglio prendono inserzione all'organo cui sono in contatto, cioè quello ureterale di RUOTOLO sul trigono, quello di Versar!, Courtade e Guyon sull'uretere premurale, ne viene di conseguenza che bisogna ammettere tra di loro una interdipendenza funzionale di reciproco appoggio. Il decorso obliquo della porzione intramurale e l'accollamento delle mucose, che da sole potrebbero impedire l'onda reflua, si aggiungono al complicato meccanismo; inoltre l'urina stessa accumulandosi aumenta tale accollamento e da se medesima si chiude il cammino verso l'uretere (ORIBASIO, FALLOPPIO, ecc;). SAMPSON afferma inoltre che, con il riempimento della vescica, la porzione intramurale dell'uretere acquista una maggiore obliquità, si allunga e restringe così, ancora di più il suo lume. La contrazione vescicale, poi, non solo aumenta la pressione e quindi agisce come sopra si è detto, ma, secondo l'Autore comprime anche la porzione intraparietale dell'uretere stesso, ostacolando perciò maggiormente il reflusso. Si deve prendere in considerazione poi il complesso nervoso che comanda quanto l'apparato escretore pielo uretero­vescicale e che si suole distinguere in sistema nervoso intrinseco ed estrinseco, di provenienza simpatica e parasimpatica, con centri gangliari ben definiti, isoperistaltici ed antiperistaltici; per esso non si è potuto ancora giungere ad una esatta precisazione circa le connessioni reciproche, gli esatti territori di innervazione motoria e sensitiva, i gangli di provenienza degli impulsi nervosi rapportati a vari segmenti dell'uretere. Sembra comunque sensato ammettere che l'estremo distale dell'uretere, avendo, come abbiamo accennato più sopra, una costituzione anatomica più complessa ed una funzione fisiologica tutta particolare, debba anche avere un sistema di innervazione in un certo qual modo dissociato da quello che presiede semplicemente all'iso ed all'antiperistaltismo. Poiché infine la funzione del tratto intramurale dell'uretere è intimamente legata a quella della vescica, è logico ammettere che la sua innervazione debba essere in connessione sintonizzante con quella della vescica oltre che con quella del tratto pielo­ ureterale sovrastante; da tempo infatti il Caporale ha descritto fibre nervose provenienti dai complessi ipogastrici che avevano fine all'uretere intramurale. Con gli studi del PIEPER pare che oggi si sia superato anche questo punto poiché egli ha descritto e differenziato un grosso ganglio a fagiolo posto nell'avventizia vescicale, in connessione con altri gangli vescicali più piccoli, in corrispondenza dello sbocco ureterale: a tale canale darebbe un grosso fascio nervoso in corrispondenza della sua porzione estrema. L'Autore lo chiama ganglio vescico­ureterale ed affaccia l'ipotesi che esso sia il centro funzionale
196 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO motore differenziato della porzione inferiore dell'uretere. FISIO­PATOLOGIA DELLO SBOCCO URETERALE Ammesso quanto sopra, è facile ricostruire quanto avviene al livello della porzione intramurale dell'uretere durante la normale fase peristaltica. L'onda contrattile viene dall'alto e trasporta una quantità di orina fino allo pseudo­ sfintere premurale, che si apre sincronicamente mentre la formazione sfinterica del meato resta chiusa: in tal modo l'orina; corrispondente ad un fuso o cistoide peristaltico, entra nella porzione intramurale. Immediatamente lo sfintere premurale si chiude e si apre quello del meato in modo che l'orina che si trova nel tratto intramurale può entrare in vescica ma nel contempo è impedito il reflusso vescico­ureterale. E' evidente che un tale meccanismo fisiologico deve essere perfettamente sincronizzato in tutti i suoi elementi dinamici: peristalsi, apertura e chiusura delle due formazioni sfinteriche, contrazione vescicale, per far sì che ad ogni arrivo di un'onda liquida, corrisponda il sincronismo funzionale della così detta camera di compensazione intramurale; questa è necessaria e di funzione importantissima perché deve rendere sempre possibile un regolare flusso isoperistaltico nonostante le mutevoli vicissitudini della diuresi acquosa e delle rispettive brusche variazioni di pressione nelle fasi di vescica vuota, distesa ed in contrazione. Perciò abbiamo detto che la porzione intramurale dell'uretere è un punto chiave di tutto il sistema urinario; il suo meccanismo di chiusura è così efficiente che MERKEL afferma che neanche l'aria potrebbe forzare l'orifizio ureterale, mentre PAVONE in fondamentali esperienze sui cadaveri ha dimostrato che anche dopo la morte il forzamento dell'uretere non è possibile. La serie delle esperienze praticate da PAVONE sui cadaveri è la seguente: isolati extraperitonealmente, per via lombare, gli ureteri fin quasi ai bacinetti e recisi a tale livello e scollati nella porzione più alta, pur mantenendo inalterati i rapporti del tratto distale, essi sono stati rovesciati all'esterno, fuori dell'incisione cutanea, in modo da metterli bene in evidenza. Introducendo quindi un catetere a doppia corrente in vescica, e legandolo bene all'uretra, ad uno dei due orifizi esterni si è innestato un tubo di gomma messo in comunicazione con una siringa ed all'altro orifizio esterno un altro tubo, in rapporto con un manometro a mercurio. Ognuno dei due tubi poteva essere stretto a volontà per mezzo di una pinza di Mohr. Introducendo liquido leggermente colorato in blu di metilene, si è osservato il grado di pressione a cui era sottoposto il liquido stesso in vescica, in rapporto alla quantità di liquido in­
I moderni concetti nel trattamento dei paraplegici ecc. 197 trodotto. Contemporaneamente si osservava se dagli ureteri fuoriusciva liquido e veniva notato se ciò si verificava e la pressione alla quale il fenomeno si manifestava. Non è il caso di riportare il protocollo delle esperienze praticate su 24 cadaveri maschili: facciamo solo una sintesi dei risultati ottenuti. Introducendo nella vescica una quantità di liquido variabile tra gli 80 e i 100 cc., non si è avuta alcuna elevazione della pressione endovoscicale. Aumentando la quantità di liquido, la pressione gradatamente si accresceva, fino a raggiungere, con circa 200 cc. di acqua, quella di 1 cm. di mercurio. In due casi, rispettivamente con 1850 cc. di acqua e con 2130 cc. È con una pressione di 36 e 44 cc. di Hg. si è provocata la rottura della vescica. Quanto al reflusso, alla pressione di 1 ­ 13^ cm. di Hg. cioè alla pressione che sull'uomo in condizioni normali determina lo stimolo alla minzione, non si è notato mai reflusso. A 4­5 cm. di mercurio, in due casi si è avuto leggero reflusso ureterale, in un caso bilaterale, in un altro unilaterale. Però, praticato in questi l'esame della vescica e degli osti, si è notata nel primo (cadavere di un vecchio prostatico con pionefrosi) una dilatazione degli osti ureterali stessi che erano conformati a mo' di piccoli imbuti: nel secondo (cadavere di un giovane affetto da tubercolosi miliare con localizzazioni renali e vescicali) una ulcerazione evidente dell'orifizio ureterale destro (lato in cui si era manifestato il reflusso). Aumentando la pressione endo­vescicale, mediante l'aggiunta di nuovo liquido non si sono notati nuovi casi di reflusso, per quanto la pressione raggiungesse i 10­12 cm. di mercurio, che corrispondono alla pressione a cui è sottoposta la vescica normale che si contrae per la minzione. Lo stesso è avvenuto fino a 12­ 15 cm. di Hg. limite massimo di pressione a cui si può pervenire nel vivo, nelle più violente contrazioni vescicali e in casi di cistite acuta. Nel cadavere umano quindi a pressione normale ed alla pressione massima a cui può essere sottoposta la vescica in condizioni fisiopatologiche non si verifica reflusso. Ciò è dovuto al fatto che l'apparato di chiusura può funzionare anche automaticamente pur con la vescica e l'uretere sottratti all'impulso delle loro connessioni nervose: questo avviene ad opera della valvola mucosa e della formazione sfinterica premurale (fascio di VEK­SARI, COURTADE e GUYON), che può agire anche automaticamente strozzando l'uretere durante la fase di sovradistensione passiva della vescica. Concludendo nella fisiologia dello sbocco uretere­vescicale possiamo vedere un complesso di elementi che agiscono o in senso esclusivamente meccanico di chiusura (valvola mucosa) o esclusivamente dinamico­
198 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO meccanico di espulsione e chiusura (formazione sfinterica premuraledetrusore). Considerando i multiformi elementi della doppia funzione (escrezione isoperistaltica­chiusura antireflusso) e la necessità fisiologica normale di una complessa reciproca sintonia sincronizzata, è facile comprendere la fisiopatologia dello sbocco uretero­vescicale nel flusso vescico­ureterale, quando cioè tutte le forze di chiusura meccanico­dinamiche sono inefficienti e viene progressivamente a prevalere la pressione espulsiva vescicale sulla pressione escretoria pielo­ureterale (PISANI). Una sintesi ci permette di dividere in tré grandi gruppi le cause prime del reflusso vescico­ureterale: 1) ­ Malformazioni congenite dell'ostie: dilatazione congenita dell'orifizio uretero­vescicale, megauretere congenito (DELMAS, MARION, PISANI). L'esistenza di queste malformazioni in gemelli ne conferma la genesi (ESCAT). 2) ­ Distruzione dell'ostio: tbc. renali e vescicali, tumori renali ureterali, vescicali. Le lesioni vanno dall'ulcerazione più o meno estesa del meato, alla distruzione del tratto interparietale dell'uretere (con formazioni del cosidetto infundibolo ostiale di HALLE e MOTZ). 3) ­ Infiammazioni acute del tratto uretero­vescicale. Una cistite o una ureterite possono provocare modificazione del calibro dell'uretere e del suo sbocco, che perde la sua struttura normale e può essere forzato (TANDLER­ ZUCHERKANDL). Praticamente in questi casi si costituisce al livello della vescica un seno pervio. IL REFLUSSO .VESCICO­URETERALE NEI PARAPLEGICI Per aversi un reflusso permanente devono sussistere delle lesioni anatomiche dell'ostio ureterale ed in particolar modo del fascio premurale di VERSARI­ COURTADE e GUYON, la cui funzione deve essere abolita poiché, come abbiamo visto, esso agisce oltre che nella fase cinetica, anche dopo la morte allorché si provochi una distensione passiva della vescica. Questa è la condizione realizzata nei paraplegici. La lesione anatomica dell'ostio si spiega molto chiaramente se pensiamo alle alterazioni che avvengono nella vescica, qualora si abbia in essa una infezione cronica; le alterazioni si iniziano con edema e congestione, con trasudazione dr globuli bianchi e rossi, cui si accompagna sfaldamento delle cellule con formazione di piccole ulcere superficiali e trasformazione mucoide della mucosa; subentrano poi altri aspetti condizionati alla partecipazione dei sali ter­
I moderni concetti nel trattamento dei paraplegici ecc. 199 rosi dell'urina sulle stratificazione di essudato, ai fenomeni produttivi del connettivo della parete, allo stato di atonia creata dal processo infiammatorio, agli infiltrati infiammatori, condizioni queste che portano necessariamente ad un ispessimento della vescica con relativa diminuzione della elasticità e diminuzione di capacità conseguente. A livello del trigono le alterazioni infiammatorie provocano a lungo andare una variazione morfologica della parete vescicale. La porzione intramurale dell'uretere subisce in larga misura le conseguenze di queste variazioni. Maggiormente colpito è il fascio di Versari, Courtade e Guyon, la cui costituzione è diretta emanazione dell'anatomia vescicale. Giacché la stretta concatenazione dei fenomeni biologici e la sincronizzazione degli stessi sono condizionate dal perfetto stato anatomico degli elementi necessari alla formazione del fenomeno biologico è logico pensare che la mancanza di un solo elemento nella catena di un riflesso sia sufficiente ad abolirlo. Da quanto abbiamo detto fin qui possiamo concludere quindi che perché si instauri un reflusso permanente nei paraplegici è necessario che sia abolito il fascio di Versari, Courtade e Guyon nella sua funzione, poiché esso agisce nella fase cinetica della vescica e nella distensione passiva e perché può agire in modo statico anche al di fuori delle sue connessioni nervose. Quindi, mancando questa forza ed essendo presenti tutte le altre: valvola mucosa, sfintere di Ruotolo, iperpressione peristaltica ureterale, queste avrebbero solo una funzione ritardatrice nella comparsa del reflusso vescico­ureterale cronico. Causa del reflusso, come si rileva, è la mancanza funzionale del fascio di V.C.G.: perché questo avvenga è necessaria una lesione secondaria di esso a carattere degenerativo, distruttivo e proliferativo. Non vale qui ricorrere alle esperienze di PAVONE circa la mancanza di reflusso nei cani cistici per rigettare la nostra teoria. Gli studi di PAVONE perdono molto della loro importanza se consideriamo in essi il fattore tempo, che dall'Autore stesso fu tenuto in scarso conto: egli infatti descrisse le conseguenze della infezione vescicale sia in cani normali che in cani con sezione del midollo, a brevissima distanza dalla induzione dell'infezione stessa, mediante introduzione di materiale fecale in vescica. Egli non notò reflusso v.u. nonostante la infezione sicuramente in atto e confermata da prove di laboratorio. Nei suoi cani però provocò una cistite che aveva i caratteri della flogosi acuta e non di quella cronica. Non sono queste le condizioni anatomo­cliniche che abbiamo nei paraplegici. Essi infatti oltre che neurolesi e cistitici sono ritenzionisti cronici, con degenerazione ammoniacale dell'urina e precipitazione dei sali della stessa; le esperienze di PAVONE sarebbero state negative se eseguite nelle stesse condizioni?
200 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO Non si può prescindere, nello studio di un fenomeno, dalle cause che lo provocano, per orientarsi verso criteri e condizioni arbitrarie per quanto riguarda formazione ed interpretazione del fenomeno stesso. L'importanza dell'instaurarsi del reflusso nelle genesi delle infezioni cosiddette ascendenti è sostenuta da illustri clinici: « ... e la presenza di disposizioni valvolari allo sbocco dell'uretere impediscono in condizioni normali un r.v.u. Tale condizione viene però a cessare quando una flogosi intensa della vescica diffusa allo sbocco ureterale e la distensione di essa... stabiliscono un sistema di vasi comunicanti tra cavità pielo­renale e vescica » (VALDONI). Concludendo quindi possiamo dire che il reflusso vescico­ureterale nei paraplegici è secondario alle infezioni vescicali ed è dovuto alle modificazioni strutturali e funzionali della porzione intramurale dell'uretere. Queste note sugli aspetti fisio­patologici del mieloleso ci aiutano a comprendere come, alla luce degli studi e delle teorie più recenti. nulla giustifichi più l'attendismo o il ritardo nella cura di un paraplegico. Non dimentichiamo che si tratta di un malato molto complesso. molto difficile, anche per le particolari reazioni psichiche che lo distinguono, ma non di un caso disperato. I progressi terapeutici hanno modificato l'evoluzione della malattia e la relativa prognosi. La portata di questi progressi è naturalmente differente a seconda che si guardi alla prognosi « quoad vitam » o « quoad valetudinem » del malato. La cura di un paraplegico è divenuta oggi un sottile concatenarsi di discipline diverse, che però divengono così interdipendenti da non poter fare a meno l'una dell'altra. E' necessario che chi è preposto alla cura di questi malati affronti per quanto è possibile contemporaneamente i vari aspetti del quadro clinico e cerchi di risolverli, senza dimenticare che il suo fine ultimo. oltre la vita del malato, è il suo recupero sociale. Per forza di cose tratteremo separatamente i diversi quadri clinici. Ripetiamo ancora però di non dare maggiore o minore importanza a questo o a quel disturbo, di non trascurare ogni singolo dettaglio, perché in un paraplegico tutto può essere pericoloso, anche il sintomo più insignificante. E' inoltre un grave errore credere che il trattamento precoce debba limitarsi a qualche misura palliativa, o tutt'al più ad una esplorazione chirurgica di indicazione e di risultato per lo meno dubbi. MUNRO aveva già affermato prima che l'esperienza dell'ultima guerra mondiale lo dimostrasse, che risultati insperati potevano e dovevano essere ottenuti nella maggioranza dei casi. Egli affermava che ogni traumatizzato midollare, ben curato, deve giungere a « condurre una vita sociale normale ed avere una esistenza soddisfacente, nei limiti delle sue capacità intellettuali ». Questo rappresenta il fine ultimo della cura, cui bisogna tendere con entusiasmo
I moderni concetti nel trattamento dei paraplegici ecc. 201 e con ogni mezzo possibile, possibilmente facendo astrazione dai problemi di dettaglio, per meglio comprendere e affrontare i grossi problemi d'insieme, che sono: 1) ­ Le conseguenze del trauma sul tono neuro­vegetativo. 2) ­ Le turbe generali e della nutrizione. 3) ­ Le turbe urinarie ed intestina]!. 4) ­ Le complicanze trofiche cutanee. Non bisogna dimenticare che il paraplegico è innanzi tutto un traumatizzato grave, e come tale fortemente shockato. Le prime cure debbono essere dirette contro il pericolo che lo shock si prolunghi o si complichi. Ogni possibile attenzione deve essere rivolta a che sia evitata al paraplegico ogni commozione brusca in senso fisico e psichico. Deve essere lasciato assolutamente tranquillo, interdicendo nel modo più assoluto attorno a lui ogni parossistica forma di dolore familiare, anzi vietando almeno per le prime quarantotto ore ogni rapporto con il mondo esterno. Se è necessario trasportare il traumatizzato, questo deve essere posto in condizione di restare nella più assoluta immobilità, non deve essere quindi spogliato, o tanto meno sottoposto a tentativi terapeutici, fino a quando non sia accertata la diagnosi. Questa astensione dalle brusche manovre, spesso effettuate anche a scopo diagnostico, va scrupolosamente seguita, anche quando il paziente sia già ricoverato in ospedale. Il decubito iniziale del paraplegico deve essere dorsale: sola eccezione è il caso di vomito, in cui può essere necessario porre il paziente in posizione prona per evitare immissione di materiale in trachea. Lo stato di shock impone un trattamento d'urgenza. E' sconsigliabile un riscaldamento generale o locale, in quanto, come studi recenti hanno dimostrato, può provocare effetti negativi; al contrario un modico raffreddamento generale e locale induce delle condizioni (analgesia, riduzione del metabolismo, dell'assorbimento e delle perdite idriche, azione antiinfettiva), che favoriscono la risoluzione dello shock. Occorre invece provvedere ad una perfetta ossigenazione, specialmente quando concomiti una paralisi dei muscoli respiratori, da frattura cervicale alta con compromissione dei centri bulbari. In questi casi è d'obbligo la pratica urgente del polmone d'acciaio, di qualsiasi tipo esso sia dai più complicati ai modernissimi elettrorespiratori per contatto. Nei casi più lievi il malato va posto sotto una tenda ad ossigeno, dosando esattamente la miscela di O., e CO.^. Non riteniamo che incontri indicazione l'ossigenoterapia ipodermica, che si è finora dimostrata di efficacia dubbia e non scevra di pericoli. Il principio fondamentale nella tera­
202 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO pia di questo primo stadio è di reintegrare i componenti della massa circolante e delle riserve che sono stati mobilizzati dal trauma. Non esiste di solito la necessità di ricorrere alla trasfusione diretta di sangue totale, mentre la trasfusione di plasma trova la sua indicazione nella diminuzione del tasso proteico emotivo. Noi usiamo praticare subito dopo il trauma, ed in pieno stato di shok, trasfusioni di plasma integrate da succedanei. Siamo estremamente favorevoli all'uso di soluzioni di aminoacidi uniti a complesso vitaminico B, a vit. B]<>, cocarbossilina, vit. C. Quando il paziente non sia in grado di nutrirsi da solo ricorriamo alla somministrazione per rettoclisi di sostanze proteiche (latte, uova miste a zuccheri); contemporaneamente somministriamo per via venosa abbondanti quantità di aminoacidi e vitamine. Non ricorriamo alla sonda gastrica, che i pazienti tollerano sempre con difficoltà. Favorevoli risultati ci ha dato l'uso di ormoni (estratti surrenali, corticc e decossicorticosterone e testosterone, quest'ultimo più per il suo effetto anabolizzante che per l'azione specifica). Deve essere prassi costante sottoporre il paraplegico ad esame radiografico il più precocemente possibile, in primo luogo perché solo così si può avere una diagnosi di certezza delle lesioni ossee, ed in secondo luogo perché è possibile porre una prognosi più precisa. L'esame radiografico può anche essere negativo per ogni lesione scheletrica, il che starebbe ad indicare l'esistenza di un ematorachide o di uno stato di ematomielia: in questi casi la nostra esperienza ci fa formulare una prognosi non certo favorevole, come si potrebbe pensare, giacché le forme conseguenti ad una infiltrazione ematica acuta o perimidollare sono sempre ingravescenti in ragione diretta della sclerosi secondaria. Come diremo più dettagliatamente in seguito a proposito della prevenzione e del trattamento delle turbe trofiche cutanee, il paziente va posto su uno speciale letto che permette una comoda assistenza ed insieme la possibilità di eliminare i fattori pressori, che potrebbero provocare distrofie cutanee e contemporan­ eamente consente una posizione ideale per la riduzione e la contenzione di un'eventuale frattura. Giova qui ricordare una discussione che è sempre stata di attualità allorché si sia introdotto il problema dei paraplegici: conviene evitare al malato ogni spostamento che potrebbe essere pericoloso, oppure sottoporlo immediatamente alla riduzione della frattura? E ancora non è forse legittimo un intervento precoce di laminectomia mirante ad eliminare eventuali compressioni o ad evacuare un ematoma o a porre riparo ad una dispersione di liquido cefalo­ rachideo? Il problema è delicato e va affrontato e risolto di volta in volta a secondo delle indicazione che buonsenso ed esperienza suggeriscono. In linea di massima e per quanto possibile è da preferire il metodo ortopedico che miri, con manovre quanto mai prudenti ed effettuate con la preoccupazione
I moderni concetti nel trattamento dei paraplegici ecc. 203 costante di non ledere ulteriormente il midollo, alla riduzione ed alla contenzione degli spostamenti vertebrali. Queste manovre debbono tener conto del segmento vertebrale in cui la lesione si è prodotta e del tipo della lesione. Così per il rachide dorsale la posizione migliore è la iperestensione più o meno spinta a seconda del grado di spostamento o di angolazione vertebrale. In casi di lesioni cervicali invece è spesso sufficiente una trazione sulla testa in estensione del collo, dato che la grande maggioranza dei traumi si produce per iperflessione. Poiché ogni regola ha le sue eccezioni, esistono dei casi in cui il quadro radiografico e quello clinico fanno porre l'indicazione ad una laminectomia precoce. Spesso le grandi dislocazioni vertebrali sono accompagnate o addirittura trovano la loro causa in un profondo sconvolgimento traumatico di tutto l'apparato posteriore di sostegno pre e retro­articolare. Sono infatti frequenti i casi di gravi lesioni scomposte e multiframmentarie degli archi vertebrali con occlusione del canale rachideo da parte di frammenti o schegge ossee o addirittura per gravissime deviazioni dell'asse rachideo. In questi casi è inutile sperare in un successo delle manovre ortopediche, che d'altra parte potrebbero portare ad una riduzione degli spostamenti, ma non certo alla rimozione degli ostacoli contenuti nel canale rachideo. Questo ci fa porre l'indicazione a praticare una laminectomia con un duplice scopo: decomprimere il midollo, eliminando insieme cause di compressione ed eventuali cause di successive lesioni a sfondo degenerativo o cicatriziale del midollo stesso; renderci esattamente conto del tipo delle lesioni. Molti Autori allargano le indicazioni da noi esposte e ne citano altre, come ad esempio l'aggravamento progressivo della sintomatologia neurologica o quando le prove manometriche fanno ritenere persistente un blocco vertebrale ed inutili le manovre ortopediche. Bisogna attenersi in caso di intervento alla maggiore semplicità possibile, senza lasciarsi tentare dalla possibilità del tutto remota di successi immediati con grandi interventi, ma occorre ricordare che il midollo reagisce nella maniera più impensata e più incostante alle azioni esterne. Il problema della riduzione va affrontato contemporaneamente a quello della contenzione: occorre ricordare che siamo in presenza di tessuti spesso inerti e comunque spesso scarsamente reagenti ad ogni azione pressoria, che su di essi si esercitasse. Per questo abbiamo cercato di risolvere il problema della posizione dei pazienti con uno speciale letto rigido a rotazione su criteri fisiologici e clinici. Partendo dal principio che:
204 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO a) ­ deve essere eliminata ogni pressione prolungata sulla pelle specialmente a livello dei rilievi ossei (sacro, regione iliaca ecc.); b) ­ è necessario permettere alla pelle di respirare con la maggiore libertà possibile (per questo siamo contrari all'uso di materassi eccessivamente morbidi, che non conservano al corpo la posizione corretta); c) ­ la pelle deve rimanere sempre pulita e non essere esposta ad alcuna causa maceratica; gli AA. americani avevano pensato di realizzare dei letti che permettessero di cambiare periodicamente la posizione del paziente passando dalla prono alla supina e viceversa, pur assistendo nel modo più completo dal punto di vista igienico i malati. I modelli di letto esistenti precedentemente, infatti, non consentivano una rigorosa igiene della cute del malato, sopratutto per la difficoltà nella prevenzione delle ulcerazioni trofiche. Il letto da noi usato prende lo spunto dai letti americani (Stryker, Bradford), ma da maggiori garanzie di sicurezza per le fasi rotatorie e può essere utilizzato poggiandolo anche sui piani dei normali letti da corsia. Esso è stato realizzato nel nostro Istituto nei due tipi: 1) ­ tipo trasportabile, il quale è fondamentalmente identico al tipo standard che descriveremo, ma è applicato su un supporto a ruote bloccabili. La sua utilità è evidente tra l'altro per trasportare il malata senza che questi abbandoni la sua posizione. 2) ­ tipo adattabile su letto comune formato da due piani sovrapponibili, uno per il decubito supino, l'altro per il decubito ventrale; da un apparato di rotazione e blocco e da un supporto poggiabile su comuni letti da corsia. Ogni piano è costituito da un telaio metallico tubolare di forma rettangolare, al quale sono attaccati due teli di canapa, che lasciano tra di loro uno spazio centrale all'altezza del pube. Allo scopo di evitare la ruvidezza della tela, si è preferito a comuni materassini di lana un rivestimento di gomma porosa per la sua superficie uniforme e soffice nello stesso tempo. Su questi si pone un lenzuolo, che verrà assestato o cambiato dopo ogni fase di rotazione. I due piani sono forniti di una curvatura regolabile, per cui il malato può mantenere la stessa posizione di reclinazione sia nell'una che nell'altra fase di rotazione e portano alle estremità un congegno che accoglie il rimanente meccanismo da adattarsi al dispositivo di bloccaggio che assicura la stabilita del piano. La manovra per il passaggio dalla posizione supina a quella prona e viceversa è basata sulla rotazione dei due piani. Dovendo invertire la posizione del malato, che è in decubito prono, o si manovrano le leve di sicurezza, ovvero si apre me­
I moderni concetti nel trattamento dei paraplegici ecc. 205 diante apposita chiave il congegno che accoglie l'asse, si sovrappone il piano per il decubito dorsale e si fissano i piani rotanti solidalizzandoli fra di loro. Con la chiusura dei congegni si ottiene un sistema unico tra i due piani, poiché gli assi, essendo due sezioni di cilindro, combaciano perfettamente. Allontanata l'asta di bloccaggio si fa eseguire la rotazione. Il malato è ora in decubito supino: fissate le aste di bloccaggio al piano dorsale, si può ora togliere quello ventrale. Il vantaggio dell'impiego dei telai rispetto alla reclinazione prono o supina a letto è stato dimostrato dal telaio di MARINO Zuco, il quale, dedicato essenzialmente ai pazienti affetti da morbo di Pott, destinati a degenze di anni, voleva avere anche uno scopo sociale e psichico poiché ad una razionale assistenza ortopedica univa la possibilità di permettere al paziente di potere impiegare il suo tempo in piccoli lavori manuali, in letture, in scritture rese più agevoli dall'appoggio frontale e dalla libertà degli arti superiori. MUNRO sostiene che una adatta prevenzione elimina completamente il pericolo delle ulcerazioni trofiche cutanee; noi limitiamo questo concetto perché, se è vero che la profilassi idonea elimina il pericolo di turbe cutanee, è altrettanto vero che questa profilassi può essere praticata solo in reparti specializzati da personale selezionato. D'altra parte non bisogna dare ai due fattori meccanico e neurovegetativo una importanza assoluta e fondamentale nella genesi e nel decorso delle ulcerazioni cutanee dei paraplegici; bisogna qui chiarire i rapporti che intercorrono tra processi di cicatrizzazione, fattori anatomopatogenetici che lo sostengono e fattori biologici che ne sono alla base. Esiste indubbiamente un « terreno torpido » legato forse a turbe generali di nutrizione o a cause ereditarie, sul quale agiscono modificazioni ormonali ancora poco note, che condizionano la resistenza della cute agli agenti esterni. Non si spiegherebbe altrimenti perché nelle stesse condizioni anatomiche, cllniche e terapeutiche in alcuni paraplegici insorgono ulcere da decubito ed in altri no. E' indubbio che la causa va ricercata in qualcosa di più profondo che provochi una carenza di reazioni generali e locali e una conseguente mancanza del materiale idoneo ad essere metabolizzato dalle cellule della cute. Non è azzardato pensare che il terreno torpido da noi invocato sia legato a particolari carenze chimiche da ricercare proprio in quel gruppo di aminoacidi essenziali che non possono essere sintetizzati dall'organismo e che possono assumere anche la funzione di enzimi endocellulari. Per il metabolismo qualitativo dei tessuti tali sostanze sono necessario e sono necessario in blocco. Per tanto in questi casi il trattamento preventivo e curativo
206 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO vero e proprio andrebbe incontro ad insuccesso ove non si normalizzasse la sindrome biologica generale dei pazienti. E' necessario quindi ricondurre alla norma il metabolismo azotato. Prima del trattamento i pazienti presentavano una eliminazione di azoto compresa tra 20­29 gr. al giorno, sui quali l'ingestione di sostanza azotate non incideva che per il 50. La protidemia era bassissima, talvolta al di sotto dei 4 gr. con un rapporto albumine­globuline capovolto; localmente era da mettere in evidenza una acidosi notevole, con pH compreso tra 4,5 e 5. E' da tener presente che i processi di rigenerazione della cute trovano il loro optimum in un mezzo alcalino (BORGHI). Il trattamento dei pazienti è stato necessariamente protratto nei tempo. Potremo dividerlo in tre fasi: 1) ­ Nella prima fase, le ulcere, sottratte ad ogni azione meccanica, mediante gli speciali letti a rotazione sono state trattate con impacchi di soluzione standard, contenente tutti gli aminoacidi essenziali (norvalina, istidina, asfaragina, acido glutammico, cistina, prolina, Oosiprolina, tirosina, triptofano, arginina, leucina, lisina) e le vitamine del gruppo B in soluzione acquosa. La presenza delle vitamine del gruppo B è legata alle ben note qualità di catalizzatori da esse espletate. Basti qui ricordare come la vitamina B^ influisca come coesione nei processi ossido­riduttivi, l'azione della vit. By nel metabolismo e nella sintesi delle proteine, la protezione svolta dell'acido pantotenico sugli epiteli. Gli impacchi sono stati continuamente rinnovati, in maniera da mantenere una costante medicazione umida. Insistiamo sui principio della medicazione umida, in quanto lo stato di disidratazione è sfavorevole ad un normale svolgersi dei processi biochimici e biologici, il cui optimum è rappresentato dal fisiologico mezzo acquoso. Contemporaneamente i pazienti sono stati trattati con la somministrazione della soluzione standard per via parenterale, sotto forma di fleboclisi giornaliera di cc. 250 di soluzione. Alcuni malati hanno sofferto di una ipersensibilità al preparato somministrato per via endovenosa, manifestatasi con ipertermia, brividi, talvolta con comparsa di reazioni urticarioidi cutanee. A questi inconvenienti si è ovviato sia desensibilizzando, quando possibile, i pazienti, sia sospendendo necessariamente le febioclisi ed associando alla applicazione topica la somministrazione della soluzione per via rettale (250 cc. giornaliere a 20 gocce al minuto). In questo primo periodo, protratto a volte per 30­40 giorni si sono ottenuti due risultati. Il primo è stato quello di normalizzare il ricambio azotato dei pazienti. L'eliminazione di urea è scesa a circa 40 grammi per mille sui quali la percentuale di azoto è di 10­12 grammi. La protidemia è tornata alla norma e il rapporto albumine­globuline superiore all'unità. Certamente il miglioramento della sindrome biologica, consen tendo, con la normalizzazione degli emuntori,
I moderni concetti nel trattamento dei paraplegici ecc. 207 una maggiore eliminazione di scorie, incide favorevolmente sulla situazione delle piaghe. E' scomparso infatti da esse quel materiale sanioso, che abbiamo già descritto come dannosissimo. La secrezione si è attenuata, divenendo sempre più filante e sierosa, fino a scomparire del tutto. I bordi della della piaga sono diventati meno spessi, meno duri e meno rilevati. Il fondo ha perso il caratteristico colorito rosso­grigiastro per assumere a poco a poco il colore rosso vivo della piaga che granuleggia. E' da aggiungere che al termine di questa prima fase il pH locale era nettamente alcalino (8­8,5). Nei pazienti che presentavano ulcere simmetriche (regioni lombo­sacrali, ali iliache, talloni) abbiamo praticato dei controlli, trattando le ulcere da un lato con la soluzione standard e dall'altro con i medicamenti più diversi (plasma o eritrociti essiccati o liofilizzati, paste porose medicate, antibiotici polverizzati, estratti tissurali). Ebbene, mentre al termine della prima fase le piaghe trattate con gli aminoacidi avevano assunto l'aspetto di una ulcera granuleggiante, con un orsetto epiteliale già formato e rapidamente progrediente, le altre erano rima­ ste allo stadio iniziale, non risentendo che poco o nulla dei vari medicamenti. Nella seconda fase, notevolmente più breve della prima (20 giorni circa), si è assistito al definitivo passaggio dalla piaga all'ulcera. Sul fondo la formazione di nuovi capillari era vivace: i bottoni di granulazione davano facilmente emorragie puntiformi, per cui la piaga era sovente ricoperta da croste ematiche, tolte le quali si notava che i margini erano diventati piani e uniti al fondo senza soluzione di continuità. L'esame istologico ha dimostrato di giorno in giorno un numero sempre più alto di nuclei in cariocinesi. In questa seconda fase abbiamo diradato la somministrazione per via parenterale. Normalizzato infatti il sistema degli emuntori, scomparsa ogni alterazione metabolica, superato il periodo critico azotopenico, cadono le ragioni per cui era necessario completare le razioni anaboliche dei pazienti con fleboclisi giornaliere. Anche le medicazioni sono state distanziate nel tempo al fine di non danneggiare i delicatissimi tessuti neoformati. Siamo così giunti alla terza fase, o fase di cicatrizzazione. La lunghezza di quest'ultimo periodo è ovviamente dipendente dalla vastità delle lesioni iniziali. In questa fase, altissimo è il quoziente di cicatrizzazione, calcolato secondo il metodo di Gussio e GIBILISCO. In alcuni casi solo pochi giorni sono intercorsi tra la fine della seconda fase e la cicatrizzazione completa. Data la bontà del metodo e la prontezza con la quale i pazienti reagiscono al trattamento, non siamo mai ricorsi agli interventi chirurgici di plastica, oggi così in voga. Le somministrazioni endovenose di aminoacidi hanno anche la funzione di
208 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO aumentare la razione calorica minima senza affaticare l'apparato intestinale. Vorremmo però ricordare che un ruolo preminente va affidato all'igiene più rigorosa, senza la quale qualsiasi trattamento terapeutico è destinato fatalmente a fallire. La cura della cute va affidata a personale specializzato, che sia cosciente dei suoi compiti e delle sue responsabilità; abbiamo visto spesso in reparti chirurgici, con la scusante che i paraplegici sono i malati più difficili e più seccanti, e, secondo, una mentalità antiquata, irrecuperabili, affidare i malati al personale meno idoneo, agli ultimi venuti, agli elementi di scarto, con il risultato che i pazienti sono lasciati a macerarsi in una fanghiglia di urina e di feci, senza ormai alcuna possibilità di recupero. Vorremmo richiamare l'attenzione dei medici su questo aspetto del problema, che si identifica nella cosiddetta questione sociale dei paraplegici e che affronteremo in seguito. TRATTAMENTO DELLE TURBE URINARIE Guardando con attenzione ai caratteri clinici che ogni paraplegico presenta, sia esso in fase iniziale o ormai cronico, colpisce per vastità e gravita di quadro la compromissione del sistema urinario. In esso si annidano le cause più comuni e più frequenti di morte. Ad ogni costo, quindi, bisogna prevenire ove possibile, curare fin dove è possibile le complicanze urinarie. Il trattamento deve essere essenzialmente presuntivo. Esso consiste nell'evitare innanzi tutto una ritenzione prolungata, che potrebbe dare una distensione ed una atonia secondaria del detrusore, nel conservare una capacità sufficiente a stabilire, attraverso un sistema di evacuazioni regolari una rieducazione della vescica. Un'importanza non indifferente deve essere attribuita alla maniera di evitare con ogni mezzo l'instaurarsi di una infezione della vescica, che per via ascendente potrebbe provocare un reflusso vescico­ureterale ed una flogosi pielo­neufro­ ureterale con conseguente aggravamento rapido del quadro clinico. La cura più efficace è quella che consente nello stesso tempo di evitare ritenzione ed infezione. Il trattamento della ritenzione è stato finora molto vario. Potremmo però ricondurre tutti i metodi proposti dai vari Autori ad uno schema essenziale che comprende: a) Cistostomia perineale; b) Spremitura manuale della vescica; e) Cateterismo uretrale ad intermittenza; d) cateterismo uretrale a permanenza; e) cistotomia sovrapubica. Tutti questi metodi debbono essere associati ad una terapia medica, di cui parleremo in seguito.
Ì moderni concetti nel trattamento dei paraplegici ecc. 209 Abbiamo citato la cistotomia perineale solo perché riveste un interesse storico; attualmente è stata abbandonata, poiché senza alcun vantaggio sugli altri metodi, espone il traumatizzato agli inconvenienti di una piaga perineale, della quale sono noti i rischi di infezione. Riteniamo che non si debba ricorrere alla spremitura manuale della vescica, salvo in casi di forza maggiore. In sostanza lo spasmo degli sfinteri uretrali è spesso così forte che non è possibile vincerlo con una spremitura manuale e non è raro il caso che si verifichi, come descritto da vari AA. una rottura della vescica per queste manovre; anche se eseguite da personale specializzato, esse non sono aliene inoltre da inconvenienti per la tonicità del detrusore. Il trattamento più seguito è senza dubbio quello del cateterismo uretrale ad intermittenza, di solito bigiornaliero. Esso però presenta dei rischi gravissimi di infezione: il catetere deve percorrere l'uretra che sappiamo possedere una ricca flora miocrobica. Inoltre la possibile negligenza espone ad una sovradistensione della vescica. In effetti quindi due sono i procedimenti che si dividono attualmente le preferenze: il cateterismo uretrale a permanenza e la cistotomia sovrapubica. Gran parte degli AA. americani sulle indicazioni di MUNRO si sono orientati verso il cateterismo uretrale a permanenza, associandovi però una irrigazione a sifone con evacuazione intermittente della vescica. Il lavaggio della vescica funziona automaticamente con un apparecchio denominato « Tidal­drainage ». MUNRO dal 1934 ideò l'apparecchio che è costituito da un serbatoio, che consente lo scorrimento goccia a goccia di un liquido in vescica con possibilità di lavaggio assicurata da un tubo a Y con sistema di sifonaggio collegato con manometro. Il liquido adoperato da MUNRO corrisponde a questa formula: Acido citrico gr 32,25 Carbonato di sodio acido gr. 8,34 Ossido di magnesio gr. 3,84 H^O distillata sterile a 1000 cc. Questo liquido leggermente acido (pH = 4,5) è poco irritante, leggermente antisettico, favorisce la dissoluzione dei fosfati prevenendo la comparsa dei depositi alcalino­terrosi. La sostituzione del carbonato con il bicarbonato (gr. 4,37) porta ad una soluzione più dissolvente, ma anche più irritante. Con questo sistema si può mantenere la vescica ad una capacità media di circa 400 cc. Si evita così la ritenzione e secondariamente l'infezione, anche se a parer nostro l'azione antiflogistica della soluzione è troppo tenue.
210 LUIGI EMAMUELE ­ FRANCO SCALABRINO Gli autori citano risultati soddisfacenti; secondo FREEMAN in sei settimane si ottiene un automatismo sufficiente a permettere l'abolizione del drenaggio. Sono però possibili questi risultati solo a determinate condizioni: A) ­ Non è possibile applicare il tidal­drainage immediatamente dopo il trauma, ma solo quando sia trascorsa la fase della ritenzione acuta; B) ­ II tidal­drainage assicura il ritorno di una minzione riflessa controllabile da parte del malato, solo se questi è di una intelligenza superiore alla media, in quanto è necessario un esercizio continuo ed attentissimo da parte del paziente; C) ­ E' necessaria un'assistenza continua ed assidua da parte di personale specializzato; negli Istituti Americani specializzati la percentuale del personale infermieristico, rispetto al numero dei malati è di tre a uno, ed ognuno è appositamente addestrato solo per il compito cui è proposto. Si immagini che il malato deve essere sottoposto durante il periodo di rieducazione vescicale ad esami cistoscopici, urografici, sfinterometrici, cistometrici. D) ­ Non è possibile una rieducazione vescicale e sfinterica nei casi di lesione del midollo sacrale con atonia vescicale ed in particolare sfinterica totale ed irreversibile. Se ben applicato il tidal­drainage da risultati soddisfacenti nel 50 dei casi. Ove non sia possibile assistere il malato nei modi su descritti è preferibile non iniziare il trattamento, in quanto il catetere uretrale a permanenza lascia defluire sempre una certa quantità di urine, che può a lungo andare provocare macerazioni della cute. Inoltre sono stati citati casi di necrosi vescicale provocati dal tidal­drainage (BARRINGTON, EVERIDGE, MORSON). Per tutte queste ragioni noi ci siamo orientali verso la cistotomia sovrapubica. Il metodo è semplicissimo. Non è necessario ricorrere alla larga apertura praticata da molti chirurghi, ma è sufficiente un piccolo taglio che permette il passaggio del catetere. Noi pratichiamo la cistotomia non appena il paziente viene condotto al nostro Istituto, anche se è in stato di shock. Usiamo un catetere di Petzer dal calibro di 30 eh. La cistotomia così precoce consente di dominare sin dall'inizio i fenomeni meccanici, chimici e biologici che avvengono nella vescica. I pazienti debbono essere sorvegliati con esami delle urine frequentissimi. Almeno tre volte alla settimana essi sono sottoposti a lavaggi vescicali con una soluzione citrica acida (ph. = 5). Questo consente di mantenere un ambiente aci­
Ì moderni concetti nel trattamento dei paraplegici ecc. 211 do in vescica; è opportuno evitare contemporaneamente la deviazione alcalina delle urine. A questo proposito, ed onde evitare la fermentazione ammoniacale noi proponiamo un regime alimentare escludente legumi, frutta e latte, somministrando contemporaneamente per via generale tarmaci acidificanti. Un eccesso di alcalinità delle urine può portare attraverso un complesso meccanismo ad una deposizione di sali terrosi; l'aumentata escrezione dei sali calcio­magnesiaci unita ad una flogosi delle vie urinarie può condurre a gravi forme di litiasi con imponenti concrezioni calcaree. Se ci soffermiamo sulla deposizione dei sali terrosi è perché, a nostro avviso, rappresenta un pericolo non lieve. E' accaduto più volte in improvvisi rialzi della calciuria che sia comparsa nelle urine una imponente massa terrosa. In questi casi la sonda potrebbe rimanere intasata, specialmente se è di piccolo calibro, con la conseguente possibilità per il paziente di fenomeni penosissimi locali e generali. E' opportuno cambiare il catetere una volta alla settimana. Contro le infezioni vescicali la moderna terapia ci offre oggi mezzi nuovi ed efficaci. Le flogosi vescicali sono sostenute da una flora batterica quanto mai polimorfa ed in parte condizionata dagli adattamenti ai trattamenti biologici e chemioterapici, che hanno portato all'instaurarsi non solo di particolari resistenze, ma anche di varianti strutturali e naturali dei germi stessi. Sul piano teorico è indubbiamente importante l'allestimento dell'antibiogramma, il quale però sul piano clinico­pratico non è sempre utilizzabile: spesso infatti non esiste corrispondenza sicura tra il risultato terapeutico e quello pratico a causa della diversità dei rapporti percentuali che vengono a stabilirsi tra farmaco e germe nei liquidi organici, rispetto alla quantità fissata sperimentalmente. L'importanza maggiore è assunta in questo campo dagli antibiotici a largo spettro, tra i quali essenziali sono le tetracicline ed il cloranfenicolo. Nel campo sulfamidico un notevole progresso si è verificato con l'impiego delle associazioni sulfamidiche e del sulfaisossazolo. Si è rilevato intensamente utile anche l'impiego della nitrofurantoina, derivato furanico poco tossico dotato di attività antibatterica polivalente notevole, accompagnata dalla capacità di raggiungere elevate concentrazioni urinarie. Un sinergismo di azione è stato notato tra questo chemioterapico ed il cloranfenicolo, con i conseguenti vantaggi derivati dalla maggiore tollerabilità nei casi di compromissione della funzione renale, per le dosi minori dei singoli componenti rispetto a quelle abituali, una azione terapeutica più immediata e sicura per il largo spettro di azione, minor pericolo di insorgenza di una resistenza dei germi patogeni.
212 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO Nei nostri pazienti abbiamo associato dei cicli settimanali alternati di tetracicline, ed in particolare ossitetraciclina, e di cloranfenicolo associato a nitrofurantoina. I cicli sono stati distanziati man mano che si stabiliva una funzione vescicale autonoma. Con questi d'iteri terapeutici abbiamo evitato nella quasi totalità dei casi trattati, l'insorgenza di una infezione urinaria e conseguentemente abbiamo eliminato una delle cause del reflusso vescico­ureterale. Associate alle cure vescicali debbono essere le adatte cure per l'apparato digerente. E' opportuno evitare, come abbiamo già detto, la stasi intestino e l'ileo paralitico che accompagna di solito lo shock spinale. Per combattere il meteorismo, che spesso ostacola notevolmente gli atti respiratori, specie quando coesista una paralisi del diaframma, e spesso sufficiente una sonda rettale a permanenza. Noi usiamo somministrare, per via parenterale, prostigmina, ed estratti di post­ ipofisi. Bisogna evitare assolutamente la eccessiva consistenza delle feci, che potrebbe essere la sola causa di una stipsi ostinata. E' opportuno praticare dei clisteri medicati ogni due o te giorni, cercando di abituare il paziente a una defecazione quanto più regolare possibile, in maniera che egli possa apprendere ad utilizzare opportunamente i muscoli addominali quando non siano paralizzati. La defecazione può essere aiutata con manovre combinate per poter fare entrare in funzione i meccanismi automatici: basta talvolta una supposta o uno stimolo della cute perianale. L'alimentazione deve essere variata, a seconda che ci si trovi in presenza di un ritenzionista o di un paziente che presenti paralisi dello sfintere anale, con prevalenza nell'un caso di liquidi e nell'altro caso di alimenti astringenti. Con ogni precauzione, con tutti gli ausili! che la moderna scienza e l'esperienza ha posto a nostra disposizione, è possibile quindi evitare al mieloleso una sorte orribile. Ristabilito nei suoi equilibri organici, curato e posto al riparo dalla compromissione dell'albero urinario, regolarizzato nelle sue funzioni vegetative, il paraplegico è pronto per quella che forse è la più importante fra le acquisizioni della moderna scienza in questo campo: restituire l'individuo alla società, instradarlo verso un lavoro proficuo, rendergli la fiducia in se stesso e negli altri, aiutarlo a superare il difficile momento psichico di chi non si sente più un malato, ma ancora non si ritiene autosufficiente. Non bisogna credere che tutti i paraplegici riescano a superare questo stadio: ancor oggi si presentano alla nostra osservazione mielolesi che sono nelle condizioni di bastare a se stessi in tutti i sensi, eppure essi sono dei malati, solo perché si ritengono dei malati. Non basta quindi curare un mieloleso, restituirlo alla sua casa, alla sua famiglia,
I moderni concetti nel trattamento del paraplegici ecc. 213 occorre fargli credere che egli è guarito; è necessario che egli progressivamente riacquisti la fiducia nelle proprie possibilità, fiducia nella scienza di chi lo assiste. Solo per questo riteniamo necessaria l'opera di uno psicologo a fianco a quella del chirurgo. E' opportuno che l'uno e l'altro collaborino alla più importante fase dell'operazione finale di riabilitazione: il recupero della stazione eretta e possibilmente della deambulazione. La rieducazione dell'apparato motore del mieloleso deve iniziare non appena sia terminata la fase dello shock spinale. Le concezioni dei neurochirurghi e degli ortopedici americani differiscono dalla nostra nel senso che essi mirano ad ottenere l'autosufficienza attraverso l'accentuazione delle capacità motorie degli arti superiori: a tale scopo essi hanno istaurato dei metodi precisi con i quali il ferito diviene capace in sei settimane ad alzare un peso uguale a quello del suo corpo con un solo braccio. Tutti i metodi mirano a sviluppare attraverso movimenti respiratori, movimenti di elevazione del tronco sulle braccia in posizione prona, la solidità della cintura scapolare, la potenza dei muscoli addominali e dorsali e la forza prensile della mano. Il mieloleso diventa così capace di spostarsi con le proprie forze e con l'aiuto di apposite carrozzelle. I nostri criteri mirano invece ad un recupero quanto più completo possibile. Attraverso lo studio attento e sistematico dei movimenti involontari ed automatici siamo arrivati alla conclusione che una accorta utilizzazione di questi movimenti, un continuo addestramento per indirizzare gli atti automatici nella direzione ed allo scopo da noi voluti, ci permettono di realizzare un automatismo muscolare determinato. II malato deve essere sottoposto fin dai primi giorni ad un trattamento fisiochinesiterapico preciso e coerente. I massaggi e le mobilizzazioni passive, che altri svolgono allo scopo di evitare gli edemi e le turbe trofiche, debbono essere diretti anche e soprattutto al fine di utilizzare e mantenere in efficienza i muscoli più importanti per alcune determinate funzioni. Il nostro interesse deve esser soprattutto rivolto alla cura del trofismo dei quadricipiti e dei glutei; con pazienti e ben condotti movimenti passivi ripetuti costantemente si eviteranno le rigidità articolari e le prime deformità. Ai piedi sono necessari esercizi di estensione dorsale forzate per evitare la retrazione del tricipite surale, che altrimenti è precoce e costante. Un ausilio prezioso è rappresentato dagli apparecchi gessati. Essi debbono essere confezionati con la maggiore accuratezza possibile, preservando con adatte imbottiture di cotone i rilievi e le creste ossee.
214 LUIGI EMANUELE ­ FRANCO SCALABRINO Con l'apparecchio gessato si evitano definitivamente le contratture e gli atteggiamenti deformi, si mantiene un buon trofismo della cute e soprattutto dei muscoli. Noi usiamo immobilizzare in apparecchio gessato toracobipodalico per periodi brevi alternati a periodi di fisiochinesiterapia. Durante il periodo in cui il paziente è immobilizzato esso viene dapprima riabituato alla stazione eretta e quindi alla deambulazione. Gli apparecchi vengono gradualmente ridotti, liberando dapprima un'anca, poi l'altra e quindi le ginocchia. La chinesiterapia, cui abbiamo precedentemente accennato va integrata con applicazioni fisiche, tra le quali occupano un posto importante le stimolazioni farado­galvaniche dei muscoli e l'elettroergocinesi con correnti diadinamiche. Contemporaneamente viene instaurato con metodi simili a quelli americano un recupero per gli arti superiori per dare ai malati la possibilità di potersi appoggiare e sostenere almeno nei primi tempi della ripresa della deambulazione. Alla fine di questo trattamento riabilitante è la ideale possibilità di una totale sufficienza motoria funzionale degli arti inferiori e superiori. Nella realtà le cose si svolgono diversamente, in quanto m quasi tutti i mielolesi la fase finale è rappresentata dalla applicazione di apparecchi ortopedici tutelanti gli arti inferiori in maniera più o meno ridotta. Nella maggior parte dei casi si tratta di semplici calzature ortopediche con molla antiequino dei piedi tipo Codivilla. In alcuni casi, nei più gravi, è opportuno tutelare anche il ginocchio per ottenere un appoggio stabile in estensione. I pazienti riescono a camminare con notevole facilità, spesso impensata ed impensabile ove si ritorno con la mente alle condizioni iniziali di questi malati. Alcune volte è indispensabile tutelare il tronco con corsetti ortopedici in acciaio e stoffa con prese iliache ed ascellari, apparecchi che si possono togliere allorché sia assicurata una sufficienza statica vertebrale indispensabile alla stazione eretta. La fase finale del trattamento di recupero è rappresentata quindi dagli esercizi di deambulazione. Il paziente deve familiarizzarsi con le più svariate difficoltà che la pratica quotidiana gli opporrà: terreno accidentato, scale, salite e cliscGse La rieducazione motrice si confonde a questo punto con il programma di riabilitazione generale, che merita di essere oggetto di un più approfondito studio.
I moderni concetti nel trattamento del paraplegici ecc. 215 Riassunto Gli AA., dopo aver considerato la patologia generale dei paraplegici, tracciano il quadro dei moderni mezzi a disposizione del medico per il trattamento dei mielolesi. Essi propugnano l'istituzione di appositi centri di; recupero, poiché ritengono i paraplegici recuperabili con accorta terapia medica, specialistica e psicologica. Késuiuc Les AA. après avoir pris en considération la pathologie generale des paraplégiques, décrivent les moyens plus modernes qui sont a disposition du médicin pour le traitement des myélolédés. Ils rappellent la nécessité de la création d'un nombre de centres de récupération, en considération qu'il paraisse possible de récupérer ces malades par une thérapie medicale, spécialistique et psychologique. Summary The AA. first discuss the general pathology of paraplegics and then describe the modern techniques available nowadays for treatment of these lesions of the medulla. They insist on thè necessity of recuperation centers as paraplegics should be considered recuperable by medical, specialistic and psychologic treatment. Zusammenfassung Die Verf., nach einer Beschreibung dei­ allgemeinen Pathologie der Paraplegiker, erinnern an die modernen Hittein, die heute dem Arzt bei der Behandiung der Riickenmarkverletzungen zur Verfiigung stehen. Es wird auf die Notwendigkeit von geeigneten Wiedererziehungsanstalten hingewiesen, da die Verf. glauben, dass die Paraplegiker mit einer geeigneten àrztlichen, spezialistischen und psychologischen Thérapie rekuperationsfàhig sind. Bibliografia ANDRE' M. J.: Etudes sur les traumatismes de la meolle. II. A propos de deux cas de séquelles organiques de commotion de la moelle par traumatismo vertébral le « soufflé de l'explasion ». Acta Neur. et Psych. Belg., Bruxelles, 49, 6, 390­401, juin 1949. BARNES R.: Paraplegia in cervical spine injuries. The Journ. of Bon. and Joint Sur., 30 B, 2, 234­244, mal 1948. BARRE' J. A.: Sur la forme déficitaire pure de la commotion médullaire simple. Rev. Neur., 76, 16, 28, Janv.­Pévr., 1944. BARRE' J. A.: Effets de l'excitation électrique du segment inférieur de la moelle
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