Untitled - Janua Press

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Untitled - Janua Press
I LIGURI
SI RACCONTANO
Janua Press, con lo scopo di svolgere ricerche sull’emigrazione ligure
nel mondo, in collaborazione con l’Associazione Liguri nel Mondo,
organizza tutta una serie di pubblicazioni dedicate a quei liguri che
sentono il bisogno di narrare la loro storia e/o gli avvenimenti della
propria famiglia al fine di rafforzare i rapporti etnici che
intercorrono fra la Liguria e i suoi emigrati.
Il titolo della collana è “I Liguri si Raccontano”.
Saranno pubblicati gli elaborati che perverranno alla casa editrice,
alla sua e-mail: [email protected], o fatti giungere alla sede
dell’Associazione stessa.
Con il sottotitolo: “racconta la storia della tua famiglia”, saranno
proposte ai nostri lettori le vostre storie che dovranno giungerci
nella lingua di residenza individuale e in italiano e/o in dialetto
genovese. In base alla lunghezza degli elaborati che ci giungono, si
valuterà se farne un volume proprio della famiglia oppure un
inserimento in altro volume antologico.
Tutti i nostri lettori avranno il diritto, nonostante vi sia il copyright,
di farsene una stampata ad uso di personale lettura (questo va
precisato qualora ci giungesse una qualche narrazione elaborata in
stile di romanzo)
.
L’aria era umida, la pioggia fitta.
Sul fuoristrada gli ammortizzatori cercavano di fare il loro dovere,
senza grande successo.
Finita la breve salita, davanti a noi apparve un bosco: folto, maestoso,
con grandi pini che, sulla destra della strada sterrata, si ergevano uniti.
Gruppo centenario che osservava incuriosito il nostro passaggio.
Sulla nostra sinistra invece un grande, bellissimo pino si elevava
solitario, quasi a fare da vedetta a difesa del rudere che s'intravedeva
dietro di lui.
Faceva, infatti, “occhiolino” un tenero, decadente, portone secolare
azzurro, in legno, che si ergeva ancora orgoglioso sui suoi cardini
arrugginiti.
Scesi dal fuoristrada, la pioggia ci aggredì; era, quella pioggia, fredda
e ….noiosa.
Un po’ indispettiti, facemmo spaziare lo sguardo intorno a noi.
Eravamo al centro di una valle, circondati dalle splendide falesie
finalesi e dalle verdi colline sulle quali s’intravedevano le sagome dei
paesini dell’entroterra, con le loro forme, confuse, tra le gocce di
pioggia.
Fra esse, però, si stagliavano fiere e nette le ombre degli immancabili
campanili liguri, che trasformavano l’immagine in un presepe.
Dritto davanti a noi, fra le alte querce s'intravedeva un borgo
medioevale, un piccolo gioiello che faceva trapelare nel grigiore della
giornata, i classici colori liguri: il giallino e il rosa Portofino.
L’umore del tempo, invece, si fondeva con lo scuro delle sue pietre
antiche.
Quel borgo, a sua volta, precedeva in profondità le belle pareti di
roccia che si offrono, durante l’anno, agli scalatori di tutta Europa e
che circondando l’intera valle, s’incontrano all’apice, toccandosi con le
loro punte, come scarpe di ballerina.
Fu amore a prima vista, per Andrea e per me.
Non credo fossimo preparati a tanta bellezza, alle emozioni forti che
l’insieme seppe trasmetterci.
Di fronte alla fierezza e alla beltà della natura, del suo sapersi abbellire
nel corso dei secoli, in maniera così innocente e semplice, senza
artifizi, il pensiero e il cuore si fecero piccoli piccoli, in segno di
rispetto.
Ritornammo, in seguito, in quella valle e i dettagli, che a causa della
pioggia erano sfuggiti, quel giorno fermarono le immagini come
fotogrammi dentro di noi, creando un legame indissolubile: gli sguardi
s’incontrarono e non ci fu bisogno di parole per conclamarlo.
Quel terreno, quel rudere, quel silenzio rotto solo dagli animali del
bosco, era già stato nostro, da sempre. Forse in un altro tempo, un
altro mondo, un’altra vita.
Era però rimasta traccia nei nostri cuori.
Ci siamo abbracciati, felici, senza considerare il futuro, solo godendo
delle emozioni del momento, dell’aria frizzante che respiravamo, del
passato che ogni stanza del rudere rivelava, della vita che era stata,
della memoria che l’uomo lascia dietro di sé, tramite le sue opere, in
vita.
Ci aggiravamo nei meandri del rudere in silenzio, intimiditi noi stessi
dai cambiamenti che volevamo apportare.
In quel grande castellaro ligure, nel suo bosco, si erano snodate la
gioia, la tristezza, il sorriso, il pianto e la malinconia dell’abbandono di
persone vissute in tempi diversi dai nostri.
L’immaginario volava e creava, indipendente dal quotidiano. Ci
portava a tempi remoti, a vite rurali, ad amori contrastati; ma anche a
famiglie unite che crescevano ed annettevano, magari in tempi più
recenti, ad un corpo di fabbrica iniziale, un altro e poi un altro
ancora, man mano che i nascituri allietavano il bosco con i loro
gridolini felici.
Frequentando abitualmente il “Petit”, Andrea mi ha insegnato a
“vedere” nascere la vita.
Quasi per gioco, ho imparato a smuovere la terra, a seminare.
Ho visto spuntare i primi germogli con lo stupore di una bambina.
Lo stupore si trasformava in meraviglia quando vedevo crescere i primi
frutti, le prime “verdurine”.
Ricordo quando è venuto il momento di cogliere l’insalata: lo facevo
con una delicatezza infinita, che faceva sorridere Andrea.
Era un tributo alla vita. Quel bosco era vivo. Non solo per la ricca
fauna che lo popolava, ma anche per tutti gli alberi da frutto che ivi
dimoravano: ciliegi, castagni, ulivi, susini, gli spinosi rovi con le loro
dolcissime more estive e il verde sottobosco con le sue piccole
fragoline, le viti………Le viti……quale magia.
Un giorno d’autunno, quando gli alberi ormai doravano le loro foglie,
vidi un grosso tronco che spuntava rigido e annerito, quasi bruciato,
appena al di sopra di una fascia.
Chiamai Andrea, pensando fosse un tronco secco da togliere, ma lui
avvicinandosi riconobbe, in lui, una vite.
La pulimmo, facendole spazio tutt’intorno, lasciandola finalmente
libera di respirare e godersi il calore del sole, essendo esposta a Sud.
In primavera nacquero le prime gemme, che diventarono foglie.
La potammo a tempo debito e l’anno dopo esplose, facendo i primi
grappoli d’uva.
Sembra forse ridicolo, ma non avevo mai visto un grappolo d’uva
nascere.
E’ davvero una magia che ricorre ogni anno; adesso quando bevo un
bicchiere di vino, so quale fantasioso arcano la natura utilizza per
permettere a noi tale delizia e visualizzo quel primo, piccolissimo
grappolo d’uva appena nato e penso alla delicata strada che dovrà
percorrere.
Quella vite a oggi, nel periodo estivo, corre lungo una buona parte del
muro a secco sul quale è appoggiata, e ne ricopre circa la metà in
altezza.
Grazie ad Andrea e al Petit ho scoperto un nuovo mondo, che in
maniera silente vive e prolifera, va in letargo, per poi ricominciare la
sua storia. Vita che suscita emozioni continue, che si avvicendano a
ogni sguardo.
Abbiamo imparato non solo a riconoscere ogni pietra del nostro
castellaro, ma anche ogni pianta e ogni foglia, che per noi hanno un
significato particolare.
Nulla sfuggiva al nostro sguardo innamorato.
Scavando, per togliere i detriti accumulatisi nel tempo, trovammo
nella “Stanza del Frantoio”, così chiamata perché in origine davvero lì
erano macinate le olive ed era prodotto l’olio, svariati cocci di piatti,
otri e bicchieri …. La nostra immaginazione ricominciò a volare.
Li chiudemmo tutti in due grossi sacchi pensando un giorno di pulirli,
sceglierli ed esporli in una bacheca all’interno di quel bellissimo,
dignitoso vecchio signore in pietra (che per noi era diventato il
“Petit”), una volta ristrutturato.
Né Andrea, né io immaginavamo allora che cosa avrebbe comportato
per noi acquistare quel luogo e quel rudere per vederlo tornare a
vivere.
Vivere, vita, non riesco ad usare altri sinonimi, perché la vita per noi ha
acquisito un valore diverso da quello comune, molto meno terreno e
molto più spirituale.
Lassù, tra quelle colline e quelle rocce, tra quei pini e quei castagni, fra
gli ulivi e le querce era molto più facile parlare con Dio ed entrare in
sintonia con Lui, che restare cittadini del mondo terreno.
Il “Petit” è per noi come attraversare un ponte: un ponte che collega
cielo e terra, presente e passato, tenerezza e amore.
Un ponte sul quale è piacevole passeggiare perché ti da’ la
consapevolezza di fare parte integrante di un insieme, pur essendone
avulso e non stanziale, perché ti fa comprendere quanto la nostra
sensibilità possa percepire l’esterno, le immagini, i profumi, i colori e
possa appropriarsene nella memoria, trattenendoli per non restituirli
più. Momenti di felicità assoluta, così unici, così rari.
Non esiste nella mente difficoltà alcuna se c’e’ la volontà di
compimento: e nella mente di Andrea e mia c’era quella volontà,
motivata dai nostri sentimenti.
Ma l’organizzazione umana è burocratica, pensata per i non pensanti,
data e regalata nelle mani di chi non ha esperienza o non è motivato né
a capire, né a conoscere.
Non esiste il lato umano nella burocrazia: essa non ha mente né
anima.
Sei un nome su una cartellina e quel nome infastidisce perché richiede
attenzione, anzi la pretende (L’ALTRA FACCIA DELLA
MEDAGLIA).
Le sensazioni più nitide che sono dentro di noi sono l’impotenza e la
frustrazione nel vedere sminuito, distorto e sminuzzato un sogno.
Non c’e’ pietà per chi ha iniziativa: Deve pagare!
In tutti i sensi, nessuno escluso.
Sembra quasi dovuta una punizione, per aver osato sognare, per aver
osato tentare di fare diventare quel sogno realtà: Devi pagare!
Con la tua persona, con il tuo lavoro, con i tuoi familiari: Devi pagare!
Forse perché hai osato alzare la testa………: Devi pagare!
Si tratta solo di quantizzare il tuo sogno, e naturalmente questo lo
decidono altri, estranei, gente che nulla sa e che nulla vuole sapere.
Vieni messo in discussione, ti setacciano, ti filtrano, ti appassiscono,
disidratandoti.
Si abbeverano alla tua fonte, senza sapere le tue fatiche, i tuoi sforzi, i
tuoi sacrifici.
Bevono la tua acqua e ti dicono che è un loro diritto, che la tua acqua è
la loro e per questo loro dire tu devi motivare, giustificare, discolparti
perché vorresti abbeverarti anche tu, alla tua fonte.
A te, però, è proibito bere, perché tutto deve essere deciso da altri e
subordinato al loro permesso: ognuno di loro deve imprimere il
proprio timbro e il proprio volere sulla tua fonte.
Ancora non è finita. E’ solo l’inizio della corsa, di un lungo incubo,
perché a ogni illusorio metro guadagnato a te sembra che la meta sia
sempre più vicina, ma è proprio allora che ti spostano il traguardo con
le loro improbabili nuove leggi, con vecchi e nuovi divieti, con la
mancanza delle giuste conoscenze, con tutte le incredibili tempistiche
degli enti statali.
E non resta che ricominciare a correre…….e sembra davvero non
finire mai.
Ed è storia che proprio quando corri non riesci più a vedere, né sentire
e…hai più probabilità di errore.
Si alternano nel tempo, ordini, richieste, obblighi e firme, visi e voci
diversi.
La loro macchina è lenta e confusa e questa confonde anche te, ti
stritola e ti fa perdere nella loro torre di Babele, dove ognuno parla
davvero una lingua diversa.
Ogni volta che tutto ciò diveniva pesante al punto da non potere più
essere sopportato, Andrea ed io tornavamo a passeggiare su quel
ponte, proteso fra cielo e terra, fra presente e passato, per respirare aria
pura, per ritrovare noi stessi, le nostre sensazioni, il nostro amore e
l’amore di Dio.
La Sua Voce là è forte, la sua opera mirabile.
Esiste al Petit uno sperone di roccia che rende sopraelevato un piccolo
pianoro rispetto alla strada che conduce allo stesso, proprio vicino a
quei bellissimi pini curiosi.
Ha la forma di una grotta naturale: sarebbe perfetta per inserire al suo
interno una statua della Madonna, magari in legno, poiché materia
viva, e farne un luogo discosto di meditazione.
Un dolce, presente sguardo su quel piccolo pezzo di mondo.
Il Petit è formato da due corpi di fabbrica, uno risale al ‘700, l’altro
pare al ‘400.
Sicuramente in tempi antichi, esso era autonomo e indipendente; al
piano terra s’intuiva la zona lavoro: appena varcato il bell’ingresso
voltato a vela, sulla sua sinistra una stanza era dedicata alla
macellazione degli animali, la seconda stanza sulla sinistra era per
certo il frantoio (sono ancora presenti il grosso tronco, dove girava la
macina e la pietra sottostante), e leggermente più in alto come quota,
ma con l’accesso da quella stessa stanza, si accedeva a un fornetto
adibito a sgocciolatoio per le formaggette, il comune in cui è situato il
Petit è ancora oggi famoso per la produzione delle stesse.
Sulla destra dell’ingresso, sotto le bellissime volte, era stata progettata
una scala che portava ai piani superiori: lì erano chiaramente visibili le
stanze da letto, con al centro lo spazio per l’icona sacra e gli armadi
ricavati nella pietra, i muri intonacati e le mensole che dovevano
servire da comodini. Tutte le stanze si affacciavano a sud.
Una specie di torretta, dava l’accesso, tramite una seconda scala, al
secondo piano, dove sicuramente c’erano gli essiccatoi. Sopra ancora, i
tetti si alternavano alle terrazze, fatte di vecchi e affascinanti mattoni
rossi, che raccontavano solo a toccarli, la loro storia.
Nel corpo di fabbrica più antico, sono rimasti visibili dei decori
floreali, appena sotto le partenze delle volte, questi s’intonano con il
verde che si scorge dalle piccole finestrelle ricavate nei muri spessi.
Era sicuramente presente in zona limitrofa una sorgente d’acqua che
riforniva gli abitanti dell’epoca, sia ad uso irriguo che ad uso
personale, sia per il bestiame: sempre al piano terra, ma verso nord, si
poteva vedere chiaramente ancora la stalla, dove c’erano nei muri gli
spazi per incastrarvi le mangiatoie.
Pezzi di storia che non si fanno ignorare.
Un giorno concentrata nella mia immancabile lettura, mentre Andrea
cercava un modo per portare l’acqua per irrigare il nostro piccolo orto,
leggevo adagiata su una delle due amache, che avevamo prima legato
a due belle querce.
Ad un tratto, sentii il silenzio strapparsi, e far trapelare un leggero
fruscio, poi un altro e un altro ancora.
Pensai ad Andrea, lo chiamai ma non ricevetti risposta.
Essendo un posto isolato, crebbe dentro di me l’ansia, immaginando
estranei nei dintorni.
Scesi dall’amaca e, fra quei famosi pini, intravidi delle figure che
avanzavano veloci, fino a sbucare dal verde proprio di fronte a me, che
ormai ero arrivata alla strada.
Due meravigliosi caprioli adulti stavano rincorrendosi nel bosco.
Mi videro solo quando gli fui davanti; erano davvero intenti nei loro
giochi ed io, probabilmente, ero controvento.
Furono fulminei, invertirono la “rotta”, girando con uno scatto sulla
mia sinistra, dove le fasce li avrebbero ricondotti al bosco.
Rividi tempo dopo, sulla strada che porta al Petit, una mamma
capriolo con il suo piccolo a fianco: mi piace pensare sia stato
concepito quel giorno.
Sempre sotto quelle querce ho fatto amicizia con uno scoiattolo molto
curioso. Stava trastullandosi, non visto, fra le fronde, quando decise di
tirare sul mio libro una ghianda; quel suo gesto provocò il mio alzare
lo sguardo.
Ero stesa sull’amaca, quindi lo vidi dal basso verso l’alto, aggrappato
al tronco d’albero tipo pelle d’orso: la testolina inclinata e quel suo
occhietto nerissimo fisso su di me. Era di dimensione superiore alla
media, tutto nero con una macchia bianca che gli ricopriva
interamente il petto.
Non era minimamente spaventato, ma solo incuriosito da me, che per
timore di vederlo scappare ero rimasta immobile e a stento respiravo.
Dopo poco, soddisfatta la propria curiosità, ricominciò a saltellare di
quercia in quercia.
Durante la settimana c’era l’ansia di terminare le nostre giornate
lavorative per correre lì, in quello che era diventato il nostro giardino
dell’Eden.
La voglia di condivisione con gli amici arrivò l’anno dopo l’acquisto, e
cominciammo ad adibire rudimentali tavoli che poi imbandivamo con
ricche grigliate e abbondante vino rosso.
Un amico, stanco del “peregrinare dei tavoli”, costruì con lunghe travi
delle panchine fisse e poi le basi per un degno tavolo, e a completare il
tutto, due belle piane di formica, ex porte di qualche struttura
smontata.
Nacquero anche “panchine da riposo”, fatte con tavole di legno,
ispirate da una comune amica che alle famigerate mangiate, faceva
seguire sonore dormite, salvo poi lamentarsi dei toni alti e giocosi
degli altri commensali.
Durante tali scorribande alimentari, riempivamo il bosco di risate,
urla, voli pindarici, ricordi.
Spesso, durante i giorni in cui il Petit rimaneva in attesa di noi e noi di
lui, ci venivano rubati gli attrezzi da lavoro, pale, falcetti, forbici da
giardinaggio e persino le griglie e le pinze con le quali cuocevamo i
nostri pasti domenicali.
Conseguenza ne era che, spesso, dovevamo arrangiarci con le
rimanenze o gli attrezzi nascosti a priori, che cercavamo poi per ore,
non ricordandoci mai dove erano stati riposti.
Incredibile come i ladri riuscivano a essere più fortunati di noi!
Una Domenica, ci accorgemmo che tutta la legna da noi tagliata, in
piccoli pezzi e ammonticchiata a caso nella nostra proprietà, era stata
rubata.
Si vedevano ancora i segni delle ruote del trattore con il quale
l’avevano portata via.
Stanchi della situazione, decidemmo di chiudere l’accesso al Petit con
una grossa catena, alla quale era appeso un gran cartello bianco con
sopra scritto: “Rispettare gli altri significa rispettare se stessi.
RispettateVi lasciandoci la nostra legna e i nostri attrezzi da lavoro.”
Poi riempii il cartello con piccole faccette buffe e due grandi occhi neri
con due dita sollevate e la parola “peace” scritta in maiuscolo.
Da allora i furti si sono notevolmente ridotti.
Quanti alberi abbiamo potato e quanti rami e foglie secche abbiamo
bruciato.
Durante i week-end estivi, quando non c’era vento, preparavamo
mucchi di legna da bruciare e restavamo lì a volte fino a tarda sera,
finché il fuoco non si estingueva del tutto, per poter andare via sicuri
di non lasciarci alle spalle anche una sola brace accesa.
Stanchi morti, sporchi, in abiti da lavoro, con addosso il profumo della
legna bruciata, spesso chiedevamo ospitalità ad un amico che gestiva
una trattoria, che gentilmente ci accoglieva in ogni condizione e a
qualunque ora.
C’erano volte che eravamo proprio da doccia impellente, in quel caso
ci veniva riservato un tavolino isolato di fronte al bar.
Sono bei ricordi, momenti felici, piacevoli da rivivere su queste pagine.
Riportano alla memoria il perché della nostra avventura.
Oggi abbiamo meno certezze di allora, meno sicurezza, siamo provati
dalla realtà che abbiamo dovuto affrontare e che, a volte, ci ha colto
impreparati.
Muoversi in un ambiente sconosciuto e così complesso com' è
successo a noi, è per un certo verso interessante. Ti porta a nuove
conoscenze, nuovi interessi, nuove esperienze.
Ti dà la possibilità di conoscere tante persone: ti accompagnano per
un tratto del viaggio, ma rimangono un buon contatto per sempre.
Vedi crescere la tua casa, mattone per mattone e di lei conosci davvero
ogni più piccolo frammento, che è poi documentato e rimane la sua
memoria storica.
D’altro canto il genere umano è incredibilmente vario. Più gente
s'incontra e più personalità si conoscono. Possono piacere oppure no,
ma resta che il confronto è obbligatorio.
Una verità è che non sempre dal confronto si esce vincitori.
Ed è allora che cominci a chiederti se mettersi in gioco nel mondo
d'oggi è cosa saggia.
Ma, si sa, non esiste saggezza quando si parla di sogni.
Esiste una forza cieca che ti muove, che ti abbaglia, che non ti
permette di scoraggiarti, che ti spinge a percorrere la strada fino in
fondo. A qualunque costo.
Acquisisci presto la consapevolezza che non tutto dipende dalla tua
volontà, che spesso devi subire le tempistiche e le decisioni altrui,
perché il confronto non è alla pari.
Troppo spesso non è alla pari.
C’è una paura però che è stata sempre la promotrice del nostro andare
avanti.
La paura di guardarsi un giorno negli occhi e leggere la delusione di
non aver fatto di più, non aver intrapreso il cammino per troppa
prudenza, aver perso un’opportunità per non essere stati coerenti con
le scelte fatte.
La paura della frase: “Forse avremmo potuto
fare…………dire………osare ……… scegliere …………di più ’”.
Oggi sappiamo aver sconfitto questa paura.
Abbiamo provato e osato, anche quando sapevamo che non avremmo
dovuto, anche quando vedevamo il limite avvicinarsi.
Per stoltezza, per caparbietà……….per amore.
Per tutto questo, oggi, il Petit è una realtà.
Quasi inaspettatamente, questa volta, in una splendida giornata di
sole, salendo a piedi la strada “scortata” dai pini, esso si è mostrato ai
nostri occhi in tutta la sua complessità e fierezza.
La sua struttura si erge, ormai completa, in mezzo al bosco.
Non c’è più quel timido portone azzurro.
Al suo posto, a breve, sarà messo un portone blindato, con pannelli di
legno dipinto con un colore noce nazionale, scotto del progresso e
della nuova era.
Ci sono nuovi occhi nelle sue mura di pietra, grandi finestre ad arco
ribassato, come in uso sul territorio, per poter meglio ammirare quel
panorama mozzafiato che ci fece innamorare con un colpo di fulmine.
Nuove finestre dalle quali si può ancora vedere quel tavolo
dimenticato, ormai circondato da erbacce e rovi, costruito con i
tronchi in un pomeriggio passato in armonia con gli amici.
Ci sono solai di legno, dove le volte hanno ceduto alla tirannia del
tempo.
Ci sono colonne di pietra a fianco di pareti intonacate e, dove
l’originario muro si è dovuto rinforzare con l’intonaco, qualche pietra
fa ancora capolino, per non essere solo un ricordo.
Ci sono nuove scale che portano ai piani superiori e quattro tetti che si
alternano alle terrazze, dove ancora manca il cotto a completarle.
Andrea ed io però non dimenticheremo quei vecchi mattoni rossi che
abbiamo conservato, pulendoli uno ad uno e su cui, in una di quelle
domeniche conviviali, un amico si e' arrampicato, fino alla terrazza
ancora agibile, con la sua sedia da mare, la sua camicia di Snoopy e gli
occhiali da sole.
Chiese alla nostra amica, ispiratrice delle panchine da riposo, di
lanciargli il giornale.
Dopo ripetuti lanci, il giornale raggiunse la sedia da mare.
Dopo poco, su quel meraviglioso rudere rosa, costruito con la pietra
del Finalese, si poteva ammirare una nitida macchia di colore, con
occhiali scuri, che leggeva il giornale.
Emozioni.
Forti.
Portano alla commozione chi le ha vissute.
Ci sono nuove stanze, quasi pronte ad ospitare chiunque vorrà unirsi a
noi, e condividere quel sogno iniziato quasi tre anni fa.
Salendo all’ultimo piano, la sensazione è quella di essere circondati,
abbracciati dalla natura che ti accoglie e ti fa divenire parte di essa.
Oggi ci sono caldi raggi di sole a scaldarci, e ci sono lacrime nei nostri
occhi. Occhi che si cercano, s'incontrano ed esplorano ciò che due
piccole formiche con l’aiuto di Dio sono riuscite a portare a termine.
Un sogno.
Nonostante tutto.
Nel fumo di una sigaretta
E’ nel fumo di questa sigaretta solitaria,
di questi sofferti ricordi,
una mia antica voce: brevi attimi di pensieri concreti,
tanti sorrisi
si nascondono
in questo vivace luccichio…
Poi il lungo buio
e il vivo vortice del fumo…
E balla,
e s’agita;
s’innalza…
io mi innalzo;
sparisce…
Resta solitudine
in questo quadro
denso di pennellate di ricordi.
Immune,
fermo ora
il fumo della mia sigaretta.
Giovanni Faleri
Anche solo per i ricordi
Il dolce sapore di cose passate,
di gioie nascoste in un vivo ricordo: gambette di bimbi,
vociati impazziti,
corse affannate,
visi sudati che si nascondono e riappaiono
nel pietoso gioco della memoria.
Tutto dà ora una vitalità nuova,
una forza estrema,
un desiderio di continuare
anche solo per i ricordi.
Negli occhi una lacrima,
limpida,
lucida,
identica a quella del bambino
che l’asciugava col palmo della manina, dopo avere pianto.
Una lacrima che scende giù,
scorre fra i solchi invecchiati del viso…
più giù…
Giu!
Fino alla bocca
in rimpianti salati: il sacrificio della mia infanzia.
Sensazioni passate,
identiche alle nuove,
ma col pianto che continua a serrarmi la gola.
Giovanni Faleri
Petali gonfi di malinconia
Ora che la linea dell’orizzonte è vicina:
quasi la tocco con le dita
e spezzo a metà le mie mani
con petali gonfi di malinconia;
sento il mio corpo
chiuso dentro la brezza che viene dal mare.
Ondate improvvise e feroci.
E’ una canzone triste
Il mio corpo,
una canzone tetra,
pesante,
chiuso dentro un respiro affannoso;
è una bottiglia che si svuota presto della mia essenza umana.
Datemi la carezza di mio figlio
e lasciatemi sognare
prima di morire.
Prima di morire io voglio cantare
l’ansia dei suoi occhi
nell’attesa di un mio piccolo bacio.
Giovanni Faleri
L’eco delle illusioni
Il fruscio selvaggio di foglie
libera il trasporto della natura
fra le cime indistinte degli alberi;
lassù, lontani, giganti irraggiungibili.
Irriducibile,
muovo lenti passi
sopra frammentari bisbigli d’amore;
esaurisco
nel silenzio vacuo delle illusioni.
Ricordo l’inquieto abbandono dell’infinito.
Giovanni Faleri
Notte senza stelle.
Anche se mancano le voci…
solo un cane lontano lamenta
una speranza di vita…
mi copri di dolce solitudine, notte,
e mi sai donare una speranza di pace
che temevo smarrita;
un sepolcro delle mie sensazioni
si scoperchierà, ora, col vento:
umili ricordi di normali calpestii,
di frasi d’amore sommesse,
di voci di donna.
Mancano le stelle nel tuo cielo,
e anche le nubi si ribellano al volo.
Mancano i miei sogni in questo ristretto attimo.
Manca… niente!
Mi resta la quiete di una notte senza stelle.
Giovanni Faleri
Giovanni Faleri non ha permesso venisse pubblicata la sua biografia e
una sua foto. Ci ha detto solo: “dite al lettore che sono poesie che
scrissi negli anni settanta, sulla Collina degli Angeli a Genova:”
CESARE MARASSO: EL MÍTICO GOYESCAS
Santiago vivió una época dorada de espectáculos de nivel internacional en
la década de los ’50. El epicentro: El Goyescas, un multifacético
establecimiento de tres pisos conectados por la primera escala mecánica
conocida en Chile, ubicado en la esquina de Estado con Huérfanos, en pleno
corazón del centro capitalino, “la esquina del Goyescas”.
Fue la obra de un italiano: Cesare Vittorio Marasso, nacido en Levanto, La
Spezia, el 11 de febrero del año 1913 y llegado a Valparaíso, Chile, en 1930,
con apenas 17 años de edad.
ESPECTÁCULOS DE EXCELENCIA
Creado y dirigido por Marasso, el Goyescas ofreció los momentos más
estelares de la vida artística conocida hasta la fecha por el público chileno. El
empresario italiano estableció un acuerdo de cooperación con Radio Minería,
ocasión en la que conoció y entabló amistad con Raúl Matas, el locutor y
presentador más importante de la radiodifusión chilena. En su moderno
salón de espectáculos, ubicado en el subterráneo del Goyescas, presentó las
actuaciones en Chile del cuarteto ítalo estadounidense Los Cuatro Ases (The
Four Aces) y su primera voz Fred Diodati - ¿Recuerda la canción “El amor
es algo esplendoroso”?- la escultural actriz británica Diana Dors, el cantante y
actor francés Sacha Distel, también ex - marido de Brigitte Bardot, la
inmortal Libertad Lamarque, el showman argentino Mario Clavel, el “salero”
hispano de la gitana Chunga, de Carmen Sevilla y de Paquita Rico junto a los
inolvidables pasodobles de Los Churumbeles de España - “No te puedo
querer” y “El Beso” - en la voz de Paco Lucena, Juan Legido y el Niño de
Utrera.
Los boleros se disfrutaban en vivo con la calidez del argentino Leo Marini y
las magistrales interpretaciones de los chilenos Antonio Prieto, los hermanos
Lucho y Arturo Gatica, los dúos Sonia y Myriam y Doris y Rossie.
Los niños de la época disfrutaron de las canciones infantiles de la Vitrolita,
la mujer grande que hacía de niña, de la hermosa Marisol de España, la de los
"Doce Cascabeles", del virtuosismo precoz del argentino Carlitos Riberón, el
niño que le cantaba a "Mi Buenos Aires Querido" y del extraordinario
fonomínico Gambino.
El tango tuvo en el Goyescas a sus mejores exponentes: Alberto Castillo, el
cantor de los cien barrios porteños, Francisco Canaro y su espectacular
orquesta típica, Edmundo Riveros y su voz tan grande como sus manos y el
histórico Hugo Del Carril.
La música folklórica se hizo presente en el Goyescas con la Negra Linda,
Ester Soré, el Dúo Rey Silva y el neo folklore de Las Cuatro Brujas y de
Pedro Messone. La picardía de Los Perlas y el humor de Los Caporales
hicieron las delicias del público en este santuario del espectáculo santiaguino.
NÚMEROS QUE HICIERON ÉPOCA
El humor desfiló a lo grande en el establecimiento de Marasso: El
argentino “Zorro” Iglesias, el uruguayo Verdaguer y los “decanos del chiste”
Manolo González, Jorge Romero “Firulete” y Carlos Helo, entre otros,
llenaron de risas y carcajadas el salón del Goyescas.
Marasso también presentó en Chile lo mejor del espectáculo mariachi de la
época: Miguel Aceves Mejías que, con sus rancheras, sus guapangos y su
mechón blanco, se convirtió en un “boom” discográfico en Chile.
El grupo vocal argentino “Los 5 Latinos”, con la maravillosa voz de su
solista Estela Rabal, vino por primera vez a Chile para presentarse por una
semana en el Goyescas. Su éxito fue tal que su permanencia se extendió por
15 días, cantando “Dímelo Tú” o su versión en castellano del hit italiano
“Come Prima”.
EL VUELCO DE LA TONGOLELE
Ennio Botto, piamontés y en la época competidor de Marasso, no olvida lo
que significó la presentación de la Tongolele, la exhuberante bailarina
portorriqueña, en el Goyescas de los primeros años cincuenta. “Nosotros
queríamos competir con el Goyescas. Nuestro negocio era El Violín Gitano,
también de la calle Huérfanos. Pero se esfumó toda posibilidad de
competencia cuando el Goyescas presentó a la Tongolele, una de las artistas
que mayor impacto ha causado en la historia de los espectáculos en Chile”.
Las vedettes y hermanas argentinas Lobato, Nélida y Sissi, también
formaron parte de la oferta artística del Goyescas.
Las innovaciones de género musical estuvieron muy presentes en la
programación artística de Marasso: Las primeras presentaciones en vivo del
“rocanrolero” estadounidense Dean Reed, del rockero austro - chileno Peter
Rock y su hermana Karina; de Anaconda, la primera orquesta femenina de
música tropical y del Ballet de Trinidad, con el limbo y el calipso de las islas
antillanas, abrieron en el Goyescas las ventanas a lo nuevo que venía a
instalarse en los gustos del público chileno.
AMBIENTE FAMILIAR Y PUNTO DE
ENCUENTRO
Era fácil encontrarse en la “esquina del Goyescas”, como acontecía con la
esquina de Los Gobelinos o la esquina del correo. Lugares de citas y
encuentros. Era como el decir juntémonos en el centro, para tomar té. Su
confitería, salón de té y sus fiestas artísticas están presentes en los capitalinos
de la época. El Goyescas, fue un personaje popular del centro. Todos lo
conocieron, tanto en su exterior como en su interior. Aquí se citaban artista y
a muchos se les dirigía allí la correspondencia. Los niños tuvieron sus tardes
junto a una taza de té, chocolate o una copa de helados en la Confitería del
primer piso.
Los más grandes llegaban al “Goyesquín”, bar de cacho y dominó que
funcionaba en el segundo piso, famoso por su bodeguero, el “Huaso”
Briones, popular exponente de la lucha libre en el Caupolicán, y por su menú
clásico: spaghetti y pernil con puré picante.
A Levanto, 95 anni fa, nacque Cesare Vittorio Marasso, mio padre.
Oggi, nel caldo estivo di Santiago, mi trovo davanti al mio computer e lavoro
per l'informazione e la coesione di milioni di persone che, come mio padre o
come me, costituiscono questa versione globale dell'Italia.
Dedico questo editoriale a lui, Cesare Vittorio Marasso, di Levanto, La Spezia,
Regione Liguria.
L'OPERA DI UN LEVANTESE
Santiago del Cile visse un’epoca d’oro con la presentazione di spettacoli a
livello internazionale; eravamo negli anni ’50.
L’epicentro? Il “Goyescas”, lo stabilimento multifaccia a tre piani collegati
dalla prima scala meccanica conosciuta in Cile, che era collegato nell’angolo
di Estado con Huérfanos, nel cuore del centro della capitale, “l’angolo del
Goyescas”.
È stata l’opera di un italiano: mio padre, Cesare Vittorio Marasso, nato a
Levanto, La Spezia, l’11 febbraio del 1913 e arrivato in Cile nel 1930, quando
aveva appena 17 anni.
Il “Goyescas”, iniziato nel 1950, portò in Cile a Diana Dors, The Four Aces,
Jacques Charrier, Carmen Sevilla, Paquita Rico, “Marisol de España”, Alberto
Castillo, Francisco Canaro, Libertad Lamarque, Miguel Aceves Mejías, la
portoricana Tongolele e Mario Clavel, tra altri artisti internazionali, e diventò
la piattaforma di lancio del grande cileno Lucho Gatica.
Il “Goyescas” chiuse i battenti il 31 settembre 1963.
Due anni dopo, il 1 gennaio, si è spenta la vita di Cesare Marasso, il
levantese imprenditore e innovatore che lasciò le sua traccia di realizzazioni
in Cile.
Qualcosa ancora rimane: l’eterno “Marco Polo” alla Plaza de Armas di
Santiago. Altre non ci sono più: “El Negro Bueno”, “La Isleña”, il bar “Black
and White”, il bar “Merino”, il bar “”El Cielo” ed il mitico “Goyescas”.
Profondo amante della sua Patria, l’Italia, Cesare Marasso contribuì, come
azionista, all’ ”Inmobiliaria” dello Stadio Italiano e del Club Italiano. È stato
socio dell’Audax Italiano, la squadra di calcio del suo cuore, che seguì di
persona in tutte le sue partite, anche se doveva andare fuori di Santiago.
I suoi primi anni in Cile, Marasso li ha vissuti a Valparaiso, dove partecipò
attivamente nelle istituzioni dello sport italiano, in particolare nella
“Sportiva”, giocando nella squadra di pallanuoto.
Il 27 febbraio 1945 sposò Carmen Beltrán, ed ebbe due figli: Giacomo e Iride
MARASSO: EMPRENDEDOR E INNOVADOR
El Goyescas, que había nacido en 1950,
se ausentó para siempre el 31 de marzo
de 1963. Dos años después se apagó la
vida de Cesare Marasso, el "levantese"
emprendedor e innovador que dejó su
huella realizadora en Chile. Alguna de
sus obras aún permanece: El eterno
"Marco Polo" de la Plaza de Armas.
Otras ya no están: "El Negro Bueno",
"La Isleña", el bar "Black & White", el
bar "Merino", la fuente de soda "El
Cielo" y el mítico Goyescas.
Profundamente amante de su
patria, Italia, Marasso contribuyó como
accionista en la Inmobiliaria del Stadio
Italiano y del Club Italiano. Fue socio del
Audax Italiano, el equipo de sus amores,
al que seguía domingo a domingo
incluso cuando le tocaba jugar fuera de
Santiago.
Sus primeros años en Chile los vivió en Valparaíso, donde participó
activamente en las instituciones deportivas italianas, particularmente en la
Sportiva, jugando en su equipo de waterpolo.
El 27 de febrero de 1945 contrajo matrimonio con Carmen Beltrán
con quien tuvo dos hijos: Giacomo e Iride.
“… bruciare la legna per fare il carbone è
un’occupazione piacevole: indubbiamente ha
qualcosa di inebriante. Chi vi lavora, è
risaputo, vede le cose in una luce particolare,
è incline alla poesia e alle fantasticherie, i
demoni della foresta vengono a tenergli
compagnia. E’ bello, il carbone, quando lo si
rovescia per terra, dal forno incandescente.
Liscio come seta, materia liberata dalle
scorie e dal peso, divenuta eterna, piccola
saggia mummia nera del legno…”
(Karen Blixen, “La mia Africa”)
Fu con un po’ di timore che Giacomo seguì il padre, in quella fresca alba
estiva.
Si erano preparati quando era ancora buio. Avevano riempito due fazzoletti
da viaggio di pane, formaggio e un po’ di polenta che era avanzata la sera
prima. L’acqua l’avrebbero trovata strada facendo.
Guardando dalla finestra, scorsero i primi raggi del sole che schiarivano il
cielo; piegarono due coperte, se ne caricarono sulle spalle una ciascuno,
raccolsero dal tavolo i fagotti legati e uscirono, in silenzio, cercando di non
fare troppo rumore con i pesanti scarponi.
La luce, a poco a poco, schiarì le montagne che si colorarono di rosa e
l’azzurro del cielo impallidiva sempre più al sorgere del sole.
Giacomo si voltò verso la valle, guardò il paese ancora addormentato e pensò
al suo caldo lettino, abbandonato così presto quella mattina.
Era la prima volta che saliva sui monti con la prospettiva di restarvi qualche
giorno.
Da generazioni, nella sua famiglia, si faceva il carbone.
Tutti i maschi, raggiunti i nove, dieci anni, venivano condotti dai loro padri,
sulle montagne e lì cominciavano ad apprendere l’arte del carbonaio.
Giacomo, però, si sentiva un po’ sperso mentre affrontava quelle impervie
salite per raggiungere i boschi più alti, quelli più ricchi di legna da sacrificare.
Non gli piaceva il carbone. Lui era felice solo quando lavorava la terra.
Gli piaceva frantumare le zolle con le mani nude e sentire la terra sbriciolarsi
tra le dita e scorrervi in mezzo per ricadere leggera e silenziosa. La sentiva sua
e sapeva che era lì, in attesa di essere adoperata. Si lasciava toccare, usare, era
sempre disponibile e regalava sempre buoni raccolti, bastava trattarla bene.
Il carbone invece, era nero, duro, intoccabile, caldo e nello stesso tempo
freddo, era natura morta.
Cercò di non pensarci più e si concentrò sulla strada che stavano
percorrendo.
Avevano superato i campi coltivati a terrazze. Stavano raggiungendo la vetta
del primo monte. Tra poco avrebbero perso di vista il paese.
Giacomo si sentì ancora più solo. Il padre camminava ritto e a passo
cadenzato: era abituato a camminare in montagna.
Non parlava, così non sprecava fiato e non gli veniva sete. Giacomo cominciò
a fischiettare per farsi compagnia.
Si inoltrarono nel bosco che divenne sempre più fitto.
Pareva interminabile.
Passata un’infinità di tempo, comparve una radura. Si capiva che era stata
liberata dagli alberi di proposito per creare uno spiazzo pulito. Si scorgevano
ancora, tutt’intorno, i resti dei tronchi che erano stati tagliati per ultimi.
Era tutta coperta d’erba, ad eccezione di un grande cerchio al centro che era
tutto scuro di terra bruciata.
Giacomo non era mai arrivato fin lì. Gli sembrava di essere in cima al mondo.
Quella era la prima volta che vedeva il luogo dove la sua famiglia, da
generazioni, faceva il carbone che vendeva a tutto il paese.
Il padre posò a terra la coperta e il fagotto e finalmente si girò verso il figlio.
“Siamo arrivati” disse “ora dobbiamo cominciare a lavorare. Per questa sera
dobbiamo riuscire ad accendere la carbonaia.”
Giacomo annuì, trovò, accanto ad un albero, un’accetta e una sega che il
padre aveva provveduto a portare fin lì alcuni giorni prima. Giacomo prese la
sega e porse l’accetta al padre. Lo seguì mentre lui gli stava spiegando quello
che sarebbe stato il suo compito.
“Quando taglio un tronco grosso, tu devi liberarlo dei rami più piccoli.”
“E delle foglie cosa ne faccio?” chiese Giacomo.
“Quelle si adoperano per coprire la catasta di legna, così brucia più
lentamente e si può controllare meglio il fuoco.”
Giacomo ascoltò pazientemente tutte le spiegazioni nel corso di quella lunga
giornata. A sera si sentiva già in grado di poter condurre la carbonaia da solo.
Quando il sole cominciò a tramontare, si sedettero a mangiare, poi il padre gli
disse:
“Io torno a casa per vedere se c’è bisogno di me. Quando tornerò indietro
porterò altra roba da mangiare, ho visto che avevi appetito e hai finito tutto.
Ora stendi la coperta vicino alla carbonaia. Ti scalderà quando comincerai a
sentire freddo. Cerca di dormire. Tornerò presto.”
Giacomo non disse nulla e si preparò la coperta come gli era stato detto.
“Ma come” pensò “mi lascia qui da solo, mentre sta venendo notte. E se
arrivano i lupi? Oppure le anime dei morti? E se la legna prende fuoco e io
non riesco a spegnerlo? Sarà vero che torna presto, o avrà intenzione di
lasciarmi solo tutta la notte?” Questi e altri mille pensieri tormentarono
Giacomo, mentre tentava di prendere sonno. Non avrebbe mai osato rivelare
al padre che aveva tanta paura, e così lo guardò allontanarsi e venire
inghiottito dal buio della notte.
Il tempo trascorreva lento, i minuti sembravano ore.
Giacomo non riusciva a dormire, si appisolava e subito si risvegliava di
soprassalto. Nemmeno il calore della carbonaia riusciva a scaldarlo. Era una
notte senza luna e quando il sole lasciò definitivamente il posto alla notte, il
cielo si riempì di stelle.
Giacomo tentava di tenere gli occhi chiusi, ma sentendo crepitare la legna
della carbonaia, li aprì e guardò il cielo.
Una miriade di stelle si precipitò su di lui.
Dal cielo piovevano stelle dappertutto.
Erano migliaia di puntini luminosi che correvano in tutte le direzioni.
Giacomo dapprima non capì, poi si spaventò e cercò di coprirsi la testa con la
coperta per trovare un riparo.
Temeva di essere colpito.
Si mise a piangere, ma non c’era nessuno per abbracciarlo e tranquillizzarlo.
Aveva solo dieci anni e doveva comportarsi come un uomo. Ma era pur
sempre un bambino, un piccolo bambino sperduto sui monti. Se anche avesse
voluto correre a casa, non avrebbe trovato la strada e si sarebbe perso.
Era solo sotto la volta celeste.
Il padre, nel frattempo, era tornato a casa ed era sua intenzione lasciare
Giacomo solo per tutta la notte, avrebbe dovuto abituarsi a quella vita e
quello era l’unico modo per aiutarlo.
Era seduto sul terrazzino a prendere una boccata d’aria fresca, quando volse
lo sguardo verso il cielo e si accorse che qualcosa di insolito stava accadendo.
Balzò in piedi come un fulmine.
“E’ San Lorenzo!” esclamò ad un tratto come illuminato da un ricordo. Le
stelle stavano cadendo dal cielo e sembrava che quella pioggia non dovesse
avere mai fine.
Pensò a Giacomo tutto solo, lassù sulla montagna e a quanta paura doveva
provare in quel momento.
Afferrò il fagotto che aveva già preparato per il fiorno dopo e si avviò verso la
montagna.
Camminava in fretta per arrivare il più presto possibile.
Ansimava ma non ci pensò, il suo cuore batteva all’impazzata, ma pensò al
cuoricino di Giacomo e a quanto doveva battere in quel momento e corse
ancora più in fretta.
Continuò ad arrancare su per il sentiero, sempre più stanco ma deciso ad
arrivare a tutti i costi. Quando era quasi vicino alla meta cominciò a chiamare
forte, per farsi sentire:
“Giacomo! Giacomo! Sono qui, sto arrivando! Non avere paura!”
Giacomo era sempre nascosto sotto la sua coperta. Ogni tanto sbirciava il
cielo sperando che quel terribile diluvio fosse cessato, ma quello continuava e
allora si rifugiava ancora sotto la coperta. Forse erano fantasmi, gli sembrava
persino di sentirli parlare, urlare…
“Giacomo! Sono qui, sono tornato!”
Il ragazzo si scoprì il volto e intravide nel buio un’ombra.
Subito pensò:
“Eccolo il fantasma, mi ha trovato, è arrivato fin qui…!”
Poi si accorse che era la figura del padre che si stava avvicinando, riconobbe
la sua voce.
Era felice e grato al padre, gli aveva dimostrato che aveva pensato a lui, che
non lo aveva abbandonato e in quel momento tutta la paura svanì.
Balzò fuori dalla coperta e gli corse incontro.
Si fermarono uno di fronte all’altro rischiarati dai bagliori delle stelle e dal
fuoco della carbonaia. Giacomo lo guardava, ancora spaventato. Il padre
respirava ansimando per la fatica di quella camminata.
Un’arcana riservatezza li costrinse a guardarsi per qualche attimo, poi
volarono l’uno nelle braccia dell’altro.
Il padre diede libero sfogo a tutto il suo amore, a quell’affetto che non osava
mai dimostrare per timore di sembrare troppo tenero.
Giacomo, riconoscente, si mise a piangere come un semplice piccolo
bambino di soli dieci anni.
La carbonaia continuava il suo lavoro di trasformazione.
Era il dieci agosto, la notte delle stelle cadenti.
(1° premio per la Fiaba, Città di Venezia, 1994)
Ho iniziato a scrivere solo dopo
un evento doloroso e alla soglia dei
quarant'anni. Le mie prime opere
erano racconti frutto di ricordi di
bambina. Quando ho deciso di
partecipare a qualche concorso
letterario, dopo le prime
gratificazioni con premi e
segnalazioni, la mia sicurezza è
aumentata e ho iniziato a scrivere
anche poesie. Al mio attivo sono
ancora nel cassetto circa 500
racconti e altrettante poesie,
mentre ne ho pubblicate alcune con Laura Rangoni Editore, Co.Ed.Ital, Edizioni
Pontegobbo. L'amore per l'arte dello scrivere mi ha condotta ad organizzare alcuni premi
letterari che hanno avuto lusinghieri successi. Attualmente pubblico miei articoli su
"Famiglia in dialogo", "Libertà", Giornalino della ValVobbia, Leccoprovincia giornale
on-line.
I met Bart in Leivi, the first time , in August 2008
Leivi is a small village along the Ligurian Riviera, east of Genoa, with its
houses spread on the side of the hill overlooking the sea of Chiavari.
Personally I’m from Milan and I ended up living in Leivi by accident. My
precise intention was to set up a B&B in such a picturesque region and
visiting the Tigullio area I had the luck to find a house in Leivi. I
immediately fell in love with that corner of Riviera and the house I was
offered, with an inviting front garden and two spacious bedrooms for the
guests, was perfect for to start my B&B
I knew I could rely on my knowledge of the English language and actually
the B&B proved to be successful from the very beginning, receiving
guests from all over the world. Beside that I got to know the landladies of
other B&Bs of the area, who were so courteous to make me feel settled
into Leivi’s environment and introduced me to the locals.
One of those landladies was telling me of a cousin of hers, an American
gentleman by the name Bart and with a common Leivi’s surname, who was
from San Francisco but used to spend some time in Leivi in her house,
every year in summer time. She was telling me that Bart was a gentleman
in his sixties, retired and widowed, with two grown daughters already
independent. She also said that Bart loved to plunge himself in his Italian
origins and enjoy some Italian style of live. She thought Bart could
appreciate speaking English with somebody in Leivi, as most no one in
Leivi spoke English well.
One interesting aspect of this cousin was that he could speak the Ligurian
dialect, a real good grasp of it compared his poor knowledge of Italian.
This was good for him as far as his communication skill with the locals,
but expressing himself in English would have helped him a lot during his
stays in Leivi.
Initially I didn’t take this invitation to know him into consideration that
much, with the excuse I was very busy over the B&B, but a year later, in
2008, I came across Bart accidentally.
Because of his facial features, very Ligurian, and his casual way to dress,
he looked perfectly integrated in the local countryside population, barely
recognizable as an outsider. As soon as we started to talk to each other,
him in dialect and I answering in Italian, I wondered within myself: “who
is this person, coming from the States and looking like a peasant, busy on
our terraced olive groves?”
He asked me if I could understand him speaking in dialect, as he knew that
I wasn’t considered a local by Leivi people. I answered positively but I
also added that he could speak American if this was more convenient to
him. So Bart immediately switched into English and I was stroked by the
impressive, educated and clear English he showed.
Bart and I had more occasions to meet again and get to know each other
before the date of his return to the States due in October. We became closer
and closer very quickly and easily so in the end Bart decided to postpone
his trip to the States until the end of November and wanted to take me with
him. His precise intention was of selling his house, arrange the move of
his furniture and belongings with my help, and come back to Leivi in
January to settle down for good.
And that was it, Obama was elected the new president of the United States
and Bart was leaving USA for the small village of Leivi.
Obviously this sudden move surprised everybody in Bart’s family, either in
the States and in Leivi. Even now, no matter the way the locals in Leivi
want to consider us, Bart and I are happy about our complicity and feel in
tune.
Bart has always liked to see himself as not fitting any mold, and I’m going
to explain how . . .
“I’m crazy, Anna, you know that?!” He keeps saying in order to be
reassured that I’m still with him. This statement has always a certain power
on me and, led by curiosity and fond of surprises in life, I end up attracted
to him all the times.
Bart is a mixture of opposite aspects between the American and Italian
mentalities. One wouldn’t say that they could coexist, but here they collide
instead to form a ”Jekil and Hyde” character simultaneusly.
Bart was born in San Francisco in August 1944, in a family with Italian
origin from Liguria. He spend his childwood in the “Marina”, where most
of the population had the same Ligurian origins. His mother Louise was
already born in San Francisco, her Italian parents having emigrated from
a small village in Val Graveglia , and his father, Mario, arrived to San
Francisco from Leivi in 1941. At that time Mario was a worker in the same
company where Louise was a secretary.
It is also interesting to note that Louise, Bart’s mother, born in San
Francisco in 1914, grew up in that big city, so different from the small
village in Val Graveglia were her parents came from. She attended
Sherman Elementary in San Francisco then she graduated from Galileo
High School, being fluent in English, French and Italian, but still speaking
the Ligurian dialect at home.
Bart grows up in his grandparent’s house as Louise worked as a secretary
when Bart came to the stage, so he was left at home with his grandparents
during the day and he could learn the Ligurian dialect from them. Years
later Louise always remembered how Bart, as a child, was pointed out as
very talkative in the dialect with all the neighbors.
Bart studied at school as any other American child and went to college,
but he was always very close to his grandparents, a source of affection
important to him, and obviously he kept speaking the dialect with them.
The Italian language was not so important for Bart, it was the dialect
which kept him in tune with his Italian origins, Italy for Bart meant
Liguria, nothing else.
Bart was 18 when he visits Italy for his first time. It is his grandfather
Luigi with Luigi’s brother , Pietro who accompany Bart on this trip to Val
Graveglia and Leivi, visiting both sides of the family. At those times, the
beginning of the sixties , Bart, Luigi and Pietro travelled by plane, what a
difference from the trips on boats Luigi and Pietro experienced years
before!! It was 1962, Italy was booming economically, Portofino, not far
from Chiavari, Leivi and Val Graveglia, was becoming a symbol of Italy’s
Dolce Vita’s, but the rural areas of the Ligurian coast were still very poor
and backward. Bart is accommodated at his relatives, whose house had
running water only in the kitchen, and only cold. The toilets were literally
“outhouses”, with no running water, and “chamber pots” were still
standard in the bedrooms, a dramatic difference from the comforts and
facilities Bart was already used to in San Francisco, but for him these
Italian habits were just an enjoyable adventure. Fresh handmade pasta and
savory traditional foods , cooked in smoke blackened kitchens, were the
same he had already experienced at home in San Francisco.
As fate would have it, Bart is employed very young by a major airline
company in San Francisco and works for them for thirty five years until his
retirement in 2000. Through these many years Bart and his family often
visit Italy. Chia, the eldest daughter, whose name was given in honor of
Chiavari , due to the parents affection for this town, first visits Italy at the
age of 9 months where she takes her first steps. In the years following
Chia and her younger sister Brianna spend many vacations either in
Chiavari and with their cousins on the farm in Val Graveglia.
Since I moved from Milan to Leivi I had many occasions to explore the
different areas around Chiavari, discovering their culture and traditions but
I was still missing Val Graveglia. It was Bart who brought me there and
put me in contact with its people. I’m always grateful to Bart because of
that and I smile within myself considering how surprising it is to discover a
hidden corner of the Italian province through an American.
But the hillsides of Leivi, covered in olive groves and overlooking
Chiavari and the sea, is a dreamland in Bart’s imagination, a corner of
heaven where the people maintain the culture and traditions of Liguria.
Unfortunately Bart had to review some of his expectations since I arrived
on the scene, although meeting me was a happy event in his life, privately
speaking.
“Why” - he starts wondering for example - “when I or my daughters come
to Italy, we are obliged to visit all the different relatives, stepping into
every house as in a procession, and eating huge portions of ravioli, just not
to disappoint any of them?”
“Why am I supposed to keep and use an old hoe just because it belonged to
great grandfather and nobody now dares to throw it away, or replace it with
a new one?”
“Why am I supposed to build up something not regularly permitted in my
property, skip the law, and wait until I can legalize it later on?”
“Why the answers I get from the authorities in Italy are always uncertain
and lame – we’ll see what we can do for you - instead of a clear yes or
no?”
“Why if you want to order a non available item in a store they make you
wait weeks before providing the item to you?”
“Why Italian drivers think to be God on Earth when on the road? Why they
don’t respect the traffic lanes, or they are not courteous with a car in front
of them which asks for space to park, or they allow themselves to leave the
car wherever they like although forbidden?”
These are aspects of the Italian style of life that Bart can’t understand. I
don’t blame him. No point in suggesting to Bart to become more tolerant
himself, he gets more annoyed instead. Again, I can’t blame him.
As a consequence of all that, Bart’s view of Leivi and Italy is somewhat
dented, and his way to escape into his cave is connect to the internet and
read the New York Times . When he reads something from the States he
feels once again aware that Italy is not all that different.
Bart’s new house is situated on a hillside overlooking Chiavari and the
Gulf of Tigullio. Nestled in the olive groves it is separated from Leivi by
the village of Maxena. The location is noted by it manicured front lawn
which Bart personally maintains and is an affront to the neighborhood
since Bart has not planted cabbage, tomatoes or beans.
The next door neighbors, Luigi and Angela are a bright spot. Angela
provides delicious porcini mushrooms during the season. Bart often visits
Luigi who is busy restoring antique furniture but always has time to gossip
with Bart.
But the main reason Bart chose this house was the garage. It is very
spacious, meant for two cars, just the right size. Bart now has adequate
space for his woodworking hobby and the shop is well supplied with tools.
Bart, in fact, has always been fond of wood working and has struck up a
friendship with Piero at the local lumber supplier.
Following his attachment for the American way he installed a central
vacuum cleaner system built into the house, this is something nobody else
has in the surroundings for sure, but no garbage disposal. On the other
hand Bart wanted to furnish his living room with the traditional
handcrafted chairs called “Chiavarine”, in honor of this peculiar local
tradition.
Another good compromise between the Italian and American culture in
Bart’s life has been his decision not to go for a proper car so far, he thinks
it is too stressful to drive in our chaotic traffic, so he bought a Piaggio
porter, a sort of small pickup truck with all three cylinders working in
unison. Bart finds this vehicle very handy to carry articles of all kind
without risking damage, and he blends into the ‘corsos’ and ‘vias’ of
Chiavari swatting away the ‘Vespas’ attacking from all sides.
This porter was recently very useful to carry 2,5 quintali (about 450 lbs) of
olives to the olive press for Angela and Luigi harvest. Watching the entire
process of making olive oil was both for me and Bart a learning
experience. We could appreciate the new olive oil flowing out from the
press as a great fulfillment
Bart still dresses casually. I’ve never seen him wearing a jacket or a tie, he
always wears comfortable running shoes in winter time and sandals in
summer time. Jogging is his favorite way to keep fit and, for the occasion,
he sports colorful attire. The locals notice him when he is out jogging, “oh,
yes, there is the American”, they say.
Bart started learning more Italian. He practices the language more often
with me, trying to get some help translating words from the dialect. The
result is very funny sometimes. I tend to answer him in English but
sometime, due to some laziness, I switch to my native language, Italian, in
the middle of my talk. Hearing us would provide the neighbors quite a
laugh.
Another linguistic stage, very interesting in our life, is the B&B
environment. My B&B often involves Bart, who happily entertains my
guests. They really enjoy exchanging opinions with Bart, and it is a
pleasure for me and Bart to meet people from all over the world. Many
times I found myself thinking how amazing a village like Leivi, just a
small point in Italy, is, so able to provide a meeting ground at my B&B
with guests from many cultures.
Living with Bart is like living in two different cultures at the same time, a
real challenge not to get fixed in one’s own mentality and culture as they
were better than some other ones, but most of all not to experience them as
a clash.
Ho incontrato Bart per la prima volta a Leivi, nell’agosto del 2008.
Leivi è un paesino della Riviera Ligure con le case sparse sul versante della
collina che guarda il mare di Chiavari.
Da milanese sono finita a Leivi per caso, nel 2003, quando volevo iniziare la
mia attività di gestore di B&B e, girando per le zone del Tigullio, ho trovato
casa a Leivi. Mi sono subito innamorata di quell’angolino di Riviera e della
casa di campagna che ho scelto: il giardino e le due belle camere per gli ospiti,
sono stati un perfetto inizio per il mio B&B.
Forte della mia dimestichezza con la lingua inglese, ho avuto subito successo
e ho potuto ospitare turisti da tutto il mondo; così mi sono fatta conoscere da
altre colleghe della zona, le quali mi hanno aiutata ad introdurmi nel tessuto
locale.
Una di queste mi parlava spesso di un suo cugino americano, di nome Bart
ma con il cognome ligure, Solari, tipico di Leivi. Bart, che era nato e abitava in
San Francisco, passava qualche mese all’anno a Leivi presso di lei, solitamente
in estate. La mia collega mi aveva spiegato anche che era un uomo sui
sessanta anni, vedovo, con due figlie già grandi e sistemate in America, e che,
per scacciare la solitudine della vedovanza, veniva a Leivi, immergendosi nelle
sue origini e gustando lo stile di vita italiano. Insisteva con questo suo cugino
perché pensava che ci saremmo trovati bene entrambi a parlare inglese. La
strana cosa di questo suo cugino era che parlava l’americano e solo il dialetto
ligure; l’italiano per lui era ridotto a pochi vocaboli.
Inizialmente, presa da mille cose e con l’attività turistica del B&B da avviare,
non diedi molto peso al suo invito e dopo un anno, nel 2008 appunto, potei
incontrare Bart per puro caso.
Per il suo aspetto da ligure ed il suo modo casual di vestire, mi apparve
perfettamente integrato nel mondo contadino, anzi sembrava uno del paese,
ma, appena abbiamo scambiato due parole, lui in dialetto ed io in italiano, mi
sono resa conto della stranezza; pensai: “Chi è ‘sto qui che viene dagli Stati
Uniti e sembra invece uscito da una delle nostre fasce?”
Mi chiese se capivo il dialetto, poiché sapeva che anch’io ero una “forestiera”
per la gente di Leivi; risposi di sì ma aggiunsi, in inglese, che, se preferiva
parlare americano, lo poteva fare. A quel punto Bart sfoderò un inglese chiaro
e gentile, quasi forbito, da professore universitario .
Da quell’incontro ci sono state altre occasioni di rivederci e conoscerci
meglio.
In Ottobre Bart avrebbe dovuto fare ritorno negli stati Uniti, ma in poco
tempo eravamo diventati tanto amici ed intimi che lui mi chiese di
accompagnarlo. Partimmo per gli Stati Uniti solo a fine Novembre con lo
scopo di imballare tutte le sue cose, vendere casa, e tornare a Leivi dove si
sarebbe stabilito per sempre.
Così è stato, Obama veniva eletto presidente e Bart lasciava gli Stati Uniti per
il paesello di Leivi.
La cosa suscitò naturalmente scalpore sia nel giro dei suoi famigliari americani
sia negli abitanti di Leivi, ma comunque ci considerassero, io e Bart abbiamo
sempre sorriso dentro di noi, consci di essere “un po’ fuori dalle righe” .
Bart tuttora a volte mi dice un po’ in dialetto ligure un po’ in americano:
“Anna, lo sai che io sono matto, vero?” Me lo ripete spesso per assicurarsi
che io continui a stargli vicino, ed io, con la mia curiosità e la voglia di
sorprese, non posso fare a meno di continuare a decidere per lui . . .
Bart, in effetti, è un concentrato di aspetti antitetici fra la mentalità italiana e
quella americana; si direbbe che non possano per niente convivere in una
persona sola; invece eccoli là a dar forma a un “personaggio”.
Bart Nasce a San Francisco nell’agosto del ’44, da genitori di origine italiana,
nel quartiere di “Marina” abitato prevalentemente da famiglie italiane di
origine ligure. I genitori di Bart erano entrambi liguri; Louise, la mamma, era
già nata a San Francisco da genitori immigrati dalla Val Graveglia; il papà,
Mario, era nato a Leivi e si trovava a San Francisco come giovane immigrato
appena arrivato dall’Italia, lavorando da operaio. Bart cresce a casa dei nonni
materni, quelli che per primi erano emigrati in America. Interessante sapere
che la mamma di Bart, Louise, nasce a San Francisco nel 1914, cresce in
quella città così diversa dai paesini dell’entroterra Ligure da cui erano emigrati
i suoi genitori, studia nelle scuole italo-americane e si diploma alle scuole
tecniche come segretaria d’azienda. Louise parla correntemente Inglese,
Italiano, Francese e il dialetto ligure, quest’ultimo solo in casa.
Louise come giovane sposa che lavora affida Bart ai nonni e il piccolo di
giorno gode della compagnia dei nonni che con lui parlano esclusivamente in
dialetto. Dai racconti di Louise, Bart è ricordato come un bambino
chiacchierino che non ha problemi a rivolgersi a tutti i vicini di casa in
dialetto, tanto lì lo parlavano tutti.
Bart studia in collegio a San Francisco, conduce una vita da giovane
americano, ma mantiene stretto contatto con i nonni materni, fonte
importante d’affetto; con loro seguita a parlare in dialetto. Per lui è normale
non sapere l’italiano. Il ligure è la lingua che lo tiene legato alle sue origini
italiane; per lui l’Italia è la Liguria.
E’ a diciotto anni che Bart viene portato in Italia per la prima volta dal nonno
Luigi naturalmente in visita ai parenti sia della Val Graveglia sia di Leivi.
Sono gli inizi degli anni 60, Bart viaggia in aereo, un bel passo avanti rispetto
ai viaggi fatti dal nonno in nave ai tempi “degli emigranti”.
L’Italia in quel periodo si sta avviando verso il boom economico: Portofino,
non lontano da Chiavari, è uno dei simboli della Dolce Vita, ma le zone rurali
della costa ligure sono ancora arretrate. Bart è ospitato in casa di famigliari,
dove c’è acqua corrente solo in cucina e solo fredda, i gabinetti sono casupole
di legno accanto alla casa senza acqua corrente, e il vaso da notte è un
accessorio abituale nelle camere.
Una bella differenza dalle abitazioni che è abituato a frequentare a San
Francisco; però tutto gli appare un’avventura piacevole. La pasta fatta in casa,
i piatti cucinati nelle cucine affumicate delle case di campagna, questi sono
invece gli stessi che ha sempre visto cucinare in famiglia in America.
Ironia della sorte, Bart si impiega ventenne in una compagnia di linee aeree a
San Francisco, terrà questo lavoro fino alla pensione e avrà ancora molte
occasioni di volare in Italia durante la sua vita, portando con sé anche la
moglie Bonnie e figlie piccole, Chia (diminutivo di Chiavari) e Brianna.
Quando mi sono trasferita a Leivi da Milano, ho avuto modo di conoscere
molti aspetti della storia e delle abitudini locali delle zone adiacenti a Chiavari
ma non conoscevo bene la Val Graveglia. E’ stato Bart a farmela conoscere e
tuttora sorrido al pensiero che proprio lui, un americano, mi abbia aperto gli
occhi su uno scorcio di mondo della provincia italiana delle meno conosciute.
Ma quel versante di collina coperta di ulivi che guarda il mare e che si chiama
Leivi rimane per Bart il luogo dei suoi sogni. Lo vede come un angolo di
paradiso, dove la gente è buona, vive a ritmi calmi e in modo sano, coltivando
le tradizioni.
Purtroppo il mio arrivo nella vita di Bart, per quanto evento felice da un
punto di vista personale, lo fa ricredere di molte cose sulle abitudini italiane:
“Perché” - per esempio, comincia a domandarsi – “quando arrivo in Italia, o
arrivano le mie figlie a trovarmi, si deve fare visita a tutti i parenti e mangiare
abbondanti porzioni di ravioli di casa in casa, solo per non fare torto a
nessuno?”
E ancora: “Perché devo usare una zappa vecchia e consunta che non scava
più? Solo perché apparteneva al bisnonno e nessuno osa buttarla via e
rimpiazzarla con una zappa nuova?” …“Perché se devo costruire qualcosa,
sono costretto all’abusivismo, senza rispettare le giuste procedure e agire
pagando poi una multa di condono?”
E inoltre: “Perché le risposte dalle autorità pubbliche sono sempre, ‘vediamo
cosa si può fare’, senza mai poter ricevere un chiaro sì o un chiaro no?”…
“Perché gli automobilisti italiani si credono padroni della strada e non
rispettano le mezzerie, posteggiano in seconda fila o non lasciano il tempo e
spazio all’auto davanti a sé per parcheggiare?”
“Perché se in un negozio vuoi comprare un articolo che non è disponibile al
momento, ti fanno aspettare settimane prima di procurartelo?”
E’ molto sconcertato quando mi pone questi e altri “perché”. Gli rispondo:
“Bart così è, non puoi cambiare gli Italiani, se vuoi vivere in Italia devi
abituarti” . . . S’infuria ancora di più e non gli do torto.
Fatto sta che la sua immagine di Leivi, come angolo di paradiso, è un po’
ammaccato adesso, e il suo modo di recuperare energie positive è quello di
rifugiarsi nel PC e guardare il mondo in una prospettiva più ampia, attraverso
per esempio la lettura del New York Times. Lì respira aria di “casa”, anche se
ormai virtuale.
La casa che Bart ha comprato ha una bella vista sul mare, un bel giardino
all’inglese che lui cura personalmente, certamente qualcosa di inconsueto per
i giardini di qui, ed è posta su una collina anch’essa coperta d’uliveti non
lontano da Leivi.
Bart ha scelto di acquistare questa casa principalmente perché aveva un garage
doppio, spazioso e giusto per lavorare il legno, suo hobby preferito. Nel
garage ha messo utensili e macchinari vari fatti arrivare dall’America, tutti
nuovi e lucenti, che lui tiene come oggetti sacri.
All’interno della casa invece, ha voluto subito le sedie di produzione
artigianale di Chiavari, sedie di design chiamate Chiavarine, ma non ha
rinunciato a un tocco di tecnologia anche qui ed ha fatto installare il sistema
di aspirapolvere a bocchette nei muri di ogni stanza: è senz’altro l’unico ad
avercelo in tutta la zona!
Un ulteriore esempio del senso pratico di Bart nel conciliare tradizione e
tecnologia è stata la decisione di non comprarsi un’auto vera e propria, ma un
porter Piaggio, con un bel cassone posteriore, ad uso di un pick-up.
Questo è certo un simpatico compromesso fra l’utilità di un veicolo per
trasporti materiali, poiché vive in campagna, e un mezzo di trasporto non
troppo impegnativo per affrontare il traffico stradale locale . . . per lui molto
disordinato.
I suoi vicini? Persone amabilissime che ci coinvolgono nella raccolta delle
olive quando è la stagione. Recentemente, per lui ma anche per me, devo
ammetterlo, è stata una vera esperienza portare al frantoio, i due quintali e
mezzo di sacchi di olive raccolti e vedere fare l’olio… Per la gente di qui è
normale, una consuetudine, ma io e Bart l’abbiamo vissuta come un’emozione
fortissima: la soddisfazione della fatica umana che per secoli si ripete su
queste terre.
Bart continua a vestire casual, non l’ho mai visto con la giacca o una cravatta,
sempre con scarponcini d’inverno e sandali d’estate, e poi fa jogging due o
tre volte la settimana in una tenuta coloratissima, direi, eccentrica, tanto da
farsi riconoscere dai locali come . . . “ah sì, quello è l’americano di qua che
corre”.\
Bart ora comincia a parlare l’italiano un po’ meglio, aiutandosi spesso con
traduzione letterale di alcune parole dal dialetto ligure, il risultato è spassoso.
Io lo correggo ma tendo a rispondergli in inglese. Devo dire che anch’io a
volte mi trovo in difficoltà con il mio inglese e, nel bel mezzo di un discorso,
cambio lingua e continuo in italiano. Chi ci sente parlare sorride.
Un’altro ambito molto interessante in fatto linguistico è il mio B&B, che
continuo con passione e che spesso coinvolge anche Bart. E’ bellissimo
vedere come gli ospiti si intrattengano con lui in inglese toccando diversi
argomenti. Non è più solo l’Italia che si interfaccia con Bart, ma il mondo
intero.
A volte penso: “Guarda un po’ come un puntino sulla carta geografica
mondiale, Leivi, può essere una finestra sul mondo. E’ bastato il mio B&B e
la sua collina di ulivi.
Insomma stare vicino a Bart significa vivere due mondi culturali nel
contempo, vincere una sfida di tendenze e di abitudini e non fossilizzarsi
nelle proprie idee e mentalità; soprattutto non dare mai per scontato che uno
di questi due mondi sia meglio dell’altro.
E’ il 2009, come al solito sono in ritardo sui tempi.
E’ il 1999, avevo trentun anni.
Lui cinquant’otto, neanche il tempo di compiere i suoi cinquantanove.
Rivedo la registrazione delle immagini di quel giorno: nuvole torve in cielo,
una moltitudine di persone, alcune anche famose.
Tutti lì, assiepati davanti la “Gexia de Caìgnan”.
Qualcuno mostra le bandiere: una è quella dei pochi, degli sbandati, delle voci
fuori dal coro.
L’altra a rappresentare il disimpegno.
Io dov’ero quel giorno? Mi sarò senz’altro trovata a rincorrere le mie futilità,
oppure a stramaledire il momento in cui sono nata.
Ecco, avrei voluto essere presente almeno con la testa quel giorno. Avrei
voluto sapere.
Invidio quel che fece un’amica che abitando nella zona di Carignano ed
essendo sua fervida ammiratrice, si procurò un gessetto e sulla facciata di un
portone scrisse: “Forse una lacrima, forse una sola sulla mia tomba si
spenderà. Forse un sorriso, forse uno solo dal mio ricordo germoglierà “.
Un gesto semplice e delicatamente sovversivo che, ne sono convinta, gli
avrebbe fatto piacere.
Nel presente, mi ritrovo a fagocitare informazioni, memorizzare testi,
contemplare fotografie, fantasticare con le orecchie e il cuore colmi di musica;
lieta di essere stata catturata in questo vortice.
Avrei voluto esserci quel giorno. Avrei voluto salutarlo anch’io, magari a
modo mio.
Magari, in una delle molte feritoie di solitudine meditativa e forse, evaporata
in una nuvola rossa.
In ogni caso, di lutti veri o presunti ne ho già elaborati troppi e, in fondo, non
averlo conosciuto quand’era in vita, l’ha reso ancora più immortale.
Posso darti del tu? Per me, sei vivo adesso e cammini al mio fianco.
Quanti paralleli ci uniscono.
Per poco, non ci siamo sfiorati in un lungo corridoio, vicini di casa.
Quante cose avrei voluto raccontarti e quante chiederti.
Chissà? Forse, complice un po’ di curiosità, avresti piacevolmente condiviso.
Il vecchio molo, il mare gonfio di odori.
In lontananza, mi sembra di scorgere la tua sagoma in controluce.
Prendimi per mano, trascinami nel tuo mondo e starò meglio.
Io, cantante pentita che non ha amato abbastanza la sua voce, ma che ama
quello che scrive la sua matita.
E’ il 1986, sono venuta su con quelli che hanno come simbolo la “A”
cerchiata.
Pure io, sostenevo la lotta contro il sistema. Sono una di quelli che pensano
che le guerre siano tremende mattanze organizzate, una di quelli che
preferisce stare dalla parte dei poco virtuosi; anch’io ho condiviso idee simili
sui poteri e le economie.
Era solo che comunicavo in una lingua diversa dalla tua: certo poco aulica,
forse un po’ ignorante, sicuramente molto genuina.
Mi sono trovata ad abbaiare slogan feroci, sputare parole di rabbia infuocata.
Al tempo, non c’era spazio per la poesia; i sentimentalismi erano banditi.
Consideravo i cantautori italiani un mucchio di blandi contestatori,
mugugnanti e sdolcinati e, in questa marmaglia, buttavo dentro anche te,
cantautore genovese di cui conoscevo sì e no due brani.
A me bastava sapere questo.
La musica, all’epoca, consisteva in un ripetersi ossessivo di poche note
incazzate e la voce era un urlo incalzante di frustrazione.
La parola chiave: autogestione.
Si occupavano i posti e ci si organizzavano il”live” quasi a costo zero.
I supporti discografici erano in pratica a costo zero.
La qualità sonora risultava, alla fine, a costo zero.
Quanti sono venuti ai tuoi concerti insultandoti: “Uno come te”protestavano:
“Con i suoi ideali, accetta di esibirsi sopra prestigiosi palchi da snob, per di
più, facendo pagare caro il prezzo del biglietto d’entrata. Ah!Traditore e
venduto!”.
E’ di nuovo il 2009.
Non posso far altro che apprezzare la grande cura e la perizia che
diligentemente mettevi nell’allestire i tuoi spettacoli. Il profondo rispetto
dimostrato nei confronti del pubblico cercando di offrire un’esibizione
sempre ricca d’emozioni e di contenuti.
Consapevole di essere un po’ scontata, vorrei comunque affermare che l’alta
qualità per come è strutturata la società in cui viviamo, richiede sforzi
economici di una certa rilevanza.
E allora, tu instancabile a spiegare: ”Grazie ai soldi che guadagno con i
concerti, mi ci compro una bestia per la mia azienda agricola”.
E, sprezzante, sostenevi che in fondo non era male spillare le palanche del
biglietto a qualche ricco figlio di papà.
Trovo una forte analogia tra il sogno (ahimè, rimasto tale) di trasferirmi in una
comune anarchica inglese e la realizzazione da parte tua della fattoria
dell’Agnata in Gallura.
Luogo quasi paradisiaco dove, lasciandoti alle spalle le contestazioni, hai
creato un nucleo vitale indipendente e lontano da quel tipo di realtà ipocrita e
caotica con cui non volevi avere a che fare.
E’ toccante per me aver appreso quanto tu amassi la nostra lingua e come tu
l’abbia sapientemente cantata.
In quelle parole, in quei suoni così unici, ho potuto riabbracciare mia nonna; il
sapore dei piatti tipici con cui sono cresciuta e che trasudavano amore.
Attraverso la tua voce così calda e famigliare, ho ricevuto in dono l’inaspettata
fortuna di riascoltare quella di mia madre; quando, la notte, dolcemente,
cantilenava favole in dialetto per farmi addormentare.
Sento di aver imparato molto da te.
Un invisibile ma spesso filo carico di sensazioni ci tiene legati.
Al di là di ogni dimensione, al di là di ogni tempo.
E’ il 2029.
E’ una giornata “sbagliata”.
L’aria è stranamente intiepidita da un sole convinto, il vento ha
completamente smesso di soffiare. Appunto, è una giornata sbagliata per
essere in pieno inverno. Una piacevole anomalia.
La donna è seduta sul molo. Ha i jeans piegati sopra le caviglie, i piedi nudi,
penzoloni, a sfiorare un mare calmo, scuro, denso ma quieto.
Anche lei è tranquilla, piacevolmente sorpresa da quest’onda di anomala pace.
Con la mano destra, sta reggendo una lenza alla cui sommità ha appeso un
amo e un po’ di mollica di pane.
Dai grandi altoparlanti posti sotto il tendone della pista di pattinaggio vicina,
provengono le vecchie note: ” …e fu la notte / la notte per noi…”.
Le viene da sorridere. Un sorriso senza aggettivi, un sorriso e basta.
Improvvisamente, la lenza comincia a tendersi: il pesciolino ha abboccato.
La donna prova a tirarlo in superficie, ma avverte dall’altra parte una forza
decisa e contraria, una spinta verso il basso che vorrebbe tenerlo giù.
Ha capito; probabilmente lo lascerà andare.
Sa che dall’altra parte ci sei tu che stai facendo la stessa cosa.
Al di là di ogni dimensione, al di là di ogni tempo.
Francesca Anselmo
(Genova, 1968)
Vive e lavora nella sua
città. .Appassionata di
Fabrizio De Andrè
da pochi anni, decide di
far conoscere i propri
scritti
pubblicando una dedica
del grande cantautore per
ricordarlo nel giorno del
suo compleanno.
Salve mi chiamo Giancarlo sono un “ragazzo” di quarantacinque anni e dal
2003 sono affetto da LES, abbreviativo di Lupus Eritematoso Sistemico.
Quanti di voi la conoscono o ne hanno mai sentito parlare?
Il lupus è una malattia cronica che colpisce il sistema immunitario.
Quest’ultimo col LES produce troppi anticorpi (proteine nel sangue) i quali,
anziché difendere l’organismo dalle infezioni, attaccano qualsiasi parte del
corpo provocando infiammazione e, a volte, danni ai tessuti.
Gli anticorpi sono spesso diretti contro componenti del nucleo cellulare.
Possono colpire la cute causando eritemi, attaccare le pareti dei vasi sanguigni
o depositarsi nelle reni, nel cervello, nei polmoni, nel cuore, nelle
articolazioni; in pratica in qualsiasi tessuto connettivo.
Perché il nome Lupus?
In passato fu scelto per l’analogia tra l’eritema a farfalla, presente in alcuni
pazienti, e la “maschera” caratteristica del muso del lupo o la forma del suo
morso.
La causa del Lupus è ancora oggi sconosciuta, anche se la ricerca ha indicato
un certo numero di fattori quali l’ereditarietà, gli ormoni e alcune infezioni
(incluse quelle virali).
Può innescarsi dopo un’alta esposizione solare, un forte stress, l’assunzione di
alcuni farmaci o a causa di alterazioni ormonali.
Purtroppo va ricordato che il LES ha la capacità di simulare sintomi di altre
malattie e di manifestarsi in modo diverso da persona a persona. E’ una
condizione cronica di cui non si conosce la cura e che può essere mortale.
Grazie a Dio, nella maggior parte dei casi viene trattato con terapie specifiche
e i pazienti, passata la fase acuta della malattia, continuano a vivere
normalmente.
I sintomi più comuni sono: Stanchezza, Dolori muscolari e articolari, Febbre,
Astenia, Dolore toracico, Emicrania, Eritemi cutanei, Debolezza generale,
Secchezza degli occhi, Perdita dei capelli, Flebiti, Depressione.
Per pura esperienza personale, devo dire che è una patologia troppo
complicata perché sia gestita da un solo medico.
In questa, più che in altre malattie, è necessaria la collaborazione di un gruppo
competente fatto da più figure specialistiche tra cui un ematologo, un
dermatologo, un nefrologo, e un buono psicologo. E’ molto importante
questa figura: provate a immaginare cosa succede nella testa di una persona
quando gli viene diagnosticata questa malattia e in quale stato emotivo si può
cadere.
Quando, nel Giugno del 2003, ho cominciato ad avere forti dolori articolari,
diffusi in tutto il corpo, e febbre, cominciai tramite il mio medico di famiglia a
sostenere esami su esami, senza venire a capo di nulla. Visite specialistiche
varie con diagnosi tutte le volte diverse; provavo ogni volta terapie differenti
senza alcun risultato, bensì peggioravo sempre di più fino ad arrivare al punto
che mia moglie, “santa donna”, dovette cominciare a lavarmi e vestirmi, oltre
che imboccarmi come un bebé perché i dolori alle mani erano talmente forti
che non riuscivo a tenere in mano nemmeno le posate.
Un bel giorno nel mio peregrinare per dottori vari, ebbi, come si dice, una gran
botta di cul... che credetemi non guasta mai sopratutto, quando riguarda la
salute.
A una visita dall’endocrinologa dottoressa Peri (sempre per ricercare cosa
fosse la “bestia” che mi stava distruggendo corpo e spirito) alla vista dei miei
esami e a seguito di un’attenta visita, alzò il telefono e disse: “Ciao Corrado,
ho trovato un lupetto per strada!”
La mia fortuna ha un nome Dottore Corrado Castagneto, ematologo
specializzato in malattie rare, che lavora presso l’ospedale di Sestri Levante.
Durante la sua prima visita mi disse con il sorriso (per non terrorizzarmi) di
essere affetto da Lupus.
Potete immaginare il mio stupore non conoscendo minimamente di cosa
stesse parlando il dottore ma, al tempo stesso, mi sentivo rincuorato per aver
trovato forse la giusta strada.
Iniziai subito tramite ricovero ospedaliero una terapia a base di cortisone e
antimalarici, perché non esistono farmaci mirati.
Pian piano sentivo che il dolore cominciava a darmi tregua, e dopo dodici
giorni di ospedale venni dimesso; ma percepivo dentro di me un malessere
interiore al quale non sapevo reagire; piangevo per un nonnulla; il cosiddetto
“magone” stava prendendo sempre più piede. Chiesi aiuto al dott. Castagneto
che mi affidò a una buona psicologa la quale, con non poca fatica, mi rese la
vita un po’ meno angosciante.
Il “bel tempo” durò poco, dopo alcuni mesi ebbi una ricaduta e con questo
altri ricoveri. Cominciai una terapia con immunosoppressori e la cosa durò
per circa un anno. Ma la sfortuna ci vede molto bene, così nel Luglio 2004
una mattina ebbi la brillante idea di farmi venire (si fa’ per dire) un
bell’infarto. Fui ricoverato immediatamente in codice rosso e operato
d’urgenza, intervento del tipo “o la va o la spacca”.
Dopo una settimana di degenza mi venne detto che la probabile causa di ciò
non era altro che il LES e le derivate complicanze a livello arterioso, non
ultime le alte dosi di medicinali che si usa nei momenti più acuti della malattia.
Dopo pochi giorni dovetti ricoverarmi nuovamente per un aggravamento
dovuto all’intervento; infatti, a causa
delle sonde endoscopiche,
nell’applicarmi gli Stent Coronarici, la mia vena femorale decise di collassare.
Nuovo intervento con operazione ad alto rischio; per me ormai routine.
Ero allo stremo delle mie forze e completamente rassegnato; il mio futuro lo
prevedevo sempre dentro e fuori gli ospedali, quando per una cosa quando
per un’altra.
Dicono che il tempo lenisce le ferite, ma vi assicuro che non è così: è come
vivere con una bomba a orologeria all’interno del proprio corpo, e quando
pensi "to' e un periodo abbastanza positivo”, ecco apparire la “sfiga” in persona.
Nel Maggio 2005 un’ischemia mi causò un piccolo danno a livello cerebrale e
dal quel momento vivo perennemente con un ronzio in testa, una specie di
colonna sonora delle mie giornate.
Anche questa volta mi sono recato da specialisti, come il prof. Rodriguez e il
prof. Nobili, i quali si sono dimostrati persone molto preparate, oltre che
dotate di profonda umanità; in queste situazioni non guasta mai.
Passa il tempo e, tra una visita, un esame, e le cure, arrivo, fra alti e bassi, al
Giugno 2009 mese in cui ebbi un’ennesima ricaduta. Decidiamo che è ora di
cominciare una terapia a base di cortisone ad alto dosaggio, con cadenza di tre
giorni mensili per dodici mesi, a regime di ricovero ospedaliero.
Come il solito me la barcameno, ovvero… Diciamo la verità: la cura ha
funzionato e forse... per un po’ spero di starmene un tantino “tranquillo”.
La mia terapia comunque si basa su immunosoppressori: Cell-Cept, cortisone,
Plaquenil; e per quanto riguarda il mio cuore: Cardioaspirin, Dilatrend,
Triatech. Dopo tutti i problemi che ho avuto, la mia pressione è andata a farsi
benedire.
Questo mio racconto vuol essere di aiuto a quelle persone che come me sono
state colpite da questa malattia, come, pure da altre molto simili, e vi invito a
non smettere mai di lottare, di continuare a sperare anche nei giorni più bui,
altrimenti fate solo il gioco del male che avete-Capisco che sembra facile dirlo
più che farlo, ma vi assicuro che assieme alle persone che vi vogliono bene, vi
aiutano e vi fanno coraggio, si può combattere con più forza e, non per
ultimo abbiate fiducia nei dottori, perché tanti amano fare bene il proprio
lavoro, e la soddisfazione più grossa e costatare che i malati stanno meglio.
Questi sono alcuni indirizzi, dove rivolgersi in caso di bisogno Genova:
Osp. San Martino, divisione di Ematologia Monoblocco piano 0
Dott Edoardo Rossi 010-5552679
Osp. San Martino, divisione di Nefrologia Monoblocco 9° piano
Prof. Giuseppe Cannella 010-5552306
Dipartimento di Medicina interna dell’Università (Dimi)
Prof. Francesco Indiveri 010-3538987 - Francesco Puppo 010-3538691
Dipartimento di Medicina interna dell’Università (Dimi) divisione di Reumatologia
Prof. Maurizio Cutolo 010-3537994 oppure - Prof. Marco Cimmino 010-3538905
Istituto Giannina Gaslini, Cattedra di Pediatria dell’Università
Prof. Alberto Martini 010-5636386.
Contattateli in caso di bisogno, troverete persone competenti e disponibili,
ma se volete maggiori chiarimenti su dove curarsi attraverso la rivista
“ICARO” del Gruppo Italiano per la lotta contro il Lupus Eritematoso
Sistemico, potete avere risposte più esaurienti su dove trovare centri
specializzati nella cura di questa malattia vicino alla vostra città.
www.lupus-italy.org e-mail:[email protected]
Una cosa molto importante per chi come me è ammalato: un aspetto da non
sottovalutare sono i diritti e le agevolazioni per le persone portatrici di
handicap.
Io consiglio di rivolgersi presso i patronati che vi guideranno, vi aiuteranno a
districare leggi varie fino a quando vi verrà riconosciuta la percentuale dello
stato di invalidità ed eventuale inabilità lavorativa; potrete avere permessi
mensili retribuiti, legge 104, questo vale per voi e per l’assistenza prestata dai
vostri familiari nei casi più gravi. Se state lavorando e il vostro lavoro non è
più compatibile con il vostro stato di salute, potete rivolgervi presso gli uffici
di collocamento provinciali, che tramite le leggi di assunzione per persone
portatori di handicap, vi aiuteranno a trovare nuovi posti di lavoro, quelli più
compatibili con l’invalidità. Inoltre sappiate che, per il collocamento mirato, la
ditta che assume una persona invalida ha la possibilità di sgravi fiscali da parte
dello Stato.
Ripeto, fare valere i propri diritti, deve essere per chi e ammalato, una ragione
da portare avanti con tutte le proprie forze; non vi dovete scoraggiare per le
prime difficoltà: io ho sempre trovato persone gentili, disponibili presso tutti
gli uffici cui mi sono rivolto Inps, Uffici di Invalidità Civile, Patronato ACLI,
Commissione Mediche varie; a tutti loro rivolgo un caloroso grazie per avermi
aiutato.
Non dimenticatevi mai che vivere e bellissimo, ci saranno giorni belli e altri
meno, ma dentro di voi troverete la forza di sorridere, di scherzarci sopra. Vi
assicuro che è una cura delle più efficaci, se poi volete completare l’opera,
trovatevi degli hobbies per aver la mente occupata da cose che vi procurano
serenità.
Un grosso bacio a mia moglie Terry che mi è stata sempre vicina,
spronandomi a non buttarmi giù, e facendomi scoprire forte e pronto ad
affrontare qualsiasi prova.
Mi chiamo Giancarlo Gatti
e sono nato a Rapallo il
24/11/1965 da mamma
Mantovana
e
papà
Bresciano.
Risiedo
a
Rapallo con Terry, la mia
adorata compagna, con
cui sono sposato dal
1997. E' da quando sono
ragazzino, 14 anni, che
svolgo il mio lavoro di
tubista,
praticamente
sono più di trent'anni che
lavoro presso una grande
ditta locale. Ho un fratello di 18 anni più grande di me che vive a Genova.
La vita mi ha riservato molte sorprese non sempre piacevoli ma, con
grande forza d'animo sono sempre riuscito ad affrontarle, anche grazie ai
miei hobby; adoro andare in moto e seguire le partite della mia squadra
del cuore, il mio amato Genoa.