Perché voto Sì al referendum

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Perché voto Sì al referendum
Perché voto Sì al referendum Luca Amendola [email protected]­‐heidelberg.de C’è chi al referendum voterà No solo per indebolire Renzi. Atteggiamento legittimo, anche se rischioso. Sperando nell’arrivo di un grande statista che salvi l’Italia riportandola fra le nazioni leader in Europa, potremo ritrovarci con chi l’affosserà del tutto staccandola definitivamente da essa, Salvini o Grillo o chissà chi. Il resto di questa lettera aperta è rivolto invece a chi pensa di votare No, o è indeciso, non per antirenzismo viscerale ma per altre ragioni. Credo che almeno tre siano piuttosto comuni. Si può votare No perché si crede che non ci sia bisogno di riforme costituzionali ma di altro: volontà politica di risolvere i problemi, un’altra mentalità, onestà, oppure riforme di altro tipo, fiscali, economiche, ecc. Insomma, la costituzione non è una priorità, anzi forse è meglio non toccarla proprio, perché bene o male “è la più bella del mondo”. Poi si può votare No perché si ritiene che queste riforme vadano nella direzione sbagliata: prefigurano un regime autoritario, un governo che schiaccia l’opposizione, un sistema che serve solo a rendere i ricchi più ricchi ecc. Oppure si può votare No o non votare perché magari le riforme fanno un passettino avanti, ma non abbastanza, ci vorrebbe molto di più. Prima di discutere questi tre modi di dire No, due parole su altre obiezioni a priori che pure mi è capitato di leggere e ascoltare: per esempio, che le riforme vanno bene solo se fatte con l’opposizione e non dalla sola maggioranza, oppure che questo parlamento delegittimato (per via della sua elezione col Porcellum) non dovrebbe fare nulla e si dovrebbe solo tornare alle urne. Alla prima, risponderei prima di tutto che gli stessi singoli articoli della Costituzione del 1948 sono stati, in molti casi, votati solo da esigue maggioranze. Poi, che questa riforma è stata votata convintamente anche dal centrodestra e solo in un secondo momento, per ripicca contro l’elezione di Mattarella, è stata lasciata alla maggioranza. E’ anche vero che all’epoca molti di coloro che oggi dicono che ci vuole collegialità attaccavano il governo proprio perché si accordava con l’opposizione. Quanto all’altra opposizione, il M5S, è sempre stato chiaro che il loro modello di dialogo è “o fate come diciamo noi o nulla”. Dopo trent’anni di bicamerali, comitati di saggi, e discussioni a non finire, sperare ancora in un consenso più ampio mi sembra del tutto illusorio. Per l’obiezione che questo parlamento è delegittimato a fare grandi riforme, basta rileggere il testo della Corte Costituzionale che ha condannato il Porcellum per vedere che questo non è vero: “le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare.” C’è chi dice No perché la costituzione va bene così, o comunque non è una priorità. Molte di queste persone, subito dopo, aggiungono: piuttosto, facciano leggi che rilancino l’economia, che attirino investimenti, che semplifichino la burocrazia, che cambino la giustizia, la sanità, la pubblica amministrazione, il fisco ecc. Tutto giusto, c’è un milione di cose che si dovrebbero fare. Ma senza un governo in carica stabilmente per cinque anni, semplicemente non si può. Perché non basta fare leggi: occorre applicarle, emanare regolamenti, vincere la resistenza di gruppi forti d’interesse, dai burocrati ai magistrati, dai dipendenti statali alle autonomie locali. Una legge richiede in media oggi circa un anno e mezzo per essere approvata (dati Camera dei Deputati, e nella statistica contano pure le decine di rapide leggine che non fanno altro che recepire direttive già approvate in sede europea). Il che vuol dire che governi che durano uno, due, massimo tre anni, come finora in Italia (l’unica eccezione è stata la sequenza di governi Berlusconi 2001-­‐2006), non possono fare riforme profonde e seguirne lo sviluppo fino alla piena attuazione, anche perché spesso quando cadono i governi si va a nuove elezioni nel giro di poco tempo. Col nuovo Parlamento, tutti i procedimenti legislativi decadono, e occorre rifare tutto da capo. Un esempio. Per spostare un dipendente statale dalle Province alle Regioni o altre amministrazioni, occorre riformare tutto il sistema, perché i ruoli sono incompatibili, per via di incrostazioni regolamentari e sindacali che si sono sedimentate nel corso dei decenni. Il governo Renzi ha previsto nella riforma della Pubblica Amministrazione dei ruoli unificati, che semplificheranno enormemente la ridistribuzione dei dipendenti dove servono. Per approvare la legge quadro ci sono voluti due anni; i decreti di attuazione sono stati preparati e in qualche caso approvati nel giro di un altro anno. Se il governo cade ora, buona parte di tutto questo lavoro verrà annullato e il prossimo governo dovrà ricominciare da capo, a meno che non decida di proseguire lo stesso identico percorso. Il che, in Italia, in genere non succede. Perfino sul tema largamente condiviso delle unioni civili, come anche sull’abolizione delle Province, su cui quasi tutti, a parole, si dicevano d’accordo, ci sono voluti venti anni per arrivare a legiferare, perché ogni governo decideva di reimpostare tutto il percorso. La stabilità non è un bene astratto; è la condizione minima per incidere sui problemi e per programmare il futuro. E anche per giudicare se un governo ha agito bene o male! Certo, si può ottenere stabilità anche con l’attuale costituzione, basta superare il 50% in entrambe le camere. Bene, in 70 anni di regime repubblicano, non è mai successo che un partito superasse il 50%. Anche quando un partito come il PD ha avuto più del 51% dei seggi alla Camera, come ora, non ha ottenuto la maggioranza al Senato, per via del sistema elettorale attuale. Le maggioranze sono state sempre ottenute grazie a coalizioni traballanti e, quindi, di cortissima durata. Oppure, si può avere stabilità alla tedesca: se non c’è una chiara maggioranza, i due maggiori partiti, normalmente rivali, non hanno nessun problema a governare insieme. Anche questo, in 70 anni di Repubblica, non è mai successo. La forza della Germania è proprio qui: la sua stabilità negli indirizzi fiscali, economici, politici, permette di programmare per i decenni a venire, non navigare a vista come in Italia. Immaginiamo una grande azienda straniera che vuole investire in Italia. In cambio di cinquemila posti di lavoro, il governo promette ponti d’oro, uno svincolo autostradale apposito, tariffe e tasse che garantiscano profitti sufficienti, una legislazione favorevole o almeno non punitiva, accordi sindacali e con le autorità locali, aree industriali, ecc. L’azienda si convince quindi che il suo megainvestimento sarà redditizio dopo quattro o cinque anni. Un attimo prima della firma, il CEO chiede al suo consulente: un momento, possiamo fidarci che questo governo manterrà le sue promesse per almeno cinque anni? Immagino la risata del consulente… Sessanta governi in sessanta anni. Non sarà tutta colpa dei Padri Costituenti, ma vogliamo fare qualcosa o va bene così? Aspettiamo che “cambi la mentalità” e diventiamo tutti tedeschi? Mentre gli altri vanno avanti come treni? C’è poi chi dice No perché le riforme delineano un regime autoritario. Qui naturalmente entra in gioco anche l’Italicum. Eppure, le leggi elettorali vanno e vengono, non sono leggi costituzionali, e qualunque maggioranza le può cambiare a piacimento, salvo filtro della Corte Costituzionale. Quindi occorre discutere separatamente riforma costituzionale e Italicum. Di per sé, la riforma di autoritario non ha proprio nulla. Non si toccano i poteri del primo ministro (come invece si proponeva nella bicamerale D’Alema), né quelli del Presidente, né della magistratura o dell’Alta Corte. Anzi, il Presidente potrà essere eletto solo con almeno il 60% dei voti (più esattamente, dei presenti in aula, ma quasi nessuno è assente all’elezione del Presidente) invece del 50% più uno come ora (dopo la terza conta). Inoltre, Camera e Senato, che eleggono Presidente della Repubblica e giudici costituzionali, avranno maggioranze spesso difformi, perché eletti con sistemi completamente diversi e in momenti diversi. Il partito che avrà la maggioranza alla Camera, ad esempio i 346 seggi promessi dall’Italicum, dovrà avere il 92% del Senato per raggiungere i 438 seggi necessari per controllare l’elezione del Presidente! Il Presidente a sua volta, come ora, sceglierà cinque giudici costituzionali. Quindi col sistema attuale, chi ha la maggioranza del 50% più uno (l’obiettivo del M5S, che programmaticamente rinuncia ad alleanze), controlla il governo, elegge gli organi del Parlamento e il Presidente della Repubblica e nomina direttamente o indirettamente otto giudici costituzionali su 15, cioè la maggioranza. (Attualmente il Parlamento elegge cinque giudici costituzionali con un quorum molto alto, per cui alla fine normalmente tre giudici vengono nominati dalla maggioranza e due dall’opposizione.) Questo si che è potere! Con la riforma, chi ha il 55% alla Camera promesso dall’Italicum, non ha ancora i voti necessari per il Presidente e può eleggere direttamente solo tre giudici su 15. Inoltre, la riforma permette ai referendum e alle leggi popolari, da discutere a data certa, di avere finalmente efficacia, dopo decenni di costose consultazioni sprecate per via della scarsa affluenza, sfruttata o meno dagli oppositori ai quesiti. Qual è il sistema più garantista? Ma, si dice, il Senato sarà composto da nominati dotati di immunità! Per settanta anni (incluse le elezioni regolate dai sistemi Mattarellum e Porcellum), il Senato italiano è stato composto in larghissima misura da “nominati” in collegi uninominali. L’elettore poteva solo scegliere il partito, il candidato era preconfezionato, e non mi risulta nessuno abbia visto in ciò nulla di scandaloso. Ora i senatori, nominati dalle Regioni tra i consiglieri e i sindaci, saranno comunque scelti tra gli eletti dai cittadini, quindi non sono affatto calati dall’alto; anzi, i partiti centrali avranno certo meno controllo: Maroni e Emiliano, per fare due esempi, potranno inviare rappresentanti in barba a quello che Salvini o Renzi vorrebbero. La ragione di fondo dell’elezione di secondo livello, è che se i senatori avessero mandato popolare, non sarebbero più rappresentanti delle Regioni, ma risponderebbero solo ai loro elettori. Inoltre, il mandato popolare diretto darebbe loro grande forza, e entro breve potrebbero ribaltare il senso della riforma, in cui la Camera è la vera depositaria della volontà popolare. L’immunità d’altra parte è necessaria, come in tutti i Parlamenti, altrimenti magistrati male intenzionati potrebbero arrestare a discrezione deputati e senatori, magari in prossimità di voti cruciali, come avviene regolarmente nei regimi autoritari. L’immunità è storicamente molto più una garanzia per le minoranze che per la maggioranza. Perfino il documento dei costituzionalisti del No non ha nulla da ridire sull’immunità, e neppure sulle “nomine” regionali, anzi insiste che il Senato debba essere diretta emanazione delle Regioni. Si può dissentire, e preferire azioni giudiziarie senza filtro, naturalmente, ma certo non con il No: ora i senatori “immuni” sono 315, con la riforma saranno solo 100. Ma oltre agli aspetti tecnici, l’obiezione di fondo di molte persone, in genere della sinistra, è che un governo forte, per via della riforma o dell’Italicum, è anticamera dell’autoritarismo. Corollario, governi deboli e brevi, coalizioni litigiose, veti delle minoranze, tempi che si allungano all’infinito, sono aspetti positivi, “socialisti”, “di sinistra”. Ma quand’è storicamente che nascono i regimi autoritari? Perché il nazismo è venuto dopo l’inconcludenza dei deboli governi di Weimar, il fascismo dopo quella dei governicchi del primo dopoguerra, e Pinochet dopo l’impossibilità del governo Allende di realizzare in pieno il suo programma perché, nonostante avesse vinto le elezioni presidenziali, non aveva la maggioranza in Parlamento? Quand’è che il popolo perde la speranza, e affida lo scettro a chi grida più forte gli slogan più facili e sbrigativi? Io penso sia quando percepisce che vota e rivota, destra o sinistra, nulla cambia, non si trovano accordi per riforme forti, incisive, attese da anni, e i reciproci boicottaggi trasformano la democrazia in una sua caricatura. Quando chi vince le elezioni non può mantenere il programma elettorale perché costretto a coalizioni disomogenee i cui membri si vedono più come rivali nello stesso bacino elettorale che come alleati. Quando la speranza di passi avanti viene calpestata da giochi di potere, agguati politici, trasformismi, ostruzione cieca, veti di gruppi minoritari ma compatti: è sopra a questo inconcludente rumore di fondo, vera negazione della democrazia, che il suono di spade sguainate risalta di più. Quanto all’Italicum, l’obiettivo della coesione e stabilità dei governi può essere ottenuto per definizione soltanto con una maggiore o minore deviazione dal proporzionalismo puro. Ovvero, non governa chi ha la maggioranza assoluta, obiettivo quasi irraggiungibile, ma chi ha più voti. Così accade in USA, Francia, Gran Bretagna, Canada, India, Austria, Finlandia, e tanti altri Paesi (non necessariamente in tutte le elezioni). Anche in Italia un sistema fortemente non-­‐
proporzionale ha dato ottimi risultati nei comuni. E’ per questa ragione che il M5S propone proprio il proporzionale: per condannare l’Italia a litigiosi e impopolari governi di coalizione destra-­‐sinistra, in modo da conquistare il monopolio dell’opposizione. Non c’è bisogno di commentare se questo significhi fare il bene del Paese, piuttosto che quello della propria parte politica. Se si abbandona il proporzionale puro, ci sono molte maniere di attribuire a chi vince le elezioni abbastanza seggi da poter governare. Il ballottaggio proposto dall’Italicum è una di queste, certo non l’unica ma seguita in tanti Paesi, e ha almeno due vantaggi: non fallisce mai nel creare una maggioranza coesa e costringe gli estremisti a moderarsi per non aggregare contro di loro fronti trasversali, come ha capito benissimo Marine Le Pen in Francia e anche, in qualche misura, il M5S alle recenti comunali. Tutte le polemiche sull’Italicum, se sia meglio dare il premio al partito o alla coalizione, se sia meglio più preferenze o meno preferenze, mi sembrano poca cosa. Le preferenze, per esempio, sono assegnate da non più del 10-­‐20% degli elettori (e non ci sono mai state al Senato, senza nessuno scandalo) quindi hanno sempre influito in maniera minima sulla composizione del Parlamento. E semmai l’hanno fatto spingendo candidati discutibili e con grosse capacità economiche, piuttosto che premiando quelli più indipendenti. Votare No alle riforme per incentivare le preferenze (che pure nell’Italicum sono previste e nel precedente sistema no) o le coalizioni di partitini litigiosi, che per anni tutti hanno stigmatizzato, mi sembra l’apice del pretestuoso. Infine, la riforma incide anche sul “federalismo” italiano. Meno competenze alle Regioni, come energia, scuola, e altre, compensate però dal fatto che le autonomie avranno per la prima volta un Senato in cui presentare il loro punto di vista. Anche qui naturalmente si può dissentire in tutta ragionevolezza. Ma, al momento, solo la Lega difende a spada tratta il federalismo perseguito finora. Lo stesso che ha visto le Regioni diventare le amministrazioni di gran lunga più corrotte e inefficienti in Italia (con lodevoli eccezioni) e che ha visto la Corte Costituzionale intervenire più e più volte per ripristinare i poteri dello Stato di fronte a un’eccessiva devolution. C’è chi dice No o pensa di non votare, infine, perché la riforma non fa abbastanza: “è un’occasione mancata”. Magari condivide l’idea di abolire il bicameralismo perfetto, rendere più veloci le procedure parlamentari, smorzare un regionalismo eccessivo, permettere governi più duraturi, ma pensa per esempio che questa riforma avrebbe dovuto cancellare il Senato, invece di ridurlo, e magari ridurre anche il numero dei deputati. Certo, ma quando ricapiterà che i senatori accettino di decapitarsi a un terzo, con la certezza che molti di loro non riconquisteranno più lo scranno? Quando ricapiterà la possibilità di abolire le Province, abbassare il quorum ai referendum, dare valore alle leggi d’iniziativa popolare? In tutte le riforme costituzionali di destra o sinistra discusse finora, due delle poche costanti sono state l’abolizione del bicameralismo perfetto e la riduzione del numero esorbitante dei parlamentari italiani. Ora che ci siamo, dopo almeno trent’anni di discussioni, vogliamo fermarci sperando in un ottimo assoluto che non giungerà mai? Per tutte queste ragioni, al referendum voterò Sì. Non credo ci saranno altre occasioni nel futuro prossimo prevedibile di incidere sui meccanismi che bloccano l’Italia: troppo grandi le divisioni, i veti reciproci, gli interessi coalizzati. Se vince il No, non sarà un disastro, il Paese continuerà a campare come prima. Ma possiamo permetterci di continuare a campare come prima?