`Il cuoco è un operaio` Conversazione con Luciano

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`Il cuoco è un operaio` Conversazione con Luciano
«Griseldaonline» Centro Studi Camporesi
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‘Il cuoco è un operaio’ Conversazione con
Luciano Tona.
di Barbara Troise Rioda
"Hoc enim cogitis, ut de bono et de malo, non scriptoribus et librariis, sed coquis et
dulciariis ministris vobiscum potius disseramus. In questa discussione con voi sul bene e
sul male sono costretto a ricorrere non a scrittori ed editori, ma piuttosto a cuochi e
pasticceri."
(De mor. Eccl. cath. 2, 16, 41))
Luciano Tona è il Direttore di ALMA, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana, che ha
sede nella Reggia di Colorno in provincia di Parma. Il ruolo che ufficialmente ricopre lo
porta a incarnare il sapere tecnico, la passione e la conoscenza delle materie prime e a
mettere questo prezioso bagaglio a disposizione degli aspiranti cuochi di domani. Nato e
cresciuto aiutando i genitori nella gestione del ristorante Fermata di Casatenovo, per
coltivare i suoi hobby (alcuni singolari come l’allevamento delle razze avicole rare) ha
girato il mondo ed è approdato nei grandi ristoranti d’Europa: Guerard, Troigros, Bocuse,
Bras. Lì ha scoperto i fondamenti della grande cucina internazionale, ha affinato il suo
gusto, elaborato le sue scelte.
Chi lo ha visto al lavoro in una delle sue lezioni ad ALMA, ha senza dubbio notato come
l’aspetto severo e ruvido contrasti con un’insospettabile leggerezza e delicatezza nel
manipolare la materia, con la grazia e vaghezza nel muoversi e nel gestire tegami e padelle,
in un affettuoso e vigile rapporto con il fuoco. Un ottimo tecnico di cucina, capace di
preparazioni vibranti e spesso ricche di inventiva. Il suo stile ha preso spunto dalle
frequentazioni con Gualtiero Marchesi e via via si è plasmato e orientato verso una cucina
polimorfica, un mix tra istinto e tecnica, classicità e contaminazione fusion, rigore e sottile
e sorniona provocazione.
Lo abbiamo incontrato per sapere di più sul cibo italiano e soprattutto sul mestiere
affascinante del cuoco.
1- Il cibo ai giorni nostri è uno degli argomenti preferiti. La TV ne parla
continuamente: cibo da mangiare, cibo da cucinare, cibo da rievocare, cibo da
gustare, cibo da guardare.. Nella società del post-benessere il cibo sembra il
nuovo vitello d’oro da adorare, il nuovo partner da amare, la nuova magnifica
ossessione da sognare, il nuovo peccato senza penitenza. Perché l’uomo di
oggi ha bisogno di riscoprire questo interesse culturale per il cibo?
Siamo sicuri che si tratti di una riscoperta? Il valore del cibo è sempre stato legato alla vita
dell’uomo. L’uomo nasce mangiando. Mangia nel grembo materno e mangia subito dopo.
Una delle prime cose che fa un bambino è cercare la tetta della madre.
Oggi si parla molto di cibo perché è un trend, va di moda. È un argomento molto piacevole
da raccontare, sul quale tutti possono dire la propria perché tutti lo conoscono e ci hanno a
che fare. Chi più e chi meno, chi più profondamente, chi con maggior intelligenza, chi con
più visceralità. Ognuno ne ha un’esperienza propria perché tutti i giorni mangia. Perciò
ogni individuo sviluppa una personalità e la trasmette nella soggettività di giudizio del
cibo.
Lo scopo fondamentale è dare al corpo nutrimento, dare energia, dare salubrità. In TV
questo aspetto passa in secondo piano e il cibo diventa una materia di ‘facili costumi’.
Il modellamento comportamentale negativo è attuato un po’ da tutti gli strumenti dei
mass-media come: rotocalchi, riviste specializzate, internet ma tra questi la TV è
sicuramente il più efficace e capillare. Fa ‘scadere’ la cucina in termini di qualità e non ne
nobilita le doti e i valori. Le argomentazioni sono spesso superficiali, promuovono in
maniera indiretta il ‘lavorare male’. Guardo poco i programmi di cucina quindi non sono
molto competente, ma quando ci sono inciampato facendo zapping ho visto persone che
lavorano la terra (la culla del cibo) in ambienti sporchi e disordinati, senza nessuna
attenzione all’igiene. Non è così che si dovrebbe trattare la materia che ci serve per
mangiare. Quando si parla di cultura del cibo meglio prendere come riferimento il modus
operandi di mia nonna, che magari lavorava con lo stesso vestito con cui usciva, ma aveva
un’igiene naturale (insito nella sua natura). Una forma di rispetto che nasce dalla
consapevolezza che ogni alimento è eccezionale nel suo dare nutrimento e sostentamento
al corpo.
2- Anche la figura del cuoco va di moda. Si è tentato di darne tante definizioni
c’è chi ha detto che lo Chef è un dio, chi un diavolo, chi un artista, chi (come
Marchesi) un direttore d’orchestra, chi lo definisce uno spirito bollente.. Ma
cos’è un cuoco?
Un cuoco è un operaio (dal latino operarius, colui che presta la sua ‘opera’, il proprio
‘lavoro corporale’). È un operaio specializzato perché usa la tecnologia, ma rimane un
operaio. Uno che lavora con le mani. Non a caso in Francia esiste un concorso che premia il
miglior cuoco o il miglior pasticcere o il miglior macellaio o il miglior panettiere con il
titolo di Meilleurs Ouvriers de France (miglior operaio di Francia).
Oggi lo si vuol far diventare qualcosa di più, ma non lo è. In realtà noi cuochi facciamo
‘arte’ tra virgolette. Una bistecca in fin dei conti è sempre una bistecca. Che cos’ha di
artistico? Il cuoco diventa un artista quando mette in evidenza il valore aggiunto che sta
nel piacere estetico e sensoriale, ma lo ‘scontro’ con la materia rimane sempre molto
vincolante.
L’immagine dell’artista va di moda perché negli ultimi vent’anni il piatto è diventato più un
decoro che un elemento fine a se stesso. Fanno tutti troppo gli artisti o i compositori e
invece dovrebbero fare i cuochi. Cucinare le cose bene.
3- Ogni cuoco ha un maestro? Lei a chi è devoto?
Se il cuoco è, prima di tutto, un operaio che usa le mani per fare qualcosa, dovrà imparare
il mestiere da qualcuno e per imparare dovrà avere un maestro che gli indichi la strada
giusta da seguire.
Ho avuto tanti maestri ma, come molti cuochi italiani, ho subito l’influenza dello stile
firmato Gualtiero Marchesi. La sua filosofia e il suo savoir-faire mi conquistarono fin dalle
origini, da quando mossi i primi passi da cuoco.
Ho studiato ragioneria e sono diventato tutt’altro. Quel ‘tutt’altro’ è nato proprio negli anni
’80 grazie al maestro. Nel ’78 infatti Marchesi apre il ristorante milanese in via Bonvesin
De la Riva. Sulle tavole italiane e internazionali non si parla che dei suoi piatti
rivoluzionari, a metà tra la cucina, l’arte, la poesia e l’happening. Il fermento arriva sui
giornali e l’aria di innovazione che si respira nel locale padano incuriosisce tutti i cuochi
emergenti. Anch’io, incuriosito, non ho potuto fare a meno di osservarlo. Questo Signore
stava dando il giro di boa alla cucina italiana aprendo gli occhi e la mente alle novità che di
lì a poco daranno sostanza e forma alla Nouvelle Cuisine.
A parte le preziose frequentazioni con Gualtiero Marchesi, i principi base della mia
formazione teorica sono rintracciabili sui volumi e sui trattati classici di cucina. Ho
studiato Escoffier, Pellaprat, Bocuse, Revel, Mc Gree, Bras grazie ai quali mi sono
arricchito e confrontato con la cucina internazionale: francese, americana e giapponese in
particolare.
4- Nella gastronomia italiana che relazione c’è tra ‘sapere’ e ‘sapore’?
Il sapere una volta si imparava dai maestri d’arte. Si lavorava da un artigiano, si
acquisivano le competenze e si predisponeva il lavoro come lo si era imparato in bottega.
Un sistema formativo piuttosto riduttivo perché spesso l’operatività si svolgeva solo
all’interno di un territorio.
La grande rivoluzione comincia quando l’italiano inizia ad andare al di là del confine e
torna con nuove idee. Dagli anni ‘70 in poi si riduce drasticamente il fenomeno
dell’immigrazione e incomincia a svilupparsi una tendenza ai viaggi e ai soggiorni lunghi.
Lo stesso Gualtiero Marchesi si trasferisce in Francia per scoprire i segreti della cucina
francese, andando a bottega dai fratelli Troisgros del Hotel Moderne, al ristorante Ledoyen
di Parigi e al Chapeau Rouge di Digione in Borgogna.
Sono proprio alcuni incontri folgoranti a cambiare il modo di vedere le cose del maestro.
Senza Jean Troigros Gualtiero Marchesi probabilmente non sarebbe stato nessuno.
Il segreto è internazionalizzarsi per acquisire conoscenza. La cultura italiana ce l’abbiamo
già dentro, è nel nostro DNA. L’abbiamo vissuta cibandoci della nostra terra d’origine. È
una parte, seppur piccola, dell’enorme patrimonio gastronomico italiano che avendo un
bacino talmente ampio di concetti non si può acquisire nemmeno dopo trenta o
quarant’anni di lavoro.
La cosa più importante è la curiosità, la fame di conoscenza e la conoscenza si acquisisce
incontrando altre culture, altre persone, altri modi di operare, altre esperienze.
I libri non bastano. La cucina è linguaggio, quotidiano ed essenziale. Se vuoi che diventi
grande cucina bisogna che si internazionalizzi. Non certo allo scopo di omologarla, ma di
immettere la giusta dose di tecnica e di raffinatezza, facendola evolvere da artigianato ad
arte. Bisogna visitare gli altri paesi e studiare l’internazionalità. Fino a dieci anni fa non
avevo mai letto Artusi. Ho cominciato a leggerlo nel 2000, fino ad allora ho sempre ‘fatto
esperienza’ e ho seguito i testi sacri della cucina internazionale. I grandi francesi, grazie ai
quali ho imparato la finesse. Per fare questo percorso bisogna avere una profonda
disponibilità. Il limite è rappresentato dall’idea di sapere tutto e dai ricordi della cucina
della mamma. La tecnologia può aiutare a viaggiare. Grazie ad internet si fanno scoperte
interessanti. .
5- Nel cuore della Reggia di Colorno c’è la biblioteca di ALMA con più di
11.000 volumi dedicati al mondo della gastronomia. Cosa rappresenta per la
vostra scuola? Cosa lega un mestiere concreto come il cuoco alla tradizione
scritta?
Una biblioteca perché la cultura si fa anche studiando sui libri. È un supporto alla
formazione teorica e pratica. Il cuoco diventa un cuoco erudito e non è più il semplice
operaio iniziale quando aggiunge alla sua capacità di ‘saper fare’ anche uno spazio
culturale. Quando ha costruito le basi sulle quali sviluppare le modifiche della sua
operatività a seconda del bisogno, grazie alla conoscenza che ha acquisito con l’esperienza
personale e lo studio.
Il grande chef deve viaggiare, leggere, studiare per assorbire tutto quello che serve e
sfruttarlo al momento giusto per la composizione di un piatto, per la scelta di un
ingrediente, per la predisposizione di un menù e per aggiungere ogni volta il proprio estro
individuale. (continua)