Le novità sul contratto di associazione in

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Le novità sul contratto di associazione in
ASSOCIAZIONI IN PARTECIPAZIONE:
LETTURE SUPERFICIALI E CAPZIOSE RISCHIANO DI DISORIENTARE GLI OPERATORI
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Il contratto di associazione in partecipazione è stato oggetto di un importante dibattito a seguito
dell’entrata in vigore della legge n. 92/2012.
La legge, come chiarito dal Ministro Fornero nelle linee guida alla riforma dei contratti di lavoro del 13
marzo 2012, punta ad una “bonifica” del fenomeno delle associazioni in partecipazione con apporto di
lavoro, il cui abuso è perseguito, anzitutto, tramite la limitazione del numero massimo degli associati di
lavoro (o di capitale e lavoro), tale da lasciare operante l’istituto soltanto nelle piccole attività (ove operano
sino a cinque soggetti, compreso l’associante), e fatte salve le associazioni costituite in ambito familiare,
nonché, eventualmente, quelle aventi ad oggetto lo svolgimento di attività di elevato contenuto
professionale.
Questo contratto è uno dei pochi previsti dall’ordinamento che coniuga un giusto equilibrio di
cointeressenza tra capitale e lavoro finalizzato da un lato, ad una maggiore produttività aziendale e,
dall’altro, a valorizzare le performance dei lavoratori.
Coinvolgere i lavoratori nei processi organizzativi di alcune aree aziendali, grazie al solo apporto di lavoro e
non mediante investimenti economici nel capitale (in questa fase poco realistici), ha rappresentato e forse
rappresenta una scelta vincente soprattutto in questa stagione di rilancio dell’economia del Paese.
Per questo motivo, gli interventi restrittivi previsti dalla legge n. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro,
potrebbero non ottenere il risultato sperato visto che si parte dal presupposto in base al quale tutti i
contratti di associane in partecipazione costituiscono forme elusive di lavoro subordinato.
Non c’è dubbio che molte realtà utilizzano questa tipologia di contratto come legittima difesa di un costo
del lavoro eccessivo: ma è ferma convinzione che una legislazione fatta sulla patologia non può certamente
costituire lo strumento idoneo per una corretta regolazione del mercato del lavoro.
Nel merito delle scelte tecniche adottate, la legge n. 92 ha aperto una serie di dubbi che si spera possano
essere oggetto di chiarimento da parte del Ministero del Lavoro in attesa di conoscere le prime pronunce
della giurisprudenza di merito.
Un primo aspetto riguarda la previsione che limita il ricorso a questa tipologia contrattuale, nel caso in cui
l'apporto dell'associato consista anche in una prestazione di lavoro, ad numero non superiore a tre “in
una medesima attività”, indipendentemente dal numero degli associanti.
E’ stato dibattuto se per “medesima attività” si dovesse fare riferimento all’azienda nel suo complesso,
oppure alle singole attività produttive laddove l’azienda sia multi-localizzata, o anche all’attività intesa
quale mansione svolta dall’associato (interessante posizione interpretativa espressa dal Prof. Paolo Pizzuti).
In verità, la locuzione “indipendentemente dal numero degli associati” sembra lasciare intendere l’attività
riguardi l’associante e non l’associato con la conseguenza che il limite debba essere riferito alla tipologia di
attività (medesima) svolta dall’associante.
Per quanto attiene, invece, la multi-localizzazione, nella norma è presente un richiamo generico alla
“attività” e non al “luogo” dove essa è svolta.
Questo dato letterale della norma trova un suo riscontro nelle intenzioni espresse dal Ministro del Lavoro
nelle linee guida di riforma del mercato del lavoro anticipate il 13 marzo 2012 in cui ha affermato che
questa tipologia contrattuale dovesse essere circoscritta “soltanto nelle piccole attività”.
Lascia perplessi, tuttavia, la previsione secondo cui in caso di superamento di questo limite non ammette
una prova contraria da parte dell’associante sull’autonomia della prestazione, lasciando spazi a profili di
incostituzionalità.
Peraltro, non ammettere la prova contraria, va in contrasto con la finalità stessa della legge che punta ad
evitare un “abuso” del modello contrattuale (si veda le linee guida del 13 marzo 2012) e non ad eliminarne
l’utilizzo.
In questo modo, infatti, si parte dal presupposto che tutte le associazioni in partecipazione al di fuori di
questi limiti costituiscono per principio, e non nei fatti, una forma elusiva del lavoro subordinato
prevaricando anche quelle realtà aziendali che pongono in essere in modo legittimo questo modello
contrattuale.
L’unica finestra lasciata dalla norma per consentire alle aziende di riorganizzarsi, è costituta dal limitato
regime transitorio per i contratti certificati.
L’art. 1 comma 29 stabilisce che “sono fatti salvi, fino alla loro cessazione, i contratti in essere che, alla
data di entrata in vigore della presente legge, siano stati certificati ai sensi degli articoli 75 e seguenti
del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”.
In verità se si pensa all’uso della certificazione in questi anni, è possibile ritenere che i contratti che hanno
potuto beneficiare di questo regime transitorio sono molto limitati.
Salvo, però, assistere nei giorni immediatamente precedenti all’entrata in vigore della legge (18 luglio
2012), alla “corsa” per certificare i contratti di associazione in partecipazione a quel momento privi, al solo
scopo di prendere “respiro” rispetto ad una norma eccessivamente restrittiva.
Aspetto, quest’ultimo, al vaglio dei massimi organi ministeriali per valutare se questa pratica possa avere
profili di illeceità.
Sorvolando sul fatto se questa scelta possa essere stata giuridicamente legittima o meno, va apprezzata la
scelta di una delle principali aziende italiane la quale, con la condivisione di tutte le organizzazioni sindacali
(CGIL, CISL e UIL), ha preferito utilizzate strumenti legislativi più trasparenti per calibrare la riforma del
mercato del lavoro alle esigenze aziendali.
L’azienda, infatti, ha utilizzato la possibilità offerta dall’articolo 8 della legge 138/2011 per disciplinare un
regime transitorio senza il quale, in questa realtà, la legge 92 avrebbe provocato più danni all’occupazione
che benefici.
Questa scelta ha avuto un generale apprezzamento politico (si vedano le dichiarazioni, fra tutte, del
Ministro Fornero, del Senatore Sacconi, dell’On. Cazzola), della stampa (si veda le dichiarazioni di Polito
editorialista del Corriere della Sera), ma anche su questo punto, il dibattito si è accesso nel senso di capire
se le parti avevano o meno la possibilità di poter derogare alla legge di stato su un contratto come
l’associazione in partecipazione.
In verità, nell’unanime apprezzamento politico e tecnico, l’unica nota stonata in questo senso è stata
espressa da ADAPT con un documento del 13 settembre 2012 in cui si è interrogata se questa materia
potesse essere oggetto di deroga da parte di un contratto aziendale.
Questa organizzazione, infatti, ha affermato “Resta tuttavia da chiedersi, nel caso si specie, se
effettivamente le parti firmatarie erano dotate del potere di deroga a una disposizione di legge che non
ammetteva eccezioni se non con esclusivo riferimento ai contratti certificati”.
Sul punto, il documento afferma che “è la lettera dell’art. 8, comma 2, del dl n. 138/2011 che non pare
lasciar spazio a interventi derogatori siffatti”.
Al di là del fatto che questa organizzazione non è la prima volta che assume posizioni interpretative poi
sconfessate dal Ministero del Lavoro, dal legislatore e dalla giurisprudenza (fra tutte si pensi a quanto
sostenuto con riferimento all’obbligatorietà del rilascio del parere di conformità da parte degli enti
bilaterali per l’avvio dei rapporti di apprendistato), ma anche in questo caso le argomentazioni sostenute
sono totalmente prive di fondamento giuridico.
L’organizzazione afferma che “Pare evidente che il Legislatore, nel concedere un ampio potere di intervento
alla contrattazione collettiva aziendale o territoriale, si riferisca a interventi derogatori relativi alle modalità
di assunzione e disciplina tramite contratti di lavoro dipendente e non alle associazioni in partecipazione.
Rafforza questa convinzione l’espresso richiamo, accanto ai contratti di lavoro, delle collaborazioni a
progetto e delle partite IVA, ma non anche della associazione in partecipazione”.
Ebbene, le argomentazioni che portano a non condividere questa posizione sono diverse.
La prima motivazione, quella più elementare e basterebbe questa per chiudere il ragionamento, è che il
contratto aziendale in questione non ha affatto disciplinato il contratto di associazione in partecipazione,
ma ha operato in modo più raffinato rispetto a quello superficialmente ipotizzato.
Infatti, la riforma del mercato del lavoro ha messo davanti ad un bivio le aziende che alla data del 18 luglio
2012 avevano un numero di associati superiore a tre: decidere se contrarre l’ambito economico di
riferimento interrompendo i rapporti in eccedenza a tre unità, oppure novare i rapporti in essere
assumendo le persone con un contratto di lavoro subordinato.
Infatti, di questo si tratta, la trasformazione ex legge in un contratto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato opera solo in ambito sanzionatorio nell’ipotesi in cui dopo il 18 luglio 2012 siano presenti
nelle aziende rapporti di associazione in partecipazione in misura superiore a tre unità.
Ma in questo caso la scelta delle parti sociali è stata quella di adeguarsi alle disposizioni di legge
prevedendo modalità di assunzioni adeguate al sistema aziendale. Si potrebbe dubitare su la scelta della
tipologia contrattuale poteva giustificare questo intervento quando già la norma individua il modello
contrattuale. Ma anche qui i dubbi sarebbero privi di fondamento.
Infatti, il modello contrattuale richiamato nella norma opera solo in una ipotesi sanzionatoria e non quale
ordinario rapporto di lavoro subordinato che l’azienda sarebbe legittimata ad adottare oltre i tre associati.
Ebbene, in questo contesto, tutte le sigle sindacali hanno preso atto e valutato che in un contesto di 1.200
persone si rendeva necessario un tempo ragionevole per poter decidere la disciplina del rapporto di lavoro
da adottare (part-time, full-time, fasce orarie, apprendistato, a chiamata anche alla luce di turni da
rielaborare completamente etc.); peraltro, il termine di 12 mesi (“entro”) è in linea con quanto concesso
dalla legge 92 alle altre tipologie contrattuali regolamentate (partita iva e collaborazioni).
Siamo, dunque, nell’ambito della “disciplina della fase costitutiva del contratto di lavoro” cosi come
affermato dalla recente Corte Costituzionale con sentenza n. 221/2012.
E questa materia è espressamente richiamata dall’articolo 8 nella lettera e) laddove fa riferimento alle “alle
modalità di assunzione”.
La seconda motivazione, in subordine, che legittima il contratto aziendale passa attraverso la corretta (e
non capziosa) interpretazione della locuzione legislativa “disciplina del rapporto di lavoro, comprese le
collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA”.
In verità questo passaggio legislativo, letteralmente interpretato, potrebbe portare a comprendere l’intero
diritto del lavoro, per questo motivo la dottrina più accreditata discute sul corretto significato della norma
qualora si volesse attribuire una interpretazione più restrittiva rispetto a quella letterale.
Sul punto ancora una volta ADAPT, con un approccio elementare, sostiene che l’articolo 8 “si riferisce a
interventi derogatori relativi alle modalità di assunzione e disciplina tramite contratti di lavoro dipendente
e non alle associazioni in partecipazione”.
Poi però ADAPT in un passaggio successivo ammette che la deroga possa riguardare anche il lavoro
autonomo seppure limitato a talune tipologie contrattuali (“Rafforza questa convinzione l’espresso
richiamo, accanto ai contratti di lavoro, delle collaborazioni a progetto e delle partite IVA, ma non anche
della associazione in partecipazione.”).
I passaggi di questo documento, sembrano più orientati ad affermare per forza che l’associazione in
partecipazione è fuori dall’articolo 8, piuttosto che ad analizzare la norma in modo giuridicamente sereno e
privo di pregiudizi.
In verità, il testo della legge (“la disciplina del rapporto di lavoro”) si può interpretare nel senso che i
contratti aziendali possono derogare alle disposizioni che incidono sulla qualificazione del rapporto
deviando dal normale accertamento del tipo contrattuale (questo è il pensiero del Prof. Antonio Vallebona).
In questa ottica, nella locuzione legislativa non può che esserci anche la disciplina del rapporto di lavoro
connessa all’associazione in partecipazione e le disposizioni della legge 92 che incidono sull’accertamento
del tipo contrattuale. D’altronde il richiamo espresso alle collaborazioni a progetto e partite iva, preceduto
dal termine “compreso”, porta a ritenere che all’interno della locuzione normativa, sia compresa la
disciplina del rapporto di lavoro in genere sia esso autonomo, di lavoro subordinato.
Il richiamo alle collaborazioni e alle partita iva è, dunque, di natura esemplificativa e non tassativa.
Infine, l’inopportunità dell’intervento di ADAPT si ricava anche dall’affermazione “Al di là di un richiamo,
probabilmente inopportuno, alla possibilità di operare la stabilizzazione anche mediante l’apprendistato”.
La possibilità di assumere un apprendista dopo un rapporto di associazione è del tutto legittimo dal
momento che non esiste una legge che vieta tale opportunità.
Si potrebbe però sostenere che l’assunzione di apprendisti non è possibile poiché il lavoratore avrebbe già
reso una prestazione qualificata con il contratto di associazione. Ma su questo punto c’è l’errore. E’
sufficiente ricordare la posizione già espressa dal Ministero del Lavoro con l’interpello n. 8/2007 secondo
cui in mancanza di una specifica normativa è ammesso l’avvio di rapporti di apprendistato anche dopo un
contratto a termine, purchè la durata di quest’ultimo non sia superiore in termini di durata, alla metà del
periodo di apprendistato.
Pertanto, se questo principio vale nei rapporti di lavoro subordinato tanto più deve valere nei rapporti di
lavoro autonomo.
Ma, ancora una volta, letture superficiali rischiano di disorientare gli operatori e mette in cattiva luce, in
modo gratuito e senza alcun fondamento giuridico, l’operato delle principali organizzazioni sindacali
italiane e di una delle aziende più importanti del paese che sta cercando di difendere posti di lavoro in un
contesto economico certamente non favorevole come tante altre stanno facendo.
Enzo De Fusco
Consulente del Lavoro in Roma e Milano