Tocqueville: il Corano è la rovina degli arabi

Transcript

Tocqueville: il Corano è la rovina degli arabi
40
Martedì 12 Luglio 2011 Corriere della Sera
italia: 515050585854
Cultura
Il saggio Domenico Letterio esamina La guerra Dal 1830 al 1857 i francesi
alcuni testi considerati «imbarazzanti» affrontano la resistenza degli indigeni
Tocqueville: il Corano
è la rovina degli arabi
Così approvò la conquista coloniale dell’Algeria
di PAOLO MIELI
P
rima ancora dell’America, nel cuore
di Tocqueville ci fu
l’Algeria. E questo
sentimento durò a lungo.
«Con ogni probabilità dichiareremo guerra ad Algeri», scriveva lo studioso, nell’ottobre del 1828, al cugino Louis de Kergorlay,
riferendosi alla controversia economica tra Carlo X di Francia e il dey Hussein, emissario del
sultano di Costantinopoli in quella che allora
era una sperduta provincia dell’impero ottomano. «Questa ridicola vicenda non può andare
avanti così». Previsione azzeccata. Nel 1830,
una spedizione militare francese salpò in direzione di Algeri. Poi, nel 1831, Alexis de Tocqueville partì (assieme all’amico Gustave de Beaumont) per un viaggio alla volta dell’America
che per un po’ gli avrebbe fatto dimenticare Algeri e che lo avrebbe reso famoso nei secoli.
Doveva compiere, su incarico del governo
francese, un’indagine sul sistema carcerario
americano; si trattenne nel nuovo continente fino all’inizio del 1832 e, l’anno successivo, mise
a punto un interessante rapporto comparativo
tra il sistema penitenziario del Paese suo e di
quello che aveva visitato. Il frutto più prezioso
di quel viaggio fu, però, un libro (in due volumi
pubblicati, il primo nel 1835, il secondo nel
1840) dal titolo La democrazia in America. Un
testo molto importante, destinato a diventare,
negli anni, una sorta di Bibbia del pensiero liberaldemocratico.
Meno noto è che in quello stesso periodo, appena tornato in patria, Tocqueville si applicò
con altrettanta (anzi, forse maggiore) passione
e assiduità a un’altra terra destinata ad avere
una grande importanza per la storia della Francia: quell’Algeria di cui si è detto all’inizio. Ed è
a questo tema che Domenico Letterio ha dedicato un interessantissimo libro, Tocqueville ad Algeri, edito dal Mulino. «Gli scritti algerini», scrive Letterio, «restituiscono un altro Tocqueville,
in non pochi casi assai lontano dal pacato intellettuale con il quale si confronta il lettore delle
sue opere principali». Si riferisce, Letterio, alle
pagine in cui il pensatore francese si dichiara,
tra l’altro, convinto sostenitore delle razzie e
dell’accanimento contro la popolazione indigena. Pagine su cui nel 2005 si è soffermato Domenico Losurdo in un libro assai polemico che
voleva essere, come era chiaro già dal titolo,
una Controstoria del liberalismo (Laterza).
In passato gli apologeti di Tocqueville hanno
minimizzato la questione, definendo gli «scritti
algerini» l’«opera marginale» di un autore la
cui grandezza risiederebbe «altrove». Ma, come
ha giustamente osservato la studiosa Lucia Re, è
sbagliato cercare di far dimenticare quelle pagine o provare a nasconderle, quasi contenessero
null’altro che motivi di imbarazzo. E ciò non solo per il dovere di restituire al pensiero di Tocqueville tutta la sua ricchezza e complessità, ma
anche per «sollecitare il liberalismo a confrontarsi con le sue aporie teorico-politiche». Si tratta, conferma Letterio, «di strappare all’oblio un
frammento fondamentale della vicenda politica
europea e di indagare il modo in cui si dispongono, nella trama complessiva del discorso tocquevilliano, alcuni dei concetti centrali per la riflessione politica occidentale, quali quelli di "individuo", "società", "ordine" e "governo"».
Torniamo dunque alla spedizione di Algeri
del 1830, alla quale partecipava il già citato cugino Kergorlay, il quale, come quasi tutti i suoi
connazionali, riteneva che, in virtù della superiorità della artiglieria francese, la guerra sarebbe durata pochi giorni. E forse sarebbe stato così, se ad opporsi ai francesi fosse stato solo
l’esercito turco e non, anche, i «beduini», cioè
le avanguardie armate della popolazione locale. Kergorlay all’inizio guardò a questi beduini
con una punta di apprensione. In una lettera a
Tocqueville del giugno 1830 scriveva: «Molti
La critica ai compatrioti
«È stato un errore imperdonabile
demolire le strutture portanti
dell’amministrazione ottomana»
arabi vengono a trattare a nome delle loro tribù. I turchi li obbligano ad attaccarci, li impiccano se si rifiutano di farlo e raccontano loro che
siamo soliti sgozzare i nostri prigionieri». Strano: in quel momento i francesi si proponevano
come «liberatori» dalla colonizzazione turca. E
invece, scriveva ancora Kergorlay, «gli arabi —
o beduini, non si capisce mai con chi abbiamo
a che fare — sono una razza infame e spregevole; prima uccidono, poi tagliano la testa e le
membra per farsele pagare dal dey… è impressionante la loro feroce ingenuità».
In luglio ci fu l’attacco definitivo dei francesi
alla città di Algeri, nel corso del quale i «liberatori», forse anche perché i tempi di attesa erano stati molto più lunghi del previsto (il che
Bibliografia
Quando un liberale
invoca la mano dura
S’intitola Tocqueville ad Algeri. Il
filosofo e l’ordine coloniale (Il Mulino,
pp. 240, € 23) il libro che Domenico
Letterio ha dedicato alla posizione del
pensatore francese sulle vicende del
Nord Africa. Dei suoi scritti su Islam e
mondo arabo si sono occupati anche
Domenico Losurdo nella Controstoria
del liberalismo (Laterza) e Paolo
Ercolani, curatore dell’antologia di
Tocqueville Un ateo liberale (Dedalo).
Da segnalare anche la biografia di
Umberto Coldagelli Vita di
Tocqueville, pubblicata da Donzelli.
non è una giustificazione), si comportarono da
selvaggi distruggendo acquedotti, marmi, vasche, ornamenti, sculture. «Fu triste», avrebbe
scritto Pellissier de Reynaud negli «Annales algériennes», «vedere il popolo più civilizzato
del mondo dare agli algerini quell’esempio di
vandalismo».
Quell’estate la Francia fu distratta dalla «rivoluzione di luglio»: Carlo X fu costretto ad abdicare e salì al trono Luigi Filippo d’Orléans. E fu in
quel luglio che, per i francesi, l’Algeria cessò di
essere una «terra liberata» e diventò una colonia. Ma, negli anni successivi — quelli in cui
Tocqueville si occupò della democrazia in America — in Algeria mise radici un vasto movimento di resistenza, per debellare il quale la Francia
dispiegò una vera e propria politica di sterminio. E quando Tocqueville, nell’estate del 1837,
tornò ad occuparsene nelle Lettres sur l’Algérie,
è con quella politica che dovette fare i conti. Per
prima cosa osservò che «non vi sarebbero tirannie se gli oppressori non trovassero tra gli oppressi i loro strumenti. I turchi selezionarono alcune tribù, alle quali concessero privilegi e indipendenza a patto che li aiutassero ad asservire
gli altri. All’interno delle tribù sulle quali gravava il loro giogo, inoltre, si garantirono con strumenti analoghi, soprattutto l’esenzione dal pagamento delle imposte, il sostegno di quell’aristocrazia di cui vi ho parlato. In tal modo poterono servirsi degli arabi per dominare gli arabi».
Letterio nota come agli occhi di Tocqueville
sia stato un imperdonabile errore dei francesi
far fuori la classe dirigente ottomana, le cui
competenze sarebbero tornate utili per governare gli indigeni. Ma, prosegue, «ancor più grave era stata la scelta di disfarsi degli archivi dell’amministrazione precedente». «Per cancellare le vestigia della dominazione nemica», scriveva Tocqueville, «abbiamo avuto cura di distruggere o di bruciare i documenti scritti, i registri amministrativi, tutte le testimonianze
che avrebbero potuto perpetuare una traccia di
ciò che è stato fatto prima del nostro arrivo».
Così facendo i francesi avevano prodotto un
«naufragio universale dello stato di cose precedente» e con le ceneri degli archivi ottomani si
era volatilizzata «qualunque possibilità di dare
una base certa ai titoli di proprietà». Il risultato
fu che la nuova amministrazione incamerò
un’enorme quantità di beni «nel più totale disprezzo del diritto e dei diritti».
Nel 1837 poi i francesi compirono un altro
passo che Tocqueville individuò subito come
un errore. Per battere Ahmed di Costantina,
che aveva resistito per sette anni, essi stipularono un’alleanza (il «trattato della Tafna») con
L’impressione iniziale
«Algeri è un miscuglio di razze e di
costumi... Sono tutti indaffarati in
un’attività febbrile… È la città di
Cincinnati trasportata in Africa»
Abd el-Kader, al quale, in cambio della neutralità, riconobbero la sovranità sulla regione di Orano e su ampie frazioni di quella di Algeri. Con
quell’atto avevano consacrato, senza accorgersene, il futuro uomo guida della resistenza algerina. «È indubbio che le popolazioni che non
hanno ancora un capo», prevedeva Tocqueville, «si metteranno presto nelle mani di Abd
el-Kader; alla luce di ciò non ha alcun senso distruggere o fare anche solo vacillare il potere
dei leader arabi indipendenti… Noi faremo
l’anarchia e l’anarchia farà la potenza di Abd
el-Kader».
A questo punto Tocqueville, per comprendere meglio la questione algerina, avvertì l’esigenza di mettersi a leggere il Corano. Anzi, come
scriveva, a «studiarlo»: «Non sono ancora tentato di diventare musulmano, il profeta non mi
seduce affatto; ma bisogna ammettere che, al
di là dei suoi vaneggiamenti, era un uomo estremamente abile; è difficile immaginare un compromesso più ingegnoso tra spiritualismo e materialismo, tra l’angelo e la bestia». «La dottrina
secondo cui la fede dona la salvezza, l’idea che
La questione musulmana
«La vocazione profonda dell’Islam
alla violenza e alla sensualità
è evidente a ogni uomo sensato
Poche religioni sono così funeste»
Allori Assegnato il prestigioso riconoscimento giapponese per le arti. Tra i cinque anche Seiji Ozawa (musica) e Judi Dench (teatro)
Tokyo, a Bill Viola, Kapoor e Legorreta il Premio Imperiale
di PIERLUIGI PANZA
S
ono Bill Viola (Usa, per l’arte),
Anish Kapoor (Gran Bretagna, per
la scultura), Ricardo Legorreta
(Messico, per l’architettura), Seiji
Ozawa (Giappone, per la musica) e Judi
Dench (Gran Bretagna, per il teatro) i
vincitori del Praemium Imperiale della
dinastia giapponese per il 2011. Gli artisti sono premiati «per l’influenza esercitata sul mondo dell’arte internazionale» e «per il contributo dato alla comunità mondiale». Ciascuno riceverà un
premio di 15 milioni di yen (circa 130
mila euro), un diploma e una medaglia
che saranno conferiti dal patrono della
Japan Art Association, il principe Hitachi, durante la cerimonia di premiazione che si svolgerà a Tokyo il 19 ottobre.
Pur stralciando i vincitori delle sezioni musica e teatro, resta abbastanza difficile, per noi oggi, individuare le con-
I vincitori
BILL VIOLA
Nato a New York
nel 1951, si è
affermato come
videoartista. Ha
lavorato con
Bruce Nauman e
Nam June Paik
ANISH KAPOOR
Scultore e
architetto indiano
nato a Bombay
nel 1954 da
padre indiano e
da madre
ebrea irachena
RICARDO
LEGORRETA
Nato a Vilchis in
Messico nel
1931, si è
affermato con la
Pershing Square
di Los Angeles
nessioni tra i premiati. Viola è un artista affermatosi con video che muovono
dall’arte religiosa del Rinascimento, Kapoor uno «scultore» apolide imbevuto
di misticismo e Legorreta un architetto
della postmodernità che ha trionfato a
Los Angeles. Ma proprio ciò dovrebbe
indurci a una riflessione. È sorprendente che il giapponese Praemium Imperiale — dal 1989 uno dei più importanti
allori d’arte del mondo — sia l’unico-ultimo riconoscimento che premia quelle che l’Europa colta ha per secoli riunito sotto il cappello delle Cinque Belle
arti secondo il modello stabilito dall’abate Batteaux nel 1746 (Les Beaux-Arts réduits à un même principe), pur con
qualche slittamento verso la poesia e
l’identificazione tra danza e teatro.
È il Giappone, e non la madre Europa, a riconoscere una continuità epistemologica tra queste cinque arti, che ci
appaiono oggi irriducibili nei metodi e
nei fini più ancora di quanto ciò non
sembrasse già a Lessing. Una continuità che, con il contemporaneo slittamento verso la performatività persino delle
vecchie arti del disegno (pittura, scultura e architettura), appare straordinariamente up-to-date. E così, mentre in Occidente il Turner Prize, l’Oscar, il Pritzker... sembrano testimoniare una irriducibile differenza tra queste discipline nate dal Cinquecento in sistemi unificati, l’Oriente percepisce la persistenza di nessi espressivi e sociali.
Dal 1989 sono 114 gli artisti che hanno ricevuto il Praemium Imperiale, mol-
Il paradosso
Il riconoscimento giapponese
è l’unico che premia quelle che
erano le Belle arti europee
ti dei quali nomi già precedentemente
affermati nella rete internazionale della comunicazione artistica come Claudio Abbado, Gae Aulenti, Ingmar Bergman, Luciano Berio, Leonard Bernstein, Peter Brook, Christo, Federico Fellini, Norman Foster, Frank Gehry,
Jean-Luc Godard, David Hockney, Akira Kurosawa, Mario Merz, Renzo Piano,
Arnaldo Pomodoro, Robert Rauschenberg, Mstislav Rostropovich.
L’anno scorso vennero premiati tre
italiani: Castellani, Loren e Pollini. La
scelta di alcuni nomi di fama mondiale
è forse condizionata anche dai consiglieri internazionali del premio: Lamberto Dini, Klaus-Dieter Lehmann, William H. Luers, François Pinault, Christopher Patten e Yasuhiro Nakasone.
Nonché da consiglieri onorari come Jacques Chirac, David Rockefeller e Helmut Schmidt.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Corriere della Sera Martedì 12 Luglio 2011
Cultura 41
italia: 515050585854
servita solo da «pretesto»: «Sono infatti convinto che siamo stati attaccati da stranieri e da conquistatori più che come cristiani».
La passione per l’Algeria in Tocqueville cresceva sempre di più. Nel 1840 decise di recarvisi
di persona. E nel 1841 partì. La prima impressione che ricevette da Algeri fu più che positiva.
Ebbe quasi la sensazione di essere «tornato in
America». «È un incredibile miscuglio di razze
e di costumi… Sono tutti indaffarati in un’attività febbrile… È la città di Cincinnati trasportata
sul suolo d’Africa», scrisse alla moglie il 7 maggio del 1841. E ancora: «Nel bel mezzo del disordine che vi regna, essa è provvista di una singolare vitalità … È un caos che annuncia la nascita
di un mondo nuovo». A renderlo un po’ inquieto fu l’architettura delle case: «Non è semplicemente dettata dal clima torrido, ma rappresenta a meraviglia lo stato sociale e politico delle
popolazioni musulmane e orientali: la poligamia, il sequestro delle donne, l’assenza di una
vita pubblica, un governo tirannico e ombroso
che cela i propri meccanismi e le proprie affezioni del cuore all’interno della famiglia».
È un Tocqueville quasi entusiasta. Presto però si rende conto che il vero problema è la resistenza delle popolazioni locali e passa a dare
quei suggerimenti che tanto imbarazzo hanno
poi creato ai suoi estimatori. Il 23 maggio del
1841 (giorno in cui il vescovo di Algeri gli aveva
parlato di «un’enorme stanchezza della guerra,
un enorme terrore per il modo in cui essa è condotta dai francesi, un’enorme miseria cui essa
condanna gli arabi») così scrive al cugino Kergorlay: «Vi sono buone ragioni per sperare che
una guerra di razzia ben condotta costringerà
Abd el-Kader a chiedere la pace, o quantomeno
porterà una parte delle tribù a prendere le distanze da lui. Succederà allora nella provincia
di Orano e in quella di Algeri un qualcosa di
analogo a quello che succede oggi nella provincia di Costantina. I francesi domineranno le regioni interne e ciò consentirà loro di colonizza-
La consapevolezza
«Stiamo conducendo il conflitto
in maniera barbara e feroce
ma punire le tribù è inevitabile»
il primo di tutti i doveri religiosi è la cieca obbedienza al profeta, l’idea che la guerra santa è la
prima di tutte le buone opere… Tutte queste
dottrine, di cui evidenti sono gli effetti pratici,
si ritrovano a ogni pagina… Nel Corano la vocazione alla violenza e alla sensualità è talmente
evidente che non capisco come possa sfuggire
a un uomo di buon senso».
Alla base di queste riflessioni, puntualizza
Letterio, «c’era l’assunzione di una serie di luoghi comuni, in primis quello che traduceva il termine jihad con "guerra santa", comprimendo in
maniera artificiosa e fuorviante la polisemia di
uno dei vocaboli più fraintesi della lingua araba». Può darsi che sia vero. In ogni caso Tocqueville terminò la lettura del Corano con convinzioni nette: «Maometto ha esercitato un’influenza enorme sulla specie umana, un’influenza, a
ben vedere, più nociva che salutare». E ancora,
in una lettera del 1843 ad Arthur de Gobineau:
«Vi confesso che sono uscito da tale studio con
la convinzione che vi sono poche religioni al
mondo tanto funeste per gli uomini quanto
quella di Maometto; essa è, a mio parere, la causa principale della decadenza oggi così evidente
del mondo musulmano. È meno assurda del politeismo antico, ma dal momento che le sue tendenze sociali e politiche sono infinitamente più
temibili, la considero, anche in rapporto al paganesimo, una decadenza piuttosto che un progresso». Anche se, poi, aggiungeva che, pur
avendo la religione giocato un ruolo importante
nelle «guerre contro di noi in Africa», essa era
Il pensatore
Alexis de Tocqueville
(1805-1859) scrisse
«La democrazia in
America» (1835-40).
Nell’immagine grande:
lo scontro di Habrah
tra francesi e ribelli
algerini in un dipinto
di Horace Vernet
re i dintorni di Algeri. È questo il vero obiettivo
che la Francia deve perseguire, la dominazione
non è altro che un mezzo». E quando a fine autunno tornerà in patria, aggiungerà: «Se la Francia indietreggiasse davanti a un’impresa in cui
essa non ha di fronte altro che le difficoltà naturali del Paese e l’opposizione delle piccole tribù
barbare che lo abitano, essa sembrerà cedere
agli occhi del mondo sotto il peso della propria
impotenza e soccombere per il suo difetto di
cuore. Qualunque popolo che abbandoni con
facilità ciò che ha conquistato e che si ritiri
spontaneamente all’interno dei suoi antichi
confini proclama che i bei tempi della sua storia sono passati. Esso entra con ogni evidenza
nella fase del suo declino». Avanti con la guerra
e la colonizzazione, dunque.
E il modello americano lo illumina sul da farsi: «rimpiazzare gli antichi abitanti» con la «razza conquistatrice». Proprio così, con queste parole: «Ci sono due modi di conquistare un Paese: il primo è mettere i suoi abitanti sotto la propria autorità e governarli, direttamente o indirettamente. È il sistema degli inglesi in India. Il
secondo è rimpiazzare gli antichi abitanti con
la razza conquistatrice. Gli europei hanno agito
quasi sempre così… Ci sono delle persone che
pensano ancora che i francesi debbano limitarsi a dominare l’Algeria senza voler colonizzare.
Lo studio della questione mi ha convinto del
contrario».
Qualcuno all’epoca proponeva di tentare, almeno in una fase intermedia, una convivenza.
No, risponde Tocqueville. «La sola idea comune che possa servire da legame tra tutte le tribù
che ci circondano è la religione, il solo sentimento comune che consenta di sottometterle a
un medesimo giogo è l’odio verso lo straniero e
l’infedele che è venuto a invadere il loro Paese.
Il principe che governerà queste tribù sarà tanto più potente e tanto più sicuro nel suo potere,
quanto più esalterà e infiammerà simili sentimenti e idee comuni. Il suo governo sarà tanto
più solido e tanto più forte quanto più stimolerà contro di noi fanatismo e odio».
Perciò l’unica via percorribile sarebbe stata
quella di «continuare i nostri sforzi, per quanto
possano essere faticosi, per spingere la guerra
in tutte le direzioni, e senza dare agli arabi il
tempo di respirare». Abd el-Kader è più forte,
molto più forte, di quanto fossero i turchi. Più
pericoloso. E più duttile. Non gli si può dare tregua. È capace di allearsi con chiunque. «Lasciare qualche punto importante nelle mani degli
arabi significa regalare una posizione ben difesa e un rifugio alla prima potenza cristiana che
si troverà in lotta contro di noi. Significa fornire
ai nostri nemici un modo facile per entrare in
contatto con gli indigeni e dichiararci guerra».
Ma i metodi usati dalla Francia per debellare
Abd el-Kader suscitano perplessità in Tocqueville, che torna in Francia con «l’affliggente consapevolezza del fatto che in questo momento
facciamo la guerra in maniera molto più barbara di quanto non la facciano gli arabi stessi; allo
stato attuale, è dal loro lato che si trova la civilizzazione; questa maniera di condurre la guerra
mi pare tanto insensata quanto crudele». Ma come, lui stesso non si era forse pronunciato a favore delle razzie? In effetti ancora adesso dice
di non «ritenere criminale che si brucino i raccolti, che si vuotino i silos, che
ci si impadronisca degli uomini
disarmati, delle donne e dei
bambini… queste, a mio parere,
sono delle necessità spiacevoli,
ma alle quali ogni popolo che voglia fare la guerra agli arabi è obbligato a sottomettersi». Se in
Europa non si dà fuoco ai raccolti, «è perché generalmente si fa
la guerra ai governi e non ai popoli; se si fanno prigionieri solamente i soldati, è perché gli eserciti tengono duro e le popolazioni civili non si sottraggono alla conquista… in
una parola, è perché si trova ovunque un modo
di impadronirsi del potere politico senza colpire i governati».
In Algeria, invece, non è possibile distruggere «la potenza di Abd el-Kader se non rendendo la condizione delle tribù che lo sostengono
talmente insopportabile da costringerle ad abbandonarlo». A tal fine bisogna procedere a
quella che lui stesso chiama, senza infingimenti, «la devastazione del Paese». Di più: si deve
«mostrare agli arabi e ai nostri soldati che non
v’è ostacolo che ci possa arrestare». Si deve «distruggere tutto ciò che assomigli a un agglomerato permanente di popolazione». Ma senza
provocare stermini. Ciò che causa la riprovazione di Tocqueville è la conduzione della guerra
«alla maniera dei turchi, i quali uccidono tutto
ciò che incontrano». «Se non abbiamo altro
obiettivo che eguagliare i turchi, ci condanneremo per sempre a rimanere alle loro spalle: barbari per barbari, i turchi avranno sempre, rispetto a noi, il vantaggio di essere dei barbari
musulmani».
E quando il generale Thomas Robert Bugeaud farà ricorso alla tortura, immediato a lui
giungerà il plauso di Tocqueville per essere stato «il primo che abbia saputo applicare quel genere di guerra che, ai miei occhi come ai suoi, è
il solo praticabile in Africa». Dopodiché però
Tocqueville mantiene la distinzione tra il concetto di «riduzione del nemico in miseria», che
è il modo più efficace di stroncare le sue vellei-
La lotta
] Le forze
francesi
sbarcarono in
Algeria nel
giugno 1830,
sotto il regno
di Carlo X (nella
foto più in alto).
Il monarca fu
poi destituito in
luglio dalla
rivoluzione che
portò al trono
Luigi Filippo
d’Orléans (nella
foto al centro), il
quale proseguì
nella guerra di
conquista
coloniale
intrapresa nel
Nord Africa
] Il più noto
capo della
resistenza
araba alla
colonizzazione
fu l’emiro Abd
el-Kader (nella
foto più in
basso), con cui
in una prima
fase i francesi
si erano
accordati. La
lotta fu lunga e
aspra: Abd
el-Kader si
arrese nel
dicembre
1847. Ma la
conquista fu
completata
solo dieci anni
dopo, nel 1857
tà militari e la politica genocida che genera avversione irriducibile. Anche in chi la perpetra.
«L’odio che regna tra le due razze, soprattutto
nelle regioni interessate alla recente insurrezione, è uno spettacolo davvero penoso; il disprezzo e la collera riempiono ancora il cuore dei nostri ufficiali e si vede chiaramente che ai loro
occhi gli arabi sono bestie malefiche, la morte
di ciascuno di essi la considerano un bene».
Ma, dopo sedici anni di ostilità, scrive che «non
è possibile studiare i popoli barbari se non con
le armi in mano. Abbiamo sconfitto gli arabi
prima di conoscerli. È la vittoria che, creando
tutta una serie di rapporti tra noi e loro, ci ha
consentito di penetrare nei loro usi, nelle loro
idee, nelle loro credenze e ci ha infine svelato il
segreto per governarli. I progressi da noi fatti
in questo senso sono sorprendenti. Oggi, per
noi, la società indigena non ha più misteri».
Favorevole alla segregazione degli indigeni,
che gli appaiono simili a quelli d’America, è critico nei confronti delle ipotesi di una loro deportazione. Ed è altresì caustico verso talune
iniziative economiche della potenza coloniale:
«Nei dintorni di Algeri, parte delle terre fertili
sono state strappate dalle mani degli arabi e assegnate a europei che, non potendo o non volendo coltivarle, le hanno affittate a quegli stessi indigeni i quali, in tal modo, sono divenuti i
meri affittuari delle proprietà che appartenevano ai loro padri». Anche per questo «sarebbe
imprudente pensare che si possa raggiungere
facilmente e in breve tempo l’obiettivo di cancellare l’odio che la dominazione straniera fa
nascere e alimenta nel cuore delle popolazioni
indigene… ciò che possiamo ragionevolmente
sperare è di smorzare questi sentimenti ostili».
Ad ogni modo, data la scarsa propensione
degli indigeni a lasciarsi spossessare, era evidente che «per riuscire a colonizzare in misura
almeno parzialmente incisiva, sarà necessario
impiegare alcune misure non solo violente ma
anche manifestamente inique. Sarà necessario
spossessare numerose tribù e trasportarle altrove, dove verosimilmente staranno meno bene». In generale, aggiungeva, «sono decisamente contrario alle misure violente che di solito
mi paiono tanto inefficaci quanto ingiuste…
ma qui occorre riconoscere che non è possibile
trarre vantaggio dal suolo che circonda Algeri
se non per mezzo di simili misure. Dobbiamo
quindi deciderci a farne uso». Come è noto, i
francesi ne fecero uso e la loro vittoria fu solo
apparente.
È curioso che fu uno dei suoi corrispondenti
americani, Franz Liber, a mettere in guardia
Tocqueville, che non vedeva sostanziali differenze tra Algeria e Stati Uniti ed era anzi convinto che fosse «impossibile occuparsi della colonizzazione in Africa senza pensare ai grandi
esempi che gli Stati Uniti offrono in questa materia», dal lasciarsi andare a facili entusiasmi
comparativi. Nelle lettere di Liber si sottolinea
la predisposizione degli anglosassoni a farsi
corpo politico. Liber, osserva Letterio, aveva
toccato il punto: «Fu proprio a partire dal rapporto che i coloni americani, da un lato, e quelli algerini, dall’altro, intrattenevano con i nativi
delle rispettive colonie che si determinarono le
principali differenze tra le due vicende».
C’è un libro di Tiziano Bonazzi, Il sacro esperimento (Il Mulino), che spiega bene come il possente movimento migratorio proveniente dall’Europa abbia fatto degli Stati Uniti quello che
sono diventati, «neutralizzando le presenze aliene». Cosa che in Algeria non è mai avvenuta. Lì,
come altrove nell’Africa settentrionale, la sopravvivenza di una «società musulmana» ha
esposto la potenza coloniale a un secondo tempo della partita (e a una sconfitta finale) che Tocqueville non seppe intravedere se non in forme
assai vaghe. Di qui il grande interesse per questo intelligente libro di Domenico Letterio.
[email protected]
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Filosofia L’ultimo libro di Franco Rella, sulla scia di Foucault, Deleuze e Derrida, punta ad abitare creativamente gli «interstizi» della verità
Anche il nichilismo può aiutare la ricerca di un senso del vivere
di PAOLA CAPRIOLO
«C
ompito dell’arte è aprire domande là dove c’erano risposte. Dichiaro la mia adesione e la mia complicità al suo compito».
È questa una delle affermazioni chiave
di Interstizi (Garzanti, pp.118, e 13,50),
l’ultimo libro di Franco Rella, che dopo
testi come Scritture estreme e La responsabilità del pensiero segna una
nuova e importante tappa nel suo percorso filosofico.
Le risposte cui l’arte sostituisce le
sue domande sono quelle della metafisica, cioè di una forma di pensiero dominata, almeno da Platone in poi, dal
tentativo di «fare della morte un niente» per garantire la possibilità di una
conoscenza assoluta, universale, immune da qualsiasi contaminazione da parte della sfera corporea. Così, commenta
Rella, «il mondo è stato scorticato della
sua ombra. Tutto è stato invaso dalla luce accecante del pensiero puro». Eppure la morte, o meglio, quella condizione di mortalità che è il fulcro stesso del
nostro io, rimane «al fondo della grande scrittura filosofica» non meno che
della grande scrittura poetica, come
«di ogni processo creativo che arriva alla forma portando con sé le tracce dell’informe che esso ha attraversato per
diventare appunto forma». Si tratta
dunque di fare emergere queste tracce,
di esplorarne le implicazioni, per dare
luogo a un «pensiero tragico» che, come l’arte alla quale così strettamente
s’intreccia, tenti di occupare «uno spazio da cui la metafisica si è ritirata, proprio nel tempo in cui più grande è il bisogno di metafisica».
Qui non meno che nel saggio precedente, Rella insiste molto sul concetto
di responsabilità, che distingue nel modo più netto il pensiero tragico dalla de-
L’autore
Franco Rella è
nato a Rovereto
nel 1944.
È docente di
Estetica presso la
Facoltà di Design
e Arti dello
IUAV di Venezia
riva nichilistica del «postmoderno», ossia dalla «liquidazione del senso» celebrata da autori come Foucault, Deleuze
e Derrida. Se oggi infatti, ancor più che
ai tempi di Nietzsche, il mondo è «frammento e orrida casualità», ancora più
grande è «la responsabilità di dare forma e senso a questi frammenti e a questa casualità, di produrre una tensione
al senso, e persino alla verità. Almeno a
una verità. Una verità possibile». Persino se l’unico «senso» del quale si è in
grado di dare testimonianza dovesse essere, come in Beckett o in Celan,
l’inattingibilità del senso, «la distruzione delle parole che parlano il mondo».
Proprio perché si assume comunque
la responsabilità del senso, il pensiero
tragico è per sua natura anti-nichilista,
pur facendo profondamente i conti con
il «nulla», anzi, essendone addirittura
permeato. Anche in questo ne scorgiamo la stretta affinità con l’arte, con la
poesia, con quei processi creativi la cui
condizione è lo schiudersi di uno «spazio interstiziale» tra tempo e non-tempo, essere e nulla: come il momento
del risveglio in Proust; o la condizione
intermedia tra vita e morte nella quale
Kafka condanna a vagare eternamente
il suo Cacciatore Gracco. Così, attraversate le secche della cultura moderna, finiamo col riscoprire quella dimensione
di feconda ambiguità che la metafisica
aveva cancellato con il suo rigido «aut
aut», tracciando per oltre due millenni
alla riflessione filosofica la via da seguire; scopriamo, in altre parole, «il mo-
Traiettoria
Una riflessione in sintonia
con quei processi creativi
che schiudono spazi di senso
mento aurorale in cui tutto appare possibile».
Ora comprendiamo meglio l’intenzione di Rella di sostituire, alle risposte
della metafisica, le sue grandi, inesaudibili domande, mostrando «ciò che è
enigmatico in quanto enigmatico». E
non è un caso che in questo libro siano
citate più volte, come una sorta di segreto nucleo ispiratore, le parole con
cui Conrad riassume, attribuendole al
personaggio di Marlow, la sua stessa
concezione del pensiero narrativo, o
forse del pensiero tout court: «Per lui il
significato di un episodio non stava all’interno come un gheriglio, ma dall’esterno avviluppava il racconto, e questo lo svelava soltanto come una luminescenza rivela la foschia, a somiglianza di quegli aloni indistinti che talvolta
la spettrale luce della luna rende visibili».
© RIPRODUZIONE RISERVATA