Tocqueville: il Corano è la rovina degli arabi
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Tocqueville: il Corano è la rovina degli arabi
40 Martedì 12 Luglio 2011 Corriere della Sera italia: 515050585854 Cultura Il saggio Domenico Letterio esamina La guerra Dal 1830 al 1857 i francesi alcuni testi considerati «imbarazzanti» affrontano la resistenza degli indigeni Tocqueville: il Corano è la rovina degli arabi Così approvò la conquista coloniale dell’Algeria di PAOLO MIELI P rima ancora dell’America, nel cuore di Tocqueville ci fu l’Algeria. E questo sentimento durò a lungo. «Con ogni probabilità dichiareremo guerra ad Algeri», scriveva lo studioso, nell’ottobre del 1828, al cugino Louis de Kergorlay, riferendosi alla controversia economica tra Carlo X di Francia e il dey Hussein, emissario del sultano di Costantinopoli in quella che allora era una sperduta provincia dell’impero ottomano. «Questa ridicola vicenda non può andare avanti così». Previsione azzeccata. Nel 1830, una spedizione militare francese salpò in direzione di Algeri. Poi, nel 1831, Alexis de Tocqueville partì (assieme all’amico Gustave de Beaumont) per un viaggio alla volta dell’America che per un po’ gli avrebbe fatto dimenticare Algeri e che lo avrebbe reso famoso nei secoli. Doveva compiere, su incarico del governo francese, un’indagine sul sistema carcerario americano; si trattenne nel nuovo continente fino all’inizio del 1832 e, l’anno successivo, mise a punto un interessante rapporto comparativo tra il sistema penitenziario del Paese suo e di quello che aveva visitato. Il frutto più prezioso di quel viaggio fu, però, un libro (in due volumi pubblicati, il primo nel 1835, il secondo nel 1840) dal titolo La democrazia in America. Un testo molto importante, destinato a diventare, negli anni, una sorta di Bibbia del pensiero liberaldemocratico. Meno noto è che in quello stesso periodo, appena tornato in patria, Tocqueville si applicò con altrettanta (anzi, forse maggiore) passione e assiduità a un’altra terra destinata ad avere una grande importanza per la storia della Francia: quell’Algeria di cui si è detto all’inizio. Ed è a questo tema che Domenico Letterio ha dedicato un interessantissimo libro, Tocqueville ad Algeri, edito dal Mulino. «Gli scritti algerini», scrive Letterio, «restituiscono un altro Tocqueville, in non pochi casi assai lontano dal pacato intellettuale con il quale si confronta il lettore delle sue opere principali». Si riferisce, Letterio, alle pagine in cui il pensatore francese si dichiara, tra l’altro, convinto sostenitore delle razzie e dell’accanimento contro la popolazione indigena. Pagine su cui nel 2005 si è soffermato Domenico Losurdo in un libro assai polemico che voleva essere, come era chiaro già dal titolo, una Controstoria del liberalismo (Laterza). In passato gli apologeti di Tocqueville hanno minimizzato la questione, definendo gli «scritti algerini» l’«opera marginale» di un autore la cui grandezza risiederebbe «altrove». Ma, come ha giustamente osservato la studiosa Lucia Re, è sbagliato cercare di far dimenticare quelle pagine o provare a nasconderle, quasi contenessero null’altro che motivi di imbarazzo. E ciò non solo per il dovere di restituire al pensiero di Tocqueville tutta la sua ricchezza e complessità, ma anche per «sollecitare il liberalismo a confrontarsi con le sue aporie teorico-politiche». Si tratta, conferma Letterio, «di strappare all’oblio un frammento fondamentale della vicenda politica europea e di indagare il modo in cui si dispongono, nella trama complessiva del discorso tocquevilliano, alcuni dei concetti centrali per la riflessione politica occidentale, quali quelli di "individuo", "società", "ordine" e "governo"». Torniamo dunque alla spedizione di Algeri del 1830, alla quale partecipava il già citato cugino Kergorlay, il quale, come quasi tutti i suoi connazionali, riteneva che, in virtù della superiorità della artiglieria francese, la guerra sarebbe durata pochi giorni. E forse sarebbe stato così, se ad opporsi ai francesi fosse stato solo l’esercito turco e non, anche, i «beduini», cioè le avanguardie armate della popolazione locale. Kergorlay all’inizio guardò a questi beduini con una punta di apprensione. In una lettera a Tocqueville del giugno 1830 scriveva: «Molti La critica ai compatrioti «È stato un errore imperdonabile demolire le strutture portanti dell’amministrazione ottomana» arabi vengono a trattare a nome delle loro tribù. I turchi li obbligano ad attaccarci, li impiccano se si rifiutano di farlo e raccontano loro che siamo soliti sgozzare i nostri prigionieri». Strano: in quel momento i francesi si proponevano come «liberatori» dalla colonizzazione turca. E invece, scriveva ancora Kergorlay, «gli arabi — o beduini, non si capisce mai con chi abbiamo a che fare — sono una razza infame e spregevole; prima uccidono, poi tagliano la testa e le membra per farsele pagare dal dey… è impressionante la loro feroce ingenuità». In luglio ci fu l’attacco definitivo dei francesi alla città di Algeri, nel corso del quale i «liberatori», forse anche perché i tempi di attesa erano stati molto più lunghi del previsto (il che Bibliografia Quando un liberale invoca la mano dura S’intitola Tocqueville ad Algeri. Il filosofo e l’ordine coloniale (Il Mulino, pp. 240, € 23) il libro che Domenico Letterio ha dedicato alla posizione del pensatore francese sulle vicende del Nord Africa. Dei suoi scritti su Islam e mondo arabo si sono occupati anche Domenico Losurdo nella Controstoria del liberalismo (Laterza) e Paolo Ercolani, curatore dell’antologia di Tocqueville Un ateo liberale (Dedalo). Da segnalare anche la biografia di Umberto Coldagelli Vita di Tocqueville, pubblicata da Donzelli. non è una giustificazione), si comportarono da selvaggi distruggendo acquedotti, marmi, vasche, ornamenti, sculture. «Fu triste», avrebbe scritto Pellissier de Reynaud negli «Annales algériennes», «vedere il popolo più civilizzato del mondo dare agli algerini quell’esempio di vandalismo». Quell’estate la Francia fu distratta dalla «rivoluzione di luglio»: Carlo X fu costretto ad abdicare e salì al trono Luigi Filippo d’Orléans. E fu in quel luglio che, per i francesi, l’Algeria cessò di essere una «terra liberata» e diventò una colonia. Ma, negli anni successivi — quelli in cui Tocqueville si occupò della democrazia in America — in Algeria mise radici un vasto movimento di resistenza, per debellare il quale la Francia dispiegò una vera e propria politica di sterminio. E quando Tocqueville, nell’estate del 1837, tornò ad occuparsene nelle Lettres sur l’Algérie, è con quella politica che dovette fare i conti. Per prima cosa osservò che «non vi sarebbero tirannie se gli oppressori non trovassero tra gli oppressi i loro strumenti. I turchi selezionarono alcune tribù, alle quali concessero privilegi e indipendenza a patto che li aiutassero ad asservire gli altri. All’interno delle tribù sulle quali gravava il loro giogo, inoltre, si garantirono con strumenti analoghi, soprattutto l’esenzione dal pagamento delle imposte, il sostegno di quell’aristocrazia di cui vi ho parlato. In tal modo poterono servirsi degli arabi per dominare gli arabi». Letterio nota come agli occhi di Tocqueville sia stato un imperdonabile errore dei francesi far fuori la classe dirigente ottomana, le cui competenze sarebbero tornate utili per governare gli indigeni. Ma, prosegue, «ancor più grave era stata la scelta di disfarsi degli archivi dell’amministrazione precedente». «Per cancellare le vestigia della dominazione nemica», scriveva Tocqueville, «abbiamo avuto cura di distruggere o di bruciare i documenti scritti, i registri amministrativi, tutte le testimonianze che avrebbero potuto perpetuare una traccia di ciò che è stato fatto prima del nostro arrivo». Così facendo i francesi avevano prodotto un «naufragio universale dello stato di cose precedente» e con le ceneri degli archivi ottomani si era volatilizzata «qualunque possibilità di dare una base certa ai titoli di proprietà». Il risultato fu che la nuova amministrazione incamerò un’enorme quantità di beni «nel più totale disprezzo del diritto e dei diritti». Nel 1837 poi i francesi compirono un altro passo che Tocqueville individuò subito come un errore. Per battere Ahmed di Costantina, che aveva resistito per sette anni, essi stipularono un’alleanza (il «trattato della Tafna») con L’impressione iniziale «Algeri è un miscuglio di razze e di costumi... Sono tutti indaffarati in un’attività febbrile… È la città di Cincinnati trasportata in Africa» Abd el-Kader, al quale, in cambio della neutralità, riconobbero la sovranità sulla regione di Orano e su ampie frazioni di quella di Algeri. Con quell’atto avevano consacrato, senza accorgersene, il futuro uomo guida della resistenza algerina. «È indubbio che le popolazioni che non hanno ancora un capo», prevedeva Tocqueville, «si metteranno presto nelle mani di Abd el-Kader; alla luce di ciò non ha alcun senso distruggere o fare anche solo vacillare il potere dei leader arabi indipendenti… Noi faremo l’anarchia e l’anarchia farà la potenza di Abd el-Kader». A questo punto Tocqueville, per comprendere meglio la questione algerina, avvertì l’esigenza di mettersi a leggere il Corano. Anzi, come scriveva, a «studiarlo»: «Non sono ancora tentato di diventare musulmano, il profeta non mi seduce affatto; ma bisogna ammettere che, al di là dei suoi vaneggiamenti, era un uomo estremamente abile; è difficile immaginare un compromesso più ingegnoso tra spiritualismo e materialismo, tra l’angelo e la bestia». «La dottrina secondo cui la fede dona la salvezza, l’idea che La questione musulmana «La vocazione profonda dell’Islam alla violenza e alla sensualità è evidente a ogni uomo sensato Poche religioni sono così funeste» Allori Assegnato il prestigioso riconoscimento giapponese per le arti. Tra i cinque anche Seiji Ozawa (musica) e Judi Dench (teatro) Tokyo, a Bill Viola, Kapoor e Legorreta il Premio Imperiale di PIERLUIGI PANZA S ono Bill Viola (Usa, per l’arte), Anish Kapoor (Gran Bretagna, per la scultura), Ricardo Legorreta (Messico, per l’architettura), Seiji Ozawa (Giappone, per la musica) e Judi Dench (Gran Bretagna, per il teatro) i vincitori del Praemium Imperiale della dinastia giapponese per il 2011. Gli artisti sono premiati «per l’influenza esercitata sul mondo dell’arte internazionale» e «per il contributo dato alla comunità mondiale». Ciascuno riceverà un premio di 15 milioni di yen (circa 130 mila euro), un diploma e una medaglia che saranno conferiti dal patrono della Japan Art Association, il principe Hitachi, durante la cerimonia di premiazione che si svolgerà a Tokyo il 19 ottobre. Pur stralciando i vincitori delle sezioni musica e teatro, resta abbastanza difficile, per noi oggi, individuare le con- I vincitori BILL VIOLA Nato a New York nel 1951, si è affermato come videoartista. Ha lavorato con Bruce Nauman e Nam June Paik ANISH KAPOOR Scultore e architetto indiano nato a Bombay nel 1954 da padre indiano e da madre ebrea irachena RICARDO LEGORRETA Nato a Vilchis in Messico nel 1931, si è affermato con la Pershing Square di Los Angeles nessioni tra i premiati. Viola è un artista affermatosi con video che muovono dall’arte religiosa del Rinascimento, Kapoor uno «scultore» apolide imbevuto di misticismo e Legorreta un architetto della postmodernità che ha trionfato a Los Angeles. Ma proprio ciò dovrebbe indurci a una riflessione. È sorprendente che il giapponese Praemium Imperiale — dal 1989 uno dei più importanti allori d’arte del mondo — sia l’unico-ultimo riconoscimento che premia quelle che l’Europa colta ha per secoli riunito sotto il cappello delle Cinque Belle arti secondo il modello stabilito dall’abate Batteaux nel 1746 (Les Beaux-Arts réduits à un même principe), pur con qualche slittamento verso la poesia e l’identificazione tra danza e teatro. È il Giappone, e non la madre Europa, a riconoscere una continuità epistemologica tra queste cinque arti, che ci appaiono oggi irriducibili nei metodi e nei fini più ancora di quanto ciò non sembrasse già a Lessing. Una continuità che, con il contemporaneo slittamento verso la performatività persino delle vecchie arti del disegno (pittura, scultura e architettura), appare straordinariamente up-to-date. E così, mentre in Occidente il Turner Prize, l’Oscar, il Pritzker... sembrano testimoniare una irriducibile differenza tra queste discipline nate dal Cinquecento in sistemi unificati, l’Oriente percepisce la persistenza di nessi espressivi e sociali. Dal 1989 sono 114 gli artisti che hanno ricevuto il Praemium Imperiale, mol- Il paradosso Il riconoscimento giapponese è l’unico che premia quelle che erano le Belle arti europee ti dei quali nomi già precedentemente affermati nella rete internazionale della comunicazione artistica come Claudio Abbado, Gae Aulenti, Ingmar Bergman, Luciano Berio, Leonard Bernstein, Peter Brook, Christo, Federico Fellini, Norman Foster, Frank Gehry, Jean-Luc Godard, David Hockney, Akira Kurosawa, Mario Merz, Renzo Piano, Arnaldo Pomodoro, Robert Rauschenberg, Mstislav Rostropovich. L’anno scorso vennero premiati tre italiani: Castellani, Loren e Pollini. La scelta di alcuni nomi di fama mondiale è forse condizionata anche dai consiglieri internazionali del premio: Lamberto Dini, Klaus-Dieter Lehmann, William H. Luers, François Pinault, Christopher Patten e Yasuhiro Nakasone. Nonché da consiglieri onorari come Jacques Chirac, David Rockefeller e Helmut Schmidt. © RIPRODUZIONE RISERVATA Corriere della Sera Martedì 12 Luglio 2011 Cultura 41 italia: 515050585854 servita solo da «pretesto»: «Sono infatti convinto che siamo stati attaccati da stranieri e da conquistatori più che come cristiani». La passione per l’Algeria in Tocqueville cresceva sempre di più. Nel 1840 decise di recarvisi di persona. E nel 1841 partì. La prima impressione che ricevette da Algeri fu più che positiva. Ebbe quasi la sensazione di essere «tornato in America». «È un incredibile miscuglio di razze e di costumi… Sono tutti indaffarati in un’attività febbrile… È la città di Cincinnati trasportata sul suolo d’Africa», scrisse alla moglie il 7 maggio del 1841. E ancora: «Nel bel mezzo del disordine che vi regna, essa è provvista di una singolare vitalità … È un caos che annuncia la nascita di un mondo nuovo». A renderlo un po’ inquieto fu l’architettura delle case: «Non è semplicemente dettata dal clima torrido, ma rappresenta a meraviglia lo stato sociale e politico delle popolazioni musulmane e orientali: la poligamia, il sequestro delle donne, l’assenza di una vita pubblica, un governo tirannico e ombroso che cela i propri meccanismi e le proprie affezioni del cuore all’interno della famiglia». È un Tocqueville quasi entusiasta. Presto però si rende conto che il vero problema è la resistenza delle popolazioni locali e passa a dare quei suggerimenti che tanto imbarazzo hanno poi creato ai suoi estimatori. Il 23 maggio del 1841 (giorno in cui il vescovo di Algeri gli aveva parlato di «un’enorme stanchezza della guerra, un enorme terrore per il modo in cui essa è condotta dai francesi, un’enorme miseria cui essa condanna gli arabi») così scrive al cugino Kergorlay: «Vi sono buone ragioni per sperare che una guerra di razzia ben condotta costringerà Abd el-Kader a chiedere la pace, o quantomeno porterà una parte delle tribù a prendere le distanze da lui. Succederà allora nella provincia di Orano e in quella di Algeri un qualcosa di analogo a quello che succede oggi nella provincia di Costantina. I francesi domineranno le regioni interne e ciò consentirà loro di colonizza- La consapevolezza «Stiamo conducendo il conflitto in maniera barbara e feroce ma punire le tribù è inevitabile» il primo di tutti i doveri religiosi è la cieca obbedienza al profeta, l’idea che la guerra santa è la prima di tutte le buone opere… Tutte queste dottrine, di cui evidenti sono gli effetti pratici, si ritrovano a ogni pagina… Nel Corano la vocazione alla violenza e alla sensualità è talmente evidente che non capisco come possa sfuggire a un uomo di buon senso». Alla base di queste riflessioni, puntualizza Letterio, «c’era l’assunzione di una serie di luoghi comuni, in primis quello che traduceva il termine jihad con "guerra santa", comprimendo in maniera artificiosa e fuorviante la polisemia di uno dei vocaboli più fraintesi della lingua araba». Può darsi che sia vero. In ogni caso Tocqueville terminò la lettura del Corano con convinzioni nette: «Maometto ha esercitato un’influenza enorme sulla specie umana, un’influenza, a ben vedere, più nociva che salutare». E ancora, in una lettera del 1843 ad Arthur de Gobineau: «Vi confesso che sono uscito da tale studio con la convinzione che vi sono poche religioni al mondo tanto funeste per gli uomini quanto quella di Maometto; essa è, a mio parere, la causa principale della decadenza oggi così evidente del mondo musulmano. È meno assurda del politeismo antico, ma dal momento che le sue tendenze sociali e politiche sono infinitamente più temibili, la considero, anche in rapporto al paganesimo, una decadenza piuttosto che un progresso». Anche se, poi, aggiungeva che, pur avendo la religione giocato un ruolo importante nelle «guerre contro di noi in Africa», essa era Il pensatore Alexis de Tocqueville (1805-1859) scrisse «La democrazia in America» (1835-40). Nell’immagine grande: lo scontro di Habrah tra francesi e ribelli algerini in un dipinto di Horace Vernet re i dintorni di Algeri. È questo il vero obiettivo che la Francia deve perseguire, la dominazione non è altro che un mezzo». E quando a fine autunno tornerà in patria, aggiungerà: «Se la Francia indietreggiasse davanti a un’impresa in cui essa non ha di fronte altro che le difficoltà naturali del Paese e l’opposizione delle piccole tribù barbare che lo abitano, essa sembrerà cedere agli occhi del mondo sotto il peso della propria impotenza e soccombere per il suo difetto di cuore. Qualunque popolo che abbandoni con facilità ciò che ha conquistato e che si ritiri spontaneamente all’interno dei suoi antichi confini proclama che i bei tempi della sua storia sono passati. Esso entra con ogni evidenza nella fase del suo declino». Avanti con la guerra e la colonizzazione, dunque. E il modello americano lo illumina sul da farsi: «rimpiazzare gli antichi abitanti» con la «razza conquistatrice». Proprio così, con queste parole: «Ci sono due modi di conquistare un Paese: il primo è mettere i suoi abitanti sotto la propria autorità e governarli, direttamente o indirettamente. È il sistema degli inglesi in India. Il secondo è rimpiazzare gli antichi abitanti con la razza conquistatrice. Gli europei hanno agito quasi sempre così… Ci sono delle persone che pensano ancora che i francesi debbano limitarsi a dominare l’Algeria senza voler colonizzare. Lo studio della questione mi ha convinto del contrario». Qualcuno all’epoca proponeva di tentare, almeno in una fase intermedia, una convivenza. No, risponde Tocqueville. «La sola idea comune che possa servire da legame tra tutte le tribù che ci circondano è la religione, il solo sentimento comune che consenta di sottometterle a un medesimo giogo è l’odio verso lo straniero e l’infedele che è venuto a invadere il loro Paese. Il principe che governerà queste tribù sarà tanto più potente e tanto più sicuro nel suo potere, quanto più esalterà e infiammerà simili sentimenti e idee comuni. Il suo governo sarà tanto più solido e tanto più forte quanto più stimolerà contro di noi fanatismo e odio». Perciò l’unica via percorribile sarebbe stata quella di «continuare i nostri sforzi, per quanto possano essere faticosi, per spingere la guerra in tutte le direzioni, e senza dare agli arabi il tempo di respirare». Abd el-Kader è più forte, molto più forte, di quanto fossero i turchi. Più pericoloso. E più duttile. Non gli si può dare tregua. È capace di allearsi con chiunque. «Lasciare qualche punto importante nelle mani degli arabi significa regalare una posizione ben difesa e un rifugio alla prima potenza cristiana che si troverà in lotta contro di noi. Significa fornire ai nostri nemici un modo facile per entrare in contatto con gli indigeni e dichiararci guerra». Ma i metodi usati dalla Francia per debellare Abd el-Kader suscitano perplessità in Tocqueville, che torna in Francia con «l’affliggente consapevolezza del fatto che in questo momento facciamo la guerra in maniera molto più barbara di quanto non la facciano gli arabi stessi; allo stato attuale, è dal loro lato che si trova la civilizzazione; questa maniera di condurre la guerra mi pare tanto insensata quanto crudele». Ma come, lui stesso non si era forse pronunciato a favore delle razzie? In effetti ancora adesso dice di non «ritenere criminale che si brucino i raccolti, che si vuotino i silos, che ci si impadronisca degli uomini disarmati, delle donne e dei bambini… queste, a mio parere, sono delle necessità spiacevoli, ma alle quali ogni popolo che voglia fare la guerra agli arabi è obbligato a sottomettersi». Se in Europa non si dà fuoco ai raccolti, «è perché generalmente si fa la guerra ai governi e non ai popoli; se si fanno prigionieri solamente i soldati, è perché gli eserciti tengono duro e le popolazioni civili non si sottraggono alla conquista… in una parola, è perché si trova ovunque un modo di impadronirsi del potere politico senza colpire i governati». In Algeria, invece, non è possibile distruggere «la potenza di Abd el-Kader se non rendendo la condizione delle tribù che lo sostengono talmente insopportabile da costringerle ad abbandonarlo». A tal fine bisogna procedere a quella che lui stesso chiama, senza infingimenti, «la devastazione del Paese». Di più: si deve «mostrare agli arabi e ai nostri soldati che non v’è ostacolo che ci possa arrestare». Si deve «distruggere tutto ciò che assomigli a un agglomerato permanente di popolazione». Ma senza provocare stermini. Ciò che causa la riprovazione di Tocqueville è la conduzione della guerra «alla maniera dei turchi, i quali uccidono tutto ciò che incontrano». «Se non abbiamo altro obiettivo che eguagliare i turchi, ci condanneremo per sempre a rimanere alle loro spalle: barbari per barbari, i turchi avranno sempre, rispetto a noi, il vantaggio di essere dei barbari musulmani». E quando il generale Thomas Robert Bugeaud farà ricorso alla tortura, immediato a lui giungerà il plauso di Tocqueville per essere stato «il primo che abbia saputo applicare quel genere di guerra che, ai miei occhi come ai suoi, è il solo praticabile in Africa». Dopodiché però Tocqueville mantiene la distinzione tra il concetto di «riduzione del nemico in miseria», che è il modo più efficace di stroncare le sue vellei- La lotta ] Le forze francesi sbarcarono in Algeria nel giugno 1830, sotto il regno di Carlo X (nella foto più in alto). Il monarca fu poi destituito in luglio dalla rivoluzione che portò al trono Luigi Filippo d’Orléans (nella foto al centro), il quale proseguì nella guerra di conquista coloniale intrapresa nel Nord Africa ] Il più noto capo della resistenza araba alla colonizzazione fu l’emiro Abd el-Kader (nella foto più in basso), con cui in una prima fase i francesi si erano accordati. La lotta fu lunga e aspra: Abd el-Kader si arrese nel dicembre 1847. Ma la conquista fu completata solo dieci anni dopo, nel 1857 tà militari e la politica genocida che genera avversione irriducibile. Anche in chi la perpetra. «L’odio che regna tra le due razze, soprattutto nelle regioni interessate alla recente insurrezione, è uno spettacolo davvero penoso; il disprezzo e la collera riempiono ancora il cuore dei nostri ufficiali e si vede chiaramente che ai loro occhi gli arabi sono bestie malefiche, la morte di ciascuno di essi la considerano un bene». Ma, dopo sedici anni di ostilità, scrive che «non è possibile studiare i popoli barbari se non con le armi in mano. Abbiamo sconfitto gli arabi prima di conoscerli. È la vittoria che, creando tutta una serie di rapporti tra noi e loro, ci ha consentito di penetrare nei loro usi, nelle loro idee, nelle loro credenze e ci ha infine svelato il segreto per governarli. I progressi da noi fatti in questo senso sono sorprendenti. Oggi, per noi, la società indigena non ha più misteri». Favorevole alla segregazione degli indigeni, che gli appaiono simili a quelli d’America, è critico nei confronti delle ipotesi di una loro deportazione. Ed è altresì caustico verso talune iniziative economiche della potenza coloniale: «Nei dintorni di Algeri, parte delle terre fertili sono state strappate dalle mani degli arabi e assegnate a europei che, non potendo o non volendo coltivarle, le hanno affittate a quegli stessi indigeni i quali, in tal modo, sono divenuti i meri affittuari delle proprietà che appartenevano ai loro padri». Anche per questo «sarebbe imprudente pensare che si possa raggiungere facilmente e in breve tempo l’obiettivo di cancellare l’odio che la dominazione straniera fa nascere e alimenta nel cuore delle popolazioni indigene… ciò che possiamo ragionevolmente sperare è di smorzare questi sentimenti ostili». Ad ogni modo, data la scarsa propensione degli indigeni a lasciarsi spossessare, era evidente che «per riuscire a colonizzare in misura almeno parzialmente incisiva, sarà necessario impiegare alcune misure non solo violente ma anche manifestamente inique. Sarà necessario spossessare numerose tribù e trasportarle altrove, dove verosimilmente staranno meno bene». In generale, aggiungeva, «sono decisamente contrario alle misure violente che di solito mi paiono tanto inefficaci quanto ingiuste… ma qui occorre riconoscere che non è possibile trarre vantaggio dal suolo che circonda Algeri se non per mezzo di simili misure. Dobbiamo quindi deciderci a farne uso». Come è noto, i francesi ne fecero uso e la loro vittoria fu solo apparente. È curioso che fu uno dei suoi corrispondenti americani, Franz Liber, a mettere in guardia Tocqueville, che non vedeva sostanziali differenze tra Algeria e Stati Uniti ed era anzi convinto che fosse «impossibile occuparsi della colonizzazione in Africa senza pensare ai grandi esempi che gli Stati Uniti offrono in questa materia», dal lasciarsi andare a facili entusiasmi comparativi. Nelle lettere di Liber si sottolinea la predisposizione degli anglosassoni a farsi corpo politico. Liber, osserva Letterio, aveva toccato il punto: «Fu proprio a partire dal rapporto che i coloni americani, da un lato, e quelli algerini, dall’altro, intrattenevano con i nativi delle rispettive colonie che si determinarono le principali differenze tra le due vicende». C’è un libro di Tiziano Bonazzi, Il sacro esperimento (Il Mulino), che spiega bene come il possente movimento migratorio proveniente dall’Europa abbia fatto degli Stati Uniti quello che sono diventati, «neutralizzando le presenze aliene». Cosa che in Algeria non è mai avvenuta. Lì, come altrove nell’Africa settentrionale, la sopravvivenza di una «società musulmana» ha esposto la potenza coloniale a un secondo tempo della partita (e a una sconfitta finale) che Tocqueville non seppe intravedere se non in forme assai vaghe. Di qui il grande interesse per questo intelligente libro di Domenico Letterio. [email protected] © RIPRODUZIONE RISERVATA Filosofia L’ultimo libro di Franco Rella, sulla scia di Foucault, Deleuze e Derrida, punta ad abitare creativamente gli «interstizi» della verità Anche il nichilismo può aiutare la ricerca di un senso del vivere di PAOLA CAPRIOLO «C ompito dell’arte è aprire domande là dove c’erano risposte. Dichiaro la mia adesione e la mia complicità al suo compito». È questa una delle affermazioni chiave di Interstizi (Garzanti, pp.118, e 13,50), l’ultimo libro di Franco Rella, che dopo testi come Scritture estreme e La responsabilità del pensiero segna una nuova e importante tappa nel suo percorso filosofico. Le risposte cui l’arte sostituisce le sue domande sono quelle della metafisica, cioè di una forma di pensiero dominata, almeno da Platone in poi, dal tentativo di «fare della morte un niente» per garantire la possibilità di una conoscenza assoluta, universale, immune da qualsiasi contaminazione da parte della sfera corporea. Così, commenta Rella, «il mondo è stato scorticato della sua ombra. Tutto è stato invaso dalla luce accecante del pensiero puro». Eppure la morte, o meglio, quella condizione di mortalità che è il fulcro stesso del nostro io, rimane «al fondo della grande scrittura filosofica» non meno che della grande scrittura poetica, come «di ogni processo creativo che arriva alla forma portando con sé le tracce dell’informe che esso ha attraversato per diventare appunto forma». Si tratta dunque di fare emergere queste tracce, di esplorarne le implicazioni, per dare luogo a un «pensiero tragico» che, come l’arte alla quale così strettamente s’intreccia, tenti di occupare «uno spazio da cui la metafisica si è ritirata, proprio nel tempo in cui più grande è il bisogno di metafisica». Qui non meno che nel saggio precedente, Rella insiste molto sul concetto di responsabilità, che distingue nel modo più netto il pensiero tragico dalla de- L’autore Franco Rella è nato a Rovereto nel 1944. È docente di Estetica presso la Facoltà di Design e Arti dello IUAV di Venezia riva nichilistica del «postmoderno», ossia dalla «liquidazione del senso» celebrata da autori come Foucault, Deleuze e Derrida. Se oggi infatti, ancor più che ai tempi di Nietzsche, il mondo è «frammento e orrida casualità», ancora più grande è «la responsabilità di dare forma e senso a questi frammenti e a questa casualità, di produrre una tensione al senso, e persino alla verità. Almeno a una verità. Una verità possibile». Persino se l’unico «senso» del quale si è in grado di dare testimonianza dovesse essere, come in Beckett o in Celan, l’inattingibilità del senso, «la distruzione delle parole che parlano il mondo». Proprio perché si assume comunque la responsabilità del senso, il pensiero tragico è per sua natura anti-nichilista, pur facendo profondamente i conti con il «nulla», anzi, essendone addirittura permeato. Anche in questo ne scorgiamo la stretta affinità con l’arte, con la poesia, con quei processi creativi la cui condizione è lo schiudersi di uno «spazio interstiziale» tra tempo e non-tempo, essere e nulla: come il momento del risveglio in Proust; o la condizione intermedia tra vita e morte nella quale Kafka condanna a vagare eternamente il suo Cacciatore Gracco. Così, attraversate le secche della cultura moderna, finiamo col riscoprire quella dimensione di feconda ambiguità che la metafisica aveva cancellato con il suo rigido «aut aut», tracciando per oltre due millenni alla riflessione filosofica la via da seguire; scopriamo, in altre parole, «il mo- Traiettoria Una riflessione in sintonia con quei processi creativi che schiudono spazi di senso mento aurorale in cui tutto appare possibile». Ora comprendiamo meglio l’intenzione di Rella di sostituire, alle risposte della metafisica, le sue grandi, inesaudibili domande, mostrando «ciò che è enigmatico in quanto enigmatico». E non è un caso che in questo libro siano citate più volte, come una sorta di segreto nucleo ispiratore, le parole con cui Conrad riassume, attribuendole al personaggio di Marlow, la sua stessa concezione del pensiero narrativo, o forse del pensiero tout court: «Per lui il significato di un episodio non stava all’interno come un gheriglio, ma dall’esterno avviluppava il racconto, e questo lo svelava soltanto come una luminescenza rivela la foschia, a somiglianza di quegli aloni indistinti che talvolta la spettrale luce della luna rende visibili». © RIPRODUZIONE RISERVATA