SUL DELTA DEL PO LA VONGOLA È D`ORO
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SUL DELTA DEL PO LA VONGOLA È D`ORO
Settimana N° 24 (16-22 novembre) SUL DELTA DEL PO LA VONGOLA È D'ORO Scritto da Giulia Biguzzi Immaginate un paesino del delta del Po. Una comunità che basa la sua economia sulla pesca, sulla coltivazione della barbabietola e del bambù. Immaginate ora che nel giro di trent'anni questa economia venga completamente rivoluzionata dalla scoperta di un mercato che porta una ricchezza impensabile. A Goro non hanno trovato il petrolio, ma la vongola verace. Di origine Filippina, questa vongola è stata introdotta grazie al lavoro di Francesco Paesanti, biologo. La redazione di Sottobosco si è fatta un giro in paese, e l'ha incontrato. Dottor Paesanti,quando ha iniziato ad interessarsi dell'area di Goro? “Subito dopo la mia laurea. All'inizio degli anni '80 i pescatori di Goro erano organizzati in un Consorzio,e in quegli anni era sorta la necessità di avere una figura che si occupasse di questioni igienico-sanitarie. Eravamo nel periodo appena successivo all'epidemia di colera di Napoli, e la comunità aveva realizzato un primo centro di depurazione dei molluschi. Serviva un biologo per risolvere problemi sanitari, come ad esempio verificare l'efficacia depurativa del processo. Ho diretto questo laboratorio, e nel corso degli anni all'interno della Cooperativa sono nate esigenze di sviluppo della comunità. A quel tempo in quella zona si praticava la pesca, non l'allevamento di vongole. Grazie all'appoggio del presidente della cooperativa Poldo Bianchi ho avuto la possibilità di viaggiare e ricercare all'esterno di questo piccolo paese quali opportunità si potessero offrire. Abbiamo cominciato testando inizialmente l'allevamento delle cozze, poi verso il 1985 abbiamo iniziato ad inserire la vongola verace (o filippina) che è quella che ha ottenuto più successo. Le prime prove sono state fatte nel 1983 da un centro di ricerca di Chioggia,il Costav,ed io ho preso contatti immediatamente con il dottor Paolo Breder,che si occupava già di vongole veraci autoctone, ed era venuto a studiare l'adattamento di questa specie qui a Goro. Così è La vongola d'oro iniziata l'avventura.” Poi, come sappiamo, è stato un enorme successo. Ma perché si è scelto proprio Goro per introdurre questo tipo di coltura? “Non si è privilegiato Goro in realtà. Il dottor Breder aveva scelto questo tipo di vongole testandole a Chioggia. Poi nel 1986 abbiamo introdotto, sempre acquistandolo dall'Inghilterra, del seme a Goro.” A distanza di venticinque anni che cambiamento può aver causato l'introduzione di questo tipo di coltura? “Si può dire che sia stata una manna venuta dal cielo, perché quest'animale non ha preso il posto di altri,anche se la Sacca di Goro era interessata da una specie autoctona, di cui tra l'altro oggi sto promuovendo la reintroduzione. Le caratteristiche che ha questa specie Filippina sono tali per cui trovando un ambiente idoneo favorevole nel Delta del Po, si riproduce regolarmente,ha una grande quantità di seme, cresce con una rapidità estrema,non ha tanti o troppi predatori come possono essercene in altre zone, perciò c'è questo continuo sviluppo della produzione.” Quindi sembra essere un sistema talmente sicuro da avere portato ricchezza, un cambiamento nell'economia di tutto il paese; è vero che si può parlare di allevamento di mare? “Esatto; già con l'introduzione delle tecniche di allevamento delle cozze, nei primissimi anni 80, siamo riusciti ad incrementare di molto la produzione, da mille a circa cinquemila tonnellate. Già in quel momento si era visto che la Sacca di Goro era molto ricca di nutrimento. Poi abbiamo cercato di capire se ci fossero altre specie adatte all'allevamento in zona, ed abbiamo scoperto questa. Oggi che c'è la possibilità di far riprodurre anche la specie autoctona io mi sto impegnando perché questo avvenga. A Goro questa specie è stata introdotta da due anni con grande soddisfazione dell'Ente Parco. Qui da noi, comunque, la Filippina continua a riprodursi perché la gente è attratta dal seme naturale, non dal dover acquistare un altro seme da laboratorio.” Facendo un giro per la cittadina, e parlando con i pescatori, si nota come ci sia un problema per le licenze, riuscire ad entrare in modo legale in questo mercato sembra essere una cosa abbastanza difficile. “Io ho fatto una grossa battaglia in questi ultimi 8-10 anni per rendere l'attività di acquacoltura equiparabile all'attività di agricoltura. Perché si parla appunto di un ambiente ad alto rischio con problemi di caldo, mareggiate ecc..gli stessi pericoli climatici a cui può sottostare un agricoltore. Il governo italiano ha fatto sua questa proposta, ed oggi siamo a tutti gli effetti ad un regime agricolo. Lo stesso ente di Ferrara ha riconosciuto che chi sviluppa attività di acquacoltura e quindi di allevamento di vongole, di cozze viene definito più agricoltore che pescatore. Questo dà modo di pagare regolari tasse, senza eccedere con i numeri come chi invece sta pagando nel settore industriale ed artigianale. Il porto di Goro I pescatori l'hanno capito e non provano più per niente interessante rivolgersi al mercato del nero. Da due anni siamo già tutti a regime agricolo, perciò il discorso dell'abusivismo è chiuso.” Ascoltando la versione di alcuni pescatori in paese, le opinioni sulla facilità di ottenere licenze, e sulla pesca abusiva più in generale, sembrano diverse da quelle del Dottor Paesanti. Sottobosco se ne occuperà la settimana prossima. (Foto di Giulia Biguzzi) I TRANELLI DEL BOLLINO VERDE: ALLA RICERCA DEL VERO BIOLOGICO Scritto da Lou Del Bello Abbiamo spesso parlato di agricoltura, di coltivazioni intensive e di biologico, dando la parola a politici, studiosi del campo o coltivatori biologici. Ecco oggi una voce nuova, ma di grande peso per capire davvero quali siano i problemi del settore agricolo in Emilia-Romagna, ma soprattutto come siano strettamente legati all'economia e alla grande distribuzione. Abbiamo incontrato Gastone T., un coltivatore diretto che nel suo terreno vicino a Goro, tra l'omonimo braccio del Po e il mare, pratica un'agricoltura convenzionale, impiegando sostanze di sintesi per la crescita delle piante. “Dei dieci ettari che possiedo, quattro sono coltivati a ortaggio e i restanti sono lasciati a colture estensive, come mais o erba medica. All'inizio della mia attività ero socio di una cooperativa, ma da quindici anni lavoro in proprio vendendo il mio prodotto anche nei mercati. Oggi tiro avanti grazie alla mia esperienza, ormai ho un'attività consolidata, ma in generale gli agricoltori sono in difficoltà gravissima, per diverse ragioni. Primo, la concorrenza degli altri paesi della Comunità Europea, che immettono sul mercato grandi quantità di prodotto ad un prezzo inferiore. Nonostante i costi di trasporto, riescono a vincere anche sul nostro mercato perché i produttori di altri stati non sono soggetti alle stesse regole che dobbiamo seguire noi in Italia. In molti di questi paesi, come anche in Africa, non c'è nessun controllo né sullo sfruttamento della manodopera né tantomeno sull'uso indiscriminato di sostanze chimiche, il che consente di fare prezzi stracciati”. Quello delle sostanze chimiche, poi, è un discorso ben più complicato del luogo comune che vede i pesticidi come un nemico di cui si è alleati o oppositori in assoluto. “La legge – spiega infatti Gastone - prescrive l'uso di certe sostanze che giudica innocue per la salute, tra queste concimi (potassio, fosforo, azoto) e alcuni insetticidi. Questi vanno sparsi sulle piante in dosi e modalità rigidamente stabilite”. E qui il primo nodo arriva al pettine: “Anche se ogni coltivatore ha il dovere di registrare data di spargimento e quantità, i controlli diretti sono pochi, e rendono le prescrizioni quasi inutili. Se do un insetticida alle mie piante, teoricamente dovrei aspettare un tot di giorni perché l'effetto nocivo, una volta uccisi i parassiti, svanisca del tutto, ma questo significa perdere quella parte di prodotto che era già matura sulla pianta. Quanti lo fanno? Inoltre, la legge cambia col tempo. Negli anni Ottanta mi era consentito spargere sostanze che oggi sono considerate tossiche, chi mi dice che quello che uso oggi domani non si scopra essere nocivo? E attenzione, perché la stessa cosa vale per il tanto acclamato prodotto biologico: i concimi che oggi hanno il bollino verde non necessariamente sono rispettosi dell'ambiente”. Quindi anche le verdure biologiche non sono sempre prive di sostanze chimiche? A questa domanda, Gastone risponde con un sorriso amaro: “In Italia il biologico, soprattutto nella grande distribuzione, non esiste. E' una truffa. Ti faccio un esempio. Immagina che io abbia un pezzo di terra, per metà coltivato normalmente e per metà col metodo bio: primo, è facilissimo che avvengano contaminazioni tramite l'acqua o le sostanze nebulizzate, Ma soprattutto, al momento della raccolta, chi controlla che io non colga i prodotti normali e non li spacci come provenienti dalla parte biologica del campo? Economicamente, è una cosa molto conveniente perché il biologico costa di più”. Ma allora, per mangiare un cibo sicuro non ci si può fidare nemmeno del biologico? Abbiamo voluto approfondire questa nuova e inquietante prospettiva girando la domanda ai soci di Campiaperti, associazione per la sovranità alimentare che opera nel bolognese e fa del biologico la propria bandiera. Esordisce Germana: “Esiste un'agricoltura industriale e un'agricoltura contadina, esiste un'agricoltura industriale convenzionale e un'agricoltura industriale biologica, l'agricoltura contadina anche può essere convenzionale o biologica. Per quanto riguarda l'agricoltura biologica industriale condivido molte delle osservazioni, ma mi dispiace che queste critiche assolutamente giustificate ignorino l'esistenza dell'agricoltura contadina biologica. Noi abbiamo una certa esperienza di ortaggi e minore esperienza con la frutta. Ma la frutta biologica si può fare, e in abbondanza. Solo, non si può prendere un frutteto e dire: da oggi lo gestisco in modo biologico. Bisogna impostare un'azienda biologica, fare scelte varietali, colturali, di mercato, diverse. Questo è il motivo per cui è difficile far cambiare idea ai vecchi agricoltori, perché in genere hanno delle aziende che con il tempo sono state impostate sulla chimica, sul mercato all'ingrosso, e non possono cambiare da un momento all'altro". Fa eco Alda: “E' vero che i grandi colossi del biologico hanno la possibilità di aggirare la legge in molti modi, infatti occorre un rapporto reciproco di fiducia tra coproduttore (definiamo così il consumatore a Campiaperti) e produttore: piccole aziende vere, da toccare con mano, da visitare, che credono in quello che fanno..e che credono di potere cambiare le persone, la qualità della vita e del territorio”. Ma l'agricoltura contadina biologica, che sembra la soluzione ideale per garantire la bontà degli alimenti, è un modello economico altrettanto buono? E' cioè in grado di soddisfare la richiesta alimentare di un territorio o resta un privilegio per pochi consumatori più ricchi o più attenti? “Anche io mi chiedevo la stessa cosa – risponde Michela pensando che queste piccole aziende non riuscirebbero a soddisfare il fabbisogno della popolazione. Ma, qui, si sta parlando di resistenza. La resistenza di persone che decidono di poter coltivare come ritengono giusto la propria terra, senza aver paura, di non inquinarla e di rispettarla. Questo significa resistere, perché, ad oggi, questi contadini sono una minoranza. Che dice no ai pesticidi, che dice no all'ogm, che dice no alla monocoltura, che dice no ad ingrandirsi. Perché, se un cambiamento mai ci sarà, non avverrà a tavolino con qualche studioso che dice 'sì, i piccoli agricoltori potrebbero soddisfare il fabbisogno di tutta la popolazione', ma avverrà dopo che tante persone, una dopo l'altra, avranno scelto di resistere, senza aver paura”. Il tema della “paura” degli agricoltori convenzionali ritorna in molte testimonianze, sia in quella di Gastone che dei soci di Campiaperti, e non si tratta di un'iperbole come potrebbe sembrare. Si tratta invece di un timore legato al sistema della grande distribuzione, che stritola la piccola concorrenza ma soprattutto i produttori. Di questo parleremo la settimana prossima. (Foto di Giulia Biguzzi) LA GALLINA DALLE UOVA DI PIOMBO: CHI PAGA PER LO SMALTIMENTO? Scritto da Lou Del Bello “Tutto quello che viene dal suolo dovrebbe tornare ad esso”. Non è solo una massima che ricorda la filosofia orientale, è anche un ottimo consiglio per la gestione sensata del territorio. Ed è in effetti la prima cosa che mi dice David Newman, direttore del Consorzio Italiano Compostatori, quando gli chiedo se il compost è davvero una risorsa per la terra, oltre che un modo ecologico di smaltire i rifiuti organici. “Ci sono tre questioni da considerare quando si parla di compost – spiega - la prima è quella 'filosofica', che appunto prevede il ritorno della materia organica alla terra. L'uomo con la sua attività industriale modifica l'ambiente spogliando il suolo della parte superficiale, lo strato organico che lo rende fertile. Senza questa parte, si ha la desertificazione, che già aumenta spontaneamente nel pianeta di anno in anno. Se non restituiamo alla terra ciò che le togliamo artificialmente, non facciamo che incentivare questo fenomeno”. Il secondo punto, riguarda le tecniche di produzione del compost, in altre parole di smaltimento dei rifiuti organici. La settimana scorsa abbiamo trattato l'argomento parlando di pollina, e da qui riprendiamo il discorso del suo impatto: “La pollina si può anche spargere sui campi senza alcun tipo di trattamento, di per sé non è nociva. Tuttavia, a meno che lo spargimento non venga fatto in dosi molto controllate, provoca un eccesso di nitrati e fosforo che non solo non va bene per il terreno, ma tende ad essere dilavato dalle acque piovane inquinando i canali e provocandone l'eutrofizzazione. Inoltre, la pollina non trattata crea anche problemi di cattivo odore”. La tecnica per risolvere questi problemi è molto semplice, arcinota sia agli allevatori che ai lettori di Sottobosco: il compostaggio. “Si mette la pollina insieme ad altri materiali organici, come ad esempio gli sfalci di potatura delle piante, e la si digerisce in appositi contenitori attraverso un processo di biodegradazione accelerata. Nessun additivo artificiale, per ottenere questo processo basta insufflare aria. Il procedimento è lo stesso della letamaia che ogni contadino aveva nella propria fattoria qualche decennio fa, una tecnica conosciuta e applicata da sempre. Il risultato è un prodotto sicuro, controllato e igienico, che non ha problemi di odore e viene certificato in base a parametri che in Italia sono tra i più severi del mondo”. L'ostacolo sta quindi al terzo punto della nostra lista, manco a dirlo alla voce economia: “Il problema è che in Italia gli allevatori, così come la maggioranza dei produttori industriali, sono abituati a considerare la ricaduta ambientale delle loro attività come un aspetto di cui non sono responsabili. La società e lo Stato dovrebbero farsi carico del loro inquinamento e dei loro rifiuti. Per questo è sempre più frequente il fenomeno dell'ecodumping, ossia il trasferimento degli investimenti o delle attività in Paesi in cui non esistono, o sono particolarmente ridotti, gli standard ambientali da rispettare”. Insomma, scarichiamo i nostri costi ambientali su altri, preferibilmente lontani. Tornando alla pollina di casa nostra, invece, facciamo due conti in tasca agli allevatori: il corretto smaltimento del guano costerebbe loro tra i 50 e i 60 euro la tonnellata, il che comporterebbe un incremento, seppur minimo, del costo della carne. “Non solo questo non è conveniente – osserva Newman – ma oggi diventa pressoché impossibile vista la concorrenza feroce che viene dai paesi in via di sviluppo, come la Cina. Per questo problema, purtroppo, non c'è soluzione, a meno che i consumatori non comincino a preferire un prodotto la cui filiera sia controllata dall'inizio alla fine, anche a fronte di un piccolo aumento di prezzo. Ovviamente, è un'ipotesi improbabile, come quella che si imponga per legge un corretto smaltimento dei rifiuti a tutti gli allevatori italiani. Un simile provvedimento infatti non risolverebbe niente, farebbe solo spostare il mercato all'estero, in Paesi dove il settore fosse meno regolamentato. Insomma, come Consorzio non possiamo che alzare le mani e arrenderci di fronte ad una situazione in cui non possiamo avere un ruolo attivo, ma solo mettere a Illustrazione da Flickr disposizione le nostre tecnologie e servizi”. Se a livello nazionale è difficile incidere sulla situazione, in ambito locale le amministrazioni potrebbero però fare molto, incentivando lo smaltimento ecologico della pollina e scoraggiando l'apertura di nuovi inceneritori. Ma la polemica dopo oltre vent'anni è ancora lontana dallo spegnersi, e il braccio di ferro tra allevatori e cittadini preoccupati della propria salute e dell'ambiente ancora non ha un vincitore. PASSEGGIATE TRA VERDE E STORIA. IL GIARDINO DELLE ERBE DI CASOLA VALSENIO Scritto da Laura Simoni Avete mai assaggiato una giuggiola, una nespola, una sorba? Sapete su che pietanze usare l’aroma della pimpinella o quali insaporire con del levistico? Conoscete l’inebriante profumo di un elicriso o di un pelargonium? Se questi nomi non vi dicono nulla o addirittura vi turbano (chi mai si comprerebbe una crema di caprifoglio?) è giunto il momento di fare un giro, per oggi solo virtuale, al Giardino delle Erbe di Casola Valsenio, in provincia di Ravenna. Il giardino botanico, inaugurato nel 1975, nasce alla fine degli anni Trenta per volere di un giovane di nome Augusto Rinaldi Ceroni che decide di raccogliere, coltivare e proteggere le numerose piante officinali delle colline intorno al suo paese. Il venticinquenne, conosciuto dai Casolani come il Professore, capì ben presto quali pericoli stesse correndo il patrimonio naturalistico dei suoi territori d’origine, messo a rischio prima dalla guerra e poi dal boom economico e industriale. Grazie alle sue ricerche botaniche le coltivazioni del luogo sono state preservate fino ai giorni nostri, a dispetto dei tempi bui, e arricchite con fiori e arbusti non autoctoni, facendo del piccolo borgo ravennate “il paese delle erbe e dei frutti dimenticati”. Molte le feste dedicate al “ricordo” della flora misconosciuta: da “Erbe in Fiore” di fine maggio, alla “Festa del Marrone” a metà ottobre; dal “Mercatino Serale delle Erbe” nei venerdì di luglio e agosto, alla classica “Festa dei Frutti Dimenticati” il terzo week end di ottobre. Attendendo le manifestazioni primaverili, possiamo colmare le nostre lacune e soddisfare le curiosità nascenti recandoci, in un’ultima giornata di sole autunnale, presso il Giardino delle Erbe, aperto al pubblico dal lunedì al venerdì. In oltre 4 ettari di terreni coltivati, potremmo farci guidare dai profumi o dai colori di piante dalle forme bizzarre, esplorare i sentieri lussureggianti tra 400 varietà di erbe, oppure passeggiare tra le fioriture lilla della Strada della Lavanda, fingendo di essere in una “piccola Provenza”. Il visitatore più esigente potrà documentarsi all’interno del centro, tra i laboratori e l’olfattoteca (ne avete mai annusata una?). Infine ammirare, toccare, odorare, assaporare i prodotti preparati con le piante officinali del giardino. Che aspettate? Sbizzarritevi, sviluppando i sensi e la memoria tra le meraviglie naturali per nostra fortuna non Foto da ilgiardinodelleerbe.it ancora perdute. L'INSOSTENIBILE PREZZO DI UNA BISTECCA Scritto da Gabriele Fittipaldi In occasione della settimana indetta dall'Unesco per l'educazione allo sviluppo sostenibile si è tenuto alla biblioteca ecosostenibile del Cestas un incontro dal titolo “Per il futuro della Terra fai la tua parte!”. Stefano Momentè, presidente e fondatore dell'associazione VeganItalia, ha presentato una lezione sulla crisi alimentare e sull'impatto ecologico del cibo, animando il successivo dibattito con il pubblico, attento e partecipe. Il costo dell'alimentazione carnivora per l'ambiente è altissimo. Stefano Momentè esordisce ricordando ai presenti i dati del rapporto della FAO intitolato “L'ombra lunga del bestiame”. Dallo studio emerge che il 70% dei terreni coltivabili sono utilizzati per l'allevamento di bestiame e la coltivazione di cereali necessari alla loro alimentazione. Se non fossero destinati a mangimi per animali i prodotti agricoli sarebbero sufficienti a sfamare l'intera popolazione mondiale. Una mucca da latte per dissetarsi beve 200 litri di acqua al giorno, un suino 20. Per produrre un Kg di carne di manzo servono 15500 litri di acqua, per un Kg di mais ne bastano 900. Tirando le somme il 70% dell'acqua potabile viene destinata alla zootecnia. Oltre al consumo di terreni e di acqua l'allevamento intensivo produce l'80% delle emissioni di gas serra di tutto il comparto agricolo e il 18% delle emissioni complessive mondiali. Più dell'intero settore dei trasporti. Ma non è ancora finita. Per guastare del tutto l'appetito basta sapere che in un anno una mucca da latte produce 30 volte il suo peso in feci che vengono poi disperse nei campi come concime. Oltre a causare il 65% delle emissioni di ossido d'azoto (un gas serra 200 volte più dannoso dell'anidride carbonica) si inquinano i terreni per via dei farmaci e degli antibiotici somministrati agli animali e presenti nel letame. Per non parlare del metano che gli erbivori emettono durante la digestione... Foto da Flickr Il problema però non è il consumo attuale ma quello futuro. Nel 2020 la domanda di carne dei paesi in via di sviluppo sarà doppia rispetto al 1995. Se convertendo tutti gli allevamenti industriali in biologici non si potrebbe soddisfare neanche la richiesta attuale, che cosa possiamo fare? L'unica soluzione è consumare meno carne. Per sensibilizzare al problema a Ghent in Belgio è stato istituito il Veggie Day, un giorno alla settimana rigorosamente vegetariano per combattere i cambiamenti climatici. In Italia invece si sta facendo ancora poco. In attesa che la proposta di legge per garantire l’opzione vegetariana nei luoghi di ristoro pubblici e privati firmata da Andrea Sarubbi e Gabriella Giammanco sia approvata, alcuni comuni come Milano e Venezia l'hanno già introdotta nelle loro mense. Avere la possibilità di scegliere cosa mangiare è un piccolo passo in avanti. Mangiare meno carne o passare ad una alimentazione vegetariana può essere una via efficace per combattere il riscaldamento globale. Ma come tutti i cambiamenti che riguardano il nostro stile di vita non ci può venire imposto, deve essere una adesione volontaria, basata sulla consapevolezza dell'impatto che hanno le nostre azioni quotidiane sull'ambiente. Iniziative come il World Vegetarian Day anche se da sole non possono essere la soluzione, servono comunque per parlare del problema attraverso i mezzi di comunicazione, cassa di risonanza per informare correttamente i cittadini. Per sensibilizzare le generazioni future al problema dei cambiamenti climatici occorre utilizzare il linguaggio del marketing e combattere i grossi poteri commerciali con le loro stesse armi. Parlare spesso e poco, ma soprattutto positivamente. Il cambio di alimentazione lo possiamo fare da subito, senza delegare ad altri. PIÙ CLOROFILLA PER TUTTI! Scritto da Giada Andrea Baccini C'è chi li distrugge e chi invece li festeggia. Fortunatamente sono tanti i Comuni d'Italia che quest'anno hanno deciso di festeggiare gli alberi, Bologna lo fa con una manifestazione che, dal 14 al 30 Novembre, coinvolge tutta la città nelle più svariate attività. Per questa occasione, mostre, passeggiate, laboratori e visioni di film accompagnano persone di tutte le fasce d'età alla riscoperta degli esseri viventi ai quali siamo maggiormente legati perché garanti di una delle funzioni vitali, la respirazione. La Festa degli Alberi è iniziata sabato 14 Novembre con l'inaugurazione della mostra “Raccolte d'albero” organizzata dall'Associazione Villa Ghigi, che dal 2001 si occupa di educazione ambientale. La mostra, in esposizione all'Urban Center fino al 28 novembre, vuole illustrare i momenti del lavoro di osservazione naturalistica in cui vengono coinvolti i bambini a Villa Ghigi. Oltre a un'esposizione di foto che rappresentano i bambini durante il lavoro con lo staff, è presente una sezione in cui vengono esposti foglie, cortecce, rami e altre parti di alberi. Al termine della mostra, i bambini troveranno uno spazio in cui esplorare questo stesso materiale, per farne delle piccole opere d'arte o più semplicemente per giocare. Il programma della manifestazione prosegue poi con una serie di laboratori e passeggiate. I laboratori “Gli alberi: i cattura CO2” e “Come fanno gli alberi a riprodursi? La natura osservata dai poeti e dai naturalisti” assieme alle tre passeggiate all'orto botanico, al parco di Villa Ghigi e a quello del Paleotto, esplorano il mondo degli alberi da tutti i punti di vista: dalla scoperta delle varie specie di alberi della vegetazione locale, con relativi usi e credenze popolari legate alle diverse specie, si passa all'osservazione delle trasformazioni che avvengono con il cambio delle stagioni, per arrivare all'illustrazione di processi quali la produzione di ossigeno e la riproduzione. Non mancano letture animate e presentazioni di libri, ma il fulcro della manifestazione è sicuramente la piantagione degli alberi. Il 23 Novembre, nella Scuola Primaria Croce Coperta, i bambini insieme a genitori ed insegnanti pianteranno nel giardino della struttura una serie di salici piangenti; a scegliere questa romantica pianta sono stati proprio loro, in seguito al laboratorio di progettazione partecipata svolto con la Fondazione Villa La festa degli alberi Ghigi. Contemporaneamente, nel Giardino Ex Lunetta Mariotti, due generazioni distanti tra loro, gli anziani ortolani e i bambini, troveranno nella piantagione di alberi il loro punto d'incontro. BUS NOTTURNI: 61 E 62 AL CAPOLINEA? Scritto da Alessandro Kostis Il 61 e il 62 sono due linee strane: si tratta di due autobus notturni bolognesi frequentati per lo più da studenti fuori sede che non posseggono un'auto, ma spesso capita anche che ci incontri qualcuno che le usa come dormitorio mobile, non avendo altro posto in cui andare. Io vivo a Bologna da sempre e su quegli autobus ci sarò salito due o tre volte in tutto. Diciamo che quando esco la sera non metto neanche in conto la possibilità di usare i mezzi pubblici. Sia perché la fermata più vicina a casa mia è a mezzo chilometro, sia perché, sinceramente, non ho mai capito il tragitto che fanno. Sono due autobus che in pratica dovrebbero coprire tutta la città, ma che in realtà lasciano ampie zone periferiche non servite. Né il 61 né il 62 passano per il Pilastro, per esempio. Anche Casalecchio di Reno e San Lazzaro, due importanti comuni della cintura bolognese, non sono toccati. In più, vista la pretesa di passare in più zone possibili, entrambi questi autobus fanno un percorso labirintico, la cui memorizzazione è impossibile. Aggiungiamoci che la frequenza delle corse è una all'ora (e le due linee non hanno orari in coincidenza) e potete capire anche voi perché sono costretto, come tanti altri, a inventarmi di tutto per spostarmi di notte in città. Ben venga dunque, la proposta lanciata dal gruppo Sempreverdi Associati di sostituire il 61 e il 62 con un prolungamento delle linee portanti giornaliere (11, 13, 14, 19, 20 e 27) con corse notturne ogni mezz'ora. “In questo modo la città sarebbe servita in modo molto più capillare e ciò, ovviamente, aumenterebbe anche la sicurezza dei cittadini, non più costretti a fare lunghi tragitti a piedi dalla fermata a casa”, ci spiega Alessandra Da Fré, presidente del gruppo. “Bologna è una città universitaria che conta 100.000 studenti, di cui il 90% non possiede un auto. Come pretendiamo che si spostino di notte questi ragazzi? Poi non meravigliamoci se le iscrizioni all'Ateneo calano drasticamente”. In realtà l'idea non è del tutto nuova: già nel periodo Cofferati il Comune fece un preventivo per il prolungamento notturno di alcune linee portanti. Il costo si aggirava sul milione di euro e si preferì lasciar perdere. Ma da una piccola ricerca condotta dai Sempreverdi emergono dati che fanno guardare a quel preventivo come a qualcosa di conveniente: “Noi abbiamo semplicemente fatto una paragone con i dati ACI dell'anno scorso;” continua la Da Fré, “abbiamo considerato le spese a carico del comune nel caso di incidenti stradali, cioè quelle sanitarie e quelle di rilievo dei vigili. Quindi abbiamo moltiplicato i 368 gli incidenti notturni nel 2008 per la spesa sanitaria media e il costo di un rilievo dei vigili. Il risultato? 3.900.000 €. Non è meglio prevenire una parte di questi Foto da Flickr incidenti con un sistema di mezzi pubblici notturni più valido?”. Per ora sappiate che i Sempreverdi hanno già iniziato la loro raccolta firme per presentare poi la petizione all'amministrazione. Li potete trovare ogni secondo venerdì del mese allo Scalo San Donato: il prossimo appuntamento è per venerdì 11 dicembre con una serata musicale che vedrà ospite il gruppo Brainsquad. Qualche segnale positivo dal Comune c'è, vista anche la recente creazione della navetta notturna dalla stazione per i locali più fuori mano. Vedremo se al pari di molte altre città in futuro avremo anche noi un servizio notturno che possa realmente definirsi tale. ACQUA BENE COMUNE, MA FINO A QUANDO? Scritto da Filippo Piredda Come spiegava Alessandro Kostis la settimana scorsa, sono questi i giorni decisivi per le nostre acque. Dopo l'approvazione in Senato lo scorso 4 novembre, lunedì 16 alla Camera inizierà la discussione sull'Art.15 del DL 135/09 che consente la privatizzazione dei servizi idrici. Dal 2010 le Amministrazioni pubbliche finora proprietarie a maggioranza della società che gestiscono ed erogano servizi pubblici locali (trasporti, energia, raccolta e smaltimento rifiuti), dovranno avere quote societarie minoritarie di fatto perdere il controllo sul bene primario per eccellenza. I privati invece saranno obbligatoriamente individuati mediante "procedura ad evidenza pubblica, dovrà essere socio operativo con una quota di partecipazione non inferiore al 40%". Il forum italiano dei movimenti per l'acqua, come spiega il dominio del loro sito, www.acquabenecomune.org, ritengono di esser di fronte ad una svendita "agli interessi delle grandi multinazionali e a un nuovo business per i privati e per le Banche". Per questo propongono una petizione, finora giunta a 21406 firme. Ho intercettato Andrea Caselli, della Cgil Bologna e del Comitato Acqua Bene Comune di Bologna, a radiocitta'fujiko (trovate l'intera trasmissione qui), per farmi spiegare cosa può succedere nella nostra città, e come si muoveranno enti locali, istituzioni e municipalizzate se il decreto verrà convertito in legge dello Stato. CASELLI. "La premessa maggiore di questo provvedimento è infondata. Privatizzare in questo caso non significa aumentare concorrenza e ottimizzare il servizio, perché non saranno costruiti vari acquedotti che le società gestiranno in competizione tra loro. Ci sarà sempre un acquedotto comunale che la società vincitrice dell'appalto gestirà in monopolio. Quindi la legge non soddisfa la sua ratio". Come sappiamo bene a Bologna e in altre province della Regione l'acqua è gestita da Hera, società ex-municipalizzata, per il 60% pubblica e per il resto quotata in borsa. Le azioni pubbliche sono di proprietà dei Comuni, in un simile scenario quale sarebbe il ruolo di queste istituzioni locali? Potrebbero opporsi o trovare una scappatoia come già altrove accade? CASELLI. Il sindaco di Bologna, Flavio Delbono, ha pubblicamente assunto una posizione che condivido pienamente: quando la legge sarà in vigore si chiederà alla Regione Emilia Romagna di impugnare la legge, come ha già fatto sul nucleare, davanti la Corte Costituzionale. Il governo non può decidere come gli enti locali debbono fare gli affidamenti dei propri servizi. Mi associo a Delbono e alla Regione. Inoltre le amministrazioni pubbliche nei loro statuti dovrebbero dichiarare il servizio idrico bene comune fondamentale e servizio non a rilevanza economica. In questo modo l'acqua potrebbe uscire dal contesto normativo della legge. Quali società potrebbero investire nell'acqua? Non pensa che potrebbero cominciare aziende che non hanno competenze ed esperienze sufficienti nel settore? CASELLI. Ci sono vari tipi di aziende, alcune sono multinazionali consolidate. A Parigi ad esempio fino a dieci anni fa il servizio era privato ed è tornato pubblico. Tra pubblico e privato cambia il fine dell'azienda: un privato ha come scopo il profitto e non il miglior servizio al minor prezzo per il cittadino/utente. Ad esempio nel settore dell'acqua gli investimenti hanno un ritorno quasi solo di lungo periodo, quale privato potrebbe avere interesse ad un guadagno fra dieci anni? A Latina le tariffe sono aumentate del 200% ed ora i residenti sono giustamente in rivolta. Infine è da sottolineare come le legge prevede la vendita entro il 2015 delle quote pubbliche. E' evidente come una vendita obbligata, con data di scadenza già stabilita comporti una rincorsa al ribasso dell'ultimo momento. SIRIO CHIUDE UN OCCHIO A NATALE Scritto da Alessandro Kostis I commercianti possono tirare un sospiro di sollievo. La crisi sarà combattuta a colpi di metalli pesanti. La città sotto Natale diventerà meno vivibile grazie al via libera allo spegnimento del vigile elettronico tanto invocato dalle associazioni di categoria in queste settimane. Nelle domeniche pre-natalizie, nel giorno dell'Immacolata e il 24 e 25 dicembre, si potrà dunque entrare in centro con i mezzi privati, tutti quanti. Dove parcheggeranno non se lo sta chiedendo nessuno, ma va bene così. I pochi parcheggi privati dentro le mura si sfregano le mani. Le casse del comune anche, prevedendo le centinaia di multe in arrivo per divieto di sosta. Passa quindi l'idea che la crisi economica si combatta anche attraverso un'apertura indiscriminata del centro storico cittadino alle auto. Nessuna sorpresa insomma. Si era capito fin da subito che la nuova giunta ci teneva ai buoni rapporti con Ascom, Confesercenti, ecc. Con buona pace dei già non numerosi turisti che si ritroveranno in una giungla di traffico e smog e magari l'anno prossimo passeranno le vacanze natalizie da un'altra parte. Nessuna sorpresa nemmeno per quel che riguarda l'ottica dei commercianti che anziché privilegiare un centro più vivibile, un'oasi del pedone che viene a rilassarsi e magari anche a comprarsi qualcosa, vedono in Sirio il male assoluto. Vedremo cosa diranno i dati sugli acquisti dopo Natale. Insomma il Comune di Bologna sceglie il prevedibile compromesso, non chiedendo a nessuno cosa ne pensa se non alle associazioni di categoria. Nessuna novità neanche in questo caso. Foto da Flickr Tuttavia il presidente di Confesercenti Sergio Ferrari non è del tutto contento. Non tutti i suoi desideri sono stati esauditi. Chiedeva infatti lo spegnimento totale delle telecamere dall'8 al 31 dicembre, mentre il presidente dell'Ascom Enrico Postacchini aveva avanzato la proposta di anticipare lo spegnimento si Sirio alle 18 dal primo dicembre all'Epifania. Richieste quindi accettate solo in parte dall'amministrazione che si è però detta disponibile, per voce dell'assessore alla mobilità Simonetta Saliera, a rivedere il Piano traffico voluto a suo tempo dall'ex assessore Zamboni, “per rendere più appetibile il centro, soprattutto alle famiglie”. Così i bambini saranno liberi di scorrazzare tra una macchina e l'altra, vien da pensare. In cambio il Comune ottiene la non belligeranza sulle domeniche senz'auto previste da Gennaio a Marzo. In realtà si tratta di solo tre domeniche comprese in questo periodo che dovrebbero vedere la completa pedonalizzazione del centro storico, da non confondersi quindi con i giovedì senz'auto voluti dalla Regione che permettono comunque la circolazione di alcuni veicoli. Aspettandoci il peggio anche dal ventilato alleggerimento del Piano Traffico, continuiamo a chiederci cosa ne sarà della pedonalizzazione della zona universitaria o del progetto BiciBo che erano contenuti nel programma elettorale di Delbono. Bisognerà aspettare l'ok dell'Ascom anche in questo caso? E cosa vorrà in cambio questa volta?