SUL DELTA DEL PO LA VONGOLA È D`ORO

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SUL DELTA DEL PO LA VONGOLA È D`ORO
Settimana N° 24 (16-22 novembre)
SUL DELTA DEL PO LA VONGOLA È D'ORO
Scritto da Giulia Biguzzi
Immaginate un paesino del delta del Po. Una comunità che basa la sua economia sulla pesca, sulla coltivazione
della barbabietola e del bambù. Immaginate ora che nel giro di trent'anni questa economia venga completamente
rivoluzionata dalla scoperta di un mercato che porta una ricchezza impensabile. A Goro non hanno trovato il
petrolio, ma la vongola verace. Di origine Filippina, questa vongola è stata introdotta grazie al lavoro di Francesco
Paesanti, biologo. La redazione di Sottobosco si è fatta un giro in paese, e l'ha incontrato.
Dottor Paesanti,quando ha iniziato ad interessarsi dell'area di Goro?
“Subito dopo la mia laurea. All'inizio degli anni '80 i pescatori di Goro
erano organizzati in un Consorzio,e in quegli anni era sorta la necessità
di avere una figura che si occupasse di questioni igienico-sanitarie.
Eravamo nel periodo appena successivo all'epidemia di colera di Napoli,
e la comunità aveva realizzato un primo centro di depurazione dei
molluschi. Serviva un biologo per risolvere problemi sanitari, come ad
esempio verificare l'efficacia depurativa del processo.
Ho diretto questo laboratorio, e nel corso degli anni all'interno della
Cooperativa sono nate esigenze di sviluppo della comunità. A quel tempo
in quella zona si praticava la pesca, non l'allevamento di vongole. Grazie
all'appoggio del presidente della cooperativa Poldo Bianchi ho avuto la
possibilità di viaggiare e ricercare all'esterno di questo piccolo paese
quali opportunità si potessero offrire. Abbiamo cominciato testando
inizialmente l'allevamento delle cozze, poi verso il 1985 abbiamo iniziato
ad inserire la vongola verace (o filippina) che è quella che ha ottenuto più
successo. Le prime prove sono state fatte nel 1983 da un centro di ricerca
di Chioggia,il Costav,ed io ho preso contatti immediatamente con il
dottor Paolo Breder,che si occupava già di vongole veraci autoctone, ed
era venuto a studiare l'adattamento di questa specie qui a Goro. Così è
La vongola d'oro
iniziata l'avventura.”
Poi, come sappiamo, è stato un enorme successo. Ma perché si è scelto proprio Goro per introdurre questo
tipo di coltura?
“Non si è privilegiato Goro in realtà. Il dottor Breder aveva scelto questo tipo di vongole testandole a Chioggia.
Poi nel 1986 abbiamo introdotto, sempre acquistandolo dall'Inghilterra, del seme a Goro.”
A distanza di venticinque anni che cambiamento può aver causato l'introduzione di questo tipo di coltura?
“Si può dire che sia stata una manna venuta dal cielo, perché quest'animale non ha preso il posto di altri,anche se
la Sacca di Goro era interessata da una specie autoctona, di cui tra l'altro oggi sto promuovendo la reintroduzione.
Le caratteristiche che ha questa specie Filippina sono tali per cui trovando un ambiente idoneo favorevole nel
Delta del Po, si riproduce regolarmente,ha una grande quantità di seme, cresce con una rapidità estrema,non ha
tanti o troppi predatori come possono essercene in altre zone, perciò c'è questo continuo sviluppo della
produzione.”
Quindi sembra essere un sistema talmente sicuro da avere portato ricchezza, un cambiamento
nell'economia di tutto il paese; è vero che si può parlare di allevamento di mare?
“Esatto; già con l'introduzione delle tecniche di allevamento delle cozze, nei primissimi anni 80, siamo riusciti ad
incrementare di molto la produzione, da mille a circa cinquemila tonnellate. Già in quel momento si era visto che
la Sacca di Goro era molto ricca di nutrimento. Poi abbiamo cercato di capire se ci fossero altre specie adatte
all'allevamento in zona, ed abbiamo scoperto questa. Oggi che c'è la possibilità di far riprodurre anche la specie
autoctona io mi sto impegnando perché questo avvenga. A Goro questa specie è stata introdotta da due anni con
grande soddisfazione dell'Ente Parco. Qui da noi, comunque, la Filippina continua a riprodursi perché la gente è
attratta dal seme naturale, non dal dover acquistare un altro seme da laboratorio.”
Facendo un giro per la cittadina, e parlando con i pescatori, si nota come ci sia un problema per le licenze,
riuscire ad entrare in modo legale in questo mercato sembra essere una cosa abbastanza difficile.
“Io ho fatto una grossa battaglia in questi ultimi 8-10 anni per rendere l'attività di acquacoltura equiparabile
all'attività di agricoltura. Perché si parla appunto di un ambiente ad alto rischio con problemi di caldo, mareggiate
ecc..gli stessi pericoli climatici a cui può
sottostare un agricoltore. Il governo
italiano ha fatto sua questa proposta, ed
oggi siamo a tutti gli effetti ad un regime
agricolo. Lo stesso ente di Ferrara ha
riconosciuto che chi sviluppa attività di
acquacoltura e quindi di allevamento di
vongole, di cozze viene definito più
agricoltore che pescatore. Questo dà modo
di pagare regolari tasse, senza eccedere con
i numeri come chi invece sta pagando nel
settore industriale ed artigianale.
Il porto di Goro
I pescatori l'hanno capito e non provano
più per niente interessante rivolgersi al
mercato del nero. Da due anni siamo già
tutti a regime agricolo, perciò il discorso
dell'abusivismo è chiuso.”
Ascoltando la versione di alcuni pescatori in paese, le opinioni sulla facilità di ottenere licenze, e sulla pesca
abusiva più in generale, sembrano diverse da quelle del Dottor Paesanti. Sottobosco se ne occuperà la settimana
prossima. (Foto di Giulia Biguzzi)
I TRANELLI DEL BOLLINO VERDE: ALLA RICERCA DEL VERO
BIOLOGICO
Scritto da Lou Del Bello
Abbiamo spesso parlato di agricoltura, di coltivazioni intensive e di biologico, dando la parola a politici, studiosi
del campo o coltivatori biologici. Ecco oggi una voce nuova, ma di grande peso per capire davvero quali siano i
problemi del settore agricolo in Emilia-Romagna, ma soprattutto come siano strettamente legati all'economia e
alla grande distribuzione. Abbiamo incontrato Gastone T., un coltivatore diretto che nel suo terreno vicino a Goro,
tra l'omonimo braccio del Po e il mare, pratica un'agricoltura convenzionale, impiegando sostanze di sintesi per la
crescita delle piante.
“Dei dieci ettari che possiedo, quattro sono coltivati a ortaggio e i restanti sono lasciati a colture estensive, come
mais o erba medica. All'inizio della mia attività ero socio di una cooperativa, ma da quindici anni lavoro in proprio
vendendo il mio prodotto anche nei mercati. Oggi tiro avanti grazie alla mia esperienza, ormai ho un'attività
consolidata, ma in generale gli agricoltori sono in difficoltà gravissima, per diverse ragioni. Primo, la concorrenza
degli altri paesi della Comunità Europea, che immettono sul mercato grandi quantità di prodotto ad un prezzo
inferiore. Nonostante i costi di trasporto, riescono a vincere anche sul nostro mercato perché i produttori di altri
stati non sono soggetti alle stesse regole che dobbiamo seguire noi in Italia. In molti di questi paesi, come anche in
Africa, non c'è nessun controllo né sullo sfruttamento della manodopera né tantomeno sull'uso indiscriminato di
sostanze chimiche, il che consente di fare prezzi stracciati”.
Quello delle sostanze chimiche, poi, è un discorso ben più complicato del luogo comune che vede i pesticidi come
un nemico di cui si è alleati o oppositori in assoluto. “La legge – spiega infatti Gastone - prescrive l'uso di certe
sostanze che giudica innocue per la salute, tra queste concimi (potassio, fosforo, azoto) e alcuni insetticidi. Questi
vanno sparsi sulle piante in dosi e modalità rigidamente stabilite”.
E qui il primo nodo arriva al pettine: “Anche se ogni coltivatore ha il dovere di registrare data di spargimento e
quantità, i controlli diretti sono pochi, e rendono le prescrizioni quasi inutili. Se do un insetticida alle mie piante,
teoricamente dovrei aspettare un tot di giorni perché l'effetto nocivo, una volta uccisi i parassiti, svanisca del tutto,
ma questo significa perdere quella parte di prodotto che era già matura sulla pianta. Quanti lo fanno? Inoltre, la
legge cambia col tempo. Negli anni Ottanta mi era consentito spargere sostanze che oggi sono considerate
tossiche, chi mi dice che quello che uso oggi domani non si scopra essere nocivo? E attenzione, perché la stessa
cosa vale per il tanto acclamato prodotto biologico: i concimi che oggi hanno il bollino verde non necessariamente
sono rispettosi dell'ambiente”.
Quindi anche le verdure biologiche non sono
sempre prive di sostanze chimiche? A questa
domanda, Gastone risponde con un sorriso amaro:
“In Italia il biologico, soprattutto nella grande
distribuzione, non esiste. E' una truffa. Ti faccio
un esempio. Immagina che io abbia un pezzo di
terra, per metà coltivato normalmente e per metà
col metodo bio: primo, è facilissimo che
avvengano contaminazioni tramite l'acqua o le
sostanze nebulizzate, Ma soprattutto, al momento
della raccolta, chi controlla che io non colga i
prodotti normali e non li spacci come provenienti
dalla
parte
biologica
del
campo?
Economicamente, è una cosa molto conveniente
perché il biologico costa di più”.
Ma allora, per mangiare un cibo sicuro non ci si può fidare nemmeno del biologico? Abbiamo voluto approfondire
questa nuova e inquietante prospettiva girando la domanda ai soci di Campiaperti, associazione per la sovranità
alimentare che opera nel bolognese e fa del biologico la propria bandiera.
Esordisce Germana: “Esiste un'agricoltura industriale e un'agricoltura contadina, esiste un'agricoltura industriale
convenzionale e un'agricoltura industriale biologica, l'agricoltura contadina anche può essere convenzionale o
biologica. Per quanto riguarda l'agricoltura biologica industriale condivido molte delle osservazioni, ma mi
dispiace che queste critiche assolutamente giustificate ignorino l'esistenza dell'agricoltura contadina biologica.
Noi abbiamo una certa esperienza di ortaggi e minore esperienza con la frutta. Ma la frutta biologica si può fare, e
in abbondanza. Solo, non si può prendere un frutteto e dire: da oggi lo gestisco in modo biologico. Bisogna
impostare un'azienda biologica, fare scelte varietali, colturali, di mercato, diverse. Questo è il motivo per cui è
difficile far cambiare idea ai vecchi agricoltori, perché in genere hanno delle aziende che con il tempo sono state
impostate sulla chimica, sul mercato all'ingrosso, e non possono cambiare da un momento all'altro".
Fa eco Alda: “E' vero che i grandi colossi del biologico hanno la possibilità di aggirare la legge in molti modi,
infatti occorre un rapporto reciproco di fiducia tra coproduttore (definiamo così il consumatore a Campiaperti) e
produttore: piccole aziende vere, da toccare con mano, da visitare, che credono in quello che fanno..e che credono
di potere cambiare le persone, la qualità della vita e del territorio”.
Ma l'agricoltura contadina biologica, che sembra la soluzione ideale per garantire la bontà degli alimenti, è un
modello economico altrettanto buono? E' cioè in grado di soddisfare la richiesta alimentare di un territorio o resta
un privilegio per pochi consumatori più ricchi o più attenti?
“Anche io mi chiedevo la stessa cosa – risponde Michela pensando che queste piccole aziende non riuscirebbero a
soddisfare il fabbisogno della popolazione. Ma, qui, si sta
parlando di resistenza. La resistenza di persone che decidono
di poter coltivare come ritengono giusto la propria terra, senza
aver paura, di non inquinarla e di rispettarla. Questo significa
resistere, perché, ad oggi, questi contadini sono una
minoranza. Che dice no ai pesticidi, che dice no all'ogm, che
dice no alla monocoltura, che dice no ad ingrandirsi. Perché,
se un cambiamento mai ci sarà, non avverrà a tavolino con
qualche studioso che dice 'sì, i piccoli agricoltori potrebbero
soddisfare il fabbisogno di tutta la popolazione', ma avverrà
dopo che tante persone, una dopo l'altra, avranno scelto di
resistere, senza aver paura”.
Il tema della “paura” degli agricoltori convenzionali ritorna in molte testimonianze, sia in quella di Gastone che
dei soci di Campiaperti, e non si tratta di un'iperbole come potrebbe sembrare. Si tratta invece di un timore legato
al sistema della grande distribuzione, che stritola la piccola concorrenza ma soprattutto i produttori. Di questo
parleremo la settimana prossima. (Foto di Giulia Biguzzi)
LA GALLINA DALLE UOVA DI PIOMBO: CHI PAGA PER LO
SMALTIMENTO?
Scritto da Lou Del Bello
“Tutto quello che viene dal suolo dovrebbe tornare ad esso”. Non è solo una massima che ricorda la filosofia
orientale, è anche un ottimo consiglio per la gestione sensata del territorio. Ed è in effetti la prima cosa che mi
dice David Newman, direttore del Consorzio Italiano Compostatori, quando gli chiedo se il compost è davvero
una risorsa per la terra, oltre che un modo ecologico di smaltire i rifiuti organici.
“Ci sono tre questioni da considerare quando si parla di compost – spiega - la prima è quella 'filosofica', che
appunto prevede il ritorno della materia organica alla terra. L'uomo con la sua attività industriale modifica
l'ambiente spogliando il suolo della parte superficiale, lo strato organico che lo rende fertile. Senza questa parte, si
ha la desertificazione, che già aumenta spontaneamente nel pianeta di anno in anno. Se non restituiamo alla terra
ciò che le togliamo artificialmente, non facciamo che incentivare questo fenomeno”.
Il secondo punto, riguarda le tecniche di produzione del compost, in altre parole di smaltimento dei rifiuti
organici. La settimana scorsa abbiamo trattato l'argomento parlando di pollina, e da qui riprendiamo il discorso del
suo impatto: “La pollina si può anche spargere sui campi senza alcun tipo di trattamento, di per sé non è nociva.
Tuttavia, a meno che lo spargimento non venga fatto in dosi molto controllate, provoca un eccesso di nitrati e
fosforo che non solo non va bene per il terreno, ma tende ad essere dilavato dalle acque piovane inquinando i
canali e provocandone l'eutrofizzazione. Inoltre, la pollina non trattata crea anche problemi di cattivo odore”.
La tecnica per risolvere questi problemi è molto semplice, arcinota sia agli allevatori che ai lettori di Sottobosco:
il compostaggio. “Si mette la pollina insieme ad altri materiali organici, come ad esempio gli sfalci di potatura
delle piante, e la si digerisce in appositi contenitori attraverso un processo di biodegradazione accelerata. Nessun
additivo artificiale, per ottenere questo processo basta insufflare aria. Il procedimento è lo stesso della letamaia
che ogni contadino aveva nella propria fattoria qualche decennio fa, una tecnica conosciuta e applicata da sempre.
Il risultato è un prodotto sicuro, controllato e igienico, che non ha problemi di odore e viene certificato in base a
parametri che in Italia sono tra i più severi del mondo”.
L'ostacolo sta quindi al terzo punto della nostra lista, manco a dirlo alla voce economia: “Il problema è che in
Italia gli allevatori, così come la maggioranza dei produttori industriali, sono abituati a considerare la ricaduta
ambientale delle loro attività come un aspetto di cui non sono responsabili. La società e lo Stato dovrebbero farsi
carico del loro inquinamento e dei loro rifiuti. Per questo è sempre più frequente il fenomeno dell'ecodumping,
ossia il trasferimento degli investimenti o delle attività in Paesi in cui non esistono, o sono particolarmente ridotti,
gli standard ambientali da rispettare”. Insomma, scarichiamo i nostri costi ambientali su altri, preferibilmente
lontani.
Tornando alla pollina di casa nostra, invece, facciamo due conti in tasca agli allevatori: il corretto smaltimento del
guano costerebbe loro tra i 50 e i 60 euro la tonnellata, il che comporterebbe un incremento, seppur minimo, del
costo della carne. “Non solo questo non è conveniente – osserva Newman – ma oggi diventa pressoché
impossibile vista la concorrenza feroce che viene dai
paesi in via di sviluppo, come la Cina. Per questo
problema, purtroppo, non c'è soluzione, a meno che i
consumatori non comincino a preferire un prodotto
la cui filiera sia controllata dall'inizio alla fine, anche
a fronte di un piccolo aumento di prezzo.
Ovviamente, è un'ipotesi improbabile, come quella
che si imponga per legge un corretto smaltimento dei
rifiuti a tutti gli allevatori italiani. Un simile
provvedimento infatti non risolverebbe niente,
farebbe solo spostare il mercato all'estero, in Paesi
dove il settore fosse meno regolamentato. Insomma,
come Consorzio non possiamo che alzare le mani e
arrenderci di fronte ad una situazione in cui non
possiamo avere un ruolo attivo, ma solo mettere a
Illustrazione da Flickr
disposizione le nostre tecnologie e servizi”.
Se a livello nazionale è difficile incidere sulla situazione, in ambito locale le amministrazioni potrebbero però fare
molto, incentivando lo smaltimento ecologico della pollina e scoraggiando l'apertura di nuovi inceneritori. Ma la
polemica dopo oltre vent'anni è ancora lontana dallo spegnersi, e il braccio di ferro tra allevatori e cittadini
preoccupati della propria salute e dell'ambiente ancora non ha un vincitore.
PASSEGGIATE TRA VERDE E STORIA. IL GIARDINO DELLE ERBE DI
CASOLA VALSENIO
Scritto da Laura Simoni
Avete mai assaggiato una giuggiola, una nespola, una sorba? Sapete su che pietanze usare l’aroma della
pimpinella o quali insaporire con del levistico? Conoscete l’inebriante profumo di un elicriso o di un
pelargonium? Se questi nomi non vi dicono nulla o addirittura vi turbano (chi mai si comprerebbe una crema di
caprifoglio?) è giunto il momento di fare un giro, per oggi solo virtuale, al Giardino delle Erbe di Casola Valsenio,
in provincia di Ravenna.
Il giardino botanico, inaugurato nel 1975, nasce alla fine degli anni Trenta per volere di un giovane di nome
Augusto Rinaldi Ceroni che decide di raccogliere, coltivare e proteggere le numerose piante officinali delle colline
intorno al suo paese. Il venticinquenne, conosciuto dai Casolani come il Professore, capì ben presto quali pericoli
stesse correndo il patrimonio naturalistico dei suoi territori d’origine, messo a rischio prima dalla guerra e poi dal
boom economico e industriale.
Grazie alle sue ricerche botaniche le coltivazioni del luogo sono state preservate fino ai giorni nostri, a dispetto
dei tempi bui, e arricchite con fiori e arbusti non autoctoni, facendo del piccolo borgo ravennate “il paese delle
erbe e dei frutti dimenticati”. Molte le feste dedicate al “ricordo” della flora misconosciuta: da “Erbe in Fiore” di
fine maggio, alla “Festa del Marrone” a metà ottobre; dal “Mercatino Serale delle Erbe” nei venerdì di luglio e
agosto, alla classica “Festa dei Frutti Dimenticati” il terzo week end di ottobre.
Attendendo le manifestazioni primaverili, possiamo colmare
le nostre lacune e soddisfare le curiosità nascenti recandoci,
in un’ultima giornata di sole autunnale, presso il Giardino
delle Erbe, aperto al pubblico dal lunedì al venerdì. In oltre
4 ettari di terreni coltivati, potremmo farci guidare dai
profumi o dai colori di piante dalle forme bizzarre, esplorare
i sentieri lussureggianti tra 400 varietà di erbe, oppure
passeggiare tra le fioriture lilla della Strada della Lavanda,
fingendo di essere in una “piccola Provenza”. Il visitatore
più esigente potrà documentarsi all’interno del centro, tra i
laboratori e l’olfattoteca (ne avete mai annusata una?).
Infine ammirare, toccare, odorare, assaporare i prodotti
preparati con le piante officinali del giardino.
Che aspettate? Sbizzarritevi, sviluppando i sensi e la
memoria tra le meraviglie naturali per nostra fortuna non Foto da ilgiardinodelleerbe.it
ancora perdute.
L'INSOSTENIBILE PREZZO DI UNA BISTECCA
Scritto da Gabriele Fittipaldi
In occasione della settimana indetta dall'Unesco per l'educazione allo sviluppo sostenibile si è tenuto alla
biblioteca ecosostenibile del Cestas un incontro dal titolo “Per il futuro della Terra fai la tua parte!”. Stefano
Momentè, presidente e fondatore dell'associazione VeganItalia, ha presentato una lezione sulla crisi alimentare e
sull'impatto ecologico del cibo, animando il successivo dibattito con il pubblico, attento e partecipe.
Il costo dell'alimentazione carnivora per l'ambiente è altissimo. Stefano Momentè esordisce ricordando ai presenti
i dati del rapporto della FAO intitolato “L'ombra lunga del bestiame”. Dallo studio emerge che il 70% dei terreni
coltivabili sono utilizzati per l'allevamento di bestiame e la coltivazione di cereali necessari alla loro
alimentazione. Se non fossero destinati a mangimi per animali i prodotti agricoli sarebbero sufficienti a sfamare
l'intera popolazione mondiale. Una mucca da latte per dissetarsi beve 200 litri di acqua al giorno, un suino 20. Per
produrre un Kg di carne di manzo servono 15500 litri di acqua, per un Kg di mais ne bastano 900. Tirando le
somme il 70% dell'acqua potabile viene destinata alla zootecnia.
Oltre al consumo di terreni e di acqua l'allevamento intensivo produce l'80% delle emissioni di gas serra di tutto il
comparto agricolo e il 18% delle emissioni complessive mondiali. Più dell'intero settore dei trasporti. Ma non è
ancora finita. Per guastare del tutto l'appetito basta sapere che in un anno una mucca da latte produce 30 volte il
suo peso in feci che vengono poi disperse nei campi come concime. Oltre a causare il 65% delle emissioni di
ossido d'azoto (un gas serra 200 volte più dannoso
dell'anidride carbonica) si inquinano i terreni per via dei
farmaci e degli antibiotici somministrati agli animali e
presenti nel letame. Per non parlare del metano che gli
erbivori emettono durante la digestione...
Foto da Flickr
Il problema però non è il consumo attuale ma quello
futuro. Nel 2020 la domanda di carne dei paesi in via di
sviluppo sarà doppia rispetto al 1995. Se convertendo
tutti gli allevamenti industriali in biologici non si
potrebbe soddisfare neanche la richiesta attuale, che cosa
possiamo fare? L'unica soluzione è consumare meno
carne. Per sensibilizzare al problema a Ghent in Belgio è
stato istituito il Veggie Day, un giorno alla settimana
rigorosamente vegetariano per combattere i cambiamenti
climatici. In Italia invece si sta facendo ancora poco.
In attesa che la proposta di legge per garantire l’opzione vegetariana nei luoghi di ristoro pubblici e privati firmata
da Andrea Sarubbi e Gabriella Giammanco sia approvata, alcuni comuni come Milano e Venezia l'hanno già
introdotta nelle loro mense. Avere la possibilità di scegliere cosa mangiare è un piccolo passo in avanti.
Mangiare meno carne o passare ad una alimentazione vegetariana può essere una via efficace per combattere il
riscaldamento globale. Ma come tutti i cambiamenti che riguardano il nostro stile di vita non ci può venire
imposto, deve essere una adesione volontaria, basata sulla consapevolezza dell'impatto che hanno le nostre azioni
quotidiane sull'ambiente. Iniziative come il World Vegetarian Day anche se da sole non possono essere la
soluzione, servono comunque per parlare del problema attraverso i mezzi di comunicazione, cassa di risonanza
per informare correttamente i cittadini. Per sensibilizzare le generazioni future al problema dei cambiamenti
climatici occorre utilizzare il linguaggio del marketing e combattere i grossi poteri commerciali con le loro stesse
armi. Parlare spesso e poco, ma soprattutto positivamente. Il cambio di alimentazione lo possiamo fare da subito,
senza delegare ad altri.
PIÙ CLOROFILLA PER TUTTI!
Scritto da Giada Andrea Baccini
C'è chi li distrugge e chi invece li festeggia. Fortunatamente sono tanti i Comuni d'Italia che quest'anno hanno
deciso di festeggiare gli alberi, Bologna lo fa con una manifestazione che, dal 14 al 30 Novembre, coinvolge tutta
la città nelle più svariate attività.
Per questa occasione, mostre, passeggiate, laboratori e visioni di film accompagnano persone di tutte le fasce d'età
alla riscoperta degli esseri viventi ai quali siamo maggiormente legati perché garanti di una delle funzioni vitali, la
respirazione. La Festa degli Alberi è iniziata sabato 14 Novembre con l'inaugurazione della mostra “Raccolte
d'albero” organizzata dall'Associazione Villa Ghigi, che dal 2001 si occupa di educazione ambientale. La mostra,
in esposizione all'Urban Center fino al 28 novembre, vuole illustrare i momenti del lavoro di osservazione
naturalistica in cui vengono coinvolti i bambini a Villa Ghigi. Oltre a un'esposizione di foto che rappresentano i
bambini durante il lavoro con lo staff, è presente una sezione in cui vengono esposti foglie, cortecce, rami e altre
parti di alberi. Al termine della mostra, i bambini troveranno uno spazio in cui esplorare questo stesso materiale,
per farne delle piccole opere d'arte o più semplicemente per giocare.
Il programma della manifestazione prosegue poi con una serie di laboratori e passeggiate. I laboratori “Gli alberi: i
cattura CO2” e “Come fanno gli alberi a riprodursi? La natura osservata dai poeti e dai naturalisti” assieme alle tre
passeggiate all'orto botanico, al parco di Villa Ghigi e a
quello del Paleotto, esplorano il mondo degli alberi da
tutti i punti di vista: dalla scoperta delle varie specie di
alberi della vegetazione locale, con relativi usi e
credenze popolari legate alle diverse specie, si passa
all'osservazione delle trasformazioni che avvengono con
il cambio delle stagioni, per arrivare all'illustrazione di
processi quali la produzione di ossigeno e la
riproduzione.
Non mancano letture animate e presentazioni di libri,
ma il fulcro della manifestazione è sicuramente la
piantagione degli alberi. Il 23 Novembre, nella Scuola
Primaria Croce Coperta, i bambini insieme a genitori ed
insegnanti pianteranno nel giardino della struttura una
serie di salici piangenti; a scegliere questa romantica
pianta sono stati proprio loro, in seguito al laboratorio di
progettazione partecipata svolto con la Fondazione Villa La festa degli alberi
Ghigi.
Contemporaneamente, nel Giardino Ex Lunetta Mariotti, due generazioni distanti tra loro, gli anziani ortolani e i
bambini, troveranno nella piantagione di alberi il loro punto d'incontro.
BUS NOTTURNI: 61 E 62 AL CAPOLINEA?
Scritto da Alessandro Kostis
Il 61 e il 62 sono due linee strane: si tratta di due autobus notturni bolognesi frequentati per lo più da studenti
fuori sede che non posseggono un'auto, ma spesso capita anche che ci incontri qualcuno che le usa come
dormitorio mobile, non avendo altro posto in cui andare.
Io vivo a Bologna da sempre e su quegli autobus ci sarò salito due o tre volte in tutto. Diciamo che quando esco la
sera non metto neanche in conto la possibilità di usare i mezzi pubblici. Sia perché la fermata più vicina a casa
mia è a mezzo chilometro, sia perché, sinceramente, non ho mai capito il tragitto che fanno. Sono due autobus che
in pratica dovrebbero coprire tutta la città, ma che in realtà lasciano ampie zone periferiche non servite. Né il 61
né il 62 passano per il Pilastro, per esempio. Anche Casalecchio di Reno e San Lazzaro, due importanti comuni
della cintura bolognese, non sono toccati. In più, vista la pretesa di passare in più zone possibili, entrambi questi
autobus fanno un percorso labirintico, la cui memorizzazione è impossibile. Aggiungiamoci che la frequenza delle
corse è una all'ora (e le due linee non hanno orari in coincidenza) e potete capire anche voi perché sono costretto,
come tanti altri, a inventarmi di tutto per spostarmi di notte in città.
Ben venga dunque, la proposta lanciata dal gruppo Sempreverdi
Associati di sostituire il 61 e il 62 con un prolungamento delle linee
portanti giornaliere (11, 13, 14, 19, 20 e 27) con corse notturne ogni
mezz'ora. “In questo modo la città sarebbe servita in modo molto più
capillare e ciò, ovviamente, aumenterebbe anche la sicurezza dei
cittadini, non più costretti a fare lunghi tragitti a piedi dalla fermata a
casa”, ci spiega Alessandra Da Fré, presidente del gruppo. “Bologna è
una città universitaria che conta 100.000 studenti, di cui il 90% non
possiede un auto. Come pretendiamo che si spostino di notte questi
ragazzi? Poi non meravigliamoci se le iscrizioni all'Ateneo calano
drasticamente”.
In realtà l'idea non è del tutto nuova: già nel periodo Cofferati il Comune
fece un preventivo per il prolungamento notturno di alcune linee portanti.
Il costo si aggirava sul milione di euro e si preferì lasciar perdere. Ma da
una piccola ricerca condotta dai Sempreverdi emergono dati che fanno
guardare a quel preventivo come a qualcosa di conveniente: “Noi
abbiamo semplicemente fatto una paragone con i dati ACI dell'anno
scorso;” continua la Da Fré, “abbiamo considerato le spese a carico del
comune nel caso di incidenti stradali, cioè quelle sanitarie e quelle di
rilievo dei vigili. Quindi abbiamo moltiplicato i 368 gli incidenti notturni
nel 2008 per la spesa sanitaria media e il costo di un rilievo dei vigili. Il
risultato? 3.900.000 €. Non è meglio prevenire una parte di questi Foto da Flickr
incidenti con un sistema di mezzi pubblici notturni più valido?”.
Per ora sappiate che i Sempreverdi hanno già iniziato la loro raccolta firme per
presentare poi la petizione all'amministrazione. Li potete trovare ogni secondo
venerdì del mese allo Scalo San Donato: il prossimo appuntamento è per venerdì 11
dicembre con una serata musicale che vedrà ospite il gruppo Brainsquad.
Qualche segnale positivo dal Comune c'è, vista anche la recente creazione della
navetta notturna dalla stazione per i locali più fuori mano. Vedremo se al pari di
molte altre città in futuro avremo anche noi un servizio notturno che possa realmente
definirsi tale.
ACQUA BENE COMUNE, MA FINO A QUANDO?
Scritto da Filippo Piredda
Come spiegava Alessandro Kostis la settimana scorsa, sono questi i giorni decisivi per le nostre acque. Dopo
l'approvazione in Senato lo scorso 4 novembre, lunedì 16 alla Camera inizierà la discussione sull'Art.15 del DL
135/09 che consente la privatizzazione dei servizi idrici.
Dal 2010 le Amministrazioni pubbliche finora proprietarie a maggioranza della società che gestiscono ed erogano
servizi pubblici locali (trasporti, energia, raccolta e smaltimento rifiuti), dovranno avere quote societarie
minoritarie di fatto perdere il controllo sul bene primario per eccellenza. I privati invece saranno
obbligatoriamente individuati mediante "procedura ad evidenza pubblica, dovrà essere socio operativo con una
quota di partecipazione non inferiore al 40%".
Il forum italiano dei movimenti per l'acqua, come spiega il dominio del loro sito, www.acquabenecomune.org,
ritengono di esser di fronte ad una svendita "agli interessi delle grandi multinazionali e a un nuovo business per i
privati e per le Banche". Per questo propongono una petizione, finora giunta a 21406 firme. Ho intercettato
Andrea Caselli, della Cgil Bologna e del Comitato Acqua Bene Comune di Bologna, a radiocitta'fujiko (trovate
l'intera trasmissione qui), per farmi spiegare cosa può succedere nella nostra città, e come si muoveranno enti
locali, istituzioni e municipalizzate se il decreto verrà convertito in legge dello Stato.
CASELLI. "La premessa maggiore di questo provvedimento è infondata. Privatizzare in questo caso non significa
aumentare concorrenza e ottimizzare il servizio, perché non saranno costruiti vari acquedotti che le società
gestiranno in competizione tra loro. Ci sarà sempre un acquedotto comunale che la società vincitrice dell'appalto
gestirà in monopolio. Quindi la legge non soddisfa la sua ratio".
Come sappiamo bene a Bologna e in altre province della
Regione l'acqua è gestita da Hera, società ex-municipalizzata,
per il 60% pubblica e per il resto quotata in borsa. Le azioni
pubbliche sono di proprietà dei Comuni, in un simile scenario
quale sarebbe il ruolo di queste istituzioni locali? Potrebbero
opporsi o trovare una scappatoia come già altrove accade?
CASELLI. Il sindaco di Bologna, Flavio Delbono, ha
pubblicamente assunto una posizione che condivido pienamente:
quando la legge sarà in vigore si chiederà alla Regione Emilia
Romagna di impugnare la legge, come ha già fatto sul nucleare,
davanti la Corte Costituzionale. Il governo non può decidere come
gli enti locali debbono fare gli affidamenti dei propri servizi. Mi
associo a Delbono e alla Regione. Inoltre le amministrazioni
pubbliche nei loro statuti dovrebbero dichiarare il servizio idrico
bene comune fondamentale e servizio non a rilevanza economica.
In questo modo l'acqua potrebbe uscire dal contesto normativo
della legge.
Quali società potrebbero investire nell'acqua? Non pensa che potrebbero cominciare aziende che non hanno
competenze ed esperienze sufficienti nel settore?
CASELLI. Ci sono vari tipi di aziende, alcune sono multinazionali consolidate. A Parigi ad esempio fino a dieci
anni fa il servizio era privato ed è tornato pubblico. Tra pubblico e privato cambia il fine dell'azienda: un privato
ha come scopo il profitto e non il miglior servizio al minor prezzo per il cittadino/utente. Ad esempio nel settore
dell'acqua gli investimenti hanno un ritorno quasi solo di lungo periodo, quale privato potrebbe avere interesse ad
un guadagno fra dieci anni? A Latina le tariffe sono aumentate del 200% ed ora i residenti sono giustamente in
rivolta. Infine è da sottolineare come le legge prevede la vendita entro il 2015 delle quote pubbliche. E' evidente
come una vendita obbligata, con data di scadenza già stabilita comporti una rincorsa al ribasso dell'ultimo
momento.
SIRIO CHIUDE UN OCCHIO A NATALE
Scritto da Alessandro Kostis
I commercianti possono tirare un sospiro di sollievo. La crisi sarà combattuta a colpi di metalli pesanti. La città
sotto Natale diventerà meno vivibile grazie al via libera allo spegnimento del vigile elettronico tanto invocato
dalle associazioni di categoria in queste settimane.
Nelle domeniche pre-natalizie, nel giorno dell'Immacolata e il 24 e 25 dicembre, si potrà dunque entrare in centro
con i mezzi privati, tutti quanti. Dove parcheggeranno non se lo sta chiedendo nessuno, ma va bene così. I pochi
parcheggi privati dentro le mura si sfregano le mani. Le casse del comune anche, prevedendo le centinaia di multe
in arrivo per divieto di sosta.
Passa quindi l'idea che la crisi economica si combatta anche attraverso un'apertura indiscriminata del centro
storico cittadino alle auto. Nessuna sorpresa insomma. Si era capito fin da subito che la nuova giunta ci teneva ai
buoni rapporti con Ascom, Confesercenti, ecc. Con buona pace dei già non numerosi turisti che si ritroveranno in
una giungla di traffico e smog e magari l'anno prossimo passeranno le vacanze natalizie da un'altra parte.
Nessuna sorpresa nemmeno per quel che riguarda l'ottica
dei commercianti che anziché privilegiare un centro più
vivibile, un'oasi del pedone che viene a rilassarsi e magari
anche a comprarsi qualcosa, vedono in Sirio il male
assoluto. Vedremo cosa diranno i dati sugli acquisti dopo
Natale. Insomma il Comune di Bologna sceglie il
prevedibile compromesso, non chiedendo a nessuno cosa
ne pensa se non alle associazioni di categoria. Nessuna
novità neanche in questo caso.
Foto da Flickr
Tuttavia il presidente di Confesercenti Sergio Ferrari non è
del tutto contento. Non tutti i suoi desideri sono stati
esauditi. Chiedeva infatti lo spegnimento totale delle
telecamere dall'8 al 31 dicembre, mentre il presidente
dell'Ascom Enrico Postacchini aveva avanzato la proposta
di anticipare lo spegnimento si Sirio alle 18 dal primo
dicembre all'Epifania.
Richieste quindi accettate solo in parte dall'amministrazione che si è però detta disponibile, per voce dell'assessore
alla mobilità Simonetta Saliera, a rivedere il Piano traffico voluto a suo tempo dall'ex assessore Zamboni, “per
rendere più appetibile il centro, soprattutto alle famiglie”. Così i bambini saranno liberi di scorrazzare tra una
macchina e l'altra, vien da pensare.
In cambio il Comune ottiene la non belligeranza sulle domeniche senz'auto previste da Gennaio a Marzo. In realtà
si tratta di solo tre domeniche comprese in questo periodo che dovrebbero vedere la completa pedonalizzazione
del centro storico, da non confondersi quindi con i giovedì senz'auto voluti dalla Regione che permettono
comunque la circolazione di alcuni veicoli.
Aspettandoci il peggio anche dal ventilato alleggerimento del Piano Traffico, continuiamo a chiederci cosa ne sarà
della pedonalizzazione della zona universitaria o del progetto BiciBo che erano contenuti nel programma
elettorale di Delbono. Bisognerà aspettare l'ok dell'Ascom anche in questo caso? E cosa vorrà in cambio questa
volta?