L`inconfessabile simbiosi tra guerra e convivenza internazionale La
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L`inconfessabile simbiosi tra guerra e convivenza internazionale La
L’inconfessabile simbiosi tra guerra e convivenza internazionale La guerra, contrariamente a quanto suggerisce una buona parte della nostra cultura politica e giuridica, non è la negazione bensì il doppio della politica, del diritto e del linguaggio. Osservando la guerra è possibile capire se l’impiego della violenza possa essere conforme all’ordine sociale oppure ne segni necessariamente la fine, quale sia il principio organizzativo della convivenza sociale e chi siano i suoi protagonisti, che rapporto abbiano le loro relazioni con lo spazio e quale ruolo svolga – se ne svolge uno – il diritto. Contrassegno per eccellenza della continuità della politica internazionale attraverso i secoli, la guerra è anche lo specchio delle sue discontinuità sia nel tempo che nello spazio – cioè da un’epoca storica all’altra e, all’interno della stessa epoca, nei diversi contesti geopolitici: perché “in nessuna epoca le armi possono appartenere a un livello tecnico diverso da quello al quale appartengono gli utensili da lavoro”, perché “l’organizzazione dei combattenti non può differire fondamentalmente dall’organizzazione sociale” (Aron 1962; tr. it. 1983, p. 411) e perché, anche sul piano simbolico, le formule di legittimazione, le retoriche, le liturgie, le iconografie e le metafore della guerra devono necessariamente seguire le convinzioni e i linguaggi di volta in volta (e di luogo in luogo) dominanti. Per questo, le trasformazioni della guerra non possono essere lasciate (soltanto) ai militari e agli studiosi di strategia, né possono essere trascurate come se riguardassero un residuo marginale, anacronistico o persino patologico di un contesto sociale avviato, per tutto il resto, verso qualche irreversibile “civilizzazione”. Il passaggio dalle guerre cavalleresche alle guerre comunali rispecchiò il declino sociale, politico ed economico della società feudale, così come il salto dalle guerre settecentesche e quelle napoleoniche corrispose alla frattura generale delle condizioni interne e internazionali delle società europee prodotta dalla Rivoluzione francese. La “mobilitazione totale” delle due guerre mondiali del Novecento costituì la traduzione sul terreno della violenza del micidiale incontro tra le energie della rivoluzione industriale, la mondializzazione delle relazioni diplomatiche e l’intensità delle passioni ideologiche messe in campo dalla nazionalizzazione delle masse e dalla replica internazionalista di leninismo e wilsonismo. Per la stessa ragione, l’enorme stacco tra questa catastrofe e le guerre di oggi ha molto da dirci sulle grandi trasformazioni politiche, economiche, giuridiche e culturali che dividono il secolo che si è appena aperto dal Novecento. Ma qui cominciano le ambiguità, che riflettono già la scomposizione dell’attuale ordine politico e giuridico internazionale. Dalla fine della guerra fredda a oggi, il fenomeno della guerra e della violenza si è manifestato in forme estremamente eterogenee, nessuna delle quali si è imposta come dominante o paradigmatica rispetto alle altre – come era riuscito invece, nel Novecento, alla guerra industriale tra grandi stati rispetto a tutte le altre manifestazioni “residuali”, “marginali” o “secondarie” di violenza. Trattare delle guerre attuali richiede, pertanto, un principio preliminare di cautela: quello che vale per guerre ad alta tecnologia come quelle condotte dalla Nato in Jugoslavia o dagli Stati Uniti contro Al-Qaeda non può valere, naturalmente, per guerre civili o di frammentazione territoriale come quelle di Somalia, Iraq, Siria o Libia, così come quello che vale per le guerre civili non vale per guerre ibride come quella condotta dalla Russia in Ucraina. L’unica cosa che tiene insieme manifestazioni così eterogenee di violenza è proprio l’estraneità a ciò che, per abitudine o semplice convenzione linguistica, ci ostiniamo a considerare la forma 1 tradizionale o normale della guerra – sebbene la proliferazione delle eccezioni dovrebbe farci almeno dubitare della nostra nozione di normalità. Punto di partenza sarà, appunto, la retorica delle “nuove guerre” che ha accompagnato la fine del Novecento già all’indomani del collasso dell’Unione sovietica. “Asimmetriche”, “a bassa intensità”, “globali”, “infinite”, “ibride”, “a costo zero”, “ineguali”, “tra la gente”, le guerre degli ultimi venticinque anni sono apparse da subito irriducibili all’esperienza e al paradigma militare della grande “guerra industriale” novecentesca, se non al modello sottostante della “guerra moderna” come scontro geograficamente e temporalmente definito tra stati centralizzati, territorializzati e ordinati in forma gerarchica. Proprio in questo duplice termine di riferimento è già riconoscibile, anzi, la seconda e principale ambiguità della retorica delle “nuove guerre”: rispetto a che cosa si porrebbe, appunto, la loro novità? Rispetto al precedente delle due guerre mondiali del Novecento – un precedente, questo sì, storicamente eccezionale, il cui abbandono costituirebbe più un ritorno alla normalità che l’ingresso in una nuova era? Oppure rispetto al modo in cui la guerra è stata concepita e praticata nell’ambito della società moderna degli Stati – cioè grossomodo a partire dal Cinque-seicento e, anche in questi limiti, solo all’interno del continente europeo, perché l’espansione prima e il riflusso poi del dominio coloniale hanno sempre costituito una vicenda a sé, satura di violenza ma irriconoscibile (giuridicamente e iconograficamente) come “guerra”? Oppure rispetto all’intera storia delle relazioni internazionali, come arriva a sostenere chi (in nome della democrazia, o del mercato, o di qualche altro “progresso della civilizzazione”) non è disponibile a vedere nelle nuove guerre più che residui di qualche epoca passata, se non semplici manifestazioni di devianza sociale – nella definizione di uno dei più entusiasti sostenitori di questa tesi, “attività predatorie quasi opportunistiche condotte da gruppi spesso molto piccoli di criminali, banditi e teppisti” (Mueller 2003, p. 507)? 2