Il patriziato ticinese tra beni comuni e tradizioni prestatuali, di

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Il patriziato ticinese tra beni comuni e tradizioni prestatuali, di
Quaderno n.1 – Switzerland Institute
Francesco Cerea
Il patriziato ticinese
tra beni comuni e tradizioni prestatuali
§1. Le origini dell’ordine federale svizzero e del patriziato ticinese
Ricordatevi che alla gloria delle lettere e delle scienze non è
necessaria vastità di Stato. Ginevra, Fiorenza, Atene erano piccole
repubbliche come la vostra; eppure la gloria loro è scritta in eterno
nei fasti del genere umano, mentre ignoti alla istoria delle scienze
sono i cento milioni di servi dell’Austria e della Russia. La
gigantesca unità bizantina durò mille anni, senza gloria. La Grecia
federata e libera, che nutrì Omero e Socrate, non morrà mai. Voi
siete sulla via della gloria, perché siete sulla via della libertà e
della verità. (Carlo Cattaneo, Prolusione a un corso di Filosofia
nel Liceo Ticinese, 1852)
Quale Stato moderno, la Svizzera nasce soltanto nel 1848 con la costituzione federale, dopo la
Guerra del Sonderbund. Il nuovo Stato federale sorge subito dopo la sconfitta dei cantoni
conservatori e cattolici (Lucerna, Uri, Svitto, Nidvaldo, Obvaldo, Zugo, Friburgo, Vallese),
preoccupati di perdere le loro autonomie locali e impegnati in spinose questioni religiose. Vinsero i
cantoni radicali, che erano prevalentemente protestanti, e una delle conseguenze fu la scelta della
capitale politica della Svizzera: Berna invece di Lucerna.
Quella che oggi è l’attuale nazione elvetica per secoli fu una sorta di alleanza di piccole comunità
paritarie e libere, che rispettivamente giurarono di difendersi al fine di raggiungere pace, stabilità,
maggior autonomia rispetto al Sacro Romano Impero, di cui formalmente i futuri cantoni furono
territorio anche dopo secoli dalla loro emancipazione effettiva.
La tradizione storiografica colloca al 1291 l’anno in cui nasce il primo embrione della
confederazione, con il giuramento del Grütli, con il quale i rappresentanti dei cantoni primitivi (Uri,
Svitto, Untervaldo) stilano il primo patto federale.
Tutto muove dall’istituto della “immediatezza imperiale” (Uri la ottenne già nel 1231). Si trattava di
quel riconoscimento che poneva un territorio affrancato da qualsiasi altro rapporto di vassallaggio,
che non fosse quello diretto con l’imperatore. Questo privilegio era importantissimo, perché
riconosceva parzialmente “libera” una città imperiale o un territorio rurale. Si trattava di
un’autonomia piuttosto fragile, poiché era dipendente dalla volontà dell’imperatore stesso, oltre che
esposta all’espansionismo dei principati o dei vassalli imperiali confinanti. Proprio per proteggersi
al meglio, alcune libere città e comunità dell’Impero si allearono in quella che è l’odierna Svizzera.
Va anche aggiunto che quello elvetico non fu l’unico caso di alleanza federale, se si considerano le
esperienze della Decapoli alsaziana o delle Leghe renane, che però non ebbero la stessa fortuna
delle istituzioni svizzere. Esse furono infatti sopraffatte e inglobate prima nei regni e poi nelle
attuali nazioni di Francia e Germania. Emblematico in tal senso fu il caso della Repubblica di
1
Mulhouse, che dapprima fu un membro della Decapoli alsaziana (nel 1354) e che poi nel 1506
strinse un rapporto di comborghesia con Basilea, per poi infine siglare nel 1515 un’alleanza con la
Confederazione dei Tredici Cantoni, ponendola in una situazione analoga a quella di Ginevra. (Le
due città presero direzioni opposte, però, con l’avvento di Napoleone).
La nozione sopra evocata di comborghesia merita qualche chiarimento. Nel 1499, infatti, i
confederati sconfiggono l’acerrimo nemico asburgico, l’imperatore Massimiliano I, e lo costringono
alla pace di Basilea, che decretò lo svincolo della confederazione dalla “immediatezza imperiale”.
Nel XVI secolo s’impone la Riforma protestante, che in seno alla dieta federale porta a pericolose
divisioni per motivi confessionali. Da allora in poi in Svizzera non ci sarà più un’unità sotto il
profilo religioso.
Questo ha comportato due rilevanti conseguenze per la confederazione: da una parte la costruzione
nel medio-lungo periodo di un dialogo interreligioso basato su un clima di tolleranza, che ne ha
fatto la terra di asilo per molti protestanti europei; dall’altra questa situazione ha spinto a stimolare
relazioni diplomatiche e protocollari, privilegiando nazioni o cantoni con cui si aveva la medesima
confessione di fede. Nel XVI secolo si definisce la “Comborghesia cristiana”, prevalentemente
orientata ai cantoni protestanti e alle libere città imperiali tedesche (con a capo Berna e Zurigo),
mentre sul fronte opposto prende forma la “Alleanza cristiana”, che ha quali protagonisti i cantoni
cattolici (Lucerna, Uri, Svitto, Untervaldo e Zugo), più orientati in direzione della Savoia e della
casa d’Austria.
Queste tensioni portarono alle guerre di Kappel, le cui trattative di pace vennero intavolate dai
delegati dei cantoni neutrali (Glarona, Appenzello, Friburgo, Soletta) e dai delegati del Re di
Francia, rafforzando cosi sempre di più l’influenza francese sulla confederazione, che portarono alla
seconda pace di Kappel e alle seguenti soprannominate “Paci nazionali”. L’ultima pace del 1712 (o
di Villmergen) favorisce i cantoni protestanti e pone relativamente fine al problema del
confessionalismo, supportato anche dal nascente spirito illuminista, con il suo clima di distensione e
apertura sui temi religiosi.
Posta questa caotica situazione storica apparve chiaro quanto fosse complesso, per le istituzioni
elvetiche, avere una politica estera comune e condivisa. Le diete federali erano infruttuose e
pertanto le relazioni diplomatiche e protocollari furono tendenzialmente decise individualmente da
ogni cantone. Oltre a un continuo gioco di alleanze tra le varie città-stato, appunto detto di
comborghesia, questi accordi erano siglati da due entità territoriali e avvenivano fisicamente con
missive e sigilli della città, firmate da autorevoli membri del patriziato del paese.
Il vero banco di prova a cui la Svizzera fu sottoposta fu la guerra dei Trent’Anni (1618-1648), in cui
la confederazione riuscì a rimanere neutrale. Infatti con la pace di Westfalia le potenze straniere la
riconobbero ufficialmente come un’entità del tutto libera e indipendente, separata da qualsiasi
rapporto con il Sacro Romano Impero.
Nel periodo seguente assistiamo a una sempre maggiore aristocratizzazione nella confederazione,
dove il potere viene accentrato nelle mani delle famiglie cittadine e patrizie. Esse fornivano milizie
mercenarie ai vari sovrani europei (ultimo esempio di questa tradizione sono le guardie svizzere
presso la Santa Sede) in cambio di denaro, titoli e pensioni. A causa di questo costume ancora nella
vigente “Legge federale concernente le liberalità e le onorificenze di Governi esteri” è vietato agli
agenti pubblici di accettare una qualsiasi distinzione da parte di una potenza straniera, proprio per
evitare che vengano toccati gli interessi nazionali.
La decisione estrema da parte della confederazione fu quella di non dotarsi di alcun sistema
premiale o ordine cavalleresco per i propri cittadini, né per i meritevoli esteri: neppure l’Unione
Sovietica arrivò a tanto. Si tenga conto che all’epoca la fornitura di soldati all’estero serviva anche a
risolvere il problema di quella che oggi viene denominata disoccupazione. Dal XVI-XVII secolo si
assiste anche in Svizzera, seppur in maniera limitata, al fenomeno della “curializzazione”, che
Norbert Elias ha descritto minuziosamente in preziose opere come La società di corte e La civiltà
delle buone maniere . In questi testi troviamo una descrizione sociologica della genesi dello Stato,
in particolare di quello monarchico-assolutistico, con i suoi rituali di cerimoniale e protocollo. Lo
studioso analizza l’ethos aristocratico in relazione alla nascente classe borghese, confrontando la
situazione francese e quella tedesca, con le loro differenti accezioni dei termini civiltà e cultura.
In Svizzera si riscontrano influenze di entrambi i blocchi:
2
Con la crescita delle città medioevali, si sviluppò una borghesia corporativa e commerciale, che in molti casi
non soltanto fu benestante e addirittura ricca, ma che spesso godette di autonomia politica e di indipendenza
perfino rispetto ai principi e alla nobiltà di campagna locale in una misura che – includendo anche la
Svizzera e i Paesi Bassi, territori marginali ma in parte ancora appartenenti all’Impero – trova l’eguale
soltanto in Italia. In altre parole, questa borghesia fu un fenomeno tipico della ripartizione delle forze
dell’Impero germanico-romano del Medioevo. Nello stesso tempo, nel tardo Medioevo larghi settori della
nobiltà di spada nei territori tedeschi impoverivano nei loro castelli. (…) Esistono numerose testimonianze
sull’asprezza e la frequenza delle faide tra cittadini e nobiltà di campagna, sul disprezzo dimostrato dai primi
verso gli impoveriti rappresentanti della nobiltà, e sull’amarezza dei membri della nobiltà per quella che essi
consideravano arroganza da parte di borghesi formalmente assai inferiori ad essi. Gli echi di questo
antagonismo sociale particolarmente aspro tra città e campagna, tra borghesia e nobiltà si ritrovano in molti
territori tedeschi, anche dopo che, con la più ampia integrazione statale, in molte signorie territoriali il fragile
equilibrio di forze tra formazioni nobili e formazioni borghesi si era nuovamente ristabilito più a favore delle
prime, cioè a favore di una nobiltà di corte o - più in generale - di una nobiltà fatta di amministratori e
militari, e a danno di una borghesia di artigiani e commercianti a sua volta impoverita, relativamente priva di
potere politico e non indipendente; i suoi vertici ormai non fornivano più grandi mercanti e uomini d’affari,
ma soltanto gruppi di funzionari statali borghesi in parte curializzati.1
Questo passo è emblematico perché sintetizza il processo evolutivo che avvenne in Svizzera, con il
lento e inesorabile declino delle famiglie dell’antica nobiltà, umiliate dai borghesi cittadini poi
divenuti patrizi. Esemplare il caso del conte Michel de Gruyère, ultimo della sua dinastia, che cadde
in disgrazia a dispetto dei suoi creditori borghesi, dovendo dichiarare bancarotta nel 1554, morì in
esilio e lasciò l’omonimo castello nelle disponibilità di Friburgo, che ne fece la sede dei suoi balivi.
Le campagne furono sottomesse alle città, spesso ci furono rivolte contadine nei baliaggi e nelle
campagne, abitualmente soffocate nel sangue dalle aristocratiche città-stato. 2 Con il passare dei
secoli proprio quei borghesi si trasformarono in fieri patrizi, influenzati forse dalle corti, in cui
spesso prestavano servigi di vario genere, con generose ricompense. A Berna per esempio nel 1643
per legge si stabilì che un numero limitato di famiglie poteva avere accesso al Gran Consiglio.
Provvedimenti simili li riscontriamo in Italia, per esempio con le Serrate del Maggior Consiglio
della Serenissima Repubblica di Venezia, con cui i confederati avevano intensi rapporti.3
In epoca barocca si legiferò nei vari cantoni sovrani per concedere alle famiglie patrizie la particella
nobiliare (de / von) anteposta al cognome. Successivamente dopo la guerra dei Trent’Anni, il Corpo
Elvetico si alleò in maniera sempre più stretta con l’assolutista monarchia francese, che in quel
secolo aveva come sovrano il Re Sole, l’emblema dello Stato moderno. Nell’arco di quasi tre secoli
furono ratificati vari contratti mercenari con la Francia: il primo nel 1521 e il secondo, più noto, il
18 novembre 1663, nella famosa cattedrale di Notre Dame. L’evento pubblico fu immortalato in
varie opere d’arte, le quali rispondevano alle esigenze di propaganda politica dell’epoca. I
protagonisti furono ovviamente Luigi XIV e Johann Heinrich Waser, borgomastro di Zurigo, che
capitanava la numerosa delegazione svizzera giunta a Parigi. Le cronache narrano che i vari
rappresentanti dei cantoni e dei Paesi alleati arrivarono su carrozze separate in base alla loro fede di
appartenenza, conseguenza di quel confessionalismo di cui abbiamo parlato precedentemente.
Proprio nell’epoca barocca si ha il maggior splendore delle classi elitarie in Svizzera, una vera e
propria commistione degli usi e costumi tipici delle nobiltà dei paesi confinanti. In quest’ottica
rientra anche la creazione a Berna nel 1759 del circolo per gentiluomini, tuttora fiorente, la Grande
Société de Berne. Sempre nell’attuale capitale, nel museo di storia, è conservata una poltrona che è
un vero e proprio trono, per il presidente del Piccolo Consiglio (contestualizzando sarebbe l’attuale
1
Norbert Elias, La società di corte, Bologna, il Mulino, 1980 (1969), pp. 298-299.
È anche a causa di questo retaggio che tuttora vige costituzionalmente l’obbligo della maggioranza dei cantoni oltre
che del popolo, per evitare che le popolose città possano sopraffare i cantoni più rurali e meno abitati. Ancora una volta
si vede come la storia influenzi il presente.
3
A riprova vi fu un’alleanza (confermata a più riprese e anche nel 1706) tra la Repubblica Bernese e la Repubblica
Tigurina (alias Zurigo) con Venezia. Furono coniate medaglie con gli stemmi delle tre repubbliche e attorno scritto in
latino «Costoro che una triplice alleanza ha riunito, li rafforzerà l’amore» e sul retro su sette righe «Ricordo del rinnovo
del patto tra la Serenissima Repubblica di Venezia e le illustrissime Repubbliche di Zurigo e Berna. 1706» (Piero
Voltolina, La storia di Venezia attraverso le medaglie, volume terzo, Venezia, Edizioni Voltolina, 1998, pp. 10-11).
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3
sindaco), che veniva scelto tra i membri eleggibili del patriziato bernese.
Da sottolineare come furono create e vendute dai cantoni sovrani importanti signorie feudali: per
esempio nel Vaud la baronia de Prangins, oggi sede nel castello di uno dei musei nazionali di storia
svizzera. Alcuni castelli sul lago di Thun erano sede di villeggiatura della famiglia von Erlach,
patrizia di Berna. Oppure in Ticino, che all’epoca era solo un baliaggio, è poco risaputo che furono
fatte investiture feudali ai baroni Beroldingen nell’attuale comune di Magliaso: proprio in ragione
di questo lo stemma comunale è il medesimo della famiglia e non esiste un patriziato locale. I
baliaggi italiani erano considerati dai Signori Svizzeri terre frutto di conquista, ma non per questo
furono trattate in maniera tirannica come una certa storiografia ottocentesca ha voluto far credere.
Soprattutto il Ticino aveva un nucleo di famiglie autoctone che gestivano localmente il potere,
approfittando spesso della lontananza dei cantoni sovrani. All’epoca erano chiamate vicinie ed
erano gli embrioni dei patriziati attuali. Infatti in queste terre, le vicinie, le piavi e le strutture
politiche intermedie rimasero invariate: si sostituì soltanto la sovranità superiore. A riprova di
questa continua osmosi e dei ripetuti contatti tra i membri delle classi agiate ticinesi, elvetiche ed
europee c’è un interessante studio di Marco Schnyder, Famiglie e Potere. Per esempio, fu proprio la
cittadinanza svizzera, che all’epoca era identificato con il diritto di vicinia su un determinato
comune, che permise al conte Turconi di aver salva la vita a Parigi durante la Rivoluzione. Per
questo donò successivamente i suoi beni al comune di Mendrisio, tra cui il famoso palazzo, dove
oggi sorge l’accademia di architettura. Con la fine del XVIII secolo, la Rivoluzione francese prese il
sopravvento e cancellò la cultura, la raffinata società settecentesca con le sue meravigliose
scenografie, lasciando spazio ai morti prima del Terrore giacobino e dopo delle guerre
napoleoniche. È la fine dell’antico regime, anche in Svizzera, con i francesi che una volta presa la
città di Berna la derubarono del suo tesoro, mandandolo a Parigi, mentre seviziavano gli orsi,
ancora oggi simbolo della città. I tempi della “giacobina” Repubblica elvetica furono cosi disastrosi
che pure lo stesso Napoleone, esasperato, nel 1803 decise di concedere l’atto di mediazione con cui
la Svizzera tornava ad esser federale, come prima della Rivoluzione, eccetto per i patriziati cittadini
che furono sciolti insieme con le terre soggette. Fu proprio in questa circostanza che nacque il
Canton Ticino. Infatti prima di questa data esso era diviso in vari baliaggi (corrispondenti grosso
modo agli attuali distretti): successivamente grazie a Napoleone venne concessa la sovranità alla
Svizzera italiana. Non a caso i colori cantonali rosso e blu sono i medesimi della città di Parigi. Con
la fine dell’era napoleonica l’epoca della restaurazione si apre con il congresso di Vienna e alla
Svizzera viene riconosciuta ancora una volta la sua neutralità. Ginevra, Vallese e Neuchâtel entrano
nella confederazione.
In questo periodo si può dire che ancora vi è una situazione ambigua: i cantoni sono sovrani e
ognuno ha la sua moneta e le sue dogane interne. A livello di politica estera ognuno di essi è ancora
autonomo e proprio a causa di questo si arriverà all’ultima guerra civile in suolo svizzero nel 1847,
poiché i sette cantoni cattolici e conservatori, capitanati da Lucerna, strinsero un’alleanza tra loro e
intavolarono trattative segrete con le corti di Parigi, Vienna e Torino. Tutto questo a scapito dei
cantoni riformati e radicali, capitanati da Berna. Vi furono anche cantoni che rimasero neutrali
come Basilea, città di religione protestante, ma politicamente conservatrice. Grazie all’abilità di uno
stratega come il generale Dufour si scongiurò la catastrofe, evitando molti morti e feriti. La guerra
durò poco e si concluse con la vittoria dei cantoni radicali. Come principale conseguenza nel 1848
vi fu la stesura della nuova costituzione, abrogando il Patto federale del 1815. Si trattò di un’azione
controversa a livello legale, poiché quest’ultimo non conteneva disposizioni sulla sua abrogazione.
Quindi per i cattolici conservatori sarebbe dovuta esserci l’unanimità. Secondo questi ultimi fu
insomma un atto illegittimo e rivoluzionario. A onore del vero bisogna dire che subito i cantoni
vincitori non vollero affossare i vinti, ma cercarono compromessi e questo portò indirettamente a
evitare una deriva centralista dello Stato, tipica delle nazioni confinanti nel XIX secolo (Italia e
Germania). Infatti con questa costituzione la confederazione assunse solo i compiti in ambito di
politica estera (diplomazia, firma di trattati e rapporti con altri Stati), unificazione di pesi e misure,
controllo della moneta, esecuzione di opere pubbliche. Berna, a scapito di Lucerna, venne dichiarata
città federale, essendo la sede amministrativa del consiglio federale, dei dipartimenti e della
cancelleria federale. Nell’ultimo secolo la Svizzera è rimasta neutrale ai due conflitti mondiali e
questo l’ha portata ad essere sempre più considerata, a livello internazionale, come patria della pace
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e della diplomazia. Anche la Croce Rossa nacque per iniziativa elvetica. L’Ufficio delle Nazioni
Unite di Ginevra è la seconda sede principale dell’ONU, dopo New York.
Con il XIX secolo, si crea la problematica della cittadinanza svizzera. Infatti prima del 1848
bisognava esser patrizi (in Ticino) o borghesi (in Svizzera interna) di un determinato paese e
conseguentemente si godeva dei diritti politici a livello comunale e cantonale. In altri termini la
popolazione autoctona delle città e villaggi avevano diritti sui beni comuni e non volevano
condividerli con i nuovi abitanti. La Repubblica elvetica trovò come soluzione la scissione del
comune (tuttora esistente) tra comune politico, cioè dei residenti, e comune patriziale, che è
proprietario dei beni comuni ed è formato dalle famiglie originarie. Con la nascita della
confederazione, ed essendo vigente la duplicità comunale, da cui dipendeva la naturalizzazione, si
ovviò per gli abitanti stranieri, che volevano diventare svizzeri, ma che non ottenevano una
cooptazione dalla corporazione patriziale/borghese, con la creazione del concetto di attinenza, che
tuttora riveste un importante peso anche sui documenti ufficiali. Infatti per identificare uno
svizzero, oltre al nome e cognome, non vi è il luogo di nascita, come per esempio in Italia, bensì
l’attinenza. Si è venuta quindi a creare, come frutto dell’evoluzione storica svizzera, un comune
“doppio”: uno di natura pubblica e uno di natura privata. Quest’ultimo è chiamato in maniera
differente, a seconda del cantone: Burgergemeinde nella Svizzera tedesca, commune bourgeoise nei
paesi romandi e patriziato / comune patriziale in Ticino. Dopo il congresso di Vienna nei cantoni vi
fu un ritorno ai patriziati cittadini d’antico regime, ma con le rivolte del 1830 molti di essi
divennero liberali-radicali. Il Ticino si situò in una posizione mediana tanto che le sue ex-vicinie,
diventati patriziati, con l’atto di Mediazione e l’elevazione dei baliaggi a Cantone, furono
considerati una nobiltà de facto nel vicino regno Lombardo-Veneto. A riprova di ciò, leggendo il
principe Carlo Mistruzzi di Frisinga nel suo Trattato di Diritto Nobiliare Italiano, al capitolo La
nobiltà civica e patriziale del secondo volume, ci si imbatte in un interessante stralcio sulla natura
nobiliare del patriziato ticinese:
Meritevole di esame appare anche il patriziato ticinese, sul di cui carattere nobiliare non tutti gli autori sono
d’accordo, quantunque riconosciuto dal governo austro-lombardo (Manaresi, Criteri seguiti pel
riconoscimento della nobiltà svizzera nello stato di Milano, in “Archives heraldiques suisses”, 1936, p.65
segg.). La Costituzione cantonale del 1830 prevedeva due categorie di cittadinanza: quella dei patrizi e
quella degli attinenti. È patrizio colui che è membro dell’antico comune – chiamato vicinia – e partecipa al
godimento dei beni indivisi della comunità detti “beni patriziali” consistenti nel pascolo e legnatico.
L’attinente, cioè il cittadino semplice, era escluso dal godimento dei beni vicinali ed in ciò soltanto
consisteva la differenza fra i due ceti. La denominazione di patrizio e patriziato è sorta nel 1798 e fu sancita
da una legge del 1806, prima di quell’epoca i patriziati erano chiamati vicini. Al posto della denominazione
di “patrizio” vediamo anche quella di “nobile” (Corti, “Famiglie patrizie del Canton Ticino”, in Rivista
Araldica, 1908, p. 48). Così a Mendrisio, come ci narra il Baserga (periodico comense, vol. XXVI p.95-98),
si incontra la vicinia dei “ Nobili e Borghesi” accanto a quella dei “Divisi”, esempio di comunità distinta.
Havvi inoltre, a dimostrazione dell’antica nobiltà civica di Mendrisio, un rogito del notaio Giovanni da
Turate, d. 30 aprile 1372, che dice: “nomine comunis et hominum tam nobilium quam burgesium”
(Biblioteca Civica di Como: Vetera documenta, vol. II, n.92) (...) Nel Canton Ticino troviamo pure
organizzazioni amministrative comprendenti più comuni, e come tali retti da un consiglio generale ben
distinto dai locali Consigli di credenza di ciascun Comune, a capo dei quali stavano i Consoli. Così avevasi
un Consiglio generale per i Comuni uniti al Borgo di Mendrisio – governato da un Vicario unico con vasti
poteri – che adempiva naturalmente alle sue funzioni anche in cause particolari fuori della terra di Mendrisio.
Più tardi il Vicario è sostituito dal Landfogto sempre restando in funzione il consiglio particolare del
Comune e il Consiglio generale delle terre formanti il distretto e alla cui adunanza egli interviene».4
Seppur fosse in origine una struttura di Ancien Régime, il patriziato è sopravvissuto grazie alla
democratizzazione dell’Ottocento. Con la nascita del Canton Ticino si ha una vera e propria
rivoluzione con l’abolizione delle vicinie dell’epoca dei baliaggi, che a livello pratico venne fatta
con la creazione del patriziato (nome evocativo, di retaggio aristocratico) che andò a sostituirle.
Inoltre vi fu un imborghesimento, che gli diede la funzione di corporazione di diritto pubblico, per
la gestione dei beni. Per esempio nel 1844 in Ticino 19.950 cittadini avevano diritto di elettorato
4
Carlo Mistruzzi di Frisinga, Trattato di Diritto Nobiliare Italiano, Milano, Giuffrè, 1961
5
attivo e passivo, divisi in 38 circoli. Conditio sine qua non è l’età di 25 anni, l’esser patrizi e il
possedere valori per almeno 200 franchi o usufrutto di beni per almeno 300 franchi. Nel 1858 per
poter votare non è più necessario essere patrizio e nel 1863 viene meno anche la necessità di
disporre di un determinato reddito.5
Come si può quindi vedere, in Ticino il patriziato non è solo associato alla gestione dei beni
comuni, ma è collegato pure alla cittadinanza e ai relativi diritti politici. Questo fenomeno sociale lo
possiamo rintracciare solo nella confederazione elvetica. Nel 1848 l’articolo 4 della Costituzione
federale cassò i privilegi di nascita. Ovviamente al giorno d’oggi i patriziati sono regolati come
corporazioni di diritto pubblico autonome nei limiti stabiliti dalla legge, per non intaccare
l’uguaglianza formale prevista dall’articolo sopracitato. Essi rimangono comunque una forma
alquanto particolare di gestione dei beni pubblici.
L’associazione di categoria che riunisce queste realtà è la Federazione Svizzera dei Patriziati, con le
sue differenti delegazioni cantonali. In Ticino è l’ALPA (alleanza patriziale ticinese). Tuttora in
Svizzera ha socialmente molto rilievo l’appartenenza a una borghesia / patriziato di una città come
Berna, Friburgo, Soletta, San Gallo, ecc. Per esempio la Bürgergemeinde di Berna si stima possieda
un terzo del suolo della città. Dal 1848 viene pubblicato un annuario genealogico, chiamato
Burgerbuch, con i nominativi di tutti i Borghesi della corporazione: ci sono sia le famiglie patrizie
prima della caduta dell’antico regime, che quelle cooptate a fine XX secolo. Inoltre hanno una
specie di piccolo parlamento dove deliberano sulla gestione dei beni pubblici di loro proprietà, in un
antico palazzo in centro alla città.
Bisogna infine ricordare come è recente il diritto di voto concesso alle donne. Infatti solo nel 1971
il popolo svizzero, formato all’ora solo da uomini, votò col 66% di sì per l’estensione femminile
dell’elettorato attivo e passivo: modificando ovviamente anche alcune prassi del cerimoniale.
Anche in conseguenza di ciò con la nuova Legge Organica Patriziale del 1992 venne estesa la
trasmissibilità dello status per via femminile (del resto come la cittadinanza). Questa è una delle
tante e piccole contraddizioni che caratterizzano questa nazione, progressista e allo stesso tempo
conservatrice, neutrale ma con un esercito di milizia, cattolica e protestante, cittadina e campestre,
eccetera. Sono proprio queste particolarità che rendono tale nazione così affascinante da interessare
scrittori, ricercatori e antropologhi, di tutte le nazionalità.
§2. Il patriziato ticinese, oggi: situazione giuridica ed economica
Nel XIX secolo ha luogo la lenta agonia di quello che era il patriziato cittadino, che però risorgerà
come la fenice dalle sue ceneri attraverso il più democratico istituto del comune patriziale,
estendendosi anche a una serie di famiglie e paesi che prima non godevano di tali privilegi.
Il caso del Ticino è emblematico. Con l’atto di mediazione e l’elevazione di sovranità dei baliaggi a
Repubblica e Cantone, si ha anche una modifica di quelli che erano i Vicini in Patrizi,
richiamandosi all’uso di Ancien Régime della classe dirigente della Svizzera interna. Non sarà forse
un caso questa somiglianza di termine? Ma vediamo cosa è nello specifico il comune patriziale,
attraverso l’ausilio della voce tratta dal Dizionario Storico Svizzero:
Collettività di diritto pubblico i cui membri possiedono la medesima attinenza di una località, il comune
patriziale amministra in genere i propri beni (beni patriziali), purché tale compito non sia demandato a una
corporazione comunale o ad altro ente. Il comune patriziale si distingue da altre istituzioni locali quali il
comune vero e proprio (politico o degli abitanti) e il comune parrocchiale. Le sue denominazioni variano a
seconda della regione e del cantoni: bourgeoisie (basso Vallese e Friburgo), commune bourgeoise (Giura),
Bürgergemeinde (termine generico nei diversi cant. germanofoni), Burgergemeinde (alto Vallese e Berna),
Ortsbürgergemeinde (Uri e Argovia), Ortsgemeinde (San Gallo e Turgovia), vischnanca burgaisa (Grigioni)
e Tagwen (Glarona). Il comune patriziale, che nel Ticino è chiamato “Patriziato” e trae origine dall’antica
vicinanza, di cui è il successore giuridico, non esiste nei cantoni di Ginevra, Neuchâtel, Nidvaldo, Svitto e
Vaud; il Giura bernese e il canton Giura conoscono, una forma mista fra comune politico e patriziale. I
5
Andrea Ghiringhelli – Lorenzo Sganzini, a cura di, Ticino 1798-1998. Dai baliaggi italiana alla Repubblica
cantonale, volume primo, Casagrande, Lugano, 1998.
6
diversi tipi di comune patriziale presentano forti differenze sul piano dell’organizzazione, delle competenze e
delle attività: mentre in molte località i compiti esecutivi sono stati trasferiti al comune politico, cosicché
spesso l’assemblea rappresenta l’unico organo del comune patriziale, altrove, e soprattutto nelle città,
quest’ultimo esercita il diritto all’autogestione ed è dotato di un proprio organo esecutivo (a Berna e Basilea
perfino di un parlamento). In alcuni cantoni ancora oggi spetta al comune patriziale concedere l’attinenza
comunale, senza la quale è impossibile acquisire il diritto di cittadinanza svizzera. In molti casi, inoltre, il
comune patriziale opera nella sfera sociale, gestendo ospedali, case per anziani o per i giovani, assegnando
borse di studio e assistendo disoccupati, disabili o tossicodipendenti; talvolta esso è anche impegnato in
ambito culturale, ad esempio sostenendo biblioteche e musei. Per svolgere questi compiti, a volte riscuote
imposte oppure utilizza gli interessi del proprio patrimonio. Gli inizi del comune moderno risalgono alla
Repubblica elvetica. La creazione della cittadinanza svizzera uguale per tutti (cittadini a pieno titolo,
dimoranti e sudditi dei vecchi cantoni) fu causa di conflitti, perché gli abitanti agiati di città e villaggi non
volevano spartire i propri diritti su boschi, terreni e altri beni comuni con i “nuovi cittadini”, divenuti
anch’essi titolari dell’attinenza comunale, ma in genere più poveri. La soluzione di compromesso adottata
nella legislazione dell’Elvetica sui comuni è in vigore ancora oggi: l’insieme dei cittadini domiciliati
costituisce il comune politico o degli abitanti, all’interno del quale vengono esercitati i diritti politici, mentre
l’utilizzo dei beni comuni è rimasto riservato agli attinenti locali di antica data (patrizi), riuniti appunto nel
comune patriziale. Durante la Mediazione e specialmente la Restaurazione, in molti cantoni venne
reintrodotto il principio dell’attinenza; il comune politico venne cioè abolito e l’esercizio dei diritti politici
venne ristretto ai soli cittadini patrizi. Nella Rigenerazione i moti rivoluzionari liberali riuscirono a
riaffermare il principio del domicilio in alcuni cantoni, ma in altri il comune patriziale poté resistere ancora a
lungo come organo politico; perfino nella città di Zurigo solo la legge del 1866 sui comuni ristabilì il
comune politico. Nei rapporti fra comune patriziale e politico hanno svolto un ruolo importante i beni
comuni. Se ad amministrarli provvedeva soltanto il comune patriziale, il comune politico dipendeva da
quest’ultimo; la piena autonomia del comune politico si ebbe soltanto con la suddivisione del patrimonio
comune in beni puramente patriziali e in altri utili alla collettività. Nella città di Berna, ad esempio, il
comune ottenne il diritto di riscuotere imposte solo dopo la spartizione patrimoniale del 1852. La
Costituzione federale del 1874 concesse infine a tutti i cittadini svizzeri domiciliati in un comune i diritti
politici anche a livello comunale e cantonale, sottraendo così al comune patriziale la sua funzione di corpo
elettorale ovunque l’avesse. Inoltre, dato che nelle città l’evoluzione demografica ridusse sempre più la quota
di patrizi rispetto alla popolazione totale, il comune patriziale perse gran parte dell’importanza di un tempo.
L’istituzione in quanto tale, tuttavia, non fu mai messa in discussione, e ciò potrebbe dipendere soprattutto
dal fatto che il comune patriziale, utilizzando i propri beni, continuò a sostenere i costi dell’assistenza
pubblica, assegnatigli già nel XVI sec. Nel XX sec. la sfera sociale è divenuta gradualmente di competenza
dello Stato e il comune patriziale vi partecipa su basi volontarie. Poche località (ad esempio la città di
Lucerna) hanno di recente avviato la fusione fra comune patriziale e politico.6
Cosa significa oggi il patriziato in Canton Ticino? Per rispondere a questa domanda è utile ricordare
le parole di Franco Celio, ex-presidente dell’Alleanza Patriziale ticinese:
I patriziati sono un’istituzione oggi forse poco conosciuta (almeno nelle realtà urbane), che tuttavia
affondano le loro radici nell’antica organizzazione comunitaria delle nostre terre, precedente all’istituzione
del Cantone. Durante “l’ancien régime” tale organizzazione era alquanto complessa e si strutturava su più
livelli. Per prendere l’esempio della Leventina, ma nelle altre valli le cose si svolgevano in modo analogo, vi
erano ben 4 “gradini”:
6
il primo livello, quello più basso, era rappresentato dai “Vicinati” (in pratica uno per ogni nucleo
abitato) che si occupavano delle fontane, della polizia del fuoco, dei diritti di passo, dei permessi di
costruzione ecc.;
al secondo livello vi erano le “Degagne”, che riunivano alcuni vicinati e si occupavano in particolare
della gestione dei boschi e degli alpi;
sul terzo gradino vi erano invece le “Vicinanze”, i cui compiti specifici erano la manutenzione delle
strade e delle arginature, nonché l’organizzazione dei trasporti fra i “someggiatori”;
al livello superiore vi era infine la “Comunità di valle”, che si occupava di coordinare le attività degli
Basil Sieber, “Comune patriziale”, Dizionario storico della Svizzera (DSS), 26.11.2013.
7
organismi inferiori e stabiliva pure, per mezzo dei propri Statuti, le regole da rispettare, tanto in
ambito civile quanto in ambito penale.
Dopo l’istituzione del cantone (1803) questa organizzazione venne modificata in modo radicale.
Schematicamente, pur con tutti i rischi dell’approssimazione, possiamo dire che i compiti dei vicinati e delle
degagne vennero attribuiti al Comune; quelli delle Vicinanze e delle Comunità di valle al Cantone. Ciò
provocò però grossi malumori poiché la nuova organizzazione metteva i “forestieri” sullo stesso piano delle
persone originarie del luogo, che erano abituate da secoli a considerarsi padroni. Dopo molte controversie, si
giunse quindi alla formalizzazione del cosiddetto “dualismo comunale”, ovvero (lo diciamo anche qui con
tutti i rischi dell’approssimazione) ad attribuire i compiti amministrativi al Comune, e la gestione delle
proprietà pubbliche ai Patriziati. Va tuttavia detto che, come regola, i rapporti fra i due enti furono impostati
alla collaborazione, nel senso che gli introiti provenienti ad esempio dalla vendita di legname furono quasi
sempre destinati a opere pubbliche, mentre l’utilizzo a scopi privati (peraltro vietato dalla legge) fu
l’eccezione. Oggi le proprietà patriziali (alpi, boschi, cave...) hanno perso molta della loro importanza
economica di un tempo. Il Patriziato, in genere, ha quindi spesso una funzione “identitaria” e di
testimonianza storica. In quest’ottica, diversi di questi enti svolgono un’apprezzabile funzione culturale
(pubblicazioni, indagini sul territorio ecc.). Amministrativamente i Patriziati sono organizzati in base alla
Legge organica patriziale (LOP) del 1992 concepita sul modello di quella comunale. Ogni ente è diretto da
un esecutivo, detto “Ufficio patriziale”, di 3 o di 5 membri, mentre il ruolo del legislativo è assunto
dall’Assemblea patriziale (in qualche caso dal “Consiglio patriziale”, equivalente del Consiglio comunale)
che si riunisce normalmente due volte all’anno, alla quale ha diritto di prendere parte ogni patrizio
maggiorenne. Il cosiddetto “godimento”(diritti di alpeggio e simili) sono invece riservati non al singolo ma
ai “fuochi”, ovvero ai nuclei famigliari patrizi. Ogni ente è pure dotato di un proprio Regolamento, che deve
comunque essere conforme ai dispositivo della LOP. Resta la domanda su chi siano i “patrizi”. Secondo la
LOP, tale statuto si acquisisce in primo luogo per nascita (da almeno un genitore patrizio) o per matrimonio
(nel caso di persone non patrizie che sposano un/a patrizio/a). L’assemblea patriziale può però anche
concedere tale statuto, anche se ciò avviene invero piuttosto raramente, a una persona che ne faccia richiesta,
purché questa abbia la cittadinanza ticinese e sia domiciliata da almeno dieci anni nel Comune sede del
Patriziato. Al di là di questo caso, il luogo di domicilio non ha praticamente alcuna influenza. Ogni cittadino
patrizio può infatti esercitare i suoi diritti nel proprio Patriziato indipendentemente da dove esso sia
domiciliato (unica eccezione: l’elezione a presidente, per la quale è richiesto il domicilio nel Comune-sede).7
Lo status di patrizio è per giunta un titolo o, meglio, una qualità familiare e personale che hanno
anche notevoli risvolti sul godimento dei beni pubblici.
In merito la legislazione racchiude in sé taluni elementi molto tradizionalistici, ad esempio riguardo
alla rappresentanza del fuoco, misti al progresso fatto nella parificazione della trasmissione dello
status per via uterina. In molti patriziati, che hanno storicamente conservato meglio il proprio
patrimonio, vi è una vera e propria rendita ed essi sono strutturati similmente a una società per
azioni. Alcuni esempi sono facilmente reperibili in Svizzera interna, dove la Ortsburgergemeinde
(comune patriziale) di San Gallo ha un bilancio nel 2011 di 89 milioni di franchi, senza contare la
clinica geriatrica e la Vadian-Bank AG. Essa è composta di un capitale (senza proprietà terriere e
forestali) di 85 milioni di franchi e i suoi “borghesi azionisti” sono, nel mondo, più di 20.000
persone, mentre i residenti nei confini del comune politico di San Gallo si limitano a 6.355 persone.
Il comune patriziale di San Gallo ritiene di essere il successore della Città Imperiale e della vecchia
Repubblica di San Gallo.8
Tornando al Ticino può essere utile riferirsi a un brano fondamentale dall’articolo “I Patriziati in
Ticino. Analisi di alcuni casi in riferimento al ruolo, l’organizzazione e i problemi legati alla
gestione del territorio” scritto da Fulvio Giudici, Mark Bertogliati e Franz Schmithüsen:
Attualmente in Ticino sono identificabili 4 categorie principali di Enti patriziali, categorie definite sulla base
delle caratteristiche economiche, delle attività principali e del contesto geografico proprio di ogni territorio.
Le categorie sono:
7
Franco Celio, “Il patriziato ieri e oggi”, in: Fulvio Giudici – Mark Bertogliati – Franz Schmithüsen, I Patriziati in
Ticino: Analisi di alcuni casi in riferimento al ruolo, l’organizzazione e i problemi legati alla gestione del territorio,
2004, p. 53 http://www3.ti.ch/DFE/DR/USTAT/allegati/articolo/1173dss_2004-4_6.pdf.
8
Benvenuti nel Comune Patriziale (“Ortsbürgergemeinde”) di San Gallo, Leben im Grünen Ring,
http://www.ortsbuerger.ch/Portals/0/media/pdf/OBG%20Italiano%20(Web%202015).pdf.
8
1) Patriziati alpini o tradizionali (di cui fanno parte per es. Quinto, Gerra, Gambarogno e Camignolo);
2) Patriziati semi-urbani (es. Carasso);
3) Patriziati urbani (rappresentativi delle principali realtà urbane ticinesi);
4) Patriziati prealpini (ad es. Bioggio-Bosco Luganese-Muzzano-Agnuzzo).
Questa ultima tipologia è peraltro caratteristica del Sottoceneri ed è definita sia dalla posizione geografica,
evidentemente prealpina, sia dalla presenza di una forte parcellizzazione del territorio. L’esistenza dei
Patriziati ticinesi si fonda ancora oggi primariamente sulla gestione delle proprietà fondiarie. A dipendenza
delle proprie particolarità, ogni Patriziato si occupa poi di settori ad impatto economico (gestione o affitto di
sostanza immobiliare o anche di impianti di trasporto).Queste attività possono essere integrate o sostituite
dalla realizzazione e dalla gestione di strutture particolari quali edifici a carattere storico, o viceversa
orientarsi verso la valorizzazione della propria identità (ristrutturazioni di archivi, organizzazione di
manifestazioni culturali). (…) Non si può infatti dimenticare che le proprietà patriziali toccano quasi l’80%
del territorio cantonale. Si tratta di estensioni, segnatamente situate in zone di montagna, dove l’interesse
generale e i bisogni della società devono sempre più spesso essere considerati nelle diverse forme di gestione
e di fruizione del territorio, ad esempio nei progetti di costruzione di strade forestali (è emblematico il caso
di Carasso che da anni mobilita numerose istanze ed organizzazioni sia a livello Cantonale, che federale) o
nella pianificazione e nella gestione di aree di interesse naturalistico (es. Camignolo con le torbiere di
importanza nazionale situate a Gola di Lago): un tema, questo, che meriterebbe di essere approfondito. I
Patriziati vivono “al fronte” gli importanti mutamenti in corso: le interviste confermano la presa di coscienza
di questi Enti, o perlomeno dei loro rappresentanti, sul ruolo che in un prossimo futuro essi saranno tenuti ad
assumere nel campo della salvaguardia del territorio e nella mediazione tra i suoi molteplici utilizzatori. Il
rapporto tra numero di patrizi residenti e quello degli abitanti totali è ad esempio un indicatore che si ritiene
utile per descrivere il “peso specifico sociale e demografico” delle famiglie originarie del luogo. Un’analisi
dell’evoluzione nel tempo di simili indici, eventualmente integrati con dati relativi l’età dei cittadini Patrizi,
permetterebbe, ad esempio, di prevedere gli scenari futuri sul ruolo del Patriziato e di eventualmente valutare
l’opportunità di unirsi con Patriziati vicini oppure, per garantire la sopravvivenza di un Patriziato, di
agevolare la concessione della cittadinanza patriziale anche ad altre persone domiciliate da tempo. Per
quanto riguarda la gestione del territorio, il valore assoluto delle aree agricole o forestali e la percentuale
rispetto alle relative superfici comunali sono indicativi dell’importanza giocata dal Patriziato nella gestione
delle aree e del territorio rurale. Migliorando questi indici e raccogliendo, analizzando e combinando tra di
loro questi ed altri dati (per esempio sulle infrastrutture viarie, sulle risorse finanziarie e sulle attività
economiche come i tagli di bosco o la gestione di alpeggi, ecc.) per tutti i Patriziati del Cantone oppure
anche solo per sub-regioni, è secondo noi possibile elaborare e proporre spunti di riflessione, di discussione e
di decisione utili e basati su elementi oggettivi. (…) Diverse attività svolte dai Patriziati contribuiscono in
effetti a sensibilizzare la popolazione e le autorità verso i problemi del territorio delle regioni periferiche. Si
tratta di iniziative concrete e ben visibili, che propagano nella popolazione il senso di responsabilità verso la
cosa pubblica, valore civico tanto importante, quanto, spesso ... piuttosto dimenticato. In un futuro neppure
troppo lontano il Patriziato potrebbe quindi assumere un ruolo sempre più importante sia nel campo
culturale, in qualità di amministratore dei beni immobili o di materiali storici locali; oltre che in quello della
valorizzazione delle componenti ecologiche e paesaggistiche del territorio. Il Patriziato e i suoi cittadini
hanno la possibilità di intervenire in quelle scelte e progetti di sviluppo a livello Comunale o regionale che
hanno ricadute dirette o indirette anche sul territorio: proponendo o promuovendo ad esempio opere costruite
o riscaldate con legno indigeno.9
Come è evidenziato in questo scritto, è chiara l’importanza culturale che stanno acquisendo sempre
di più i patriziati nel loro ruolo di salvaguarda delle tradizioni: questo trascende il ruolo dello Stato,
poiché anche i patriziati disconosciuti cantonalmente godono ancora, a livello comunale e locale, di
rilievo sociale. È questo il caso della Corporazione Patrizi di Mendrisio, su cui mi soffermerò,
essendo esemplare per molte situazioni similari.
In Patriziati e Patrizi Ticinesi, nel capitolo dedicato a Mendrisio, Flavio Maggi spiega con grande
capacità di sintesi cosa successe:
Nell’attuale Distretto di Mendrisio, le corporazioni patrizie sopravvissute alle spartizioni dell’800 sono
poche, anzi pochissime, ed alcune, che noi abbiamo comunque preferito considerare, non hanno neanche
9
Fulvio Giudici – Mark Bertogliati – Franz Schmithüsen, I Patriziati in Ticino: Analisi di alcuni casi in riferimento al
ruolo, l’organizzazione e i problemi legati alla gestione del territorio, 2004, pp. 52-58
http://www3.ti.ch/DFE/DR/USTAT/allegati/articolo/1173dss_2004-4_6.pdf.
9
avuto il riconoscimento cantonale (...) Il Mendrisiotto in origine comprendeva le comunità appartenenti alla
Pieve di Balerna... 17 comuni, 5 dei quali figuravano come parte della Comunità di Mendrisio (Mendrisio,
Salorino, Genestrerio, Ligornetto e Stabio) mentre gli altri 12 facevano anche parte della Pieve di Balerna:
Balerna, Pedrinate, Novazzano, Vacallo, Sagno, Muggio, Cabbio, Bruzella, Morbio, Caneggio, Castel S.
Pietro, Codrerio, Chiasso, ne fece parte solo dall’800. Se confrontiamo la lista con quella stabilita, risulta
evidente la scomparsa di patriziati anche in località importanti lungo tutta la fascia di confine. Volendo
risalire alle origini di queste sparizioni, ci si dovrà rifare a quanto già più volte evocato, ovvero al burrascoso
periodo che vide la nascita del comune politico in Ticino, e che parallelamente portò molti patriziati per il
timore di perdere i beni che sino ad allora erano stati gestiti in comune, magari anche a favore dei
“forestieri”, a sciogliere le corporazioni e a spartirsi i beni. E questo fenomeno aveva portato come vedremo,
alla sparizione anche di corporazioni illustri, come ad esempio quella di Mendrisio, di recente ricostituita,
per volontà di alcune famiglie patrizie (...) Non potevamo tralasciare una menzione particolare per una
comunità ticinese molto importante, come quella di Mendrisio. Tuttavia il suo collocamento in questa serie
di schede, risponde soprattutto ad un’esigenza di completezza, non essendo in effetti ancora stata
riconosciuta dal Cantone, la ricostituita corporazione di cui parleremo. E’ un altro di quei casi un po’
particolari che abbiamo deciso di inserire ugualmente nei nostri profili, soprattutto per dimostrare ancora una
volta l’attaccamento di una parte della popolazione all’antico istituto patriziale. Membro dell’ALPA, la
corporazione merita dunque un suo posto, seppur con statuto un po’ particolare. Della Storia di Mendrisio
molto è stato scritto, e ad esempio possiamo riferirci alla notevole mole di lavoro svolta da Mario Medici,
che ha portato alla pubblicazione di una Storia del Magnifico Borgo in due volumi. Ritrovamenti antichi in
zona fanno supporre insediamenti molto antichi. Ma Mendrisio, al principio della storia da noi un po’ meglio
conosciuta, doveva essere stata una stazione di una fara di arimanni longobardi, da cui poi sarebbero nati
anche i Torriani. Menzionata nel 793 come “Mendrici”, la comunità di Mendrisio in senso largo
(Mendrisiotto) comprendeva Stabio e la Pieve di Balerna. Nei secoli successivi anche Mendrisio visse da
vicino le lotte per il predominio tra Como e Milano, passando alternativamente alle dipendenze di una parte
o dell’altra a seconda di chi vinceva. Nel Medioevo vi sono menzionati ben 3 castelli, di cui uno era la
residenza della potente famiglia dei Torriani (distrutto però già probabilmente nel 1242 anche se le date
sono controverse) a partire dal ‘200 Mendrisio aveva ottenuto la menzione di “Magnifico Borgo”. Passata
sotto il dominio degli svizzeri nel ‘500 (dal 1522 baliaggio, dopo numerose diatribe), l’organizzazione
sociale di Mendrisio era inizialmente basata su due livelli. La popolazione era infatti suddivisa in due
Corporazioni, quella dei Nobili e Borghesi e quella dei Divisi (alias terrieri o forestieri per altre corporazioni
analoghe nel cantone). La prima corporazione era chiusa ed era già menzionata in un atto di vendita di case a
Capolago nel 1372 (anche nel 1140). Esisteva un Consiglio dei Nobili e dei Borghesi ed un Consiglio del
Borgo. Nel ‘600 alcuni “Divisi” riuscirono ad ottenere lo statuto di Borghesi, ed in pratica le corporazioni
diventarono 3, rimanendo i Nobili quelli con il maggiore potere decisionale, mentre i Borghesi erano tutti i
cittadini anche non originari ma accettati nella comunità entro il 1612 (ci furono anche delle lotte nel ‘600 ’700 per una maggiore partecipazione..) Riguardo agli Statuti, per Mendrisio valsero a lungo quelli
comaschi, e di Statuti veri e propri si parla solo a partire dal 1678 (anche se nel 1402, all’atto della
separazione da Como per passare sotto Milano, pare esistessero degli ordini. Come detto la “Mendrixii
Comunitas” comprendeva anche i vicini di Salorino, Genestrerio, Ligornetto e Stabio, fino al 1798, e
l’organizzazione di questa comunità era piuttosto complicata. Per giungere alla storia recente del patriziato,
dobbiamo fare un passo in avanti fino al 1805, allorquando, mentre confusamente nel neonato Cantone si
realizzava il progetto di separazione del comune politico, le antiche corporazioni vennero sciolte (4 maggio),
mentre i beni passarono gradatamente al comune (è ancora menzionata una spartizione di beni nel 1837). Per
iniziativa di alcuni cittadini patrizi, il 20 febbraio 1974, nella sala superiore dell’albergo Commercio,
presenti un centinaio di appartenenti a famiglie ex-patrizie è stata poi costituita la Corporazione dei Patrizi di
Mendrisio, e allora si dovette constatare che più o meno la metà delle antiche famiglie si era estinta, nei 150
anni di assenza del patriziato (In un elenco redatto dal Prevosto Ambrogio Torriani nel 1817 figuravano
ancora 73 cognomi, che ora si sono ridotti ad una trentina».10
Nel caso del comune di Mendrisio successe qualcosa di particolare: poiché il suo patriziato non
aveva più beni, esso venne disconosciuto nella prima metà del XIX secolo. Il cantone, infatti, non
volle riconoscerlo, cancellando una classe dirigente che per secoli governò il Magnifico Borgo di
Mendrisio. Questo atto ricorda certi provvedimenti di epoca sabauda, fatte dalla Consulta Araldica
del Regno, in cui non si riconobbero molte nobiltà civiche e patriziati italiani, senza un valido
motivo. Resta da chiedersi se si possa cancellare la storia e la qualità di una famiglia, dato che la
10
Flavio Maggi, Patriziati e patrizi ticinesi, Viganello, Pramo Edizioni, 1997.
10
qualità patriziale non dovrebbe dipendere dal potere statale, ma trovare legittimità soltanto nella
propria storia e nella località d’origine.
Fu dunque giusto condannare all’estinzione la classe dirigente di Mendrisio, borgo non certo
secondario del Canton Ticino? Senza scendere in facili complottismi, è facile vedere in ciò
un’anomalia, nonché un errore storico, forse dettato dai tempi rivoluzionari in cui si formò il
cantone. In quelli che furono gli anni decisivi, infatti, la nobiltà di Mendrisio era un baluardo di
certe antiche tradizioni e di un’orgoglio di classe che nella nuova Svizzera “giacobina” sarebbero
dovute esser eliminate politicamente. Ciononostante e a fronte della crisi che negli anni 1960-1970
colpì tutto il patriziato ticinese, Mendrisio ancora una volta si distinse (come la fenice che rinasce
dalle sue ceneri) e si ricostituì più forte che mai nei suoi valori e tradizioni. Lo stesso comune
politico ne assecondò la rinascita, concedendo alla Corporazione dei Patrizi una sede apposita dove
riunirsi, dove tuttora vi si alle pareti gli stemmi araldici delle storiche famiglie. Esse subito si
misero al lavoro della comunità, ad esempio con l’apposizione di targhe illustrative dei monumenti
storici più importanti del borgo, nelle vie centrali, patrocinando libri sulla storia di Mendrisio e
sostenendo altre iniziative.
Nel 1991, per il settecentesimo annibersario della Confederazione Svizzera, la Corporazione donò
al Comune il nuovo Gonfalone e creò un archivio di diversi “Alberi Genealogici” donati da famiglie
patrizie del Borgo (Bosia, Croci, Garobbio, Medici, Lurà, Rusca, Solcà, Torriani, Valsangiacomo e
altri). A riprova del prestigio che la Corporazione gode a livello comunale, cantonale e dei suoi pari
grado patrizi di altre località (essendo membro dall’Alleanza Patriziale Ticinese), c’è la mostra del
2012 “Artisti del Lago di Lugano e del Mendrisiotto nel Granducato di Lituania”. Tale evento
proponeva delle gigantografie raffiguranti le opere architettoniche realizzate dagli architetti ticinesi
nei paesi baltici, allestite nella Chiesa di San Sisinio alla Torre di Mendrisio, in collaborazione col
Console Onorario della Lituania in Ticino, Gintautas Bertasius. In questa circostanza una
delegazione di ambasciatori è stata ricevuta a Bellinzona, al Palazzo delle Orsoline, e a Mendrisio
dall’esecutivo comunale. Nella loro particolare situazione, si possono anche permettere di non
seguire obbligatoriamente le direttive di legge del cantone. Un esempio meritevole di nota è che
negli statuti della Corporazione Patrizi di Mendrisio c’è una particolare regolamentazione della
successione femminile. Nell’articolo 2, infatti, è previsto che la donna trasmette ai figli il titolo, ma
sull’attestato dovrà sempre esser specificato con la formula “del casato dei ...”. Questo per evitare
quello che sta succedendo in Ticino con la Legge Organica Patriziale del ‘92, che permette alle
nuove famiglie patrizie, per successione femminile, di essere acquisite con un nuovo cognome (in
automatico, senza cooptazione e senza nemmeno l’aggiunta del cognome patrizio materno su quello
paterno). Sarebbe un buon correttivo di legge, aggiungere l’obbligo del cognome uterino al fine di
tutelare le famiglie storiche.
In sostanza, il cantone dovrebbe fare ammenda del suo mancato riconoscimento ottocentesco e
rimediare con un atto straordinario a tale fatto. Sicuramente le motivazioni non mancano:
-
Mendrisio è l’unica città che in Canton Ticino ha delle vie dedicate alle proprie famiglie
nobili, ad esempio la via Nobili Rusca, la via Nobili Bosia e la via Nobili Torriani (a riprova
ulteriore della nobiltà civica del Borgo, come diceva il principe Mistruzzi di Frisinga).
Il comune sul proprio sito internet ufficiale ha una sezione dedicata ai patriziati e include la
Corporazione dei Patrizi di Mendrisio.
La corporazione ha inoltre ottenuto donazioni ed appezzamenti di terra.
Essa s’impegna attivamente a livello culturale nella conservazione dei valori e delle
tradizioni.
Nel 2004, in un intervento all’assemblea generale della federazione svizzera dei patriziati, il
Consigliere di Stato a capo del dipartimento delle istituzioni Luigi Pedrazzini disse:
Se negli anni settanta del secolo scorso avessi preannunciato un mio intervento sulla realtà dei patriziati
ticinesi all’inizio del terzo millennio, molti avrebbero pensato a un intervento storico, costruito negli archivi
11
e nei ricordi della gente. Allora, infatti, il vento sembrava andare nella direzione di spazzare via i patriziati,
perché considerati enti locali inutili, composti da pochi privilegiati poco propensi ad allargare il beneficio del
loro stato patriziale. Sui tavoli del Gran Consiglio era stata concretamente posta una richiesta di sciogliere i
patriziati e di trasferire i loro beni ai comuni politici. La mozione Barchi chiedeva in sostanza di esaminare la
“Possibilità di attuare un’integrazione del Patriziato nel Comune politico”. Questa proposta era scaturita
dalle difficoltà vissute in quegli anni da molti Comuni e Patriziati, legate all’aumento dei compiti e oneri per
i Comuni, e ai cambiamenti nell’uso delle proprietà patriziali (molti terreni agricoli erano stati aperti
all’urbanizzazione). La mozione portò alla nomina di una Commissione di studio, che rilasciò il proprio
rapporto nel 1975; le sue conclusione furono chiare: i Patriziati devono rimanere; e così fu. Risultava
comunque chiaro che il Patriziato doveva modificare il proprio scopo, operando in modo maggiore a favore
di tutta la comunità. Oggi possiamo dire che il patriziato ha saputo vincere la sua sfida: il rischio di
scioglimento paventato dalla Mozione Barchi ha dato avvio a riflessioni e studi che hanno spinto il Patriziato
ticinese sulla nuova via della promozione dell’interesse collettivo. Ciò ha condotto al riconoscimento
dell’importanza dei patriziati in icino, linea che si consolidata nell’approvazione della nuova legge
patriziale (LOP) nel 1995, che riprende le indicazioni più importanti scaturite dai lavori commissionali del
1975. Quali le innovazioni prodotte da quella legge?
-
la trasmissione dello stato di patrizio per via femminile, per filiazione e per matrimonio;
la possibilità di concedere in via assembleare lo stato di patrizio a chi
anni nel comune del patriziato (prima 20);
domiciliato da almeno 10
l’istituzione del fondo patriziale;
possibilità di disconoscere enti patriziati che non adempiono più ai requisiti della legge (anche per
evitare che il patriziato potesse diventare simile a un’associazione di diritto privato senza compiti e
proprietà di interesse pubblico).
Fra le innovazioni della nuova legge, sottolineo in particolare la creazione del fondo patriziale, alimentato al
50% da Cantone e dai patriziati più ricchi, con lo scopo di aiutare concretamente investimenti promossi dagli
enti patriziali. Per avere un’idea dell’importanza del fondo, basti indicare che ha erogato aiuti per circa
600’000.- franchi all’anno, saliti ora a fr. 700’000,-.
Sottolineato che la vita dei patriziati in Ticino sul piano politico non soltanto non minacciata, ma oggi
largamente acquisita, va aggiunto che così come il caso per i comuni politici, anche per quanto concerne i
patriziati ci troviamo confrontati con situazioni molto diverse fra loro. In Ticino si contano 212 patriziati. Se
tutti sono custodi dei valori patriziali, tema sul quale ritornerò successivamente, solo una minoranza di
patriziati svolge un’attività economica significativa. Fra questi troviamo patriziati “alpini” (Airolo,
Corporazione dei Boggesi di Piora, ecc.) con proprietà direttamente riferite all’economia agricola, patriziati
“semi urbani” (ancora con proprietà legate all’agricoltura, ma già anche con attività imprenditoriali e
sociali), come Biasca, Carasso, Lodrino, ecc., i patriziati “prealpini” (legati essenzialmente al Sottoceneri e
con proprietà destinate solitamente ad attività agro- turistiche) e i patriziati “urbani” come quelli di Ascona,
Losone, Locarno, Bellinzona e Lugano. Fra questi ultimi, due patriziati della nostra regione (Ascona e
Losone) sono particolarmente dinamici e hanno avviato iniziative e progetti di enorme importanza
economico – turistica (…) Il processo di aggregazione dei comuni non tocca direttamente i patriziati, nel
senso che non si sta promuovendo di pari passo anche l’aggregazione dei patriziati (i cui comprensori in
moltissimi casi coincidevano con quelli dei vecchi comuni). a nostra non una scelta causale, o dettata da
mancata considerazione nei confronti dei patriziati. Noi pensiamo infatti che il processo delle aggregazioni
dei comuni, indispensabile sul piano politico e istituzionale soprattutto nelle regioni periferiche, possa
liberare nuove importanti possibilità di attività patriziali. Al di là della fusione, rimane infatti l’esigenza di
assicurare un legame per le comunità fondato su valori culturali e storici condivisi, sullo sviluppo di
iniziative culturali, su una gestione del territorio attenta alle tradizioni e ai significati storici e d’identità. A
tutte queste funzioni possono rispondere e già rispondono degnamente i patriziati: sempre più numerose
appaiono infatti le iniziative promosse dai patrizi in numerosi comuni del Cantone che, attraverso interventi
sul patrimonio forestale e di sentieri, investimenti di ristrutturazione e di manutenzioni di importanti
immobili storici, promozione di studi e pubblicazioni, mantengono vivo e presente lo spirito vicinale su cui
si fondata la nascita e l’esistenza degli enti patriziali. (…) Dall’esistenza del Fondo patriziale ad oggi, si
stima che i Patriziati ticinesi abbiano eseguito investimenti complessivi per 80 milioni di franchi. Il Fondo
patriziale, dal canto suo, ha contribuito con un totale di 5 milioni di franchi. (…) Elencando la dimensione e
la qualità degli investimenti svolti dai Patriziati, si può senza dubbio affermare che in molte situazioni l’ente
patriziale può svolgere un’utilissima funzione sociale e economica a beneficio di tutta la comunità e non
12
soltanto dei cittadini patrizi. Ma soprattutto, come dicevo in precedenza, io vedo oggi nel patriziato una
responsabilità che va oltre l’importanza economica dei patriziati stessi e che richiama la sostanza dello
spirito patriziale, la capacità propria dei patrizi di identificarsi nel bene condiviso con la stessa forza e
determinazione con cui difendono le loro singole proprietà.11
Nella parte conclusiva del discorso Pedrazzini aggiunge un particolare molto interessante, che
analizzeremo nel successivo paragrafo, ossia il rapporto tra cittadino patrizio, beni comuni e Stato:
Prima di giungere in Consiglio di Stato sono stato direttore di un’azienda elettrica. Mi accadeva abbastanza
spesso di condurre trattative con cittadini e con enti per il transito delle linee di distribuzione. Le discussioni
con i patrizi erano più difficili quando vertevano su beni patriziali che non sulla loro proprietà individuale.
Per questo motivo, in occasione della mia prima partecipazione da Consigliere di Stato all’assemblea
dell’alleanza patriziale avevo sottolineato una differenza che emerge sempre più frequentemente fra il nostro
atteggiamento verso il comune politico o lo Stato, in confronto al rapporto che il cittadini patrizio ha con il
comune patriziale. Nel primo caso vi la tendenza a considerare proprietà di nessuno quanto di proprietà
pubblica; il cittadino patrizio, invece, mantiene una posizione ben diversa e più responsabile verso i beni
patriziali: che sono, che rimangono proprietà di ognuno e di tutti al contempo.
Sono sempre più convinto che la nostra società dovrà recuperare anche in termini culturali, la capacità del
cittadino di identificarsi nei beni e nelle prestazioni degli enti pubblici: dei comuni, dei cantoni e della
Confederazione e di conseguenza rivalutare il senso di responsabilità di ognuno di noi nei confronti di tutto
ciò che pubblico: perché venga rispettato al parti di ciò che privato, anzi ancora di più, perché venga
utilizzato secondo le reali necessità del cittadino e non si presti a abusi, perché venga impiegato con
parsimonia e efficienza. on un discorso ideologico, bensì di approccio mentale e culturale, che continua a
essere largamente testimoniato dagli enti patriziali.12
I patriziati intrattengono i loro rapporti con il cantone tramite il Dipartimento delle Istituzioni,
Sezione degli Enti Locali, che a sua volta ha un suo Ispettorato dei Patriziati. Esso ha un ruolo di
consulenza per tutti gli enti patriziali ticinesi e per i cittadini, oltre che una funzione di vigilanza. Da
un lato, esso ha quindi il compito di verificare affinché i Patriziati applichino correttamente le
disposizioni di legge (in particolare quelle previste dalla Legge organica patriziale – LOP), anche
intervenendo quando è necessario. Dall’altro, esso svolge il ruolo di consulente degli enti e dei
cittadini per le questioni che hanno attinenza con la realtà patriziale. La Sezione degli enti locali
controlla infine, tramite l’ispettorato, la gestione del Fondo di aiuto patriziale, istituito con la LOP
entrata in vigore il primo gennaio 1995 con l’obbiettivo di sponsorizzare opere o infrastrutture di
pubblico interesse. Nel 2009 vi è stato un approfondito lavoro di analisi della realtà locale con la
pubblicazione del rapporto Visioni e prospettive per il patriziato ticinese di Massimiliano Canonica,
oltre a una modifica parziale della LOP che ha stabilito, tra le altre cose, di rafforzare ulteriormente
il ruolo dei patriziati ticinesi quali attori istituzionali complementari ai comuni.
Vi è una tendenza sempre di più del cantone a intervenire in maniera coercitiva: per esempio
rendendo obbligatorio la contabilità a partita doppia entro i prossimi cinque anni. Si rendono più
severe le verifiche del rispetto della legislazione da parte dei patriziati. In altre parole, si sta
andando nella direzione di una progressiva burocratizzazione degli stessi. Questa tendenza è sempre
più radicata e a mio avviso negativa, perché mina la libera gestione dei beni che per secoli i
patriziati hanno dovuto amministrare, imponendo queste regole frutto della modernità a enti di
natura pre-statuale.
Bisogna dire che lo studio strategico realizzato dalla Sezione Enti Locali, è però molto interessante
a livello economico per aver un quadro generale della situazione. Infatti è composto per tre quarti
da schede dei vari patriziati con le seguenti voci:
11
Luigi Pedrazzini, Intervento all’Assemblea generale della Federazione Svizzera dei Patriziati, venerdì 14 maggio
2004, http://www.svbk.ch/gv/gv2004/20040514asspatriziati.pdf.
12
Idem.
13
-
-
Struttura cittadinanza
 A livello demografico c’è un problema poiché non si riesce a reperire i nominativi
completi dei cittadini a cui spettano i diritti, manca un registro dei patrizi ticinesi,
questo dovuto anche a causa della privacy. Le voci riguardano il numero dei fuochi e
dei patrizi
Bilancio
 Patrimonio, capitale di terzi, capitale proprio
Conto di Gestione Corrente
 Spese, ricavi
Conto degli Investimenti
 Uscite, entrate
Conto Amministrativo
 Saldo
Attività Significative
 Reddito di capitali, agricoltura ed apicultura, turismo, infrastrutture di servizio,
locazioni, diritti di superficie (rimangono escluse la cultura e la foresticoltura)
Dimensioni, dotate di un punteggio con la ripartizione seguente, in:
 Consistenza finanziaria
 Situazione finanziaria
 Forza finanziaria
Dal totale dei punteggi di queste ultime voci deriva la tipologia finanziaria dei patriziati: 70 fragili,
102 medi e 37 solidi. Come mostra l’immagine sotto tratta dalla pubblicazione sopracitata, al
momento il trend è medio-basso.
Nelle attività significative, l’analisi sottolinea l’importanza delle locazioni essendo un’attività dal
basso impegno nella gestione di risorse umane, ma con un ottima possibilità di consolidare la
solidità finanziaria nel medio-lungo termine. La situazione patrimoniale dei patriziati ticinesi, ha
avuto un periodo di flessione, ma solo momentanea. Infatti vi è stato un aumento del patrimonio
netto dei patriziati ticinesi. Infine a livello demografico, si è assistito ad un miglioramento negli
ultimi 20 anni. Anche se i numeri sono favorevoli, non si sa fino a che punto la cittadinanza patrizia
sia realmente coinvolta nella vita del proprio ente.
14
Nell’immagine si nota come i patriziati del Sottoceneri siano sottoposti ad uno stress finanziario
Concludendo questo capitolo, oltre all’aspetto giurisprudenziale, possiamo notare come negli ultimi
anni ci si stia avviando verso un processo di razionalizzazione per far fronte alla salvaguardia
dell’ente, sullo stile del New Public Management, per esempio con le aggregazioni comunali. A
livello socio-economico la situazione del patriziato ticinese, potrebbe indirizzarsi verso una
soluzione analoga a quella del comune politico. Davanti a questa situazione l’interrogativo che ci si
pone è fino a che punto il Cantone ha diritto di intromettersi nelle questioni attinenti il patriziato,
essendo come abbiamo visto una corporazione di diritto pubblico, molto particolare? Cercherò di
rispondere a questa domanda nel prossimo capitolo, poiché forse la soluzione ha questo quesito va
rintracciata nell’origine del fenomeno del patriziato, ossia le vicinie e il loro rapporto con il
Federalismo e la concezione dello Stato.
§3. Il sistema delle vicinie, ossia dei patriziati, e l’interazione con il federalismo e le proprietà
comuni
Il patriziato ticinese nasce con il Cantone soltanto nel XIX secolo, ma esso è l’erede di una
istituzione molto più antica, ossia la Vicinia. A tal proposito per far luce di come va intesa questa
struttura sociale può essere utile riferirsi al contributo prezioso della etnologa Giovanna Scolari che
nel suo testo Il Patriziato ticinese, identità pratiche sociali, interventi pubblici parla in maniera
diffusa del Vicinato:
Il Patriziato è proprietario di diritti d’uso sui beni amministrativi, patrimoniali, culturali e sui diritti reali che
vengono amministrati dai rappresentanti dell’istituzione a favore di tutta la comunità. I beni amministrativi
(inalienabili) sono rappresentati dai boschi, pascoli, alpi, case patriziali, ecc. cioè da quei beni che servono
all’adempimento di compiti di diritto pubblico, i beni patrimoniali(alienabili su condizione), invece , sono
privi di uno scopo pubblico diretto e consistono in beni mobili quali ad esempio i capitali, ecc. Un diritto
reale è per esempio un diritto di superficie. Alla base di questa gestione vi è il principio di conservare lo
spirito viciniale il quale rappresenta la dimensione ideologica e l’identità peculiare del Patriziato. Le
caratteristiche appena descritte fanno del Patriziato un gruppo corporativo cioè un gruppo sociale i cui
membri si comportano come persona giuridica di diritto pubblico in relazione al loro diritto di proprietà
collettiva. Hanno una denominazione comune, responsabilità collettive e uno status sancito da regole o
norme riconosciute socialmente (…) Prima del 1798, la forma di governo vigente nella nostra regione, era la
Vicinia in cui il carattere dei beni amministrati e goduti dai vicini era pubblico cioè della comunità. Essa era
15
costituita quasi esclusivamente da vicini, da aventi diritto al godimento dei beni collettivi, che si
distinguevano dai non vicini per il fatto che i primi erano tenuti ad assumere dei doveri quali il giuramento
agli statuti con l’accettazione delle regole comuni di vita e l’accettazione delle cariche, l’accettazione degli
aggravi fissati per ogni fuoco, tanto tasse in denaro (taglie) quanto offerte di prodotti (primizie) e giornate di
lavoro comune. Di conseguenza il non vicino, o forestiero, è invece colui il quale non paga il fuocatico,
quindi non assume nemmeno le cariche pubbliche. Ne consegue che beneficiare dei diritti di vicino è in
stretto legame con l’assunzione degli oneri che ciò implica. Sin dal 1200, sono attestate , nel canton Ticino,
delle corporazioni di diritti: i vicinati di valle. (…) Il sistema dei vicinati di valle si riallaccia alle
corporazioni medioevali e al loro evolversi, nelle forme del comune rurale o cittadino, sino alla fine del ‘700
(…) Il comune rurale normalmente, una comunità di valle e le comunità di valle nascono, normalmente, su
una base religiosa che in Ticino, è la Pieve, attorno alla quale sorge poi la comunità. La vicinia corrisponde
alla definizione di comunità viciniale fornita da Weber, per il quale il vicinato sorge dalla prossimità delle
abitazioni. L’autore considera il villaggio la forma che meglio illustra cosa si intenda per vicinato. Secondo
Weber nella comunità viciniale, si praticava un’attività comune, di vicinato che permetteva di soddisfare
quei bisogni che sorgevano da situazioni di particolare pericolo ed a cui la comunità famigliare non poteva
far fronte. Essere vicini, secondo l’autore, vuol dire che in caso di bisogno si dipende gli uni dagli altri, il
vicinato è quindi un fattore di fratellanza, nel senso prosaico del termine, spogliato di qualsiasi connotazione
patetica e soprattutto dettato d un’etica economica. Questa fratellanza si manifestava sotto forma di aiuto
reciproco, soprattutto di fronte alla scarsità di risorse, attraverso l’aiuto volontario, Bittleihe e attraverso il
lavoro volontario Bittarbeit. Il carattere di fratellanza non esclude però la dimensione conflittuale propria a
qualsiasi comunità. Nel sistema viciniale l’organizzazione economica era quella tipica di ogni società basata
sull’agricoltura e sulla pastorizia e che si ritrovava anche nelle corporazioni urbane delle arti e mestieri, fino
al momento, e oltre, dove prevale il concetto di Bedarfsdeckungswirtschaft (economia della sussistenza) in
contrapposto al concetto della Erwerbswirtschaft precapitalistica e capitalistica (l’economia dell’utile e del
profitto come fini dell’attività economica che viene a sostituirsi alla prima. Questo procedimento è stato
definito ecosistemico e consiste nell’abilità di una popolazione a mantenere un numero equilibrato di persone
che la compongono al fine di assicurare sufficienti risorse. Affinché un tale sistema sia efficace, sono
necessarie due condizioni fondamentali: la presenza di confini che demarchino con nettezza e stabilità il
territorio di una comunità, e la presenza di istituzioni sociali appartenente in grado di mantenere i sistemi
produttivi locali in uno strato di equilibrio e di generare un elevato grado di chiusura demografica ed
economica.13
Da come si evince, le vicinie erano un sistema prestatuale molto organizzato per la gestione dei beni
pubblici, di cui non si era proprietari ma solo “amministratori” per la comunità e per le future
generazioni, vi era un senso di responsabilità e collaborazione tra le parti. Esempi di queste vicinie,
prima che evolvessero nell’attuale patriziato ticinese le troviamo, anche al di fuori del contesto
svizzero per esempio in Italia con i differenti usi civici ossia le università agraricole dell’Emilia
Romagna, le magnifiche comunità in Trentino Alto Adige, le Regole venete, le vicinie della Valle
Camonica, ecc. Solamente in Svizzera possiamo dire che queste tradizioni sono sopravvissute con
vigore relazionandosi con lo Stato in maniera diretta, a riprova i dati statistici precedentemente
citati, ossia che il 75% del territorio cantonale è dei patriziati. Sempre citando Scola possiamo
legere come si è svolto questo confronto:
La struttura viciniale era operativa proprio in una società basata sui legami di parentela; per questa ragione
ritengo la società ticinese anteriore al 1803, cioè alla costituzione del cantone, una società apparentemente
senza Stato centralizzato nel senso moderno del termine. La Vicinia era un sistema basato su un universo di
valori che differiva da quello dello Stato moderno, individualista e democratico. Fu dal 1798 in poi che
cominciò il processo di formazione dello Stato che rappresenta uno degli oggetti di studio di molti
antropologi e che consiste nel passaggio da una forma d’integrazione sociale fondata sulla solidarietà
parentale (ius sanguinis) ad una più allargata (in cui vige lo ius soli). (…) Proseguendo nel tempo, i fattori di
modernizzazione hanno influito sulla società ticinese in maniera tale che, da un’economia della sussistenza si
è passati ad un’economia capitalistica e quindi essa ha occupato sempre più settori secondario e terziario,
scindendosi in classi. (…) Per quel che concerne la componente territoriale, nel nostro caso il discorso è un
po’ diverso da quello della teoria marxista: il territorio è rimasto in larga misura proprietà degli enti
patriziali; di qui, fra l’altro, i conflitti tra Patriziato e Stato. Il principio di discendenza da una parte, quello
13
Giovanna Scolari, Il Patriziato ticinese, identità pratiche sociali, interventi pubblici, Locarno, Armando Dadò, 2003,
pp. 38-41.
16
territoriale dall’altra contribuiscono entrambi alla determinazione del campo politico. Come sostiene Weber,
ciò che caratterizza il gruppo politico, oltre alla possibilità dell’uso legittimo della violenza per garantire i
suoi regolamenti, è il fatto che esso rivendica la dominazione della sua direzione amministrativa e dei suoi
regolamenti su un territorio. Nel caso specifico però il territorio non è proprietà del gruppo politico Stato,
bensì del gruppo a-partitico Patriziato. Quest’ultimo concorre quindi a determinare il campo politico, cioè il
campo in cui si manifestano e si regolano gli interessi della polis: l’esigenza di regolare e coordinare i
rapporti di potere tra le due istituzioni ha come fine più generale di garantire l’equilibrio all’interno della
comunità. Il Patriziato da gruppo parentale a cui competevano le cariche politiche, sociali, economiche e
giuridiche, è diventato un’istituzione politica apartitica, compresa all’interno dell’istituzione politica partitica
superiore rappresentata dallo Stato. (…) Inoltre il Patriziato sempre più confrontato alla perdita di forza del
federalismo che mal si accompagna al processo di centralizzazione dei poteri politici e socio economici a
livello sia cantonale che federale. (…) Di conseguenza si verifica una perdita di autonomia a livello locale, di
fronte all’arrivo di elementi allogeni e di fronte al potere dello Stato, oltre ad una perdita di valore di quello
che era l’elemento ideologico del Patriziato: lo spirito viciniale (…) e strategie di gestione dell’identità
assunte dai rappresentanti dell’istruzione patriziale, sono quelle classiche assunte da un qualsiasi gruppo
etnico che rivendichi la propria identità e ciò malgrado il Patriziato non sia, come ho già sottolineato, un
gruppo etnico bensì un gruppo di discendenza. Tali strategie sono da ricondurre a due concetti base: la
reinterpretazione del passato e la gestione del patrimonio. Da quest’ultima ne scaturisce una terza, propria
dell’ente che riguarda la limitazione della cittadinanza. Questa strategia si è sviluppata soprattutto per far
fronte alla decisione dello Stato di introdurre il concetto dell’ope legis, cioè del rilascio della cittadinanza per
legge. Il patriziato però, come ho già detto nella parte dedicata alla sua definizione, è una società basata sul
sangue (ius sanguinis), di discendenza, alla base agnatizia (…) a dimensione ideologica del patriziato
basata sullo spirito viciniale il quale, per il fatto di esser riconosciuto dal punto di vista giuridico, rappresenta
un Unikum. Questo spirito è completato dai due elementi identitari fondamentali dell’istituzione e dei suoi
rappresentanti: la gestione dei beni comuni, l’esistenza dell’elemento famigliare, definito come fuoco.
Entrambi concorrono a formare il patrimonio dell’istituzione. Questi due fattori implicano tutta una serie di
strategie sviluppate per difendere l’identità patriziale, tra cui la più significativa consiste nella limitazione
della concessione della cittadinanza patriziale. Nella loro preservazione risiede la salvezza dell’ente e la
preservazione del concetto di spirito viciniale. La terra assieme ai beni comuni, rappresenta un importante
fattore di identità in quanto, in primo luogo essa è la ragione d’esistenza dell’ente, secondariamente
rappresenta il tramite con il passato ed infine, se preservata, protegge dall’indebolimento etnico in quanto
impedisce che elementi allogeni vengano ad instaurarsi sul suolo cantonale (…) Il fuoco rappresenta il
focolare, cioè la casa. Esso è costituito da un patrizio maggiorenne con economia propria; di una comunione
di persone patrizie formanti un’unica economia domestica e dalla donna patrizia che mantiene il patriziato da
nubile all’atto del matrimonio (…) Al fuoco legato il nome di famiglia, o cognome. Esso un elemento
identitario molto importante, più importante del nome proprio dell’individuo in quanto cognome permette di
associare l’individuo al luogo di provenienza. Evidentemente al fine di proteggere questo legame tra nome e
località e quindi, in secondo luogo, per proteggere l’identità stessa dell’ente patriziale, bisogna cercare di non
inserire all’interno dei diversi Patriziati nomi estranei. Da una parte la terra e dall’altra chi preserva questa
terra, quindi la famiglia, concorrono a determinare l’identità dell’ente patriziale. E’ nella gestione del
patrimonio, quindi, che risiede la salvaguardia della propria identità di gruppo corporativo. Inoltre, questo
gruppo corporativo, tramite la terra che possiede e tramite il nome, si riallaccia al proprio passato o a parti di
esso, proprio per giustificare il diritto all’esistenza e per essere riconosciuto livello identitario.14
Quindi con l’avvento dello Stato si pone un problema di identità per il patriziato, che lo pone in un
atteggiamento di chiusura sui valori tradizionali della famiglia e della terra. La cittadinanza patrizia
in Ticino, risulta difficilmente ottenibile ex-novo, spetta all’assemlea patrizia la possibilità di
concederla. Nel caso però una persona venga rifiutata, adempiendo alla normativa di legge, si può
far ricorso al Consiglio di Stato del Cantone, che tendenzialmente accetta d’ufficio la persona
rendendola patrizia, imponendosi sulla sovranità collegiale del patriziato stesso. Questo è un chiaro
esempio di intervento dello stato che Max Weber definirebbe illegittimo. Eppure sempre citando
Scolari:
Ora, lo Stato è legittimato ad intervenire sull’istituzione e sulla sua legge in quanto, il patriziato gode della
garanzia costituzionale e nei suoi confronti lo Stato assume degli obblighi anche importanti, specie dal
profilo economico. Nella Legge Organica Patriziale del 1857, il cantone interveniva esclusivamente tramite
14
Ibidem, pp. 47-66.
17
il Dipartimento degli Interni mentre, a partire dalla LOP 1962, il complicarsi delle varie questioni di politica
patriziale, spinsero di Consiglio di Stato a ripartire i vari ambiti di analisi tra più dipartimenti il che comportò
degli interventi più puntuali ed equi ma, proprio per questo, più insistenti.15
Ne è la riprova come abbiamo visto nel capitolo precedente, il fondo d’aiuto patriziale, l’ispettorato
presso la sezione enti locali e per esempio il vincolo delle riforme a livello contabile, nei prossimi
anni. Scolari nel suo testo si schiera nettamente contro la concessione della cittadinanza patrizia per
ope legis. A mio avviso non sarei così drastico, poiché questa visione estremista porterebbe all’idea
che i patriziati devono esistere fino all’estinzione dell’ultimo membro di una famiglia patrizia, per
poi i beni eventualmente esser assorbiti dal comune politico. Trovo che sia uno sbaglio, poiché
queste forme alternative e tradizionali di gestione della cosa pubblica andrebbero tutelate, e
innovate per far si che possano prosperare anche nel futuro, pure Elinor Ostrom come vedremo in
seguito è concorde nell’idea di continua evoluzione del commons rispetto alle sfide che lo
attendono. Fossilizzarsi soltanto sulle famiglie autoctone rischierebbe di portare ad una sterilità
pericolosa, oltre che ad una aristocraticizzazione anacronistica, già parzialmente in atto. Bisogna
assolutamente favorire la mobilità sociale dei cittadini meritevoli nel patriziato, viceversa il baratro
è assicurato, soprattutto nella società del terzo millennio, con una globalizzazione in atto, e
l’erosione del principio federalista anche nella Confederazione Svizzera. A tal proposito come
sostiene, nella sua introduzione al libro di Giovanna Scolari, l’insigne studioso Giovanni Maria
Staffieri:
Ci si può chiedere, quale è stato l’elemento essenziale che ha permesso, alla Vicinia prima e al Patriziato poi
di conservare attivamente attraverso i secoli i principi costitutivi delle libertà ed autonomie comunali nate nel
tardo medioevo e di trasmetterle fino a noi con lo strumento istituzionale indispensabile del diritto pubblico.
A mente chi scrive è la risposta del tutto logica e naturale: il filo conduttore della identità vicinale e patriziale
( e in definitiva comunale ) è costituito dallo spirito federalistico, saldamente radicato nella natura del popolo
ticinese.16
Lo studioso elvetico Denis de Rougemont dedicò molte attenzioni alla sua patria. Nel suo libro La
Svizzera. Storia di un popolo felice sottolineò l’importanza del federalismo e dei comuni. Degni di
nota sono i seguenti passaggi:
La Svizzera, agli occhi dei cittadini che si riconoscono in essa, non è tanto un territorio, come lo fu il regno
dei Capetingi, ma un regime o una formula associativa. L’Elvetia era quasi soltanto un’unità di popolazione
e un’unità geografica. (…) a Svizzera si costituita come un sistema di unioni giurate, a garanzia di alcune
libertà particolari. Non è l’ambizione di creare una potenza collettiva e di estenderne le basi territoriali, ma,
al contrario, la volontà di salvaguardare certe indipendenze locali, che spiega la nascita di questa comunità e
la sua continuità, spinta sino ai giorni nostri. Conviene risalire a questi dati primitivi se vogliamo spiegare il
nostro civismo, il nostro attaccamento sempre più consapevole ai processi federalistici e, infine, la nostra
moderna neutralità. È in questa prospettiva che va interpretata la decisione di datare la nostra storia a partire
da un patto che rimase a lungo trascurato, e che solo successivamente venne assunto quale origine di uno
sviluppo di cui esso illustra gli inizi.17
Le libertà particolari a cui si riferisce de Rougemont sono quelle riferite, in particolare, al non
accettare giudici stranieri, che all’epoca erano gli emissari (balivi) del Sacro Romano Impero, nelle
valli dei cantoni primitivi. È interessante il parallelismo che si potrebbe fare rispetto all’accordo
quadro di cui si parla attualmente: esso prevederebbe l’applicazione delle decisioni del tribunale
europeo anche sul suolo elvetico, per non parlare dei bilaterali che già hanno abbastanza
compromesso la sovranità svizzera rispetto all’Unione europea, anche nelle decisioni
giurisprudenziali. Il filosofo poi prosegue con acume:
Il regime federale della Svizzera esiste da poco più di un secolo, ma ciò basta a fare di esso uno dei più
15
Ibidem, p. 78.
Ibidem, p. 22.
17
Denis de Rougemont, La Svizzera. Storia di un popolo felice, Locarno, Armando Dadò, 1998, pp. 19-20.
16
18
antichi regimi d’Europa, dopo la monarchia inglese, olandese, danese e svedese, è probabilmente il più
stabile. Tutti gli altri paesi del continente che esistevano nel 1848 o che si sono formati più tardi, tanto nella
seconda metà del XIX secolo, come gli stati dell’Est e dei Balcani, hanno cambiato più volte ordinamento,
estensione territoriale e persino composizione etnica. Ora nel gruppo degli Stati più stabili, la Svizzera
occupa una posizione molto singolare. Tutti i fattori classici di unità naturale e di coesione nazionale le fanno
difetto: la monarchia, la lingua unica, l’omogeneità etnica, la religione dominante, o anche un certo
isolamento geografico. Essa coltiva persino con cure gelose tutto ciò che le vecchie nazioni del continente
hanno cercato di eliminare, perché vi vedevano altrettante cause di divisione: l’autonomia degli Stati
membri, l’assoluta libertà confessionale, i privilegi dei gruppi minoritari, e tutti i pluralismi immaginabili,
culturali e sociali, economici e politici, amministrativi e fiscali, persino giudiziari. Insomma, la Svizzera è
l’esempio unico e sotto molti aspetti, paradossale di una federazione realizzatasi nel cuore stesso dell’Europa
delle nazioni unitarie.18
A mio avviso l’unico stato simile per tradizione alla Svizzera è la Serenissima Repubblica di San
Marino, che infatti aveva anche lei un patriziato strettamente legato alla cittadinanza ed entrambe
queste realtà affondano le loro radici nell’universo dei comuni rurali. Anche Rougemont parla dei
patriziati o, meglio, dei comuni borghesi, essendo uno scrittore della Svizzera francese. Come
precedentemente scritto, va ricordato che l’ambiguità del nome “patriziato” è una caratteristica
speciale che si riscontra solo in Canton Ticino. Ma prima di arrivare al concetto del comune
borghese, Rougemont parla del comune come vera base di partenza del processo federalistico. Basti
pensare alla cittadinanza nella Confederazione Elvetica, dato che qui come da nessuna altra parte la
cittadinanza ha un legame così forte con il comune:
Per diventare Svizzero, al contrario, occorre prima di tutto farsi accettare da un comune. È necessario
risiedervi per otto o dodici anni, dopo aver ottenuto dalle autorità federali un permesso di naturalizzazione e
al termine di questa prova di assimilazione, si diventa cittadino del comune, e di conseguenza del cantone dal
quale esso dipende. Solo a questo punto è possibile ricevere un passaporto svizzero. (…) a vera cellula di
base della Svizzera è dunque il comune: è attraverso il comune che si viene a godere della cittadinanza, ed è
attraverso il comune che la federazione si è storicamente costituita. I cantoni sono venuti dopo, e il potere
federale è giunto buon ultimo. – In Svizzera, il comune è un piccolo stato – dichiarava recentemente il
consigliere federale Roger Bonvin, riprendendo la definizione di Althusius, primo teorico del regime
federalista. (…) Il principio federalista è alla base non solo dei rapporti tra la Confederazione e i cantoni, ma
anche delle relazioni tra il governo cantonale e i comuni. Dal punto di vista puramente formale questi ultimi
godono unicamente dei diritti loro concessi dalla legislazione cantonale. Ma in nessun caso essi sono stati
sottoposti all’autorità dei funzionari cantonali… Sin dalle origini, come dimostra il patto del 1291, la
Confederazione ha ammesso il principio dell’autonomia del comune.. ed è a quelle origini che i nostri
cantoni devono il fatto di non essere mai divenuti degli Stati burocratici e centralizzati, ma di essere rimasti
sino ad oggi degli Stati popolari, fondati sul diritto e la cui prima missione è l’amministrazione della
giustizia. (…) a caratteristica dello Stato popolare svizzero risiede nella dipendenza dell’amministrazione
nei confronti della giustizia – E questo ci ricorda il Libro Bianco di Sarnen e le leggende che narrano la lotta
dei Waldstätten contro i balivi. Quei balivi, infatti, svolgevano un ruolo paragonabile a quello dei prefetti in
parecchi Stati moderni. Quando il prefetto si fa interprete delle direttive del potere centrale, il comune non è
che un organo esecutivo e diviene, a sua volta uno strumento della centralizzazione. In Svizzera, al contrario,
i diritti del comune sono limitati soltanto dalla legge, mai dalle cariche amministrative superiori. Il comune
decide in prima istanza, e il cantone interviene solo in appello. L’origine antica dei comuni svizzeri ha
lasciato tracce rilevanti nella loro attuale organizzazione. È così che si distingue, ad esempio, il comune
borghese, che comprende i discendenti delle famiglie fondatrici, e il comune politico che associa anche gli
aderenti di più fresca data. Solo i borghesi hanno diritto all’amministrazione e alla ripartizione dei proventi
dei beni comunali (boschi, pascoli, vigne, cantine, greggi). In caso di indigenza, sono aiutati dalla borghesia
del loro luogo d’origine, anche se essi non hanno mai abitato in quel territorio, Questo diritto d’origine non si
perde mai (alcune antiche famiglie possiedono la borghesia d’onore in parecchi comuni, sino a dieci o
dodici, e i fruiscono teoricamente di tutti i diritti appena citati). La vita civica, nei piccoli comuni, soprattutto
rurali, non si è molto evoluta dai tempi delle Leghe.19
Questo “diritto d’origine” come lo definisce de Rougemont, è veramente un concetto affascinante e
18
19
Ibidem, p. 100.
Ibidem, pp. 102-104.
19
sorprendente soprattutto se pensiamo che è ancora una realtà viva in una nazione di primo piano
mondiale a livello socio-economico, con una massiccia immigrazione, con elementi che
lascerebbero sicuramente pensare anacronistica questa tradizione, che invece è viva più che mai. È
sopravvissuta al livellamento dello Stato centralista occidentale e spero di aver mostrato come
questo risultato sia stato raggiunto anche grazie al sistema del federalismo, da cui è garantita.
A riprova vi è un interessante saggio dal titolo Dalle vicinie al federalismo: autogoverno e
responsabilità , nella cui introduzione ci sono dei passaggi molto interessanti:
Riflettere sull’esperienza delle Vicinie, delle antiche comunità di villaggio e delle proprietà collettive obbliga
a fare i conti con quanto ostinatamente permane della società di un tempo, perché vi sono proprietà condivise
ancora vitali e ben determinate a difendersi di fronte alle logiche del potere statale. (…) È pure interessante
rilevare che quella vicinale sia una proprietà che spesso entra in conflitto con le logiche del formalismo
giuridico prevalente, figlio di una storia che ha voluto lasciare sulla scena solo due attori: lo Stato e
l’individuo. E tutto questo perché il dominio politico statuale emerso nel corso degli ultimi secoli di storia
europea potesse espandersi senza incontrare ostacoli (…) Per essere fedele alle proprie premesse, la
dimensione contrattuale delle istituzioni federali – anche delle più grandi – deve insomma rinviare a pratiche
sociali che siano coerenti con l’ispirazione liberale che sottende l’intesa: quindi rispettando la proprietà,
riconoscendo i diritti altrui, valorizzando le relazioni scelte. La Vicinia, che è un assemblea di
comproprietari, rappresenta allora in qualche modo il modello di una comunità perfettamente coerente con
gli scrupoli di una società libera, basata sulla trascendenza dell’altro: sul rispetto assoluto che dobbiamo agli
altri, alle loro proprietà, alle loro decisioni. Oltre a ciò la Vicinia è un’istituzione che può favorire un
ripensamento della proprietà che sia anche in grado di prospettare un diverso universo politico: un ordine
affidato ai singoli e alle loro opzioni, e in cui l’interazione spontanea e volontaria prevalga sulle logiche della
decisione sovrana. Non si tratta quindi di idealizzare le radici, che pure vanno conosciute e in molti casi
anche apprezzate. Si tratta invece di capire che la statualità è figlia di tante ingiustizie, guerre e violenze, e
che spesso le istituzioni che a noi appaiono “normali” sono il risultato di vicende feroci.(…) Un altro mito
che la Vicinia aiuta a mettere in crisi è che in assenza dello Stato, non vi sia modo di convivere, cooperare,
interagire. A suo modo, le minuscole comunità rurali che punteggiavano larga parte d’Europa prima che lo
Stato degradasse ogni istituzione locale a semplice proiezione del suo potere, facendone mere entità
amministrative, fanno parte di quell’altra metà del cielo – per usare una felice espressione di Gianfranco
Miglio – che per secoli ha rappresentano un’alternativa al modello statale. In fondo, la Vicinia ci ricorda
anche come la Great Division tra “diritto pubblico” e “diritto privato” sia tutta interna alla modernità, ma non
abbia in sé alcunché di fatale e insuperabile. I membri della comunità di villaggio (i vicini) erano proprietari
e comproprietari, legati giuridicamente e non solo, ma certo operanti sulla base di quegli schemi volontari e
liberamente sottoscritti che sono tuttora alla base del federalismo.20
La questione dei beni comuni non è relegata soltanto alle Vicinie o Patriziati. Questi sistemi di
gestione tradizionali possiamo dire che si intersechino con la problematica della proprietà privata e
dell’individualismo ad essa collegata, erede della concezione che abbiamo recepito dal diritto
romano. Proprio queste tematiche sono frutto di studi molto dibattuti a livello economico, che
hanno permesso a Elinor Ostrom di ottenere il Nobel per l’economia.
Nel volume Governing the Commons emerge chiaramente come i commons vadano visti nell’ottica
di soluzioni di mercato che s’impongono grazie al concetto di proprietà stessa e non in contrasto ad
essa. In altri termini la condivisione e la cooperazione sono le parole chiave che il premio Nobel ha
individuato per pianificare una tattica economica e razionale. Per la Ostrom i commons sono le
fondamenta su sui si può ergere un sistema libero, che non necessita di un aiuto del sistema
pubblico, con le conseguenze che esso porta: regolamentazione, fisco, burocrazia, ecc. È ovvio che
per sopperire al welfare state ci deve esser una forma di socialismo volontario, che comunque non
viene ostacolata dalla tradizione libertaria.
Qui troviamo una conferma della vitalità delle istituzioni vicinali, intese come commons. Essa
amministrano infatti le proprie proprietà, che sono al tempo stesso proprietà ma in comune, e per i
membri indigenti di essa c’è anche un risvolto sociale di assistenza (come abbiamo visto
precedentemente nei passi di Rougemont sul comune borghese: termine interscambiabile con
20
Carlo ottieri, “Introduzione” a: Carlo ottieri, a cura di, Dalle vicine al federalismo, Pordenone, Associazione
Culturale Carlo Cattaneo, 2010, pp. XIV-XVII.
20
vicinia, patriziato, ecc.). A tal proposito può essere utile riportare un passo di un saggio di Nadia
Carestiato, “Oltre la tragedia dei ‘commons’”:
Secondo la definizione data da Ostrom, i commons corrispondono ad ogni risorsa, naturale e/o artificiale,
sfruttata insieme da più utilizzatori i cui processi di esclusione dall’uso sono difficili e /o costosi, ma non
impossibili. La ricerca della studiosa si è concentrata in particolare sui sistemi di risorse collettive di piccole
dimensioni, in cui il numero degli individui che dipendono dalla risorsa varia da un minimo di 50 ad un
massimo di 1500. Alla scala locale tali sistemi coincidono con piccole zone di pesca costiera, aree di
pascolo, bacini di acque sotterranee, sistemi di irrigazione e foreste collettive.
Come si nota, anche il campione di ricerca è molto simile alle caratteristiche del patriziato. E
aggiunge:
Carlo Cattaneo, quando nella sua relazione sulle condizioni agrarie del piano di Magadino (Alta Valle del
Ticino) si trovò a dover descrivere le numerose forme di appropriazione collettiva che ancora a metà
Ottocento caratterizzavano quella zona la indicò come “un’ altra legislazione, un altro ordine sociale che
inosservato discese da remotissimi secoli fino a noi”. L’ attuale riflessione sui beni comuni, e sulla proprietà
collettiva in particolare, si lega e si incrocia con le problematiche relative alla globalizzazione e al
ripensamento dei suoi processi costitutivi: dal modello di sviluppo di matrice liberista, alla crescita delle
disuguaglianze su scala planetaria, all’inquinamento del pianeta. Sui commons, infatti, si concentrano oggi le
aspirazioni di molte popolazioni – in gran parte dei Paesi in via di sviluppo – e di piccole comunità locali per
avviare una gestione democratica e sostenibile del proprio territorio. Gli economisti definiscono la proprietà
collettiva un ordinamento di diritti di proprietà nel quale un gruppo di utenti di una risorsa condivide diritti e
doveri verso di essa. In termini più estesi la proprietà collettiva è un assetto particolare di vita associata che
si struttura su una stretta relazione tra risorse naturali, comunità e singoli attori. La proprietà collettiva trova
fondamento sul concorso di tre fattori: la pluralità di persone individuata nella comunità locale chiamata a
gestire il patrimonio di collettività e a raggiungere uno scopo comune sulla base di regole che la comunità
stessa si dà; il regime giuridico dei beni collettivi, contraddistinto dalla loro incommerciabilità e
inappropriabilità; il suo scopo istituzionale, in base al quale la proprietà collettiva non ha finalità speculative
ma mira a fornire beni, servizi od occasioni di lavoro ai componenti della collettività locale, portando un
vantaggio patrimoniale collettivo. Aspetto interessante legato ai sistemi di risorse collettive è dato dalla
ricorrenza di caratteri comuni. Le analogie più significative sono: la definizione delle regole alla base del
governo delle risorse, formulate nel tempo per definire il giusto comportamento, e strutturate per permettere
agli individui di vivere in stretta interdipendenza, senza eccessivi conflitti; e la lunga durata degli istituti
collettivi. Per Ostrom la resistenza nel tempo dei sistemi di risorse collettive dipende dalla capacità di
adeguamento delle regole preposte al loro governo, alle trasformazioni tecnologiche e alle sfide ambientali
intervenute nel tempo, inteso spesso come secoli. Un mancato superamento dei problemi relativi alla loro
gestione, in pratica l’incapacità di trasformazione, può portare alla privatizzazione della risorsa, alla
regolamentazione da parte di un’autorità esterna o come fase estrema alla sua distruzione.21
Quest’ultimo passaggio sottolinea la problematica che avevo precedentemente trattato, ossia la
rigidità nell’ascesa di nuove famiglie al patriziato ticinese, può portare nel medio-lungo termine a
delle intromissioni sempre più forti del cantone, come sta già succedendo, regolamentando o in
alcuni casi disconoscendo qualche patriziato, il che equivale alla distruzione dei commons.
§4. Conclusioni
Con questo contributo mi auguro di aver mostrato le caratteristiche e le qualità che
contraddistinguono il patriziato in Canton Ticino e le omologhe istituzioni nel resto della Svizzera.
Dalla nascita nel XIX secolo come eredi delle più antiche vicinie, esempio di gestione dei beni
comuni prima del formarsi dello Stato moderno, al successivo confronto con l’autorità cantonale,
risulta fondamentale l’apporto che il federalismo ha avuto nella salvaguardia di questo costume,
rispetto alle altre nazioni centraliste. A coloro che sostengono non egualitario questo sistema
21
adia Carestiato, “Oltre la tragedia dei ‘commons’”, in: Carlo ottieri, a cura di, Dalle vicinie al federalismo, pp. 34-
36.
21
tradizionale della gestione dei commons, essendo tutti i cittadini uguali davanti alla legge, rispondo
citando la Costituzione federale della Confederazione svizzera, al capitolo 2, che riguarda la
cittadinanza e i diritti politici, l’articolo 37 comma 2:
Nessuno dev’essere favorito o sfavorito a causa della sua cittadinanza. Sono eccettuate le prescrizioni sui
diritti politici nei patriziati e nelle corporazioni, nonché sulle quote di partecipazione al loro patrimonio,
salvo diversa disposizione della legislazione cantonale.
Si può ben dire che il patriziato sia pienamente tutelato dalla Svizzera, non solo con le apposite
leggi cantonali, ma addirittura in Costituzione. Certamente il rapporto dei patriziati con il cantone è
sempre molto delicato e infatti anche nell’articolo vediamo che la legislazione cantonale può dare
differenti disposizioni. Nel caso specifico, dall’analisi dei testi si nota come sia complesso accedere
allo status patriziale ex novo e come questo in futuro potrebbe costituire una minaccia per la
sopravvivenza dei patriziati in maniera indipendente. Il rischio di disconoscimento è alto, poiché le
prestazioni e le richieste che il cantone avanza sono sempre più impegnative, come anche i
controlli. Un comportamento a mio avviso da condannare, essendo inopportuna questa
intromissione cantonale nelle questioni locali.
È necessario trovare la forza di fare scelte coraggiose e controcorrente per destare l’interesse e la
sensibilità dei cittadini del comune politico oltre che patriziale, evitando sterili chiusure al fine di
mantenere viva questa antica tradizione prestatuale.
In questo senso è interessante come la storia che dall’istituto delle vicinie conduca fino agli attuali
patriziati e penso che tutto questo debba esser preso a esempio di un amore incondizionato per la
libertà, contro ogni rischio di annientamento da parte di uno Stato prevaricatore, che nel caso della
Svizzera ha potuto trovar un felice accoglimento nell’ordinamento legale della Confederazione, a
riconferma della validità federalista.
È in questo senso da auspicare che i patriziati, anche in qualità di eredi delle vicinie, possano ancora
prosperare, essendo gli antichi testimoni della più pura tradizione elvetica in tema di autonomia e
autogestione dei beni comuni.
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Voltolina, 1998.
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L’autore
Francesco Cerea ha studiato a Lugano (Svizzera), conseguendo un Bachelor of Arts in Filosofia ed
economia all’Istituto di Studi Filosofici della Facoltà di Teologia di Lugano. Ha concluso i suoi
studi discutendo – sotto la guida di Carlo Lottieri – un lavoro dal titolo Il patriziato elvetico tra beni
comuni e tradizioni prestatuali, da cui questo lavoro è stato tratto.
L’istituto
Lo Switzerland Institute in Venice è un istituto sorto per iniziativa di Luigi Marco Bassani, Carlo
Lottieri e Daniele Velo Dalbrenta al fine di discutere – particolarmente in ambito accademico – i
temi del diritto di secessione e della concorrenza istituzionale, da un lato, e della libertà e della
proprietà, dall’altro.
L’obiettivo è promuovere e sostenere ricerche che favoriscano una crescente legittimazione di
quelle iniziative politiche che meglio possono favorire la libertà d’impresa e l’autogoverno, traendo
lezione anche dall’esperienza storica della Svizzera. Il riferimento alla società elvetica nasce non
solo dall’intenzione di operare a cavallo tra il icino e il Veneto, ma anche perché i promotori
considerano la società svizzera un modello da imitare e un’occasione di riflessione per l’intera
Europa, e più specificamente per le aree di lingua italiana.
Scopo dell’istituto è mostrare come quella svizzera sia una sorta di “utopia realizzata”: un modello
imperfetto, naturalmente, ma che può aiutare a dirigersi nella giusta direzione.
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