i ghiribizzi narrativi di Vittorio Imbriani - ISBN 88-7916-246-2

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i ghiribizzi narrativi di Vittorio Imbriani - ISBN 88-7916-246-2
INTRODUZIONE
IL GROTTESCO OLTRANZISTA
DEL MISANTROPO NAPOLITANO
1.
L’APPELLO AL LETTORE IPOTETICO
Le categorie dell’eccentrico, l’anomalo, il bizzarro, il misantropico, entro
cui Vittorio Imbriani è stato quasi sempre catalogato, non rendono ragione del suo valore letterario né della sua viscerale intelligenza di tanti
aspetti della società italiana fuoriuscita dagli eventi risorgimentali. Della
sua falotica figura, ricondotta perlopiù a uno squilibrio tutto individuale
e idiosincratico, va così smarrita l’attitudine a interpretare un malessere
profondo di larghi settori della collettività: tanto più notevole proprio
perché a esso sa dar voce in termini così energici e peculiari. La specificità scontorta dell’espressione appare proporzionale all’intensità endemica
del disagio.
D’altra parte, l’arditezza dei risultati estetici raggiunti li rende malagevoli sia a chi condivide la medesima insoddisfazione, sia soprattutto
alla classe dirigente che avrebbe i mezzi per porvi rimedio. La borghesia
egemone si vede restituita dai testi di Imbriani un’immagine di sé che
non è disposta ad accettare, perché ciò imporrebbe di rivedere assetti
ideologici, equilibri di convenienza e modi di convivenza costituiti. Il criticismo imbrianesco si esercita infatti sulle forme di comunicazione letteraria che tendono a convalidare la presunzione di assennatezza e ad appagare l’anelito di autenticità dell’immaginario borghese. La violazione
convulsa dei codici narrativi congeniali al pubblico ‘moderato’ del Regno
d’Italia implica appunto il disconoscimento delle sue istanze di autorappresentazione, che vengono ripudiate o messe alla berlina allorché si dimostrano prive di attendibilità e coerenza rispetto ai crudi svolgimenti
dell’esistenza associata.
Imbriani avverte con tanta più urgenza la necessità di intervenire sui
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INTRODUZIONE
generi di maggiore diffusione, proprio perché riconosce come l’incremento e il differenziarsi dell’attività letteraria rispondano ai bisogni accresciuti e meglio definiti di un pubblico più numeroso e insieme più esigente. La moderna copiosità di racconti e romanzi è atta a soddisfare
nuove e più puntuali esigenze di lettura, quali si riscontrano in un paese
avviato allo sviluppo industriale: dove sono alimentate dall’estensione
della cultura alfabetica, dall’ampliarsi della circolazione di merci e idee,
dall’aggiornamento dei modi di produzione economica:
In qual secolo si è fatto quel consumo di novelle e di romanzi, che si fa
ora? Se prima a soddisfare i bisogni estetici del volgo bastavano per
l’infanzia una cinquantina di cunti d’orchi e di fate e di streghe, per la
gioventù una cinquantina di rispetti e stornelli e canzonette, per la virilità una cinquantina di storie degli Spicciarelli o del Crocefisso di S. Tecla di Valenza o ’Ncoppa a lu cacare, per la vecchiaia una cinquantina di
facezie tradizionali oscene (esoneratemi dal darvene degli esempi); ora,
invece di queste cento o duecento produzioni della fantasia, non ci è
lustrastivali che non voglia ogni giorno la sua brava appendice ed ogni
settimana il suo Romanziere illustrato, e innanzi a tutto pasto, e sempre
roba nuova, che solletichi la sua immaginazione. In somma, la richiesta
di prodotti artificiali non fu mai maggiore e sembra dover aumentare
continuamente. In Inghilterra le novelle ammontano per ogni anno a
più di quattrocento, le più in volumi: parlo delle novità! senza mentovare le ristampe: cioè almeno due o tre volumi al giorno di prodotti
fantastici. Se quindi la richiesta aumenta, non vien meno la produzione.
– Ma non escono capolavori! – O che i capolavori schiudono a migliaia,
come i pulcini ne’ forni egiziani? Cessi il cielo! e che ne faremmo? e in
qual secolo poetico sono spuntati con l’abbondanza di funghi? 1
Imbriani insomma si dimostra tutt’altro che scandalizzato dall’accesso di
lettori nuovi alla dimensione della narrativa stampata, non lo associa all’inevitabile degrado della scrittura che tanti intellettuali, tra Otto e Novecento, denunciano nell’allargamento del sistema letterario a nuovi soggetti sociali. Rileva opportunamente come una produzione destinata al
pubblico popolare, fatta di fiabe, rispetti, novelle, facezie a seconda delle
fasce d’età, esistesse anche in precedenza, benché confinata al di fuori
della letterarietà colta. Mentre ora il nuovo statuto merceologico della
letteratura popolare e il suo passaggio alla dimensione editoriale le conferiscono evidenza ben maggiore e prossimità al campo della letteratura
d’arte.
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Vittorio Imbriani, Lettera X [1868], Dal carteggio inedito di Angelo Camillo De
Meis. Documenti comunicati all’Accademia Pontaniana nella tornata del 7 novembre
1915 dal socio Benedetto Croce, Napoli, Stabilimento tipografico Giannini, 1915, p. 27.
L’APPELLO AL LETTORE IPOTETICO
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Imbriani constata senza dubbio il livello scadente di tanta narrativa a
destinazione medio-bassa, ma nota pure che le opere davvero memorabili
non sono mai state di facile composizione: nulla da eccepire dunque circa
la loro perdurante rarità. Il fermento di nuovi bisogni estetici presso gli
strati di più recente acculturazione, per altro verso, gli consente di controbattere con saldi argomenti alla teoria della ‘morte dell’arte’, concepita da Hegel e ripresa da vari esponenti dell’idealismo napoletano, tra cui
proprio l’amico Angelo Camillo De Meis. L’odierno consumo di narrativa d’appendice, seppure non garantisce l’infittirsi di opere geniali, assicura nondimeno la continuità tutt’altro che peritura del fare artistico.
Non è tuttavia ai lettori popolari che Imbriani si rivolge, con i suoi
racconti e romanzi. Per poter sostenere il confronto con un pubblico di
competenza elementare, troppo anticonformista ne appare lo spettro di
scelte compositive e ideologiche, troppo impudente il rapporto con la
tradizione letteraria, a tacere poi delle fonti e dei modelli disparati. Il fatto è, però, che neppure il pubblico più colto dell’epoca è in grado di cogliere agevolmente la portata innovativa dell’estrosità imbrianesca, né di
tollerarne l’oltraggio provocatorio. A intendere tutto ciò, si richiede una
cultura, una perizia e una sensibilità affini a quelle dell’autore medesimo.
Eppure i testi del Misantropo Napolitano – come lui stesso ama designarsi – sono sorretti da una fortissima tensione verso il destinatario che
sconfina spesso nell’aggressività, declinata volta per volta in senso parenetico, suasorio, polemico, ludico, dimostrativo. L’ansia di urtarsi con
l’alterità di un interlocutore, di riversare su qualcuno la propria parola, di
commisurarsi a un termine contraddittorio, è tale che nel discorso viene
evocata sotto specie di narratario la figura stessa del lettore: di cui occorre prevenire le proteste, sopire i dubbi, ribattere alle repliche, smantellare i pregiudizi, fomentare l’insofferenza, supplicare la comprensione,
mettere alla prova il sapere, condividere la commozione: in una sorta di
dialogo immaginario ininterrotto.
La presenza di un lettore-personaggio nella narrativa imbrianesca,
tanto cospicua quanto fittizia, varrà allora non solo ad animare il resoconto mediante la simulazione di un franco colloquio con l’uditorio, intonato a modi amichevoli o rissosi che sia, ma anche e soprattutto a suscitare il fantasma di un lettore empirico inesistente. La consapevolezza delle
difficoltà ricettive poste al pubblico coevo induce Imbriani, con un atto
dai risvolti quasi apotropaici, a prospettarsi o almeno fingere l’immagine
di un lettore ipotetico disponibile al confronto, proprio perché il lettore
reale è di fatto scontentato, offeso, respinto dalla lettura dei suoi testi.
Il simulacro di questo lettore ipotetico, prefigurato nella narrazione,
vale inoltre a suggerire atteggiamenti di lettura da assumere o da scansare, illustra modi di impiego e di funzionamento del testo, offre l’opportu-
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INTRODUZIONE
nità di precisare motivazioni di poetica, funge al limite da succedaneo
fantastico in mancanza di un destinatario elettivo all’interno del pubblico
storicamente costituito. È improntato insomma a scopi ambivalenti: per
un verso cerca di mitigare gli intralci obiettivi alla comprensione dell’opera, o almeno di spiegarne il senso, per l’altro verso sollecita ancor
più le abilità di decifrazione del ricevente, ponendo ulteriori intoppi e
provocazioni. A finalità di tipo didattico, dunque, si sommano e sovrappongono finalità di tipo sperimentale: l’orientamento della situazione
narrativa verso il lettore è ricompreso nel racconto, e riconvertito alle
contraffazioni dell’umorismo.
Del resto, in coerenza con inclinazioni letterarie di taglio così selettivo, Imbriani predispone per i suoi testi più arditi edizioni a bassa tiratura, da diffondere nella cerchia delle amicizie intellettuali e degli intimi
compagni di partito. Si tratta di opuscoli pubblicati in numero di poche
decine, dove l’eccentrica preziosità tipografico-editoriale fa da riscontro
alla singolarità di concezione. Le tre maruzze, per esempio, compare nel
1875 in ventotto copie, di cui sette in carta rossa, sette in carta turchina,
sette in carta verde e sette in carta violacea, senza che vi sia riportato il
nome dell’autore. La Compassionevole istoria dell’infelice caso successo
per cagion di fiammiferi tra due tangheri oltramontani Guglielmo Tell e
Federigo Schiller nella città di Napoli «non trovasi da nessun libraio» – recita il frontespizio –, edita com’è in cento esemplari, nel 1877. Lo stesso
anno La novella del vivicomburio circola in novanta copie, delle quali settanta su carta grigiastra e venti su carta pregiata.
Dopo la prima privatissima diffusione, due testi capitali della novellistica più ‘indecorosa’, di gusto licenzioso e blasfemo, come sono appunto
Le tre maruzze e La novella del vivicomburio, saranno ristampati integralmente solo nel 1977 da Antonio Palermo, nella raccolta Il vivicomburio e
altre novelle (Firenze, Vallecchi). A ciò si aggiunga che alcuni importanti
abbozzi e novelle incompiute vengono pubblicati solamente postumi,
persino in pieno Novecento, benché molti di essi siano giunti a un avanzato grado di elaborazione. Si delinea insomma il quadro di una produzione narrativa per buona parte inedita o misconosciuta, che non poteva
essere apprezzata dai contemporanei anche perché materialmente irreperibile.
La valutazione complessiva dell’Imbriani narratore deve quindi integrare la conoscenza dei racconti e dei romanzi che hanno avuto almeno
risonanza presso i lettori ottocenteschi, con lo studio di testi secretati,
che si sono potuti guadagnare un qualche pubblico soltanto un secolo
dopo essere stati scritti. Peraltro tale bipartizione ricettiva, funzionale a
riconoscere diverse tipologie di genere entro l’insieme eterogeneo della
narrativa imbrianesca, sussiste nell’autocoscienza stessa dell’autore. Per-
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ché Imbriani se da un lato propone edizioni e opuscoli non venali ai conoscenti più stretti, riconoscendone l’inattualità ‘scabrosa’, dall’altro lato
per i suoi testi meno improponibili persegue un’eco ben maggiore sulle
pagine dei periodici. A dispetto dell’aristocratica sofisticheria cui sono
informate, infatti, il maggior numero delle sue composizioni narrative
compare in primo luogo su quotidiani o riviste, per circolare poi in estratto: si rivolge dunque non solo ai frequentatori del mercato librario,
ma al pubblico più largo della stampa giornalistica.
Quotidiani e riviste appaiono a Imbriani i veicoli principali se non
unici per la costituzione e l’orientamento di un’opinione pubblica nazionale. Benché non abbia una grande stima di coloro che operano nel settore dell’informazione, non manca di sottolineare la rilevanza del mezzo
giornalistico, specie in un contesto dove è ancora così poco praticata la
cultura del libro. Proprio sui periodici egli punta allora perché le sue narrazioni possano suscitare curiosità o indurre reazioni di portata relativamente più consistente che non attraverso l’esclusiva diffusione in volume.
Si tratterà perlopiù di riviste specialistiche, o di quotidiani politici dalla
marcata linea militante, che non assicurano dunque il raggiungimento del
pubblico borghese medio nella sua generalità, ma si rivolgono a gruppi di
lettori ben definiti per qualifica culturale o appartenenza di partito: in
ogni caso, nell’immediato la trasmissione è senz’altro meno circoscritta
rispetto a quella garantita dalla forma libro, sia quanto alle categorie di
interesse raggiunte sia quanto allo spessore degli strati socioculturali attraversati.
Senonché le invenzioni letterarie congegnate da Imbriani permangono in flagrante contraddizione con la potenziale latitudine dell’utenza
giornalistica: nel senso che non risultano esteticamente accessibili al numero di lettori pur non esiguo con i quali entrano in contatto, a causa del
complesso di competenze e della spregiudicatezza morale che richiedono
per essere assimilati. Sortiranno bensì un pronto effetto di scalpore, ma
allo scandalo di primo acchito non terrà dietro quell’investimento oneroso di risorse etiche e intellettuali che Imbriani si propone di sollecitare al
fine di una revisione della norma ideologica e degli abiti civili.
Per tanti versi in patente contrasto con la classe a cui appartiene, Imbriani non rinuncia tuttavia a far echeggiare il volume fragoroso della sua
voce di protesta proprio attraverso gli strumenti formali e comunicativi
da essa prediletti. Il programmatico stravolgimento dei vettori editoriali e
dei moduli di discorso correnti nell’immaginario borghese, volto a scuoterne le mistificazioni, le bellurie, le stolidità, è ripagato con il travisamento e la rimozione dei testi imbrianeschi. Dal che non vengono scalfite, anzi semmai rinvigorite, le motivazioni di sdegno che sostentano l’invettiva e l’irrisione dell’autore.
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2.
INTRODUZIONE
RACCONTI, NOVELLE, ROMANZI
Assodato che Vittorio Imbriani occupa un posto di tutto rilievo nella
produzione letteraria del secondo Ottocento, occorre trovargli più precisa collocazione nell’ambito della narrativa di orientamento espressionista
d’epoca postunitaria, agli antipodi del coetaneo Giovanni Verga, nato lui
pure nel 1840. Egli appartiene a quella cerchia di autori – in parte ascritti
alla scapigliatura – nei quali l’urgenza espressiva assume caratteri particolarmente irti e aggrovigliati, volti sovente all’umorismo o al grottesco.
Tali modalità di rappresentazione, dalle forti implicazioni satiriche ed
eversive, si possono meglio comprendere in contrasto con le aspettative
di cui la generazione intellettuale anteriore aveva alimentato il proprio
compatto slancio edificante, e alla luce degli assetti sociopolitici sanciti
dal moto risorgimentale, che apparivano gravemente inadeguati a osservatori del più diverso orientamento.
Tarchetti, Praga, Boito e compagni sono portati a un distacco contestativo dalla realtà postunitaria, in cui constatano prevalere una mentalità
grettamente utilitaristica, del tutto antitetica alle premesse ideologiche
che hanno sostenuto la battaglia per la fondazione dello Stato italiano. In
contrapposizione alla letteratura romantico-risorgimentale, essi abbandonano i moduli di esortazione e di intesa con il pubblico borghese, per votarsi a soluzioni di audace anticonformismo e al culto disinteressato dell’arte. Oltrepassano l’orizzonte collettivo del romanzo storico, il tenerume della poesia idillica ed elegiaca, i composti retaggi della lingua letteraria, e si provano a sprofondare nelle tenebre della psiche individuale. Aggiornano proficuamente le patrie lettere sull’esempio di maestri stranieri
come Poe e Baudelaire, sebbene poi non sappiano condurre alle estreme
conseguenze i presupposti che deducono da simili modelli. Pur nell’autenticità del disagio da cui muovono, il loro ribellismo presenta qualche
difetto di rigore: poiché nelle concrete realizzazioni testuali riemergono
talune venature di quell’idillio e di quel melodramma che essi medesimi
si proponevano di trasgredire.
Imbriani condivide con gli scapigliati un atteggiamento di acuta insofferenza per la situazione italiana, sia dal punto di vista sociopolitico sia
da quello culturale. Analogo è il suo dissenso rispetto alla stagione letteraria immediatamente anteriore: ben più ferma è però la sua consapevolezza critica e assai più solida la sua preparazione intellettuale. Come gli
scapigliati, inoltre, egli raggiunge i risultati più convincenti nell’ambito
della prosa narrativa, perché lì si pongono i problemi cruciali della produzione letteraria moderna. Tuttavia, mentre gli scapigliati trascurano
polemicamente le questioni di pertinenza pubblica, appartandosi nell’esplorazione amareggiata dell’io, Imbriani viceversa basa la sua autoe-
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sclusione sull’intransigenza politico-civile, che si giustifica a partire dalla
centralità riconosciuta alle problematiche di ordine storico collettivo.
Proprio dalla capacità di perseguire a oltranza i suoi propositi di ghiribizzo, ecco quindi la maggiore tenuta delle sue sperimentazioni narrative.
Altrettanta coerenza è dimostrata nell’area della scapigliatura dal solo
Carlo Dossi. E infatti le soluzioni espressive dei due autori appaiono oltremodo simili nella propensione per strutture diegetiche umoristicamente artate e nella messa a punto di un idioletto plurilinguistico quanto mai
composito. L’umorismo dossiano ad ogni modo si rivela più disponibile
ad accogliere e rifondere motivazioni patetiche nell’ambiguità sottile dei
suoi registri, mentre il Misantropo Napolitano appare molto meno propenso alla commozione sincera, per quanto dissimulata e subito stravolta
dalla comicità o dall’ironia. Dossi predilige i percorsi d’indagine e sceveramento nell’intimità del singolo; con le sue opere più riuscite, mette in
scena i rovelli dell’io intellettuale in via di formazione, colto nella più
acuta fase di conflitto con il regime vigente dei rapporti tra individui e tra
classi. Con ciò riprova, d’altronde, la sua piena appartenenza alla compagine scapigliata, ai cui interessi e proposte egli sa conferire la più organica compiutezza stilistico-compositiva.
Imbriani, al contrario, inclina a un grottesco impietoso, senza scrupoli di simpatia per i casi umani evocati. Non rinuncia senz’altro alle modulazioni sentimentali, ma ne impiega le strategie retoriche senza mai aderire sentitamente ai moti affettivi che esse veicolano. Calca a tal punto le
tinte, o immette fattori tanto distonici, che l’emozione appare sempre recitata, sfalsata. Le riserve elegiache che si prospettano anche nei più arditi esponenti della scapigliatura, in lui tendono a dissolversi in una sorta di
pathos cerebralistico, scevro di ogni vibrazione irrazionale. Per altro verso, si discostano parecchio dalle prospettive scapigliate le tematiche etico-politiche dibattute nella narrativa imbrianesca: lo scrittore napoletano, all’opposto della bohème lombardo-piemontese, non solo decide di
tematizzare la propria marginalità ideologico-letteraria, ma ne investe le
strutture di racconto calando in forme novellistico-fiabesche, del tutto
‘inattuali’, il proprio risentimento politico.
Nel gruppo variegato degli scrittori dediti all’espressività attorta, Imbriani costituisce un caso singolare non tanto per la peculiarità quasi
scontata della sua ispirazione, quanto per la veemenza oltranzista con cui
a essa dà voce – il che tra l’altro ha giustificato negli ultimi decenni una
sua discreta rivalutazione critica. Mentre l’inquietudine scapigliata consegue con la sua frangia democratica il proprio esito più coerente, se non in
letteratura quanto meno sotto il profilo dell’impegno politico, al contrario Imbriani da repubblicano qual era imbocca la via della reazione furibonda, assumendo a tratti il ruolo specioso di ‘garibaldino legittimista’.
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INTRODUZIONE
Nel ‘geroglifico’ Dossi, l’esercizio letterario più lambiccato e problematico viene via via circoscritto in uno spazio privato di libertà, di contro
alla funzione pubblica ragguardevole svolta in abito di statista. Viceversa
Imbriani, il cui successo politico non oltrepassa la scala provinciale, dimostra l’esigenza di esprimere più apertamente i suoi malanimi, le riflessioni e le fisime, pur calandoli in una veste formale quasi altrettanto intricata. Di fatto l’autore napoletano, sia per la valenza funzionale della sua
scrittura sia per l’ambiente socioculturale di destinazione privilegiata,
non può certo contare su un pubblico più numeroso e disponibile di
quello dossiano: tanto più notevole quindi appare la pertinacia conativa
di cui dà prova, direttamente proporzionale al travisamento delle attese e
delle convenzioni di lettura dei suoi destinatari.
La densità succulenta della sua «nuova lingua e mescidata» – è lui
per primo a definirla così – ha sollecitato negli specialisti soprattutto approcci di tipo linguistico-stilistico. Minori ma talora più penetranti sono
stati invece gli interventi critici intesi a illustrarne i procedimenti propriamente narrativi, specie per quanto riguarda la manipolazione e l’incrocio
dei generi. Il testo più frequentato dagli studiosi resta di gran lunga il romanzo Dio ne scampi dagli Orsenigo, sebbene non meno pregevoli per
estrosità d’invenzione siano le novelle e alcuni scritti divaganti tra la fantasticheria e la saggistica, penalizzati da una circolazione editoriale limitata e frammentaria. Proprio qui infatti, nei testi di misura contenuta, si
concentrano i più gravi motivi di scandalo agli occhi del pubblico borghese tardottocentesco: accanto alla tormentosa elaborazione verbale, i
temi dell’osceno e dell’immorale. Ma lo scandalo è eminentemente letterario: e consiste nell’utilizzo improprio e impuro di moduli formali obsoleti, ‘bassi’, marginali, nel ravvicinamento di tratti generici incoerenti tra
loro, insomma nella risentita divergenza dagli istituti narrativi di marca
realistico-borghese.
È nella novellistica che Imbriani allestisce le prove d’intemperanza
sperimentale più clamorosa. E bisogna rimarcare che il lavorio indispettito dell’autore investe le strutture del racconto al pari del tessuto verbale e
delle scelte tematiche; sicché utili risultanze proverranno dall’impiego degli strumenti narratologici di analisi. L’esito prioritario di una lettura
orientata in questo senso concerne senza dubbio i modi di caratterizzare
l’io narrante, concepito come una sagoma linguacciuta dalla quale sono
interpretati, piuttosto che raccontati, i personaggi e le situazioni discorsive: la novella diventa così una sorta di recita in cui giganteggia il narcisismo plateale del narratore-primattore, che aggredisce e sollecita il destinatario in modo da tradurre l’istanza diegetica in un esilarante soliloquio
dialogico. I linguaggi e gli accenti peculiari dei personaggi sono distorti
dal prevaricare petulante della maschera narratrice, che sembra dar loro
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continuamente sulla voce, ne contraffà teatralmente il dettato nel momento stesso in cui li mette in scena, fin quasi a schiacciarne ogni autonomia di carattere.
Nell’ambito della narrativa imbrianesca di forma breve – di per sé assai varia per accenti e argomenti, occasioni editoriali, pubblici di riferimento – si configurano due tipologie tematico-generiche fondamentali: i
racconti borghesi e le novelle stravaganti. A quelli si demanda la trattazione del soggetto romanzesco più diffuso e prolifico d’intrecci: l’amore
extraconiugale, con tutte le sue ricadute sociali; queste sono di contro
adibite alla militanza ‘civile’ in favore delle cause più utopicamente retrive. Mentre le opere che rientrano nel primo campo si approssimano per
l’appunto al genere ottocentesco del racconto, nella misura in cui delineano i casi irripetibili dell’individuo collocato in una precisa situazione
storica, quelle che appartengono al secondo campo, col prospettare l’esemplarità perenne delle vicende narrate, richiamano il genere novellistico così come si è definito in età premoderna.
I racconti borghesi, di ambientazione ottocentesca, sono dedicati alla
questione coniugale e al rapporto tra i sessi entro un orizzonte urbano,
pertengono insomma alla critica del costume e alla sfera della morale privata quale è vissuta dalla classe dirigente coeva. Le novelle stravaganti,
che presentano invece un’ambientazione esotica o favolosa, rinviano di
massima alla sfera pubblica: e promuovono sotto forma di apologhi grotteschi la visione reazionaria dello scrittore, imperniata sulla funzione antidemocratica della corona e sull’apoteosi della pena di morte.
I racconti risentono, sia pure a scopo polemico-parodico, dei moduli
narrativi contemporanei di matrice realistica, che vengono sforzati sulla
spinta di un umorismo scettico e aggressivo. Nel rendere conto del carattere individuale di un personaggio, del caso singolo anche bizzarro o eccentrico, mettono a fuoco il disorientamento di tanta intellettualità umanistica in seguito agli eventi traumatici dell’unificazione nazionale. Le novelle al contrario seguono i modelli offerti dalla tradizione cólta del genere e dalla narrativa fiabesca a diffusione popolare, per valorizzare l’esemplarità di tipi caratteriali dal forte significato ideologico. Sicché tratti
pragmatici propri dell’oralità, a cominciare dalla corposa prestanza scenica del narratore, sono mimati all’interno di composizioni scritte oltremodo letterarie, fitte di citazioni e riferimenti al sapere più sofisticato: e la
sveltezza del racconto dal vivo si compenetra con la ponderazione di
strutture compositive estremamente aggrovigliate.
Secondo la prospettiva reazionaria di Imbriani, le due tipologie dovrebbero saldarsi nel valorizzare il contratto matrimoniale in quanto sanzione della congruenza tra privato e pubblico, garanzia fondante delle
istituzioni nazionali nella sfera individuale e affettiva. Senonché al va-
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INTRODUZIONE
gheggiamento di un ferreo Stato monarchico raffermato dall’applicazione
massiccia della pena capitale, rispondono sul versante privato l’esaltazione della carnalità più incondita, di fatto svincolata o almeno indifferente
a qualunque obbligo coniugale, e la dissacrazione di ogni mitologia erotica sublime o patetica, qual era tramandata dalla tradizione letteraria ‘alta’
come dall’appendicismo romanzesco. La connotazione economica del
matrimonio, deprivato di ogni giustificazione amorosa, ne consegue tutta
l’evidenza possibile.
In questo senso la crisi dell’istituto matrimoniale, con la varia casistica adulterina raffigurata da Imbriani, riflette nell’intimo dei rapporti tra
uomini e donne la precarietà dei valori comunitari di orientamento conservatore. Tuttavia, per un verso egli celebra la vitalità sfrenata delle pulsioni, al di là di ogni censura bigotta o irreggimentazione istituzionale,
per l’altro prospetta le soluzioni politiche più retrive e autoritarie. Dunque la disinvolta rappresentazione dell’osceno così come, in direzione opposta, l’utopismo reazionario smanioso pongono Imbriani in aspro disaccordo con la sensibilità del pubblico borghese moderato a cui pure, per
identità di collocazione socioculturale, sarebbe rivolto il suo appello.
I motivi sviluppati dai racconti e dalle novelle sono ripresi nella produzione romanzesca, che deriva da un processo di amplificazione e sedimentazione umoristica dei generi narrativi di passo scorciato. Grosso
modo, le linee portanti degli intrecci rinviano per un verso al filone borghese-adulterino, con Dio ne scampi dagli Orsenigo e Merope IV, per l’altro verso al filone politico-fiabesco, con L’impietratrice e Sette milioni rubati o «La Croce Sabauda». La dimensione narrativa del romanzo, tuttavia, consente di moltiplicare e sovrapporre i modelli compositivi, a partire dalla pluralità di determinazioni specifiche che il genere andava sviluppando nel corso di un processo di differenziamento interno, simmetrico
al processo di crescita e articolazione del pubblico secondo bisogni di lettura e propensioni di gusto meglio individuate. Imbriani quindi non opera solo in base a un principio di dilatazione amplificatoria dei generi brevi, ma tiene conto delle specificità di evoluzione intrinseche alla forma
romanzo. In tal modo, nelle proprie opere egli evoca norme di sottogeneri romanzeschi ormai consolidati, ne anticipa altre ancora in via di codificazione, e insieme le disattende incrociandole con norme estranee o antitetiche.
In Merope IV la matrice del Bildungsroman amoroso è infiltrata dall’immaginario orrorifico e goticheggiante; Dio ne scampi dagli Orsenigo
obbedisce sì alla formula del romanzo di costume, ma la realizza richiamandosi in modo paradossale sia al metodo naturalistico dell’impersonalità, sia alle accensioni neoromantiche del sentimento; L’impietratrice
frammischia la tradizione del romanzo storico con quella della narrativa
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fiabesca popolare; Sette milioni rubati o «La Croce Sabauda» delinea un
modello di racconto protogiallistico per assumere poi le movenze dell’apologo utopico. Il tutto, s’intende, sempre virato in termini di parodia
umoristico-sentimentale, dalle marcate implicazioni metanarrative.
L’ambivalenza grottesca che presiede allo statuto di genere governa
anche gli altri livelli stilistico-compositivi dei romanzi. Nel corpo del testo vengono giustapposte le miniature di svariati registri e forme comunicative appartenenti all’universo della pluridiscorsività sociale, con forte
marcatura degli scarti tonali e volubile mutamento della situazione narrativa. In organismi testuali tanto compositi, la tenuta complessiva del discorso è garantita a maggior ragione dal primato di un io narrante che accentra in sé le facoltà elocutorie, per disporne però in maniera programmaticamente ghiribizzosa e rendere con ciò ancor più indispensabile il
proprio impegno d’integrazione assimilativa delle diverse componenti di
racconto.
Peraltro la vocazione democratica del genere romanzesco, i suoi stessi modi di circolazione nel sistema letterario, impongono a Imbriani di
temperare le insorgenze più ostiche della propria sperimentazione. L’attualità piena della forma romanzo, la sua codificazione più salda rispetto
alla narrativa breve, la sua identità editoriale più consistente – dunque il
suo legame con un pubblico potenzialmente più largo – sono fattori oggettivi che sollecitano il Misantropo Napolitano a un relativo contenimento dell’oltranzismo etico-estetico dispiegato nella novellistica. Proprio la maggior popolarità del romanzo, tuttavia, amplifica l’effetto di
trasgressione risultante dalle strategie narrative dell’autore, perché all’attenuarsi degli elementi provocatori risponde una percezione più acuta
dell’irregolarità da parte di fruitori mediamente meno flessibili.
A minare la piena accettazione della narrativa imbrianesca presso i
lettori del secondo Ottocento, permane la frattura etica che la percorre
trasversalmente, omologa alla provocazione formale di cui è sostanziata.
Infatti nell’ottica dell’autore, se la vita collettiva dovrebbe essere disciplinata da istituzioni di marca involutamente conservatrice, viceversa l’esistenza del singolo appare dominata dalle insorgenze dell’erotismo più libertino e libertario. Quest’aporia morale conferma l’estraneità della poetica imbrianesca a quella fascia alta di pubblico della quale l’autore, a tutta prima, sembra condividere ideologia politica e atteggiamenti di costume. Imbriani non solo si rivolge ai suoi lettori elettivi secondo modalità
formali che costoro non possono non respingere con fastidio, ma pretende con ciò di imporre verità alquanto difformi dai loro presupposti ideologici. La fortuna dell’autore, snodandosi per vie così poco battute, appare segnata, sebbene nello scenario culturale napoletano del secondo Ottocento egli sia tutt’altro che un isolato.
I
I RACCONTI E L’INDIVIDUALITÀ BORGHESE
NEL REGNO D’ITALIA
1.
LE IRONIE DI NARRATORI ‘INDISCRETI’
Nei racconti imbrianeschi gli io narranti accusano il disagio di appartenere a una borghesia nazionale gravemente deficitaria rispetto alle responsabilità politiche che si era assunta durante l’età eroica del Risorgimento,
e altrettanto inadempiente sul piano del costume civile. Essi argomentano il loro duplice dissenso rivolgendosi a interlocutori situati al proprio
medesimo livello socioculturale. L’autore predispone infatti modalità comunicative atte a intraprendere un confronto impietoso con i propri pari.
È vero che i resocontisti si dimostrano perlopiù retori esperti, non di
rado versati nel culto erudito delle patrie lettere e antichità – di cui profondono ampi saggi nel corso del racconto –, nondimeno essi atteggiano
la propria parola a movenze disinvoltamente colloquiali e digressive.
L’inclinazione alla pedanteria, la dotta strumentazione linguistica e letteraria non soltanto sono avvivate da spiriti ironici ora sottili ora grevi, ma
soprattutto sono calate entro modalità espositive che mimano l’oralità
più cordiale e fervorosa.
Nonostante l’elevato tasso di sofisticazione umanistica, il discorso appare ritmato e articolato dalle formule proprie della conversazione più o
meno urbana, del colloquio talora peregrino ma sempre franco e spregiudicato. L’io narrante bada a sorreggere l’attenzione dell’interlocutore con
gli opportuni puntelli fatici, ne incoraggia l’adesione al proprio punto di
vista con cenni d’intesa, ne anticipa le possibili repliche e obiezioni, interpretando attraverso la propria voce il discorso diretto altrui:
Per esempio … conoscete lo Squillacciotti? «Quale degli Squillacciotti?
Mimì?» Domenico appunto; quel bel giovane alto, bruno, che da cin-
28
I RACCONTI E L’INDIVIDUALITÀ BORGHESE NEL REGNO D’ITALIA
que o sei anni disimpegna con tanta solerzia parecchi uffici pubblici
gratuiti, e specialmente quello di Consiglier Comunale. Sapete quante
ne sballa, lui! «Chêh! Lo Squillacciotti, così franco, così leale? Pare impossibile!» Impossibile ancorché vero, neh? Quando dico una cosa io!
Conosco Napoli mia a palmo a palmo, ad uomo a uomo. Mimì Squillacciotti è il maggior bugiardo ch’io mi sappia. 1
Costellano il testo interrogazioni, incisi, riconferme, esortazioni, domande
retoriche, pause a effetto, asserzioni perentorie ed esclamative, iterazioni,
interiezioni, intercalari idiomatici, ammicchi e gomitate verbali. Di modo
che il flusso elocutivo risulta animato e quasi scosso da una forte carica di
gestualità: «Sicuro», «grazie al cielo», «(figuratevi!)», «Cheh! Cheh!»,
«ripeto», «pare», «Vi assicuro», «gua’!», «Se aveste veduto […]!», «non
so quanti», «figuratevi il resto», «Come no!», «qui fra noi possiamo dirlo», «so io di molto!», «(nota bene)», «veh!», «giurabbacco!».
L’insieme di questi atti e vezzi linguistici riversa l’evidenza corporea
della situazione comunicativa parlata nell’ambito più specialistico della
cultura scritta. Il volume, la sonorità, l’intonazione della voce, l’espansività gestuale, l’accompagnamento mimico del discorso sono trasposti sulla
pagina. Si ricrea in tal modo l’atmosfera relazionale dell’estemporaneo incontro di piazza, della confidenza amichevole o del pettegolezzo: che si
qualifica per la collocazione paritetica degli interlocutori, per la loro reciproca legittimazione ed equa attitudine all’intervento enunciativo. Senonché il tessuto linguistico e testuale così connotato rimanda per altri versi
alla sfera più elaborata e anzi aristocraticamente artefatta dell’eloquenza
narrativa.
La familiarità complice che i narratori cercano di instaurare con chi li
ascolta trova i suoi presupposti nella simultanea e inevitabile rarefazione
del pubblico, messa in atto con il dispiegarsi di apparati rappresentativi
oltremodo complessi. Da un lato si richiede infatti al lettore un’estrema
perizia ricettiva, che gli consenta di muoversi con agevolezza tra diversi
generi e registri linguistici, di adattarsi al cambio frequente e brusco degli
assetti discorsivi, nonché di riconoscere i molteplici riferimenti storici e
culturali sparsi nei testi; dall’altro lato, a compenso delle abilità di lettura
richieste, si prospetta l’affiatamento caloroso con un io narrante virtuosamente capace. Non è da tutti essere alla sua altezza, perciò il lettore nel
superare le prove proposte non potrà non sentirsi lusingato dal riconoscimento di fiducia che gli viene espresso con intimità vieppiù accesa dalla
controparte.
1
La bella bionda. Costumi napoletani [1876], in Vittorio Imbriani, Racconti e prose
(1863-1876), a cura di Fabio Pusterla, Parma, Fondazione Pietro Bembo - Guanda,
1992, p. 397.
LE IRONIE DI NARRATORI ‘INDISCRETI ’
29
I modi coloriti e calorosi di accostarsi all’io leggente, desunti dall’oralità meno formalizzata, producono d’altronde uno sfasamento di registro
ulteriore – e non il più inavvertito – entro la gamma di varietà comunicative squadernata dal narratore. Sicché l’espressione di simpatia sanguigna
e anche grossolana riservata al ricevente si prospetta al tempo stesso
come un artificio per rafforzare il patto narrativo stretto con lui e un filtro atto a vagliarne ancora più meticolosamente le competenze formali.
Ma secondo l’intento dell’autore la selettività linguistica non è che un
riflesso speculare dell’elezione morale. Gli io narranti rivendicano apertamente il proprio anticonformismo e rigorismo etico, pronti a riconoscere
altrettante doti in coloro che sapranno accogliere le loro scomode verità.
Col prendere le distanze da modelli letterari di più larga accessibilità, Imbriani avvalora viceversa l’ardua consistenza dei suoi allestimenti verbali,
che assicurano al fruitore una gratificazione estetica e un divertimento
pari solo all’impegno di decifrazione testuale profuso.
A fronte della pretesa sintonia nei riguardi del destinatario, bisogna
invece rilevare la distanza con cui è assunto l’oggetto del racconto. Rispetto alla propria materia, infatti, nei narratori prevale un’attitudine allo
slontanamento ironico, per quanto gravi o dolorosamente singolari siano
i casi umani rappresentati. Anche quando risultino coinvolti in prima
persona nelle vicende, e ne abbiano patito conseguenze non lievi sulla
propria pelle, essi improntano la loro parola a un filosofico disincanto,
che rischia a tratti di commutarsi in menefreghismo strafottente.
Si prenda ad esempio il narratore protagonista ed eponimo di Il vero
motivo delle dimissioni volontarie del capitano Cuzzocrea: il quale deve rinunciare al suo posto di ufficiale nel regio esercito a causa della speciosa
catena di equivoci e coincidenze che lui stesso, letteratissimo, s’incarica
di enumerare nel testo. La sua carriera risulta stroncata da uno scandalo
galante di cui si dichiara affatto incolpevole: «Narrerò la cosa per filo e
per segno; e spero d’ottener fede, malgrado le apparenze contrarie. Oramai non avrei né ragione, né motivo alcuno di affermar la bugia, o di occultar la verità» 2.
Bene, nonostante lo scritto sia appunto finalizzato a dimostrare la sua
innocenza, egli non si perita di infarcirlo delle divagazioni e citazioni più
stravaganti, assolutamente non funzionali allo scopo dimostrativo che si
prefigge. Né si guarda dall’affievolire la sua efficacia persuasiva disseminandolo di osservazioni metalinguistiche e spiritosaggini del tutto non
pertinenti: altro che «per filo e per segno»! Mentre vengono trascurate le
lacune di verisimiglianza circonvicine, la pretesa di fedeltà cronachistica
2
333.
Il vero motivo delle dimissioni volontarie del capitano Cuzzocrea [1877], ivi, p.
30
I RACCONTI E L’INDIVIDUALITÀ BORGHESE NEL REGNO D’ITALIA
agli avvenimenti ora si concede pause gratuite d’ilarità ora s’appunta addirittura sulla minuzia ortografica, così da diventare essa medesima un
grave indizio d’inaffidabilità o almeno d’irresponsabilità a carico del resocontista.
Il distanziamento dai contenuti fabulatori parrebbe contraddetto se
non altro dal Libro di preghiere muliebri, nel quale i soggetti narrativi modulano in monologhi sostenuti e appassionati la problematicità della propria condizione femminile, commisurandosi con i casi di coscienza sollevati da circostanze pubbliche, domestiche o interiori. Anche qui non
mancano accenti di acredine beffarda, che denunciano però il viscerale
coinvolgimento delle narratrici-oranti nei rovelli vissuti in presa diretta
attraverso la finzione del monologo. Il narratario è niente meno che il Signore Gesù Cristo, nei confronti del quale non sembrerebbe ammesso un
grado d’affabilità pari a quello istituito negli altri racconti. E infatti il
tono si mantiene uniformemente elevato; ma la sostanza morale delle
questioni affrontate è tanto incandescente, e la situazione comunicativa si
finge tanto privata, da consentire alle narratrici un’esplicitezza di sentimenti e opinioni che rasenta l’eterodossia religiosa.
L’impegno di realismo psicologico appare notevole, e proporzionale
alla relativa omogeneità dei materiali linguistici impiegati. Tuttavia, a minare lo sforzo mimetico introspettivo si pongono ora le due premesse
dell’autore – rivolte la prima Alla pia lettrice, la seconda All’empio lettore
– che sdoppiano le modalità ricettive del testo tra un’ipotesi di fruizione
empatica e didascalica, attribuita alle signore più timorate di dio, e un’ipotesi di fruizione edonistica, estetica, riservata ai destinatari più scettici
e smaliziati 3.
L’artificiosità dell’operazione letteraria, insomma, è messa in bella
mostra assieme alla larghezza di vedute morali dello scrittore, che con
l’ammettere almeno due diversi approcci di lettura – uno ingenuo e uno
ironico – ne postula un terzo superiore e comprensivo di entrambi, a sollecitare nel fruitore la piena consapevolezza dell’esperienza culturale cui
si appresta. Così però ne rimane pregiudicata quella sospensione dell’incredulità che sorregge l’autonomia e la compiutezza fantastica dell’universo narrativo: specie se le candide dichiarazioni d’intenti dell’autore, la
sua volontà di corrispondere ai bisogni intellettuali e morali delle «anime
gentili, combattute dalle passioni», siano riscontrate con i contenuti sconcertanti delle «preghiere», certo non pianamente edificatori, anzi non di
rado ai limiti della blasfemia.
3
Cfr. Libro di preghiere muliebri [1881], in Vittorio Imbriani, Racconti e prose
(1877-1886), a cura di Fabio Pusterla, Parma, Fondazione Pietro Bembo - Guanda,
1994, p. 181 ss.
LE IRONIE DI NARRATORI ‘INDISCRETI ’
31
Non che presupporre un retroterra di indulgente e condiviso buon
senso – come spetterebbe a un narratore di tipo manzoniano –, le ironie
imbrianesche assumono piuttosto coloriture volta a volta ludiche o acri,
burlevoli o sarcastiche. Ma la distanza ironica dalla materia di rappresentazione favorisce per compenso l’avvicinamento tra io narrante e io leggente, solidali nel trarsi in disparte con risentimento o gaia sprezzatura
dalle trame meschine degli eventi. L’attitudine giudicante rispetto all’oggetto del racconto si concretizza in maniera esplicita attraverso l’aggettivazione, gli epiteti, le filippiche, le parentesi moraleggianti.
I narratori potranno poi essere dotati di minuziosa fisionomia oppure
esibire solo taluni tratti morali del proprio carattere, prendere parte alle
vicende narrate o tacere le fonti della loro conoscenza, rendere noto il
proprio nome o identificarsi con la figura autoriale. A dispetto della separatezza ironica e della superiorità valutativa, si tratta sempre però di narratori tendenzialmente interni, in varia misura partecipi dei mondi rappresentati: e anche quando non ne siano il perno fabulatorio, ne rimangono comunque l’epicentro diegetico.
Essi propendono di massima per uno svolgimento scanzonato e persino screanzato dei loro temi, sebbene in qualche caso vi siano coinvolti
fino al collo: appaiono però tutt’altro che scevri di surriscaldamenti emotivi. La loro intima partecipazione nei riguardi degli argomenti affrontati
è commisurabile ai ripetuti scarti tonali e al modo estroverso di trattare
con il narratario: l’esibizione di noncuranza ha forti risvolti di eccitabilità
arruffata. L’emozione sorge dall’atto stesso di raccontare, di immedesimarsi per via empatica nei propri personaggi senza poter rinunciare a un
costante correttivo ironico. È la passione del recitare, del tenere la scena
narrativa, a possedere gli io narranti di Imbriani; è l’euforia che deriva
loro dall’indiscrezione del racconto, perpetrata ai danni dei protagonisti
e con la presunta solidarietà del lettore-ascoltatore. E attraverso la stipula
del patto narrativo l’indiscrezione si attua, secondo la semantica bifronte
del termine, tanto nel rendere di comune dominio gli intimi moti e i fatti
privati degli attori, quanto nel rivendicare a sé la funzione diegetica, senza alcuna ambizione d’oggettività naturalistica, anzi esponendo al pubblico la propria persona narrativa, e attribuendole tutti i crismi del dicitore.
Il narratario dei racconti imbrianeschi potrà essere identificato con
un ascoltatore individuato o con un soggetto collettivo, ad ogni modo la
sua parola è fittiziamente ospitata all’interno del resoconto diegetico, cui
conferisce un andamento assai mosso e un’apparenza precipua di plurivocità. D’altronde l’io narrante non si commisura ai suoi destinatari sempre e solo in quanto singolo: talora professa l’appartenenza alla comunità
napoletana o nazionale, delle quali mostra di condividere i valori o stigmatizzare i traviamenti. Proprio nell’assunzione di consapevolezza critica,
32
I RACCONTI E L’INDIVIDUALITÀ BORGHESE NEL REGNO D’ITALIA
tuttavia, il rapporto dialogico con l’interlocutore contingente tende a distinguersi dallo sfondo comunitario in un ambito di separatezza privilegiata. L’attacco interrogativo di Pompei notturna e I serpenti di Panarano,
assieme alla loro forma epistolare, chiama immediatamente in causa l’intenzionalità del narratario, a cui si attribuisce il fermento germinativo del
discorso: «Tu vuoi ch’io ti dica perché […] muti spesso aria?» 4, «Vuol
Ella farsi un concetto vero de’ concittadini di Vico e di Filangieri?» 5.
L’alacrità del coinvolgimento reciproco tra io narrante e tu leggente è riconfermata dall’uno con la disposizione all’ascolto nel momento stesso in
cui prende la parola, dall’altro con l’implicita e propedeutica sollecitazione a esprimere un giudizio, a prendere posizione.
Nel caso di Uomo o donna e ancor più nel ‘dialogo escatologico’ De’
quattro novissimi l’intervento resocontistico parrebbe denegato a favore
della resa scenica per costituzione di genere – perché si tratta appunto di
testi dialogici: invece il narratore consegue la massima personalizzazione
del testo attraverso le didascalie. Qui egli s’inserisce a viva forza tra le parentesi normalmente deputate a contenere succinti ragguagli sull’ambientazione e l’intonazione delle battute, per deporvi le tracce vistose dei suoi
spiriti. È specialmente in De’ quattro novissimi che l’empito umorale del
narratore deborda fino a occupare interi paragrafi, al di là di ogni necessità strettamente registica:
([Simplicio] Comincia a dimenarsi e rivoltolarsi nell’ataùto sprangando
calci e vibrando pugna come ho detto sicché fa tanto chiasso da mettere a
soqquadro l’intero camposanto. Il frastuono è tale che i nervi acustici de’
rimanenti consepolti meccanicamente lo percepiscono e lo trasmettono a’
cervelli; i quali ricevuta una sensazione, automaticamente, costretti dalla
virtù dell’abito, la trasformano in pensiero: come accada non saprei spiegarlo, ma la cosa non parrà strana a chiunque conosca l’onnipotenza delle
assuefazioni. Antonio Ciccone mi assicura di aver visto agl’INCURABILI un
misero colpito d’apoplessia, con la lingua paralizzata in guisa da non poter pronunziare le parole più necessarie per la soddisfazione de’ più urgenti bisogni. Eppure l’abitudine lo tiranneggiava tanto più prepotentemente della infermità, ché se recitavi in sua presenza le litanie non ometteva un’ORA PRO NOBIS, e se balbettavi una delle orazioni più usuali a’ cattolici, non intralasciava di far coro). 6
Subito, a cominciare dall’indugio descrittivo sulla fisiologia della percezione oltremondana, si manifesta l’estrosità lucianesca del ‘dialogo esca4
Pompei notturna [1863], in Vittorio Imbriani, Racconti e prose (1863-1876) cit.,
p. 3.
5
6
I serpenti di Panarano [1863], ivi, p. 23.
De’ quattro novissimi. Dialogo escatologico [1868], ivi, p. 72.
LE IRONIE DI NARRATORI ‘INDISCRETI ’
33
tologico’. L’abitudine conformistica è così radicata nel costume sociale
da conservarsi financo nei defunti. L’indole beffardamente seriosa del
commento parentetico, sin dalla prima battuta, conferisce un tono conseguente all’intera disputa. Inoltre il riferimento all’orizzonte di conoscenze dell’autore reale consente la sua sovrapposizione all’istanza narrativa,
che si sviluppa in termini addirittura aneddotici. Ne deriva l’incontro tra
la quotidianità contemporanea di Napoli, cui si allude in maniera autobiograficamente confidenziale, e l’orizzonte ultimativo del dialogo tra i
morti.
Insomma, la funzione diegetica del resocontista appare costantemente esibita, magari non ostentata come avviene nelle novelle, in ogni caso
mai attenuata o dissimulata. Al lettore non si nasconde per niente di avere a che fare con dispositivi affabulatori sagacemente architettati. Accanto alla palese artificiosità di certe situazioni messe in scena, è appunto
l’esercizio di messa in scena a denunciare il carattere letterario del racconto. Il detentore della parola, col rivendicare la paternità delle operazioni retoriche compiute, rimane ben presente alla coscienza di colui che
legge; ma proprio in ragione di questa sua palesità narrativa risulta assimilato all’universo del discorso, piuttosto che farsi garante della coerenza
tra la dimensione testuale e quella di realtà.
Brevi inserti metanarrativi o umoristiche intrusioni d’autore riportano in primo piano la fonte dell’enunciazione, in genere proprio nel momento in cui ne saggiano i limiti informativi, con l’effetto di accrescere
l’importanza del resocontista allorché emergono provocatoriamente le
sue insufficienze documentarie: «Non saprei, ben, ridire, come la cosa
accadde»; «Tutta la santa giornata, e’ la passava, alle scuole, agl’Incurabili ed, anche, al caffè e ne’ bigliardi o chi sa dove. Io, non c’era, lì, a pedinarlo!»; «Non giurerei, che capisse, letteralmente, il gergo enfatico dello
innamorato»; «se, poi, se la godessero felici e contenti, ignoro!» 7; «Confidenze non me ne ha fatto: quel, che posso assicurare, si è, che l’avea
buon cuore assai» 8.
Non mancano d’altra parte tirate ben più plateali dell’io narrante,
dove il motivo autoreferenziale acquista un rilievo abnorme: da semplice
istruzione di lettura o ausilio alla messa a punto dello strumento letterario, la notazione intrusiva diventa vera e propria dichiarazione di poetica.
Come accade in Anticipazioncella, quando si prospetta una tal sorta di
excusatio non petita per giustificare l’aneddoto, posto in apertura, circa la
pignoleria puristica di Basilio Puoti di contro all’incontinenza napoletanesca di qualche suo allievo:
7
8
Auscultazione [1885], ivi, rispettivamente alle pp. 292, 293, 294, 300.
Anticipazioncella [1876], ivi, p. 528.
34
I RACCONTI E L’INDIVIDUALITÀ BORGHESE NEL REGNO D’ITALIA
Perché quest’aneddoto? Prima, per raccontarlo; ed in secondo luogo,
acciò lettrici e lettori sappiano, che s’io dovessi conformarmi alle prescrizioni di certa moralissima gente, la quale ha menato tanto scalpore
di qualche franca mia pennellata, preferirei buttar la penna e sclamare:
io mo’ no’ parlo cchiù! Se spiaccio a Tizio, non mi legga; ma divertendomi lo scrivere, sarebbe minchioneria l’astenermene per amor di chi
mi disama, o dettare altrimenti di ciò, che l’occhio vede e l’animo suggerisce. Non muto né pelo, né vizio; non ambisco né l’approvazione
dell’autorità chiesastica, ned il veder le mie scritture date per premio
negli educandati e nelle scuole elementari. Narrerò sempre il vero; e
non abbozzerò mentite ed assurde descrizioni del mondo e degli affetti, né degli affetti del mondo, né del mondo degli affetti. L’Arte ha una
ragion tutta sua, che, quando mi sforzo a produrre un lavoro, io voglio
considerar sola. 9
L’imperativo dell’autonomia artistica è addotto in varie occasioni a giustificare la rappresentazione di comportamenti e pensieri moralmente riprovevoli, che in base a un presunto senso comune estetico sono giudicati indegni di apparire in un’opera di finzione narrativa. Ma il presupposto
di realismo implicito in tali asserzioni, ossia l’intento di raffigurare dal
vero, senza condimenti ornamentali o velature edulcoranti, l’oggettività
sociale e psicologica delle vicende, viene smentito a vari livelli dalla conduzione arrischiata del racconto, dalle ardite predilezioni stilistiche dell’io narrante, dalla parzialità superiore con cui si sogguardano eventi e
personaggi. Si rivela così l’antifrasi polemica sottesa a simili proponimenti, in contrasto sia con le poetiche della neutralità rappresentativa sia con
quelle dell’impegno pedagogico, per non dire di quelle dell’idillio campagnolo o del macchiettismo regionalistico.
2.
L’OTTICA ANTIPATETICA
Nell’impostazione dei racconti si delinea un’ambiguità di fondo: mentre i
detentori della parola narrativa sono situati in certo qual modo sempre
all’interno dei mondi finzionali cui danno voce, il loro atteggiamento verso i contenuti delle storie nel migliore dei casi è di degnazione compassata. Collocarsi dentro l’universo narrativo per chiamarsene ironicamente
fuori: questa la proficua contraddizione dei narratori imbrianeschi. Che
rispecchia d’altronde la posizione dello scrittore napoletano nei confronti
della classe dirigente cittadina e statuale, improntata parimenti a ideali9
Ivi, p. 501.
L’OTTICA ANTIPATETICA
35
smo fanatico e anticonformismo provocatorio, adesione zelante e ipercriticismo appartato.
La differenza di potenziale che corre tra questi due poli etico-affettivi
ne alimenta il lavoro narrativo. Ma per mantenere la duplicità di inclinazioni da cui si generano la scrittura e la stessa passione civile di Imbriani
è opportuno scansare ogni congruenza definitiva con l’una o l’altra delle
due posizioni. La strategia narrativa atta a impedire la stasi omologante, e
quindi l’univocità lineare del discorso, prevede l’adozione di una prospettiva smagata e antisentimentale proprio nel trattare i soggetti che meglio si sono prestati a definire il codice del patetico nella letteratura ottocentesca.
Gli incontri e scontri amorosi, le variegate e turbolente forme di relazione tra i sessi, con le loro implicazioni sociali, costituiscono i motivi su
cui s’intessono perlopiù le trame dei racconti imbrianeschi, come pure
erano al centro di gran parte della produzione narrativa dell’epoca. La
popolarità letteraria romantica e l’appendicismo sentimentale adibivano i
registri dell’eccitazione emotiva a cogliere e amplificare le più sottili vibrazioni dell’animo generate appunto dai moventi affettivi, nell’intento di
riscuotere l’adesione empatica del lettore. La via più praticata per addivenire a un simile risultato consisteva nell’adozione di una prospettiva interna, o comunque favorevole e prossima a quella dei protagonisti tormentati da faccende di cuore: con la conseguenza di trasporre l’afflato
passionale in termini di sostenutezza retorica monolingue.
Viceversa Imbriani sfrutta la collocazione a un tempo interna e ironica dei suoi narratori per gettare da vicino uno sguardo disincantato sul ribollio della materia erotico-affettiva, cogliendone da una parte il sostrato
pulsionale in tutta la sua irrazionalità, dall’altra gli impedimenti, le complicazioni e gli esiti d’ordine sociale. Ne riesce illuminata la sintonia impossibile e pur sempre perseguita tra le insorgenze primarie dell’elemento amoroso e gli assetti civili deputati a inquadrarlo entro i modi di convivenza costituiti.
Tuttavia lo scrittore napoletano non parteggia accoratamente per la
causa dell’autenticità vitalistica, e tanto meno si fa paladino dei dispositivi istituzionali attraverso cui gli uomini coartano la loro condotta. Egli riconosce bensì un’elementare legittimità agli impulsi dell’essere biopsichico, ma ne tratta come di cosa ovvia e risaputa, pur rilevando gli attriti che
hanno luogo fra la piena manifestazione dell’affettività e le sovrastrutture
culturali volte al suo ordinamento. Proprio in tal modo, però, emerge tutta l’inadeguatezza di queste ultime a fronte della componente antropologica erotico-affettiva, che non può non essere ammessa nella sua palese,
fisiologica naturalezza.
Per altro verso, le modalità dei rapporti interpersonali imposte dal
36
I RACCONTI E L’INDIVIDUALITÀ BORGHESE NEL REGNO D’ITALIA
contratto sociale vigente, soprattutto fra uomini e donne, ricevono una
sanzione d’inalterabilità che risulta proporzionale alla loro stessa obsolescenza. Inutile perciò scaldarsi più di tanto: le articolazioni interne al
consorzio civile vanno riformate davvero urgentemente, nel segno di una
maggiore aderenza ai bisogni emotivi dei singoli, ma la dimensione e la
complessità delle relazioni coinvolte da un simile ordine di problemi non
consentirebbero soluzioni governate e controllabili. L’evoluzione dell’agire interumano verso una pienezza degli affetti che non comprometta
la stabilità dei ruoli comunitari sarà affidata allo spontaneo intrecciarsi
dei comportamenti individuali, purché questi rimangano conformi a pochi fondamentali principi di ordine collettivo – patria, dovere, onore, trono, giustizia – secondo i dettami di un ultraconservatorismo legittimista e
nazionalista.
Che gli impedimenti alla soddisfazione delle necessità emozionali siano almeno in parte suscitati dal modo d’intendere e realizzare politicamente questi principi, Imbriani non sarebbe mai disposto ad ammetterlo.
Dall’alto di una ferma quanto astratta ideologia statuale, egli considera
attraverso la specola dei suoi portavoce narrativi peripezie e travagli amorosi che meritano certo un’attenta delucidazione, ma non sommuovono
in lui empiti di partecipazione fraternizzante. Accanto alle venerabili imposizioni di un super-io collettivo orientato in senso monarchico-patriottardo, egli recepisce le istanze dell’Es erotico-affettivo che presiede ai
contatti tra i sessi. Manca tuttavia ogni forma di mediazione tra i due ambiti dell’immaginario: dedito al culto idealistico dello Stato fino a rinnegare le sue professioni di individualismo liberale, Imbriani riserva alle
questioni amorose un’ottica disinibita ma estranea.
L’amore non è che una tabe estetica, è il parto di una fantasia malata
indotto dalla difettosa corrispondenza tra ‘forma’ e ‘contenuto ideale’, e
più precisamente dal preponderare della prima sul secondo 10. Pertanto
l’illusione e la parola amorosa costituiscono bensì risorse fondative dell’operare estetico, ma anche rivelano un’inadeguatezza essenziale e insormontabile: anzi si pongono alla base dell’attività artistica proprio e soltanto in ragione della discrasia dialettica da cui promanano e che tentano
vanamente di sormontare. Dunque, dei palpiti più intimi e sinceri il Misantropo Napolitano non tollera rappresentazione al di fuori di un contrappunto con il fattore comico o ad ogni modo sdrammatizzante. Per
una sorta di estremo pudore, scansa l’assunzione univoca della parola
sentimentale, nonostante la franchezza delle situazioni boccaccesche.
Lungi dal sedurre il lettore con la tronfiezza dell’espressione appassiona-
10
Cfr. De’ quattro novissimi. Dialogo escatologico cit., p. 108.
L’OTTICA ANTIPATETICA
37
ta, intende semmai denunciarne la falsa persuasività e la ridotta portata
morale, commisurandola all’inadeguatezza dei propositi o all’inconcludenza degli atti cui è abbinata.
Con tutto questo, pure Imbriani non disconosce la forza poietica del
linguaggio più accalorato. Talvolta anzi registra la magnificenza delle
proiezioni linguistiche sovrimposte a contenuti psichici amorfi, ma per
cogliere appunto la vacuità di rispondenze tra il dire e l’essere. Le lusinghe promananti dalla retorica degli affetti sono in grado di plasmare e
conferire sostanza emotiva alle inclinazioni più inconsistenti. Nell’ottica
‘immanentista’ di Imbriani, il detto, specie il detto patetico, diviene fatto,
ossia attitudine, abito mentale, comportamento, senza però possedere del
fatto vero e proprio i requisiti di oggettività e fondatezza. Lo scrittore
non intende sottostare alla suggestione esercitata dall’eloquio sentimentale, in ragione della mobilità, dell’incertezza, della fallacia da lui attribuite
ai contenuti affettivi. Piuttosto, ammette serenamente l’urgenza delle pulsioni libidiche, cui è annessa una verificabile concretezza biologica. Ma
anche quando le propensioni emotive trovino conferma nella materialità
delle esigenze sessuali, permane in esse un fondo di enigmaticità disponibile ai fasti della falsificazione retorica. Di qui l’opportunità di neutralizzare gli effetti dell’inquietudine sentimentale attraverso un’ostinata e allegra mortificazione delle sue accensioni discorsive.
Pur assumendo un’ottica testimoniale, quindi, gli io narranti raggelano comicamente la sostanza affettiva delle vicende. Non omettono e tanto meno soffocano le occasioni del patetico; in genere anzi predispongono tutti gli elementi utili al deflagrare della parola appassionata o lacrimevole, salvo sostituirla all’acme dell’attesa con una parola orientata in
tutt’altro senso, che smonta il dispositivo sentimentale sin lì correttamente approntato. Insufflano nel racconto un’enfasi di abbandono emotivo,
che viene repentinamente stroncata da una battuta fuori luogo o da un’immagine spiazzante.
Non sempre, tuttavia, rispetto al codice patetico si verifica uno scarto
così smaccato da far deragliare subitamente il discorso e smorzarne la carica emozionale. In maniera meno esuberante ma altrettanto corrosiva,
spesso alla parola patetica si riserva ampio spazio negli interventi diretti
dei personaggi, senonché l’io narrante non pare disposto a concedere
loro alcuna credibilità. Non si innesca alcun contrasto esplosivo tra registri, semplicemente la pienezza affettiva esibita dagli attori è svuotata dall’approccio laico e talora frigido di chi ne rende conto. Poiché sussulti e
circonvoluzioni psicologiche compongono tanta parte del vivere comune,
l’osservatore li studia oculatamente, li segue nei loro svolgimenti intricati,
fino a coglierne gli approdi sconclusionati o affatto prosaici, sempre in
chiave di straniamento ludico, apertamente svalutativo.