Il pranzo di quinta SENZA NOME

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Il pranzo di quinta SENZA NOME
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Il pranzo di quinta senza i professori
SEZIONE GIOVANI
Arnaldo non l’aveva presa bene. E non era difficile capirlo, considerando gli sguardi torvi e anzi
truci che rivolgeva a Mauro, ogni volta che le loro strade si incrociavano. Quel ragazzo
allampanato, con i riccioli neri che si attorcigliavano folti sulle spalle e poi giù per tutta la schiena,
caparbi come i rami d’edera intorno ai muri di pietra, non gli era mai piaciuto.
A lasciarlo perplesso non erano solo la capigliatura disordinata e l’andatura dinoccolata, quella
postura leggermente inclinata a destra che Mauro da un po’ di tempo aveva assunto per via della sua
chitarra rossa, compagna di ventura preziosa ma pesante, che portava a tracolla perfino durante le
uscite con Simona per il corso cittadino. A spiegare l’antipatia che Arnaldo nutriva per lui non
bastavano neppure le bocciature collezionate a intervalli regolari negli anni del liceo (uno sì e uno
no), né gli esami di riparazione in cui Mauro non riparava un fico secco presentandosi- e basta- ai
professori con una sapienza, per così dire, ancora minore di quella che aveva manifestato a giugno.
Neanche la maglietta di Che Guevara stretta intorno al torace magro o la collanina con la A di
anarchia sempre penzolante al collo sarebbero state sufficienti a chiarire perché lo trovasse
detestabile, insulso, insopportabile, ignorante, francamente stupido e per di più anche brutto, con
quella barbetta appena accennata e quegli occhialini alla Cavour.
O, forse, i motivi erano talmente numerosi e validi che elencarli tutti sarebbe stato difficile persino
per lui.
Mauro, però, inspiegabilmente, piaceva a Simona. La sua unica figlia, la sua fatina, la sua
principessina e tutte quelle cose forse sciocche ma belle, dolci e delicate che si dicono e si pensano
della propria bambina, venerata come un’opera d’arte, custodita con la gelosia che si riserva a un
segreto importante. La bionda occhicerulea dorata incantevole Simona dalla voce argentina, la
Simona delle poesie di Natale e di Pasqua, delle recite dalle suore per la festa del papà, la Simona
prima della classe - tutti gli anni la media dell’otto e mezzo- non poteva, no, non poteva, finire tra le
braccia di quel rozzo, un po’ puzzolente, stracciato e foruncolosi Ricci neri con la chitarra appesa a
una spalla e, dall’altra, un mangiadischi giallo che perdeva i pezzi.
Quando uno mette al mondo una figlia, si sa, prima o poi arriva qualcuno che te la porta via. Ma,
innanzitutto, non è detto che quel giorno arrivi così presto, e poi, soprattutto, il ladro potrebbe avere
apparenze più garbate, magari quelle di un Avvocato (che cosa c’è di male?) o di un Ingegnere,
anzi, probabilmente, potrebbe avere le apparenze di chiunque, tranne che di Quello là.
Nessuno, pensava Arnaldo, sarebbe stato contento di consegnare la sua unica figlia a Quello là. Una
figlia di 19 anni, per giunta. Nell’anno della maturità classica, in cui il 60/60 di Simona era una
certezza più che una speranza e il migliore dei passaporti per andare a studiare Lettere Classiche
all’università.
Ammesso che Simona non avesse 19 anni, e che il Ruba-Simona non fosse Quello là, per il
matrimonio di sua figlia ad Arnaldo non sarebbe dispiaciuta una grande festa in campagna, in
primavera, con i raggi del sole che al tramonto si riflettevano nel fiume colorandolo d’arancione,
con i gerani e le gerbere fiorite nei vasi e tutta la classe di Simona raccolta intorno al tavolo di
pietra per il brindisi.
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In nessuno dei suoi sogni compariva invece quel ventre pronunciato, coperto da un vestito
smanicato di tela che lasciava pochi dubbi sulla natura “riparatrice” di quel matrimonio, persino un
po’ tardivo, considerando che la Simo era già al quinto mese di gravidanza.
C’era la legge sull’aborto, è vero: di pochi anni prima, soluzione legale, consentita dallo Stato. Per
rinunciare a un bambino poco desiderato non c’era più bisogno di partire di nascosto per la
Svizzera, lontano da occhi indiscreti e lingue maligne, o di agire nell’oscurità per fuggire le
chiacchiere della gente. Era il 1979, e sarebbe bastato chiudere gli occhi per un istante, facendo
finta che nulla fosse successo, e che Mauro fosse solo il brutto sogno della notte prima della
versione di latino, perché Arnaldo e Simona tornassero a essere un padre e una figlia che parlano di
università, progettano il piano di studi e si commuovono guardando la piantina di Bologna, alla
ricerca della casa per l’università.
Arnaldo non capiva. O si rifiutava di farlo. Non riusciva a comprendere perché Simona, sempre
giudiziosa e ubbidiente, non volesse dargli ascolto, ostinandosi a fare il contrario di quello che le
diceva.
La colpa era di quello stupido di Mauro, ne era certo: l’embrione è un essere umano, papà, gli
sembrava di averle sentito dire, è un bambino in nuce, come il bruco che diventerà farfalla aveva
tentato di spiegargli durante una discussione, ma lui l’aveva zittita senza neanche lasciarle terminare
l’ultima frase, chi sono io per dire di no a chi aspetta il suo turno da tutta l’eternità?
Arnaldo non entrò nella piccola chiesa di campagna che Mauro aveva scelto per il matrimonio, e
anche i genitori di Ricci neri fecero lo stesso.
Simona attraversò da sola la navata centrale, lunga e stretta, che conduceva all’altare.
Sembrava più piccola, più giovane, più delicata e leggera del solito. Si era tolta gli occhiali da
miope e sembrava incerta sulla direzione da prendere.
Pareva di trovarsi, lo ricordo bene, a una recita scolastica, invece che a una cerimonia nuziale,
oppure al pranzo di una Quinta superiore con i professori, ma, per l’appunto, senza i professori.
Il più vecchio degli invitati era sui ventuno anni. Nei primi banchi si affollavano i ragazzi del Liceo,
compagni della sposa, che reggevano un tat-tze- bao con su scritto
Tanti auguri
e che profumavano di gelsomino, di essenze comprate alla bancarelle, tutti in jeans o con lunghe
gonne che spazzavano il pavimento. Più in fondo c’erano i vecchi, gente dell’università, amici di
Mauro, scombiccherati come tutti gli altri, ma senza la preoccupazione dell’interrogazione di latino
o di greco del giorno successivo.
Prima che l’organo intonasse la marcia nuziale qualcuno aveva acceso il mangiadischi e aveva fatto
diffondere tra le colonne della chiesa le musiche di Battisti, e l’atmosfera, insomma, veleggiava tra
il Pueblo unido e Tu sei la mia vita, altro io non ho, con un’aria di sottofondo a metà tra il ballo in
piazza e l’assemblea di classe.
All’uscita della chiesa i ragazzi lanciarono campanule e ciclamini, fino a coprire tutto il sagrato,
mentre le strofe dei Nomadi si intrecciavano alle note di Morandi che cantava uno: non tradirla
mai, lei crede in te; due, non la deludere.
Il bouquet della sposa, un mazzolino di margherite bianche con le sfumature rosa, se lo disputarono
Maria e Rosaria, compagne di banco di Simona dalle scuole elementari. Gli amici di Mauro per
l’occasione avevano convertito in modo opportuno gli striscioni che sventolavano la domenica in
curva sud.
Il figlio di Mauro sarà il capo degli ultras, si leggeva sul lenzuolo bianco attaccato al rosone della
chiesa.
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Il matrimonio di Mauro e Simona fu bellissimo, unico nel suo genere e, a suo modo, romantico.
Nessuno dei matrimoni degli altri, avvenuti un bel po’ di anni dopo, fu considerato altrettanto
riuscito, anche se il rinfresco successivo, nel giardinetto vicino alla chiesa, fu a base di panini con la
mortadella, pizze preparate dalle amiche di Simona e coca- cola.
Gli amici di Mauro, però, non sono stati dei buoni profeti.
Non sono il capo degli ultras e non tifo nemmeno per la Roma; soprattutto, non sono un maschio.
L’ostracismo da parte dei miei nonni durò poco: nemmeno il tempo di emettere il primo vagito che
mi ritrovai coperta di tutine rosa ricamate.
Ho studiato Lettere Classiche a Roma, come mia mamma Simona, e ho dei capelli ricci tendenti
all’anarchia che mi tocca stirare una volta alla settimana. Anche a me, come già a lei negli anni
Ottanta, durante la prima visita al Provveditorato agli studi, subito dopo la laurea, hanno consigliato
di emigrare e, nella prossima reincarnazione, di studiare Informatica.
Sono appassionata di greco antico e mio nonno Arnaldo, nonostante le apparenze, dice che
assomiglio tutta a lui. Qualche volta- ma solo qualche volta- si lascia sfuggire, ah, se tua madre non
si fosse sposata così giovane, e poi proprio con tuo padre!, ma poi si mette a ridere, facendomi
capire che, forse, alla fine, gli è andata bene così.
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