Verso la qualificazione del concetto di complessità sistemica

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Verso la qualificazione del concetto di complessità sistemica
Verso la qualificazione del concetto
di complessità sistemica
SERGIO BARILE*
Abstract
Il contributo, attraverso una rilettura, talvolta critica, della letteratura concernente la
tematica della complessità, propone una interpretazione della stessa utile alla analisi delle
dinamiche sociali. Dopo aver argomentato sulla necessità di concepire, nell’ambito delle
scelte sociali, la complessità come relativa ad un soggetto percettore e fortemente influenzata
dal contesto di riferimento, prova a riportare considerazioni e riflessioni tipiche della
economia d’impresa a schemi più generali. Distinguendo tra una complessità strutturale ed
una sistemica, vengono individuati gli elementi utili per una interpretazione “sociologica”
del concetto di non linearità. La costruzione concettuale realizzata sembra contribuire in
modo significativo alla possibilità di leggere i caratteri della complessità emergente ed a
ricercare le direttrici per un recupero di stabilità. L’esplicitazione di un circuito virtuoso,
proprio della dinamica che lega lo sviluppo di consuetudini a partire da leggi ed attraverso
norme e regole, contribuisce a chiarire le condizioni che concorrono alla perdita di stabilità
dei sistemi. Un lungo esempio riferito agli accadimenti riconducibili al cosiddetto “sistema
finanziario” chiude il contributo e contribuisce al chiarimento dei concetti presentati.
Parole chiave: complessità, sistema vitale, varietà informativa, dotazione di conoscenza
The contribution, through a re-reading, sometimes critical, of the literature on the issue
of the complexity, proposes a interpretation of the same useful to the analysis of social
dynamics. After argued on the need to devise, in the context of social choices, the complexity
as on a subject recipient and strongly influenced by the context of reference, try to restore
considerations and reflections typical of business economics in more general schemes.
Distinguishing between a structural complexity and a systemic, we can identify the elements
useful for a “sociological” interpretation of the concept of non-linearity. The conceptual
construction made seems to contribute in a significant way to the possibility to read the digits
of the complexity emerging, and to seek the guidelines for the recovery of stability. The
evidence of a virtuous circle, devising the dynamic that binds the development of practices
from laws and through rules and rules, contributes to clarify the conditions that contribute to
the loss of stability of the systems. A long final example, based on the events related to socalled “Financial System”, closes the contribution and contributes to the clarification of the
concepts presented.
Key words: complexity, viable system, information variety
*
Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese - Sapienza Università di Roma
e-mail: [email protected]
sinergie n. 79/09
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VERSO LA QUALIFICAZIONE DEL CONCETTO DI COMPLESSITÀ SISTEMICA
1. Introduzione
L’argomento complessità è attualmente oggetto di molte riflessioni da parte di
studiosi di discipline tanto scientifiche quanto umanistiche. Il termine viene ad
essere utilizzato con sempre maggiore frequenza e dimestichezza: numerose sono le
pubblicazioni scientifiche e non, che negli ultimi decenni hanno trattato il tema,
rischiando anche, talvolta, di contribuire a generare incertezza sulla corretta
accezione.
Sebbene l’uso ‘popolare’ del termine, riferito a situazioni di vita quotidiana, sia
normalmente associato a problematiche di difficile, se non impossibile soluzione,
l’accezione tecnica, propria degli studiosi di questa o quella disciplina, realizza
invece un gradiente ampio, di significati non sempre sovrapponibili, e difficilmente
riconducibili ad un comune denominatore.
I sistemi complessi adattivi, piuttosto che la teoria della complessità algoritmica,
quanto l’epistemologia della complessità, o ancora la teoria della complessità
computazionale, definiscono spazi di studio e di ricerca che si intersecano, si
contrappongono, ritrovano sintonie, ma che stando alle attuali conoscenze, non
appaiono riconducibili ad una unica forma canonica e, quindi, difficilmente
sembrano costituire un corpus dottrinario coeso e definito1.
Così, il voler contribuire, magari utilmente, ad arricchire il dibattito sulla
complessità sistemica richiede, che si rendano esplicite alcune premesse.
Nei contesti culturali in cui, per particolari tematiche, non sono individuabili
precise condizioni definitorie tanto dei principi fondanti, quanto degli schemi
interpretativi, conviene, nell’accingersi a prender parte all’edificazione della
impalcatura concettuale utile allo studio, che sia chiarita la prospettiva lungo la
quale si intende indirizzare il proprio percorso di approfondimento.
Nel caso di specie, necessariamente, pur non volendo ripercorrere la genesi e
l’evoluzione dei diversi paradigmi che, sinteticamente (ma non è dato sapere quanto
appropriatamente) sono assiemati nella locuzione “teoria della complessità”,
occorre che sia precisata la prospettiva di osservazione e che vengano chiarite le
dimensioni che delimitano il campo di analisi. È, in altre parole, necessario definire
alcuni “punti di fuga” che possano orientare ad una corretta interpretazione dei
risultati della riflessione gli eventuali destinatari della stessa2.
1
2
Cfr. Simoni C., Faggioni F., Le declinazioni della complessità. Ordine, caos e
governabilità dei sistemi complessi, contributo presente in questo stesso volume.
Per una ampia trattazione del tema della complessità cfr.: Bocchi G., Ceruti M. (a cura di)
La sfida della complessità, Mondadori, Milano, 2007; Cammarata S., Complessità 2000.
Un’odissea fra ordine e caos, Etas, Milano, 1999; Taylor M.C., Il momento della
complessità. L’emergere di una cultura a rete, Codice, Torino, 2005; Bateson G., “Un
approccio formale a idee esplicite, implicite e concretizzate e alla loro forma di
interazione”, in Ramson D.C., Il doppio legame, Astrolabio, Roma, 1979; Cini M., “La
trama che connette, un’epistemologia autoreferenziale”, in Cotugno A., De Cesare G.,
Territorio Bateson, Meltemi, Roma, 2001; De Angelis V., La logica della complessità,
Introduzione alla teoria dei sistemi, Mondadori, Milano, 1996; Delattre P., Teoria dei
sistemi ed epistemologia, Einaudi, Torino, 1984; Dupuy J.P., “L’autonomia del sociale. Il
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2. Elementi prospettici utili all’indagine
L’esplorazione delle condizioni di esistenza e, se possibile, di misura del livello
di complessità riferibile a scenari tipici dell’economia d’impresa, presuppone che
vengano sin dall’inizio precisati, al fine di condividerli, quali siano gli elementi
prospettici, gli schemi interpretativi della realtà, su cui basare le proprie
osservazioni e le successive riflessioni. In letteratura economico-aziendale la
mancata indicazione di tali elementi può generare risultati spesso non confrontabili
e, talvolta, apparentemente contraddittori.
Di seguito si riportano considerazioni atte a giustificare l’approccio usato in
questo lavoro al fine di circostanziare i caratteri espressivi della complessità nel suo
manifestarsi.
I. [do] Differenti osservatori percepiscono un diverso livello di complessità
Occorre considerare che l’azione cognitiva che induce a “percepire” un qualcosa
come complesso o meno, implicitamente comporta che:
1. Esiste un “oggetto”, cioè un fenomeno, un processo, da osservare;
2. Esiste un “osservatore” - nella accezione di seguito utilizzata diremo un
“sistema vitale” - che, preso atto dell’”oggetto” di cui al precedente punto 1.,
procede ad esprimere considerazioni sullo stesso.
È importante osservare che nella definizione di cui al punto 1., l’equivalenza
introdotta tra un fenomeno, un processo ed un oggetto materiale, intende sottolineare
che seppur l’attributo “complesso” venga ad essere normalmente associato ad un
oggetto, o ad una fattispecie ben definita, ciò che deve qualificarsi effettivamente
come complesso non è l’oggetto in sé, quanto il contesto in cui esso viene ad essere
percepito.
Fig. 1: Il cubo di Rubik 3x3
Fonte: ns. elaborazione
Così, la considerazione che porta a ritenere che la complessità percepita possa
essere attribuita anche ad un oggetto materiale, per esempio un “cubo di Rubik” (cfr.
contributo del pensiero sistemico alla teoria delle società”, in Ceruti M., Laszlo E. (a cura
di), Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano, 1988; Morin E., Introduzione al pensiero
complesso, Sperling&Kupfer, Milano, 1993; Alferj P., Pilati A. (a cura di), Conoscenza e
complessità, Theoria, Roma, 1990; Tommasi C., “Complessità sistemica e riflessione:
note sulla teoria luhmanniana”, Aut-Aut, n. 197-198, 1993.
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VERSO LA QUALIFICAZIONE DEL CONCETTO DI COMPLESSITÀ SISTEMICA
Fig. 1), deve ritenersi “ingenua”. Occorre tener conto del fatto che non è mai il cubo
di Rubik in sé ad essere complesso; ciò che correttamente può definirsi complesso è
il processo risolutivo del cubo di Rubik, cioè la volontà di risistemarlo affinché tutte
le facce abbiano un colore uguale (Fig.1 b). È evidente infatti che per un individuo,
il quale non si ponga l’obiettivo di risistemare i colori delle singole facce, ma che
limiti la sua azione a giocare, facendo ruotare i pezzi del cubo in modo casuale (Fig.
1 a), l’attività da svolgere si presenta tutt’altro che complessa.
Si può quindi affermare che sono l’intenzionalità del soggetto, la prospettiva con
cui egli guarda la realtà, gli obiettivi che, egli si pone, gli elementi che consentono
l’eventuale emersione della complessità. Il dibattito interdisciplinare sulla
complessità - inizialmente sviluppatosi, avendo avuto la sua origine nell’ambito
delle scienze fisiche con gli studi concernenti fenomeni termodinamici irreversibili
in condizioni lontane dall’equilibrio - ha involontariamente portato, attraverso una
statuizione implicita, gran parte degli studiosi a ritenere che la complessità di un
fenomeno sia tale, sempre e comunque, indipendentemente dall’osservatore, dal
tempo e dal luogo di osservazione3.
Nella realtà dei fenomeni sociali, e quindi delle problematiche relative alle
organizzazioni imprenditoriali, una simile ipotesi non risulta essere proponibile, o
quantomeno appare difficile da accettare.
Le conseguenze di una tale precisazione, cioè della non attribuzione del carattere
di oggettività alla complessità, sono, nell’ambito delle discipline aziendali e non
solo, di portata notevole.
I risultati e le conclusioni di molti studi, e quindi la validità di modelli e teorie
anche consolidati, assumono un valore ed una prospettiva completamente diversa in
funzione della presunta oggettività o soggettività delle percezioni e del carattere
assoluto o relativo conclusioni.
Considerazioni ritenute apodittiche quali «Il vecchio paradigma tende a
costruire stabilità, prevedibilità e poco rischio (failsafe world), il nuovo paradigma
si basa sull’assunzione che il futuro è imprevedibile e turbolento e che è quindi
importante governare l’instabilità per tenersi aperte tutte le opzioni (safe to fail
world)», in ragione di quanto esposto risultano essere, facendo opportune
precisazioni, molto opinabili4.
Non esiste, sulla base di quanto qui premesso, un paradigma che possa definirsi
oggettivamente vecchio e scontato e, di contro, un paradigma che necessariamente
debba considerarsi nuovo e complesso. Non vi è alcun dubbio, ad esempio, che il
modello di produzione fordista, che certamente ad oggi nella articolazione della sua
struttura e dei suoi processi non appare complesso neppure per il più piccolo e meno
acculturato imprenditore della realtà economica occidentale, debba ritenersi
complesso, se non addirittura incomprensibile (quindi caotico) per un neo
imprenditore di una civiltà tribale dedita ancora al baratto.
3
4
Kauffman S., A casa nell’universo, le leggi del caos e della complessità, Editori Riuniti,
Roma, 2001, p. 33.
Pascale R.T., Il management di frontiera. Come le aziende più intelligenti usano conflitti
e tensioni per diventare leader, Sperling &Kupfer, Milano,1992, p. 388.
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Particolarmente significativi, a tal proposito, sono degli articoli di cronaca che,
oltre mezzo secolo fa, descrivevano le ragioni di popolazioni, che all’epoca
potevano definirsi evolute, dall’avvento della radio. Per molta gente, in particolare
nel sud Italia, la voce prodotta dall’apparecchio elettronico, derivava da piccoli
ometti racchiusi all’interno della radio.
In sostanza la contrapposizione tra ciò che può esser definito “paradigma
classico”, e quindi semplice e scontato, e quel che deve intendersi per “paradigma
innovativo” e quindi emergente e complesso, considera una implicita premessa
concernente il rapporto di “novità” esistente tra i soggetti coinvolti (la comunità di
riferimento intesa come contesto) e la misura della eventuale complessità che essi
attribuiscono ad una determinata situazione. In effetti, ciò che risulta essere rilevante
sono, invece, i caratteri di reale e consistente novità, che una determinata situazione
sostanzia nei confronti dei soggetti che in quel momento sono impegnati a
comprenderla, ed i loro schemi interpretativi, cioè la loro capacità di ricondurre le
nuove situazioni a situazioni affrontate e risolte in precedenza5.
Quindi nulla può definirsi complesso oggettivamente ed in assoluto; complesso
può dirsi di un qualcosa, fenomeno od evento che sia, soltanto in riferimento alla
capacità od incapacità dei soggetti percepenti, di assoggettare ai propri modelli
interpretativi il fenomeno o l’evento che si sta osservando.
La possibilità poi che una nuova situazione, non spiegabile sulla base di ciò che è
noto al soggetto che la esamina, sia per questi da ritenersi complessa e non altro,
introduce l’esigenza di una ulteriore precisazione, di cui viene detto in quel che
segue.
II. [dm] Lo “stesso” osservatore, in diversi momenti, percepisce livelli differenti
di complessità
Normalmente si ritiene di poter contrapporre il semplice al complesso,
immaginando che tale dicotomia possa esaurire tutta la casistica di fenomeni ed
eventi possibili e riscontrabili, e che definendo cosa debba esser ritenuto semplice,
consenta, per esclusione, di pervenire a ciò che debba intendersi per complesso.
Ai fini della individuazione dei caratteri salienti, caratterizzanti la complessità
sistemica nell’ambito delle organizzazioni, una simile distinzione risulta essere poco
efficace. Soprattutto in riferimento alle dinamiche d’impresa, nell’ambito delle quali
non solo i processi riconducibili al governo, ma molto spesso anche quelli inerenti la
gestione, pur potendo definirsi non semplici, certamente, in molti casi, non sono da
considerarsi complessi.
Invocare la complessità come ‘determinante’ della inefficienza rilevabile nelle
vicende di innumerevoli case histories di insuccesso imprenditoriale, comporta una
banalizzazione eccessiva delle dinamiche tanto decisionali quanto operative che
sostanziano il percorso esistenziale delle aziende.
5
Per il concetto di schema interpretativo cfr. Barile S., Management sistemico vitale,
Giappichelli, Torino, 2009. Il concetto deriva da riflessioni consolidate sviluppate
nell’ambito dei “sistemi adattivi”. Al riguardo, cfr. De Toni A.F., Comello L., Prede o
ragni. Uomini e organizzazioni nella ragnatela della complessità, Utet, Torino, 2005, p.
145.
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VERSO LA QUALIFICAZIONE DEL CONCETTO DI COMPLESSITÀ SISTEMICA
Una simile prospettiva, semplificando drasticamente la casistica, vanifica anni di
studi, di conoscenze teoriche ed applicative, sulla base delle quali si è sviluppata la
cosiddetta teoria manageriale. L’impegno di studiosi, consulenti, imprenditori e
manager ha consentito di sviluppare conoscenze teoriche, nonché tecniche
specifiche adatte ad intervenire, con modalità sempre più appropriate, per una
efficiente soluzione delle problematiche aziendali. Il lungo cammino che dai costi di
transazione6, attraverso il riconoscimento del ruolo dell’organizzazione7,
riconoscendo la fondamentale importanza della capacità legate alle componenti8 ed
alle relazioni formalizzate (contratti) tra esse instaurabili9, ha definito la struttura
portante degli schemi interpretativi (che potranno definirsi “strutturali”) utili alla
gestione delle imprese. I successivi studi attinenti alla immaterialità delle risorse10,
combinabili per l’ottenimento di competenze, conduce al concetto di routine11, ed
apre al rapporto tra processi e performance12.
L’ottenimento di teorie di maggior respiro, capaci di assicurare e giustificare
l’interazione tra risorse fondamentali, detenibilità di conoscenza, e sviluppo di
competenze distintive13, segna l’avvento della concezione sistemica dell’impresa e
fornisce la dotazione concettuale alla disciplina dell’economia d’impresa. Il
contributo di risorse, capacità, competenze, e quindi l’opportuno utilizzo di metodi,
tecniche e strumenti consente, nella gran parte dei casi di garantire il perseguimento
di percorsi efficaci ed efficienti per il raggiungimento degli obiettivi aziendali. La
riduzione a categorie quali, da un lato, quella del semplice, del certo, dello scontato,
e quindi alla portata di ogni operatore, indipendentemente dalla sua professionalità e
dalle sue conoscenze, e dall’altro lato, quella del complesso, dell’emergente, del non
ponderabile, di qualcosa che risulta essere non affrontabile con la dotazione
metodologica classica, non realizza una buona approssimazione della reale dinamica
delle organizzazioni.
Una più utile ed adeguata rappresentazione deve riferire ad una tassonomia che
includa, nella descrizione di fenomeni ed eventi, anche le categorie di caotico e di
complicato. Solo in tal modo diviene possibile rilevare e giustificare aspetti e
circostanze di situazioni genericamente definibili complesse ma che in sostanza sono
da ritenersi in alcuni casi governabili seppur con un certo impegno, e pertanto
6
7
8
9
10
11
12
13
Coase R., “The nature of the firm”, Economica, n. 16, 1937.
Williamson O.E., The Mechanism of Governance, Oxford University Press, London,
1996.
Chandler A.D., Strategy and Structure: Chapter in the History of the American Industry
Enterprice, The Mit Press, Cambridge, 1962.
Jensen M.C., Meckling W.H., “Theory of the firm: managerial behavior, agency cost and
ownrship structure”, Journal of Financial Economics, 3, 1976.
Penrose E., La teoria dell’espansione dell’impresa, Franco Angeli, Milano, 1973.
Nelson N., Winter S., An evolutionary theory of economic change, Harward University
Press, Cambridge, 1982.
Wernerfelt B., “A Resource-based view of the firm”, Strategic Management Journal, 5,
1984.
Teece D.J., Pisano G., Shuen A., “Dynamic capabilities and strategic management”,
Strategic Management Journal, 18, 1997.
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definibili al più complicate, ed in altri ingovernabili, impossibili da inquadrare in un
qualsivoglia schema interpretativo, e quindi senza dubbio da definire caotiche.
Tornando all’esempio della sistemazione delle facce di un cubo di Rubik, appare
plausibile affermare che esso costituisce per gran parte delle persone un problema
addirittura caotico (non sono in grado di immaginare come procedere), per altri
complesso (immaginano che sia possibile ma non sanno come procedere), per altri
ancora complicato (hanno idea degli algoritmi risolutivi, provando e riprovando
procedono verso la soluzione), e per una minoranza un problema semplice (la
sistemazione delle facce richiede, indipendentemente dalle condizioni di partenza,
solo un paio di minuti).
Allo stesso modo, sottoporre il diagramma riportato in Fig. 2 ad una matricola
della Facoltà di Economia di una qualsivoglia Università e chiedergli di spiegarne il
significato grafemico, nonché i numeri e le etichette scritte nei riquadri, comporta
che egli ritenga il compito complesso.
È evidente che per lo studente il compito diviene complicato dopo una lezione in
cui sia stato chiarito che la figura rappresenta un diagramma di PERT, e che:
- ogni grafico di tal tipo inizia con un primo punto in cui hanno origine tutte le
attività di un determinato processo;
- ogni attività è caratterizzata dall’avere un nome, l’indicazione delle risorse
assegnate, la durata espressa in tempo minimo, (in alcuni casi anche medio) e
massimo, e risulta essere collegata ad altre attività;
- ogni attività è caratterizzata dall’avere un nome, l’indicazione delle risorse
assegnate, la durata espressa in tempo minimo, medio e massimo, e risulta essere
collegata ad altre attività;
- il processo termina quando tutte le attività interconnesse graficamente
confluiscono in un punto di completamento.
È inoltre ragionevole ipotizzare che qualora lo studente, esercitandosi con la
tecnica del PERT, sviluppi una dimestichezza con la stessa, la spiegazione del
diagramma in Fig. 2 finisce, prima o poi, per qualificarsi come compito semplice da
svolgere, di cui si ha certezza risolutiva.
Fig. 2: Diagramma Pert
Fonte: ns. elaborazione
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Occorre anche dire che la dotazione di conoscenza e quindi gli schemi
interpretativi posseduti dal soggetto influiscono in modo significativo nella
determinazione del percorso che consente, rispetto ad uno specifico ambito
percettivo, di modificare il livello di complessità percepita.
Gli schemi sono come occhiali colorati, quando vengono indossati l’ambiente
circostante risulta trasformato. È evidente, per esempio, che l’indossare occhiali da
sole all’imbrunire comporta l’impossibilità di vedere oggetti di colore scuro e, di
contro, accresce la focalizzazione su oggetti di colore chiaro. Per effetto degli
schemi interpretativi, quindi, la capacità dei sistemi vitali di dare significato
all’ambiente può variare molto, comportando, anche in costanza di obiettivi,
l’estrazione di contesti differenti.
In tale ottica uno dei concetti fondanti della teoria di marketing, quello in cui si
evidenzia la necessità per le imprese di passare da un orientamento al “prodotto” ad
un orientamento “cliente”, non risulta essere altro che una evidenza del principio
prima descritto: non è possibile definire una corretta strategia commerciale se non
comprendendo le effettive esigenze del mercato; comprensione che può essere
correttamente realizzata solo indossando “gli occhiali” del consumatore. In
conclusione, si può sostenere che la possibile attribuzione del livello di
“comprensibilità” ad una determinata situazione è da ritenersi funzione della
dotazione di conoscenza del soggetto che, in uno specifico tempo ed in uno specifico
luogo, interagisce con la stessa14.
Evidentemente, mutando nel tempo la dotazione di conoscenza del soggetto, ne
consegue che l’attribuzione del livello di comprensibilità che egli attribuisce a
quanto osserva può variare.
III. [ds] Cosa diversa è percepire un evento essendo collocati all’interno del
sistema che lo ha generato, piuttosto che osservare l’evento dall’esterno di detto
sistema.
Un ulteriore aspetto degno di attenzione concerne la definizione stessa di
soggetto percepente. Soprattutto nel riferirsi ai caratteri costituenti la complessità
sistemica, il precisare se la percezione del sistema e delle sue dinamiche sia da
attribuire ad un osservatore esterno al sistema analizzato, oppure interno al sistema
stesso è da ritenersi fondamentale. La prospettiva spazio-temporale assunta
dall’osservatore, in ragione del suo essere o meno attore del processo sistemico,
diviene un carattere discriminante rispetto alla reale possibilità di recuperare
elementi utili alla riduzione di complessità.
In sostanza, appartenere a sistemi diversi, seppur compresenti nello stesso
ambiente, comporta l’individuazione di contesti diversi tra loro e,
conseguentemente, di differenti sovrasistemi rilevanti.
Coesistere all’interno di un sistema vitale significa essere sottoposti al forte
condizionamento dei sovrasistemi rilevanti, e pertanto essere condizionati nella
percezione della complessità, dall’indirizzo che detti sovrasistemi, attraverso la loro
14
Golinelli G.M., L’approccio sistemico al governo dell’impresa. Verso la scientificazione
dell’azione di governo, Cedam, Padova, 2008, Vol. II, p. 5.
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capacità di indirizzo, impongono al processo sistemico15.
Il percorso di sopravvivenza individuato dall’Organo di Governo di un sistema
non può che tener conto di un insieme di condizioni, espressioni di vincoli regole ed
aspettative imposte dai sovrasistemi a cui egli attribuisce rilevanza. Tali condizioni
disegnano uno scenario specifico in cui divengono preminenti alcuni aspetti a
scapito di altri. Così, di immediata evidenza, appare la differenza di scenario
definibile per un imprenditore che, in un certo momento, concepisce se stesso come
componente primo della sua impresa, impegnandosi nella realizzazione di strategie
che garantiscono sempre maggiore compatibilità alla stessa, e che in un momento
diverso, focalizzandosi su se stesso o sulla propria famiglia, vede l’impresa solo
come strumento per le propria realizzazione. È questo cambio di prospettiva che
rende comprensibili scelte imprenditoriali apparentemente irrazionali. Non solo
“crack” aziendali storici, ma anche improvvide avventure nel mondo dello sport,
calcio in particolare, trovano giustificazione dei comportamenti imprenditoriali in
velleità derivanti dal cambio di prospettiva, dalla definizione e quindi appartenenza
a sistemi diversi dei decisori.
IV. [dr] La rappresentazione strutturale, piuttosto che la rappresentazione
sistemica, induce rilevazioni di differenti livelli di complessità
Come è noto dall’approccio sistemico vitale, il concetto di sistema vitale
presuppone che, mentre la struttura, nella sua accezione essenziale, debba ritenersi
dotata di confine fisico, utile a distinguere ciò che deve intendersi interno alla stessa,
distinguendolo da quanto costituisce l’esterno, il sistema, invece, debba considerarsi
assorbente della totalità del percepito16. Infatti, nel momento stesso in cui una delle
componenti sistemiche incluse in un sistema interagisce (anche facendone oggetto
del solo pensare) con una componente nuova, la include nel sistema è fa sì che ne
diventi parte essa stessa.
Così, allorquando il personale amministrativo di un’azienda avvia un rapporto
con un istituto di credito, la filiale di quell’istituto viene ad essere inserita nella
struttura ampliata dell’azienda in questione, e da quel momento nel durante di ogni
attività che deriva da una qualche relazione con la filiale il sistema dell’impresa si
estende indefinitamente fino ad includere tutte le componenti della banca che
partecipano al processo.
Da questa considerazione discende la necessità di un distinguo essenziale in
merito alla definizione di una possibile misura di complessità sistemica:
a. la complessità misurata in ragione della articolazione della struttura;
b. la complessità valutata in ragione della comprensibilità dei processi sistemici.
Il distinguo, non nuovo in economia d’impresa, seppur talvolta non esplicitato,
costituisce un fattore rilevante per consentire la condivisibilità di molte posizioni
riguardanti aspetti della complessità quali la proposta di sistemi di misurazione,
15
16
Gatti C., “Il processo di contestualizzazione: ambiente, contesto, negoziazioni”, in
Golinelli G.M., L’approccio sistemico al governo dell’impresa. Verso la scientificazione
dell’azione di governo, Cedam, Padova, 2008, Vol. II, p. 55 e ss.
Golinelli G.M., L’approccio sistemico al governo dell’impresa, Vol. I, Cedam, Padova,
2000.
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VERSO LA QUALIFICAZIONE DEL CONCETTO DI COMPLESSITÀ SISTEMICA
piuttosto che la rappresentazione delle possibili dinamiche. A tal proposito
Gianfranco Dioguardi così si esprime: «È importante sottolineare come sia utile
definire preliminarmente la conoscenza della struttura anche mediante approcci
riduzionistici, mentre i movimenti che essa determinerà, le strategie che porrà in
atto, saranno oggetto dello studio sistemico e sintetico caratteristico dell’approccio
ai sistemi complessi. Si entra così nel mondo tipico delle imprese organizzate, la cui
vita si realizza fra struttura e strategia e per le quali divengono di fondamentale
importanza le previsioni del futuro e i conseguenti processi finalizzati e una loro
programmabilità»17.
In modo diverso, nell’ambito scientifico della epistemologia, Daniel Dennet
indica la possibilità che la misura della complessità di un sistema potrebbe dipendere
dall’ atteggiamento percettivo utilizzato. Egli distingue tre possibili tipi di
atteggiamento: meccanicistico, funzionale ed intenzionale. Precisa che
l’atteggiamento meccanicistico comporta il considerare il sistema come una
macchina, un insieme di componenti correlate e capaci di funzionare insieme. Una
visone chiaramente legata alla struttura fisica, in cui l’analisi per riduzioni
successive diviene lo strumento diagnostico essenziale. Pensiamo ad un auto
visualizzandola nelle sue parti componenti: carrozzerie, motore, selleria, pneumatici
ecc. L’atteggiamento funzionale porta a considerare il sistema in termini strumentali,
un qualcosa di utile per uno scopo. Pensiamo ad un’auto in termini di sistema utile al
movimento tra località distanti, anche in condizioni climatiche ostili, con
significativi margini di sicurezza ecc. Infine, l’atteggiamento intenzionale, che si
lega ad una prospettiva specifica di azione: pensiamo all’auto come possibilità di
poter vedere un film stasera proiettato al cinema “X”, in via tal dei tali.
È facile constatare che il voler attribuire una misura della complessità, in ragione
del diverso atteggiamento utilizzato, conduce a contesti non commensurabili, e
quindi a constatazioni di livelli di complessità certamente diversi18.
L’approccio sistemico vitale (ASV), attraverso la fondante statuizione della
matrice concettuale, fornisce una rappresentazione compiuta delle diverse
prospettive, implicitamente od esplicitamente utilizzate da un soggetto che osserva
una organizzazione imprenditoriale (Fig. 3)19.
Lo schema della matrice concettuale consente di articolare il distinguo tra
struttura e processo, includendo elementi esplicativi dei momenti strategici,
organizzativi, decisionali ecc. Di fatto, recupera una ampia letteratura inerente la
concezione di sistemi chiusi e sistemi aperti, di modello meccanico e di modello
organico, di ambienti statici ed ambienti dinamici20. Molti studiosi e ricercatori
17
18
19
20
Cfr. Dioguardi G., Al di là del disordine, Cuen, Napoli, 2000, pp. 67-68.
Cfr. Dennett D., L’atteggiamento intenzionale, Il Mulino, Bologna, 1987, pp. 27-66.
Golinelli G.M., Gatti M., Vagnani G., “Dalla struttura al sistema: Elementi per una
riflessione sui confini, i rapporti con la proprietà, la flessibilità e l’elasticità dell’impresa”,
in Golinelli G.M., (a cura di), L’approccio sistemico al governo dell’impresa, vol. III,
Cedam, Padova, 2002.
In ordine ad un’approfondita disamina dei contributi che hanno analizzato il rapporto tra
forma e comportamento delle imprese e l’interazione di queste con il proprio ambiente,
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hanno individuato e ben delineato tematiche connesse a diverse rappresentazioni
tipiche dell’impresa, ed hanno distinto le caratteristiche dei problemi da affrontare
sulla base.
Fig. 3: La matrice concettuale dell’ASV
Fonte: ns. elaborazione da Golinelli G.M., L’approccio sistemico al governo dell’impresa, Vol. I,
Cedam, 2000.
3. Le dimensioni della complessità
nell’economia d’impresa
nelle
discipline
sociali
e
L’esame della letteratura concernente la complessità in economia d’impresa
comporta anzitutto il constatare che la nozione ha carattere articolato e che risulta
condizionata tanto da influenze teoriche multidisciplinari quanto dal paradigma di
riferimento di ciascun autore. Senz’altro c’è l’irrisolta questione della definizione,
c’è cioè l’interrogativo del se complesse siano le organizzazioni imprenditoriali ed i
cfr. Cafferata R., Sistemi Ambiente e Innovazione, Giappichelli, Torino, 1995, p. 65 e ss.,
ed il più recente Cafferata R., Management in adattamento, Tra razionalità economica e
imperfe-zione dei sistemi, Il Mulino, Bologna, 2009.
58
VERSO LA QUALIFICAZIONE DEL CONCETTO DI COMPLESSITÀ SISTEMICA
contesti in cui esse operano, o i modelli e le teorie con cui si usa rappresentarle21;
occorre, inoltre, come già si è accennato, contemplare prospettive basate sulle
differenze qualitative tra la complessità dei sistemi fisici e quella dei sistemi sociali,
nonché considerare problematiche concernenti la possibile misura del livello di
complessità.
In quel che segue, recuperando alcune tra le principali indicazioni formulate da
studiosi che hanno affrontato la problematica della comprensione della complessità
nei sistemi d’impresa, si intende individuare gli eventuali caratteri di similarità, al
fine di addivenire ad una rappresentazione condivisibile che, seppur nuova per
alcuni aspetti, possa tener conto delle diverse posizioni espresse.
Innanzitutto, è opportuno premettere che anche per le definizioni inerenti la
complessità è possibile considerare il tradizionale distinguo tra rappresentazioni
quantitative e rappresentazioni qualitative. Come è noto, le rappresentazioni
quantitative consentono una immediata trasposizione in dimensioni utili per
pervenire ad un qualche criterio di misura, mentre nel caso delle qualitative, spesso,
ciò non risulta attuabile.
È inoltre utile ricordare quanto detto da Murray Gell Mann: «probabilmente
nessun singolo concetto di complessità può cogliere in modo adeguato le nostre
nozioni intuitive di ciò che la parola dovrebbe significare. Potremmo quindi trovarci
nella necessità di definire vari tipi di complessità. Alcuni dei quali non sono ancora
stati concepiti»22. L’opinione riportata ci esime dal dover concludere con
considerazioni giustificative rispetto alla certezza di non poter pervenire ad una
sintesi definitoria onnicomprensiva.
Orbene, nell’ambito delle rappresentazioni quantitative della complessità in
ambito sociale alcune definizioni, con variazioni più o meno significative,
riconducono ad una molteplicità di autori. Tra queste quella di Joseph Tainter
individua le seguenti linee guida23:
- grandezza della società;
- numero e distinzione di parti componenti;
- varietà di ruoli e personalità sociali;
- varietà di meccanismi sociali per integrare queste parti e questi ruoli in un
insieme integrato ed efficiente.
In Italia Achille Ardigò ribadisce, in termini apparentemente diversi, una
rappresentazione sostanzialmente assimilabile alla precedente24:
- elevata numerosità degli elementi dell’organizzazione sociale;
21
22
23
24
Tra le possibili opinioni ricordiamo quelle di Le Moigne: «Non ci sono, quindi, fenomeni
complessi (complicati), ma modellizzazioni-costruzioni complesse (compicate) di
fenomeni “osservati” ovvero creati (dans notre tête)». Le Moigne J., La modélisation des
systèmes complexes, Dunot, Paris, 2002, pp. 27-28.
Cfr. Greco P., Evoluzioni. Dal big bang a Wall Street: la sintesi impossibile, Cuen,
Napoli, 1999, p. 96-97.
Cfr. Tainter, J.A., The Collapse of Complex Societies, Cambridge University Press, 1988.
Cfr. Ardigò A., Mazzoli G. L’ipercomplessità tra socio-sistemica e cibernetiche, Franco
Angeli, Milano, 1990, p. 44.
SERGIO BARILE
59
-
intreccio tra gli elementi dell’organizzazione sociale;
crescita dell’asimmetria tra istituzioni e sistemi sociali parziali;
astrattizzazione e riflessività del sociale.
Anche per Herbert Simon la complessità è «un sistema composto da un gran
numero di parti che interagiscono in modo non semplice»25.
Si tratta fin qui di rappresentazioni essenzialmente quantitative in cui ciò che
appare rilevante è la visione strutturale tanto del sistema analizzato, quanto
dell’ambiente in cui quest’ultimo agisce.
È evidente che tale prospettiva non esaurisce affatto la gamma di dimensioni utili
per l’esame della complessità delle organizzazioni.
Bene esprime il superamento della dimensione quantitativa Henry Atlan, che
propone tre caratteri rappresentativi della complessità emergente: «la prima è che la
complessità risulta essere composta di un gran numero di parti variamente
interconnesse; la seconda è che la complessità è un fenomeno emergente di cui non
si può predire con esattezza il manifestarsi, mentre la terza afferma che i processi
negentropici che operano negli organismi viventi producono un’evoluzione che pare
orientata verso una maggiore complessità»26.
Le considerazioni di Atlan lasciano ben intendere che la solo prospettiva della
crescita numerica di questo o quel fattore non riesce ad includere l’insieme di
segnali che normalmente preludono all’emergere della complessità. A quanti
studiano il fenomeno appare chiaro che non sono importanti solo le componenti in
gioco quanto anche, se non soprattutto le regole (che cambiano) del gioco.
Nell’ambito degli studi economico aziendali le posizioni prima ricordate,
vengono ad essere ricondotte a fattori specifici dell’agire imprenditoriale.
Persiste, evidenziando una presenza latente, la prospettiva di analisi focalizzata
sul concepire una dimensione essenzialmente strutturale della complessità declinata
sia all’interno delle organizzazioni che all’esterno ma, in molti studi, appaiono
evidenti indirizzi di analisi che spostano l’attenzione su aspetti e fattori che mal si
prestano ad essere oggetto di scala e di misura.
Salvatore Vicari così sintetizza gli elementi da cui appare dipendere la crescita
della complessità nelle organizzazioni imprenditoriali27:
- dai fatti che il management deve considerare, la quantità di dati che deve essere
considerata, il numero di elementi che entrano nel problema che deve essere
risolto;
- la varietà dei dati stessi, la diversità dei problemi, il numero di varianti con cui il
problema si presenta;
- la variabilità dei fatti che il manager deve considerare, il livello cioè di non
stabilità dei problemi, la loro incostanza nel tempo;
25
26
27
Simon H.A., “The Architecture of Complexity”, The Sciences of the Artificial, MIT Press,
Cambridge, 1969, p. 86.
Atlan H., L’organisation biologique et la théorie de l’information, Hermann, Paris, 1972,
p. 230.
Cfr. Vicari S., La creatività dell’impresa, Etaslibri, Milano, 1998, p. 20.
60
VERSO LA QUALIFICAZIONE DEL CONCETTO DI COMPLESSITÀ SISTEMICA
-
le variabili di contorno che possono influire sul problema e che non sono
conoscibili dal decisore.
Nella trattazione sviluppata, l’Autore, pur non addivenendo alla predisposizione
di un criterio atto a misurare la complessità, propone due diversi approcci per
governarla: il primo inteso ad arginarla, il secondo finalizzato a conviverci.
Enzo Rullani, nel distinguere tra il semplice ed il complesso, unisce all’ottica
prettamente strutturale anche una prospettiva sistemica: «Possiamo dire che un
problema, una soluzione, un contesto (in cui quel problema è situato), un punto di
vista (con cui va guardato) è complesso se ammette una grande varietà, una grande
variabilità e una grande indeterminazione di possibili situazioni o eventi»28.
In modo ancora più esplicito Roberto Cafferata ribadisce che i sistemi complessi
sono analizzabili sotto aspetti quantitativi e qualitativi: «In primo luogo, la
complessità inerisce al numero delle variabili in gioco nel sistema sociale e
all’interno di ciascuna organizzazione; in secondo luogo, la complessità si riferisce
al fatto che individui e organizzazioni sono in continua interazione, aperta a esiti
imprevedibili, con caratteristiche (qualità) non omologabili»29.
Meno diretti e più allusivi appaiono Tagliagambe ed Usai che affermano quanto
segue: «Intendiamo per complessità l’eccesso delle possibilità di esperienza e di
azione in un contesto qualunque, che fa sì che, all’interno di quest’ultimo, a causa
di limitazioni intrinseche della capacità di collegamento fra gli elementi, risulta
impossibile connettere ogni elemento in qualsiasi istante con ognuno degli altri.
[…] Complesso è dunque ogni ambiente imprevedibile, rispetto al quale l’unica
reazione che possa garantire la sopravvivenza è quella di mantenere un alto tasso di
esplorazione e la capacità di sviluppare rapidamente strutture temporanee adatte
per valutare ogni occasione favorevole che possa nascere»30.
Alle posizioni sopra riportate sono a ben vedere riconducibili gran parte delle
impostazioni adottate da quanti, nella prospettiva economico aziendale, hanno
riflettuto sulla complessità.
Seppur in modo non esaustivo una accettabile sintesi evidenzia che (Fig. 4):
- esiste una prospettiva che distingue tra la complessità propria dell’impresa
(interno), e la complessità riscontrabile nell’ambiente in cui essa opera
(esterno);
- un’altra prospettiva concerne le possibili distinzioni tra una complessità
definibile come “organizzativa”, ed una complessità qualificabile come
“decisionale”;
- infine, una distinzione viene fatta tra la complessità che attiene al modo di
essere dell’impresa (prospettiva strutturale quantitativa) e quella che attiene al
modo di comportarsi della stessa (prospettiva sistemica qualitativa).
28
29
30
Rullani E., “L’economia della conoscenza nel capitalismo delle reti”, Sinergie, 76, 2008,
p. 78.
Cafferata R., Management in adattamento, Tra razionalità economica e imperfezione dei
sistemi, Il Mulino, Bologna, 1995, pp. 181-182.
Tagliagambe S., Usai G., L’impresa tra ipotesi, miti e realtà, ISEDI, Milano, 1994, p. 61.
SERGIO BARILE
61
Analizzando i diversi singoli ambiti della figura, è possibile, per ognuno di loro
ed in ragione dell’implicito riferimento ad una valutazione quantitativa piuttosto che
qualitativa, recuperare e giustificare la validità di molte delle diverse accezioni
semantiche con cui si definisce la complessità in economia d’impresa.
Occorre dire che non tutte le prospettive di analisi riportate in Fig. 4 sono state
sviluppate in letteratura con egual profondità e ricchezza di risultati. Inoltre è
opportuno evidenziare che alcune prospettive di indagine, seppur considerabili
interessanti in ragione dei possibili esiti di sviluppo delle conoscenze, non appaiono
in alcun modo utili per intervenire né in termini di rappresentazione della
complessità, né circa la possibilità di intervenire per arginarla o ridurla.
Giova inoltre aggiungere che ognuno degli ambiti di Fig. 4 può, in ragione della
metodologia d’approccio utilizzata, o per essere più precisi, in ragione della
dotazione di conoscenza propria del soggetto esperente, enfatizzare modalità
operative completamente diverse.
Fig. 4: La prospettiva di analisi della complessità
Complessità
Interna
Complessità
Esterna
Complessità
di contesto
Complessità del
“come è fatta”
Complessità
nel decidere
Complessità del
“come si comporta”
Complessità
nell’agire
Fonte: ns. elaborazione
Così, ad esempio, l’ambito definito “Complessità del decidere”, se riferito alla
teoria delle decisioni classica, non psicologica per intenderci, non può che
ricondurre a determinati postulati o assiomi di comportamento razionale, da cui
derivare una funzione a valori reali, specifica del soggetto decisore, detta, a seconda
del contesto in cui si opera, di valore o di utilità, sulla base della quale stabilire che
una data scelta sia da preferire alle altre se e solo se l’utilità attesa di tale opzione
62
VERSO LA QUALIFICAZIONE DEL CONCETTO DI COMPLESSITÀ SISTEMICA
risulta essere superiore alla utilità attesa delle alternative. Allo stesso modo si ricade
nella tipica strumentazione di calcolo se si vuole determinare la quantità delle
componenti oltre la quale si assiste ad una perdita di controllo, il numero delle
relazioni che ingenerano condizioni di instabilità, piuttosto che il limite di delega di
attività ad un sub-sistema oltre il quale decade l’affidabilità, nella prospettiva
definita “Complessità del «come è fatta»”.
Cosa diversa invece consiste nel provare a decidere con la certezza di trovarsi di
fronte a situazioni emergenti, mai sperimentate, e difficilmente affrontabili con
tecniche e strumenti usuali.
In pratica ogni qualvolta si proceda ad enumerare piuttosto che contare gli
elementi costituenti, e quindi a ‘ridurre’ la realtà in elementi sempre più semplici,
cercando di ottenere una qualche quantificazione, una misura, della complessità, si è
costretti ad operare in ottica strutturale più che sul sistemica.
Sebbene dal punto di vista pratico, risulti innegabile che l’approccio cosiddetto
strutturale e quindi l’orientamento a quantificare fattori, relazioni, componenti,
variabili od altro, sia da ritenersi la modalità di approccio privilegiata per valutare
l’emergere della complessità, esiste una significativa difficoltà operativa nella
applicazione di una tale prospettiva. Essa deriva dalla constatazione del fatto che, in
modo non evidente, la necessità di procedere alla quantificazione determina che si
passi inavvertitamente dall’ambito della complessità all’ambito della complicazione.
Infatti, se il confine tra il complicato ed il complesso è stabilito dalla crescita
numerica di uno o più fattori e non su altri aspetti, si finisce per cadere in un classico
dilemma: quando “pochi fattori” diventano “molti” e quando “molti” diventano
“moltissimi”?
In sostanza se N sono, ad esempio, la quantità di relazioni che fanno ritenere una
fattispecie complicata, possiamo affermare che aggiungendo una ulteriore relazione
la fattispecie si trasformi in complessa? Cioè, se N relazioni corrispondono
all’estremo superiore di quel che definiamo “poche” relazioni, è ragionevole pensare
che N+1 relazioni, quindi solo una in più, ci facciano transitare nelle “molte”
relazioni e comportino il dover ricodificare la fattispecie come complessa?
È ragionevole ritenere che la risposta sia no! Anche N+1 relazioni debbono
continuare ad essere considerate “poche”.
Ma allora il discorso può essere reiterato aggiungendo prima una relazione alle
N+1, poi una alle N+2, e così via. Sostanzialmente non risulta possibile stabilire
quando l’aggiunta di una relazione produce l’emergere della complessità.
Possiamo concludere che fin quando la crescita dimensionale del numero di
relazioni non altera la capacità di “comprensione” delle dinamiche comportamentali
del sistema non si assiste all’emergere della complessità.
Ebbene, se viene ad essere accettata questa premessa, ne deriva una immediata
conseguenza che, pur essendo alquanto scontata, per certi versi rivoluziona il
paradigma della complessità delle imprese: la complessità nell’ambito delle scienze
sociali, e quindi nelle organizzazioni imprenditoriali, interviene allorquando si è
costretti ad abbandonare la prospettiva strutturale ed a ritrovarsi nella necessità di
valutare “oggetti”, materiali od immateriali, che siano non enumerabili secondo
SERGIO BARILE
63
criteri di calcolo noti, caratterizzati da confini relazionali che divengono indistinti,
riferibili a rapporti cangianti nel tempo e nello spazio, ed improntati a
comportamenti discontinui ed emergenti.
In sostanza quando la interazione che emerge da una qualsivoglia relazione
attivata in uno specifico processo non risponde più a criteri noti, a regole
comportamentali acclarate e condivise, insomma ad un disegno organizzativo
finalizzato. Per meglio comprendere quanto si intende affermare, si consideri la
tassonomia degli ambiti problematici riportata in Fig. 5.
Fig. 5: La scala dei problemi
Le dimensioni della complessità
2. RELAZIONI
molte
moltissime
1. VARIABILI
COMPLESSO
nonlineari
molte
COMPLICATO
lineari
poche
SEMPLICE
analitico
3. CARATTERISTICHE
DELLE RELAZIONI
poche
sistemico
4. APPROCCIO RISOLUTIVO
Fonte: ns. adattamento da De Toni A.F., Comello L., Prede o ragni, Utet, Torino, 2005, p. 16
Stabilito che la crescita quantitativa tanto delle variabili quanto delle relazioni
poco chiarisce rispetto all’emergere della complessità, ed avendo accettato che il
passaggio dall’analitico al sistemico è fisiologico, diviene evidente che l’aspetto
significativo altri non può essere che il carattere della relazione, il fatto che questa
diventi non lineare31.
Orbene, se l’elemento fondante sul quale incentrare la riflessione consiste sul
cosa debba intendersi per carattere non lineare della relazione, conviene procedere
riepilogando quanto si è fin qui detto:
31
Dove la linearità deve essere intesa come aderenza ad un possibile schema razionale e
condiviso.
64
VERSO LA QUALIFICAZIONE DEL CONCETTO DI COMPLESSITÀ SISTEMICA
-
Le direttrici utili alla individuazione di criteri adeguati al governo della
complessità sono da ricondurre alla prospettiva sistemica e non da quella
strutturale.
- La complessità si manifesta come incapacità di orientarsi ed agire utilizzando
criteri e regole che sono risultati utili in precedenza; conseguentemente le
indicazioni per avviare cambiamenti tesi al recupero della stabilità non sono
direttamente ed immediatamente “desumibili” da modalità del passato.
- Le premesse anticipate e denominate [dr], [ds], [dm] e [do] risultano essere
oltremodo condizionanti nella determinazione dei vincoli da applicare ad ogni
possibile contributo alla definizione di un paradigma della complessità nelle
organizzazioni imprenditoriali.
- A differenza di quanto accade nei sistemi fisici dove le connessioni tra le parti
sono garantite dall’azione di forze (leggi della natura) in gran parte note e non
cangianti nel tempo, la coesione tra le componenti dei sistemi sociali e quindi
delle imprese è fondata essenzialmente su relazioni la cui durata è limitata, che
riferiscono a regole pro tempore valide instaurate sulla base di rapporti di
rilevanza in continua evoluzione.
- Talvolta le relazioni, in ragione della variabilità dei rapporti di rilevanza
configurabili nel contesto, generano interazioni che risultano non comprensibili
per gran parte dei diversi attori interagenti nel sistema.
È proprio il concetto di interazione che, includendo tanto l’aspetto funzionale
quanto quello intenzionale, consente di avvicinarsi ad una migliore comprensione
del significato di “non linearità” relazionale32.
Il rapporto tra l’impresa ed il suo ambiente, con la conseguente definizione del
contesto, diviene interpretabile anzitutto in ragione della interazione tra le
componenti, sia interne quanto esterne.
Dall’attivazione delle interazioni possono prodursi effetti molteplici:
1. il superamento dei limiti della struttura. Il sistema che emerge non ha più confini,
e pertanto perde di significato il discutere sul se la complessità sia prerogativa
interna al sistema od esterna allo stesso33;
32
33
È di fatto evidente che laddove il decisore, non riuscendo a comprendere il contesto,
finisce per disorientarsi e smarrisce la prospettiva di azione (in altre parole perde
motivazione rispetto all’originaria intenzione), si ritrova suo malgrado a dubitare del
proprio ruolo (funzionalità) ed a divenire insofferente rispetto ai rapporti consolidati
(realazionalità non lineare).
Affermare che il sistema, emergendo dalla struttura, supera i confini fisici e si estende in
modo indefinito, può generare alcune distorsioni interpretative. Diviene difficile, ad
esempio, conciliare questa affermazione con quanto asserito al precedente punto [ds].
Verrebbe da chiedersi: come è possibile sostenere che la complessità deve intendersi
distinta in ragione del sistema dal quale la si percepisce (vedi punto [ds]), ed al contempo
sostenere che quando un sistema emerge dalla struttura supera i confini fisici, si estende
indefinitamente, ed assorbe tutto? Se un sistema che emerge dalla struttura si espande
ovunque, quale sorta tocca agli altri sistemi? Vengono tutti a fondersi insieme? La
apparente complessità di una simile ipotesi viene ad essere immediatamente superata se si
riflette sulle premesse fondative dei sistemi vitali. Il sistema vitale esiste in quanto
SERGIO BARILE
65
2. le condizioni di stabilità intersistemica sono sancite da un livello relazionale
basato su procedure consolidate (routines). A tale livello le relazioni, intese come
“norma”, come modalità definita di interazione tra le componenti, si
predispongono ad essere declinate in “regole”, in abitudini comportamentali, le
interazioni appunto, sensibili alle influenze, in continua evoluzione, del
contesto34;
3. le interazioni tra componenti, ripetute nel tempo, si consolidano in “rapporti” ed
attivano dei processi di riformulazione delle stesse modalità intenzionali. In
sostanza nell’ambito di comunità omogenee la regola, intesa come applicazione
(soggettivamente interpretata) della norma assume profili sempre nuovi e sempre
più distanti dal minimo comun denominare che nel tempo è venuto a
consolidarsi;
4. per effetto di quanto al punto 3. il sistema emergente vede ridursi
progressivamente la consonanza con il contesto, perde, cioè, la capacità di
garantire la compatibilità tra i propri processi e quelli dei sovra sistemi rilevanti
con cui il sistema interagisce, e si assiste all’emergere della complessità.
Una migliore comprensione dei precedenti quattro punti può essere agevolata
riportando alcuni concetti fondanti, propri dell’ ASV (approccio sistemico vitale):
- un sistema vitale vive, ed ambisce a sopravvivere, in un contesto popolato da
sistemi vitali;
- per contesto deve intendersi una “costruzione della realtà” operata dall’organo di
governo del sistema vitale considerato (soggetto decisore) e desunta
dall’ambiente (struttura del contesto inteso come macrosistema in cui, a sua
volta, la struttura del sistema considerato è immersa) in ragione di un obiettivo
da raggiungere;
34
espressione di una attività percettiva realizzata da un determinato soggetto “osservatore”.
Nei casi in cui non viene diversamente specificato, le considerazioni svolte sono da
ricondurre ad un soggetto osservatore privilegiato: l’organo di governo. Ebbene, quando
un soggetto focalizza la propria attenzione su un sistema, diciamo che lo osserva, tutta la
realtà circostante, tutte le componenti sistemiche e di dotazione relazionate, vengono ad
essere raccordate con tale prospettiva di osservazione.
La legge è l’atto normativo con il quale si intende regolare il comportamento futuro di
uomini, tipicamente riuniti in un “raggruppamento” di variabile natura e ragione, di modo
da orientarne la condotta specifica al verificarsi di determinate condizioni. Il complesso
delle leggi, e dunque l’organizzazione sistematica (cioè “di sistema”) del raggruppamento,
costituisce l’ordinamento giuridico o diritto.
In linea generale, la norma viene assimilata ad una “regola di condotta”, ovvero ad un
comando, che impone all’individuo un determinato comportamento. La norma non va in
nessun caso confusa con la legge. Mentre la legge è un atto prescrittivo, la norma è la
conseguenza attuativa di questo. Le norme sono solitamente desumibili da una
formulazione linguistica scritta (costituzione, legge, regolamento ecc.) al fine di conferire
alla stessa un alto grado di certezza e durevolezza nel tempo.
Con il termine regola si intende la declinazione, pro tempore condivisa, di una prestabilita
norma, per lo più codificata e coordinata con altre in un sistema organico.
66
-
-
-
-
VERSO LA QUALIFICAZIONE DEL CONCETTO DI COMPLESSITÀ SISTEMICA
un contesto si qualifica per essere la espressione di sintesi di un reticolo di
sistemi vitali, tra i quali è possibile distinguere un contenuto numero di sistemi
(sovrasistemi rilevanti) capaci di condizionare le scelte dell’organo di governo
del sistema considerato;
la definizione strutturale del sistema ed il livello di consonanza tra le componenti
evolute (sovra e sub sistemi interagenti), determinano il grado di compimento del
sistema considerato (cfr. Fig. 6);
il sistema vitale adegua (autoregola) il proprio schema organizzativo
dinamicamente, cercando di interpretare correttamente i segnali del contesto
(indicazione normativa), e determinando i conseguenti comportamenti da tenere
(regole soggettivamente derivate), al fine di conservare un grado di consonanza
con il contesto (rispondere alle aspettative dei sistemi vitali rilevanti) ed in tal
modo preservare la propria stabilità;
una struttura organizzativa include e comprende tanto principi, valori e credenze,
quanto schemi interpretativi, norme, regole, modalità consolidate, abitudini
(routines).
Fig. 6: Leggi, norme e regole
Fonte: ns elaborazione
Quanto fin qui detto può apparire di difficile comprensione, ma può essere
chiarito da un esempio. Immaginiamo di riferirci ad un sistema vitale individuo,
impegnato nel raggiungere in auto una destinazione nella città di Napoli partendo da
Milano. Il contesto di riferimento viene ad essere individuato in ragione di vincoli e
regole derivanti dai suoi sovra sistemi di riferimento.
Ai nostri fini non è essenziale definire i sovrasistemi, quanto piuttosto
specificare i vincoli e le regole che da essi derivano: occorre giungere a destinazione
SERGIO BARILE
67
entro una determinata ora, occorre avere un certo abbigliamento, e occorre rispettare
il codice della strada.
Il viaggio procede tranquillo in autostrada, il nostro viaggiatore non ha ansie, è
giunto facilmente all’ingresso autostradale ed ha imboccato la direzione giusta.
All’arrivo al casello di Napoli i primi problemi; è la prima volta che visita la città.
Pur disponendo di un navigatore satellitare le continue interruzioni per lavori in
corso rendono complicato un percorso che avrebbe dovuto essere semplice.
All’automobilista milanese appare strano che la legge sui lavori pubblici di
riqualificazione urbana possa determinare effetti simili. Sembra quasi che la stessa
legge, in ragione di alcune centinai di chilometri, possa produrre norme diverse.
Risulta limitata la segnaletica, appaiono incomplete le recinzioni e, dallo stato dei
lavori, sembrerebbe che i lavori siano in corso oramai da tempi notevoli.
Eppure egli nota che sul volto di gran degli altri automobilisti non appare alcuna
perplessità. Sembrano tutti tranquilli e sicuri che le cose procedono in modo
regolare. La cosa più singolare il nostro viaggiatore la percepisce nell’arrestarsi al
rosso dei semafori. Si accorge che il comportamento degli altri automobilisti è
irregolare: al rosso di alcuni semafori si fermano, mentre ad altri fingono di ignorare
il segnale di arresto. Non solo applicano una norma diversa da quella usata a Milano,
ma sembrano seguire regole indecifrabili, consuetudini condivise di impossibile
interpretazione. Continuare il viaggio diventa per il nostro automobilista un
problema complesso. Ormai ad ogni semaforo si attende urla ed imprecazioni.
Stanco di una simile situazione l’automobilista codifica una sua personale regola,
non terrà conto di quanto previsto dal codice stradale, giungendo ad un semaforo.
Indipendentemente dal colore ha deciso di rallentare fino a fermarsi quasi, e poi
attendendo di udire i clacson, al primo suono, sempre senza pensare al colore del
semaforo, di riprendere la marcia35.
Il collegamento con i precedenti punti è immediato. In linea con il punto 1. È
evidente che la complessità percepita dal viaggiatore dell’esempio non è
riconducibile ad aspetti meramente quantitativi, al fatto che abbia incontrato molti
semafori o che vi sia più traffico a Napoli che a Milano. Una analisi riferita solo alle
componenti non spiega quanto accaduto. Il punto 2. dice di più: le abitudini
comportamentali consolidatesi nel tempo non aiutano il nostro autista, le regole
napoletane lo disorientano, comprende ben presto che deve interagire in modo
diverso dal solito con il contesto. In fretta modifica l’approccio relazionale,
costruisce una nuova modalità di rapporto adeguandosi al comportamento degli
interlocutori. Per ritrovare consonanza con il contesto finisce per essere egli stesso
attore della deriva comportamentale. Codifica una nuova regola, del tutto sconnessa
dalla norma e dal codice stradale. L’interesse alla propria “sopravvivenza” nel
contesto lo porta a disattendere le indicazioni di uno dei sovra sistemi prima ritenuti
rilevanti36.
35
36
Il racconto non è poi tanto fantasioso, a Napoli le cose funzionano così da anni.
Il concetto di sopravvivenza applicato al sistema “autista di un’auto”, deve intendersi
come possibilità di continuare ad esser tale nel contesto. Cioè sopravvivere in questo caso
corrisponde a continuare a guidare.
68
VERSO LA QUALIFICAZIONE DEL CONCETTO DI COMPLESSITÀ SISTEMICA
Occorre precisare che la capacità del sistema di realizzare una interpretazione
della norma coerente con la volontà del contesto, e di codificare una relativa regola,
è strettamente correlata a due fattori:
I. il grado di compimento del sistema. Un sistema compiuto consente una
veicolazione delle informazioni (riduzione di possibili asimmetrie informative) in
misura maggiore rispetto a quanto accade in sistemi vitali in via di compimento o
embrionali;
II. il livello di consonanza esistente tra le componenti del sistema (interne ed
esterne alla struttura). Un elevato livello di consonanza agevola la realizzazione di
processi di “cambiamento” utili a sviluppare risonanza tra il sistema ed il contesto in
cui opera.
Fig. 7: Dal sistema vitale embrionale al sistema vitale compiuto
Fonte: ns. elaborazione
L’approccio sistemico vitale opportunamente distingue la configurazione di un
sistema vitale secondo le accezioni riportate in Fig. 737.
La possibile evoluzione dal sistema embrionale al sistema compiuto è
interpretabile attraverso il percorso che consente a regole condivise di divenire leggi
formalizzate. Nella normalità dei casi osserviamo che insiemi di elementi,
inizialmente non connessi e disarticolati, possono formare un sistema finalizzato in
ragione dell’applicazione di una regola. Si pensi alle persone che vagano per le
strade di una grande città. Osservando il loro percorso, ognuno preso dai propri
pensieri e dai propri interessi, non sembrano condividere alcunché in termini di
finalità condivisa. Eppure, giungendo nei pressi di un incrocio, la semplice presenza
di un semaforo, regolando il loro singolo fluire, li trasforma in un sistema per
attraversare la strada. Basta l’applicazione di una regola per consentire l’emergere di
un sistema. Allo stesso modo, un insieme di operatori economici, impegnati in
37
Golinelli G.M., L’approccio sistemico al governo dell’impresa, Vol. I, Cedam, Padova,
2000.
SERGIO BARILE
69
trattative di scambio, con l’applicazione di una qualsiasi regola (si pensi alla stretta
di mano tipica dei mercati del bestiame di una volta) diviene un sistema vitale
embrionale. Il sistema deve definirsi embrionale perché la regola, nata dal basso,
appare ancora poco formalizzata, con molti gradi di libertà e soggetta a varianti che
qualificano gruppi di appartenenza. È la fase successiva, quella in cui si assiste
all’emergere di una governance più o meno condivisa, capace di formalizzare la
regola, in sostanza consente di scrivere la regola prima non scritta, che il sistema si
qualifica come in via di compimento. La progressiva accettazione della regola
formalizzata, la stabilizzazione della stessa in un codice, voluto dal basso e sancito
dall’alto, porta alla compiutezza del sistema vitale.
È di notevole importanza stabilire che il percorso evolutivo esposto è da ritenersi
reversibile. In qualsiasi momento una riduzione del livello di consonanza, cioè una
progressiva diminuzione dell’attitudine media ad attenersi alle norme codificate,
produce un decadimento del sistema che da compiuto diviene embrionale.
Da quanto esposto è ragionevole dedurre che fin quando sussistono le condizioni
di consonanza l’organo di governo del sistema appare in condizioni di garantirne la
stabilità e non riscontra condizioni di complessità. Al più, talvolta, ritenendo che le
istanze prodotte dal contesto (forzature delle regole) “complicano” le procedure
consolidate, si suppone che ricorra ad attivare processi di adeguamento o, ove
necessario, di trasformazione dei tradizionali modelli e degli schemi operativi.
Sono quindi proprio i casi in cui l’organo di governo si rende conto di non essere
più in grado di coordinare le esigenze espresse dal contesto (dai sovrasistemi di
riferimento) quelli in cui si assiste alla progressiva emersione della complessità.
Quando l’organo di governo si accorge che la prestazione del sistema non
contribuisce ad una stabilizzazione dei rapporti con il contesto, ma anzi rafforza la
distorsione (riduzione di consonanza), e rileva una progressiva crescita
dell’incertezza, egli prende coscienza della inadeguatezza dei propri schemi
interpretativi, realizza la necessità di derogare alla norma, capisce e rinuncia
progressivamente a modelli decisionali consolidati per rifugiarsi in euristiche
occasionali e contingenti finalizzate, in ottica di autotutela, a privilegiare
egoisticamente il proprio tornaconto.
Da tale comportamento deriva una accelerazione (dissonanza o risonanza
negativa) dei processi degenerativi e di destabilizzazione del sistema.
Nel successivo paragrafo viene fornita una esemplificazione, basta sulle
dinamiche recenti del sovra sistema finanziario, della capacità esplicativa di quanto
fin qui esposto.
4. Complessità e crisi del sistema finanziario: una possibile lettura
Un esempio di quanto rappresentato può esser derivato dal considerare gli
accadimenti intervenuti di recente nei mercati finanziari internazionali e nazionali.
L’interrogativo più dibattuto concerne il come sia possibile che il disastro
concentrato nel settore dei mutui, dove prestiti sono stati concessi a chi non dava
70
VERSO LA QUALIFICAZIONE DEL CONCETTO DI COMPLESSITÀ SISTEMICA
sufficienti garanzie (subprime loans), abbia determinato una rapida crescita della
complessità (incapacità di comprendere le esigenze evolutive del contesto),
provocando la crisi del mercato azionario mondiale, determinando il fallimento di
numerosi istituti di credito e società finanziarie e predisponendo l’intero sistema
finanziario a cambiamenti epocali.
È credibile che la non solvibilità di un totale di crediti (i subprime) che al più
assommava al 2% del credito totale interno U.S.A., abbia potuto determinare uno
sconvolgimento quale quello generatosi? Dove sono da ritrovare le ragioni prima e
le responsabilità dopo di un simile disastro?
Per ricondurre le recenti dinamiche del sistema finanziario alle modalità esposte
in questo contributo occorre anzitutto, partendo dall’ipotesi che quello “finanziario”
sia un sistema vitale, stabilire qual è il grado di compiutezza che può essergli
attribuito.
È ragionevole accettare che in riferimento a quanto accadde negli anni quaranta
del secolo scorso, la conferenza di Bretton Wood (1944) altro non fece che
ridisegnare, in termini di maggiore consonanza, e quindi favorendo la
trasformazione di un sistema embrionale in sistema vitale compiuto, le procedure di
politica monetaria in essere nei 44 Paesi alleati38. In sostanza, prendendo atto del
sistema di regole che negli anni si era sviluppato dal basso (bottom-up) nei diversi
paesi, il piano impose un accordo teso a stabilizzare il tasso di cambio ad un valore
fisso rispetto al dollaro (che a sua volta era agganciato ad un equivalente in oro). In
tal modo il dollaro veniva eletto a valuta principale, consentendo solo delle lievi
oscillazioni delle altre valute.
Ovviamente le attività di codifica normativa non fermano a tale accadimento.
Solo pochi anni dopo, al fine di compensare gli squilibri causati dai pagamenti
internazionali, viene istituito il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e la Banca
internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (Birs, detta anche Banca mondiale o
World Bank). Nel 1947 si procede alla firma del Gatt (General Agreement on Tariffs
and Trade) che si affiancava all’Fmi ed alla Banca mondiale con il compito di
liberalizzare il commercio internazionale.
Ai nostri fini, quanto riportato ci consente di sostenere che il sistema finanziario
fosse da ritenersi “embrionale” negli anni precedenti al 1944 (Fig. 10a). Esistevano
regole consolidate in ognuno dei 44 Paesi partecipanti alla conferenza, ma non
esisteva alcuna norma sovraordinata. Di certo esistevano, e presentavano alta
similarità, procedure, modelli operativi, e routines organizzative, ma ancora non
risultava essere individuabile un orientamento condiviso nelle politiche di governo e
di gestione del sistema. Negli anni immediatamente successivi a Bretton Wood il
sistema si qualifica per essere in via di compimento, non risulta individuabile un
organo di governo unico, ma sono visibili significative concentrazioni finalizzate
all’indirizzo ed al controllo di molte delle tipologie procedurali più importanti
generate nel sistema (Fig. 8b).
38
Come è noto, Bretton Wood deve ritenersi l’epilogo di un processo di formalizzazione del
sistema finanziario, attivato dal sovrasistema istituzionale in risposta agli accadimenti
disastrosi denominati “crisi del ’29”.
SERGIO BARILE
71
Il sistema così configurato dimostra la sua efficacia nel regolare le dinamiche
economiche internazionali e nel consentire una autonomia economica ad ognuno
degli Stati membri, pur favorendo la realizzazione di obiettivi comuni, e riesce a
farlo fino agli anni settanta dello scorso secolo.
Fig. 8: Dall’accolta al sistema
Fonte: ns. elaborazione
Poi accade qualcosa, probabilmente incomprensibile in ragione delle
“conoscenze” di quegli anni, che attiva le condizioni per una progressiva alterazione
dell’equilibrio economico (di cui il disequilibrio finanziario diverrà la
manifestazione). Le ragioni di una tale alterazione sono da individuare anzitutto
nella riduzione di “consonanza” generatasi tra le aspettative dei sovrasistemi e le
potenzialità di performance del sistema finanziario. Le radici del processo di
“dissonanza (risonanza negativa)”, sono da datare agli anni sessanta, momento di
grande espansione economica tanto negli Stati Uniti quanto nei paesi dell’Europa
Occidentale. In quegli anni si avvia un processo di progressiva “virtuale”
diminuzione delle diseguaglianze economiche tra classi sociali. Il passaggio epocale
determinatosi per effetto della trasformazione di una “categoria valoriale”, quella
relativa alla “moralità” dell’esser indebitati, innesca una vera e propria esplosione
dei consumi. Molte persone, anche se non benestanti, vengono indotte, attraverso
pratiche legalizzate di persuasione, ad acquistare in misura sempre maggiore beni e
72
VERSO LA QUALIFICAZIONE DEL CONCETTO DI COMPLESSITÀ SISTEMICA
servizi, anche se spesso essi non qualificano la soddisfazione di bisogni precisi e
reali, ma il cui possesso è recepito come identificativo di appartenenza, di
integrazione sociale, di legittimazione. Nasce in tale ambito il fenomeno che ha in
pochi anni contaminato la totalità dei paesi occidentali: il consumismo.
Il consumismo assurto a “categoria valoriale” viene agevolato ed al contempo
agevola la creazione e la diffusione di strumenti di credito al consumo. Di fatto
introduce una distorsione, la cosiddetta ricchezza virtuale, sostituendo lo schema
interpretativo preesistente, che legava la moneta ad un dato oggettivo: la riserva in
oro. Leggendo gli accadimenti alla luce dei punti 1-4 del precedente paragrafo, si
assiste al consolidamento di regole distorsive rispetto alla tradizionale
interpretazione della norma. Si produce una reinterpretazione condivisa che impone
una ridefinizione della norma capace di tenerne conto. Non è per caso, quindi, che il
presidente Richard Nixon nell’agosto del 1971, con l’annuncio dell’accordo
Smithsonian Agreement, regolarizza ciò che di fatto è già avvenuto: la sospensione
della convertibilità del dollaro in oro (gold exchange standard), dando inizio alla
fluttuazione dei cambi.
L’euforia del poter realizzare il sogno americano della ricchezza in tempi brevi
contamina gli individui di ogni livello sociale, di ogni età, e di ogni cultura. Tutti i
fenomeni riscontrabili da quegli anni e negli anni successivi sono da ricondurre a
questa sorta di inebriamento generale39.
Lo schema interpretativo dominante è quello della one best way quale
affermazione di una logica ricondotta ad indirizzo comportamentale del singolo
individuo, e tale da consentire ad ognuno di individuare nelle opportunità di mercato
le direttrici del proprio successo e del benessere personale.
Di fatto si assiste all’instaurarsi della deriva che porta i sistemi singoli a
privilegiare la propria possibilità di sopravvivenza anche a danno delle aspettative
dei sovra sistemi di riferimento.
Gli effetti di una tale tendenza hanno prodotto distorsioni lungo due importanti
direttrici. Da un lato la cronica sovrapproduzione dei sistemi industriali occidentali a
partire dagli anni ’70. Una sovrapproduzione che contribuisce a comprimere i salari
da lavoro, con un conseguente spostamento delle ricchezze verso i profitti. La
diminuzione della quota del prodotto interno lordo che va ai redditi da lavoro (la
wage share) ed il corrispondente aumento della quota riservata ai profitti (la profit
39
Gli indirizzi valoriali sono sintetizzabili nei diversi strati del sociale in espressioni quali:
la vita non è solo sacrificio; se ti piace studiare puoi diventare Bill Gates; se sei
fisicamente dotata puoi fare la velina; se hai caratteristiche particolari puoi partecipare al
Grande Fratello. In ogni Paese cosiddetto “civile” si diffonde il mito del “cittadino
qualunque” che trova la scorciatoia per il raggiungimento del benessere. Si moltiplicano i
quiz a premi e per i meno dotati si esaltano le occasioni per la “semplice” caccia al giorno
fortunato, con strumenti vari che vanno dal datato “gioco dei pacchi”, alle scommesse di
vario tipo (superenalotto, bingo ecc.), per finire al gioco in borsa.
SERGIO BARILE
73
share) è una pratica (regola) comune a tutte le economie occidentali40. Lo schema
instauratosi porta gli stessi salariati ad immaginare che la propria prospettiva
economica non sia “ancorata” alla capacità di reddito derivante dal lavoro, ma sia
sempre più connessa alle dinamiche finanziarie del contesto economico e sociale.
Per dirla con una metafora, è come se tutti indistintamente, enti, istituzioni, imprese,
professionisti e salariati in genere, ritenendo di essere in navigazione su di un fiume,
ovviamente con natanti diversi, distinguendo tra transatlantici e barchette, fossero
non più attenti alla propria capacità di propulsione, quanto si affidassero alla
velocità del fiume stesso. Il salariato, per raggiungere la meta (i propri obiettivi) non
confida più sulla propria capacità di remare, ma spera di essere trascinato
dall’impeto della corrente.
Sulla base di questa esigenza, nello stesso periodo, si assiste ad un
potenziamento “della corrente del fiume”, allo sviluppo di prodotti ed attività
finanziarie sempre più speculative. I capitali vengono indirizzati in maniera sempre
più consistente sui mercati finanziari e sempre meno in investimenti produttivi, con
l’effetto di una ulteriore sottrazione di ricchezza all’economia reale.
In sintesi, si è verificata una completa destabilizzazione delle regole consolidate,
promuovendo un progressivo spostamento del reddito dai salari ai profitti, e in
contemporanea uno spostamento dei profitti dagli investimenti alle rendite.
Alcuni studiosi hanno previsto che quanto si sta verificando potesse accadere:
l’economista John M. Keynes, già nel 1926 affermava che «quando l’accumulazione
del capitale di un Paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò è
possibile che le cose vadano male». Aveva così colto, e denunciato profeticamente,
la possibilità che l’ideologia neoliberista, fondata sul capitalismo finanziario, sia da
ritenersi strutturalmente fragile ed esposta a continue crisi.
Il passaggio dalla fase di stabilità a quella di crescente instabilità, secondo
l’approccio ASV, si realizza attraverso una progressiva incapacità del sistema
osservato (quello finanziario appunto) nel rilevare, analizzare e ricondurre a
casistica nota, comportamenti dei diversi sovrasistemi presenti nel contesto.
Pertanto, nel caso del sistema finanziario, in tempi non sospetti avrebbero dovuto
riscontrarsi “accadimenti” inconsueti, emergenti, non giustificabili nell’ambito del
sistema di norme-regole consolidate.
A ben vedere, segnali concreti di manifestazioni di comportamento anomalo da
parte di componenti sistemiche (espressione di sovrasistemi rilevanti) sono
certamente rinvenibili soprattutto in anni recenti. Solo per ricordarne alcuni è
possibile far riferimento al crac dei mercati azionari verificatosi negli anni ottanta,
all’impiccio delle obbligazioni spazzatura (junk bonds) degli anni novanta ed alla
conseguente crisi delle casse di risparmio americane, per procedere sino alla crisi dei
nostri giorni.
Eppure, sia l’organo di governo che la quasi totalità delle componenti sistemiche
del sistema finanziario non hanno colto tali segnali, hanno immaginato di poterne
40
Lo spostamento risulta essere particolarmente accentuato in Italia, dove, negli ultimi venti
anni, è stato calcolato che circa 8 punti di PIL - ovvero qualcosa come 120 miliardi di
euro - sono passati dai redditi da lavoro ai profitti finanziari.
74
VERSO LA QUALIFICAZIONE DEL CONCETTO DI COMPLESSITÀ SISTEMICA
fronteggiare le conseguenze attraverso adeguamenti e trasformazioni delle regole in
essere, e ‘cadendo’ d’improvviso in una condizione di complessità cui hanno
risposto con euristiche decisionali e connesse dinamiche comportamentali guidate da
un eccessiva attenzione (egoistica) finalizzata alla propria (in termini sistemici)
sopravvivenza, causando, conseguentemente, una enorme accelerazione dei processi
di instabilità e degenerazione del sistema finanziario.
5. Alcune considerazioni non conclusive
Pur essendo stato ampiamente trattato nelle diverse discipline sociali ed in
economia d’impresa, il tema della complessità è tuttora connotato da una evidente
ambiguità delle definizioni e, talvolta, da confuse derivazioni teoriche che spesso
rimangono del tutto scollegate dalle teorie d’impresa e dalle connesse applicazioni
gestionali proposte in letteratura e nella prassi operativa.
In tale contesto, l’ambizione del presente lavoro è quella di delineare i confini
del costrutto complessità nell’ambito dell’approccio sistemico vitale (ASV) e di
indagare le relazioni tra tale concetto e quelli di varietà, consonanza e grado di
compimento dei sistemi vitali.
La prima - e più evidente - considerazione che emerge consta nella natura
soggettiva del concetto di complessità. La qualificazione di un fenomeno come
complesso deriva, in altri termini, dal patrimonio di varietà - Unità informative,
Schemi interpretativi e Categorie valoriali - di cui è dotato l’osservatore, sia esso
l’organo di governo di un’impresa, ovvero un ricercatore. Ne consegue sia un rifiuto
di quegli approcci che intendono ‘oggettivare’ la complessità riducendola a mero
calcolo sia uno sprone ad investigare il ruolo e l’influenza delle relazioni ed
interazioni (con gli annessi aspetti funzionali ed intenzionali) tra componenti interne
ed esterne ai sistemi e tra questi ultimi nel rapporto tra impresa e il suo contesto.
In secondo luogo - ed in ragione di quanto espresso - è opportuno sottolineare
che proprio nei casi in cui l’organo di governo del sistema impresa si rende conto di
non essere più in grado di coordinare le esigenze manifestate dai suoi sovrasistemi
di riferimento si assiste alla progressiva emersione della complessità. In altre parole,
quando l’organo di governo si accorge che la prestazione del suo sistema non
contribuisce ad una stabilizzazione dei rapporti con il contesto, ma anzi ne riduce la
consonanza, e rileva una progressiva crescita dell’incertezza, egli prende coscienza
della inadeguatezza dei propri schemi interpretativi (regole come interpretazione
della norma) e rinuncia progressivamente a modelli decisionali razionali per
rifugiarsi in euristiche occasionali e contingenti finalizzate, in ottica di autotutela, a
privilegiare egoisticamente il proprio tornaconto.
Da tale comportamento deriva una crescita della dissonanza tra sistema impresa
ed il suo contesto con una conseguente mutazione dello stadio di comprensione da
parte dell’organo di governo dei fenomeni emergenti. Si manifesta, così, un
passaggio da una condizione di certezza e/o complicazione nella lettura delle istanze,
delle pressioni e delle opportunità che qualificano il contesto ad una di complessità,
sino a condizioni di puro caos.
SERGIO BARILE
75
La modificazione del livello di comprensione del contesto è di norma
accompagnata da una variazione del grado di compimento del sistema che in ragione
delle logiche di autotutela che vengono ad essere celebrate dal suo organo di
governo così come dalle sue componenti, vede affievolirsi la consonanza anche al
suo interno con una conseguente tendenza verso configurazioni “in stato di
compimento” o, addirittura, “embrionali”. Si può così innescare un meccanismo di
crescente instabilità che se non compreso adeguatamente dai vari sistemi che vivono
il contesto, può ulteriormente accelerare la diffusione di condotte distorsive
generando così una crescente percezione di complessità ambientale e, dunque,
un’ulteriore instabilità dei sovrasistemi che lo popolano.
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