Libro Archeologia

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Libro Archeologia
Senza alcun dubbio è da salutare con vivo apprezzamento, quest'impegno dall'avvincente
titolo "L'Immensa Onda" che si richiama alla definizione che Omero dava per indicare la
navigazione d'alto mare.
Giuseppe Mavilla, già noto per precedenti imprese agonistiche, si rivela appassionato
operatore d'archeologia sottomarina, affrontando diffidenze e paure derivanti dalla
pericolosità di un mondo misterioso in attesa d'essere esplorato.
L'autore, che si dedica da quasi mezzo secolo a tale rischiosa attività, ha fatto bene a
fissare in questo libro tutte le sue esperienze di attento ricercatore di storici reperti che
oggi conducono a conoscere e decifrare cosa giace nascosto in fondo ai mari. Trapela,
attraverso ciò che egli esprime, l'appassionato desiderio di scoprire cose antiche e dar
loro il compito di raccontare la Storia a coloro che le ammirano negli ambiti dei musei
archeologici.
La verità che caratterizzò tali scoperte emerge proprio nell'"Immensa Onda" che fornisce
la limpida documentazione dei fatti ponendo nel doveroso giusto rilievo quella che fu la
posizione di Giuseppe Mavilla che con la "Testa del Filosofo" ed altri importanti reperti
rinvenuti per suo merito, rendono ancor più preziosa la Sezione dell'archeologia
sottomarina al Museo Nazionale di Reggio.
Franco Cipriani
Decano giornalisti calabresi
PREMESSA
"Nel corso del 1969 alcuni pescatori di Villa S.Giovanni individuarono un piccolo
giacimento archeologico sottomarino nell'insenatura di Porticello e ne iniziarono il
saccheggio.
Dopo qualche tempo la Soprintendenza ne fu informata e si ottenne la consegna di
anfore e ceramiche di età e soprattutto di molti frammenti di statue in bronzo, tra cui
un eccezionale ritratto di vecchio dalla lunga barba."
La storia del ritrovamento del "Relitto di Porticello" nello Stretto di Messina, viene così
riportata nei pannelli didattici della sala ove sono esposti i bronzi di quel relitto, e tra
questi la mirabile "Testa del Filosofo", mentre all'ingresso del Museo archeologico di
Reggio Calabria, viene offerta in vendita ai visitatori la "guida" intitolata "Il Museo di
Reggio Calabria" che riporta la stessa descrizione..
A differenza dei Bronzi di Riace esposti nello stesso Museo, non si menziona il nome
dello scopritore ufficiale, lasciando credere che la Soprintendenza Archeologica della
Calabria entrò in possesso dei reperti grazie alle informazioni relative al saccheggio,
fuorviando la verità che emerge dalla documentazione di Stato.
Questo mare è pieno di voci e questo cielo
è pieno di visioni.
Ululano ancora le Nereidi obliate in questo mare...
Questo è un luogo sacro, dove le onde greche
vengono a cercare le latine....sotto le porpore
iridescenti dell'occaso è appiattata dicono,
la morte....
Quella che sradica, non quella che lascia
dietro di sè le lagrime, ma quella cui segue l'oblio.
Tale potenza nascosta... ha annullato qui tanta
storia, tanta bellezza, tanta grandezza.
Ma ne è rimasta come l'orma nel cielo,
come l'eco nel mare.
Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia.
ì
G.Pascoli
INTRODUZIONE
Un giorno leggevo l'iscrizione del Pascoli scolpita sulla pietra della mia Via Marina di
Reggio. Il grande poeta italiano, intorno al 1898, era professore all'Università di
Messina e scrisse quei versi durante una traversata verso la Calabria, zona sismica e preda
di immani distruzioni naturali che "annullano tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza".
Pascoli a quel tempo non sapeva che presto, dopo solo mezzo secolo, il mare avrebbe
restituito i suoi tesori custoditi per millenni, come "I Bronzi di Riace", tra le massime
espressioni dell'arte d'ogni tempo; ne descriveremo il recupero e racconteremo le vicende
legate al ritrovamento del "Relitto di Porticello", nello Stretto di Messina, seguito da una
confusa ed improduttiva caccia al clandestino.
Offriremo la soluzione sulla causa dell'affondamento del relitto greco, basandoci su
esperienze vissute a bordo di un veliero di attuale costruzione, certamente più sicuro ed
inaffondabile, dal quale osservare i tratti di mare che impaurivano gli antichi navigatori. Il
comando di quel veliero era affidato allo scrivente che è lo stesso sommozzatore che
scoprì nel 1969 il relitto, quindi nella favorevole condizione di sintetizzare gli imponenti
fenomeni meteorologici e subacquei relativi al sito interessato.
Il relitto fu studiato nel 1970 dalla missione americana della Pennsylvania University che
stabilì in una serie di pubblicazioni che il battello era un "HOLCAS" di circa 20 metri,
affondato a 200 metri dalla riva con la prua rivolta verso sud. Era a carena quasi piatta
come ogni imbarcazione commerciale. Furono ritrovate sbarrette di piombo a sezione
trapezoidale, quindi prima del varo fu colato del piombo all'interno, sul fondo, lungo i lati
dell'asse centrale della carena detto paramezzale, che con il carico stivato molto in basso
offrivano maggior stabilità. I contrappesi esterni, come i bulbi dei moderni yachts erano
sconosciuti e trovarono applicazione solo dal XVIII secolo.
Inoltre non esistevano sistemi di autovuotamento. L'acqua imbarcata per le ondate più
grosse o la stessa pioggia doveva essere scaricata continuamente con dei recipienti, e guai
se il battello inclinandosi avesse immerso il bordo; sarebbe affondato in pochi secondi!
Invece le attuali imbarcazioni dispongono di un controstampo interno, fissato oltre la linea
di galleggiamento, che consente all'acqua imbarcata di defluire rapidamete all'esterno.
Nessuno ha saputo indicare la rotta dell' holkas, mentre si è potuta stabilire l'età del
battello e dei reperti bronzei in esso contenuti, la tipologia delle anfore e la paternità della
mirabile "Testa del Filosofo" come impropriamente viene definita.
Infatti lo studioso Angelo Maria Ardovino, attuale soprintendente per la Lombardia, così
conclude nel suo saggio per l'Istituto di Archeologia dell'Università di Perugia, intitolato:Il
Relitto di Porticello ed il cosiddetto Filosofo (1982):
"forse il concetto di filosofo prima dell'esperienza socratica non era del tutto formato e
tendeva a sfumare e a confondersi con altre nobilissime attività intellettuali. E' probabile
che all'interno di queste si debba cercare il nostro personaggio; cerchiamo perciò di
rettificare l'uso di un termine che oggi potrebbe comportarci una serie d'equivoci."
Nel volume "Storia della Calabria Antica" edito nel 1987, Paolo Enrico Arias tenta così un
discorso concreto:
"proponiamo con molta cautela il nome di Esiodo. Risale a Carl Robert la proposta che il
personaggio barbato, con bastone pastorale e seduto davanti a un parapètasma
(coperchio) su sarcofago, del Museo di Napoli, possa essere ESIODO.
Se questa ipotesi fosse vera, essa porterebbe di conseguenza anche all'identificazione di
un ritratto di Napoli dalla lunga barba che potrebbe confrontarsi per la struttura della
barba del nostro bronzo."
Inoltre, lo stesso Arias attesta la paternità della scultura ritenendo:
"che appartenga a quel momento tipico della fine del V secolo in cui non cessano gli
impulsi dello stile severo accolti anche da una grande personalità come quella di Fidia."
Capitolo Primo
L'isola africana.
"come il dì spunti, salirem di nuovo
la nave, e nell'immensa onda entreremo"
Omero (Od. XII - 367)
Prima d'entrare nello Stretto di Messina, spingiamoci in navigazione verso altre zone
del Mediterraneo, ove potremo accrescere le nostre esperienze.
Da Biserta, dopo otto ore di mare formato, ci avvicinavamo all'isola di "La Galite" 60
miglia a Nord dalla costa africana. La carta nautica indicava un'insenatura riparata dai
venti da nord, e feci rotta verso la rada tranquilla dove in una notte di vento compresi
come era affondato il relitto di Porticello, bloccato "con una cima a terra" che ne
determinò il rovesciamento.
L'isola era bellissima e selvaggia, sovrastata da due maestosi picchi dalla vegetazione
rada, interrotta da massi taglienti.
Raccolsi le vele e mi avvicinai con il motore al minimo studiando con attenzione
l'ancoraggio. Guardavo continuamente la lancetta dell'eco-scandaglio che saliva
velocemente verso i venti metri, poi diciotto, quindici ed a dieci metri di profondità
ancorai, lasciando libero il battello di orientarsi al vento.
Ogni estate ero impegnato nel mio consueto lavoro di charter(1), ed in quell'occasione
avevo a bordo un cliente con moglie e due ragazze. La barca era un Beneteau francese di
14 metri, con albero surdimensionato a tre crocette, pesante 11 tonnellate di cui 6 di
zavorra, di nome "ATHENA".
Il sole era da poco tramontato, una leggera brezza di terra mi teneva allineato con la poppa
verso il largo e l'unico motivo a tenermi allertato era la tenuta dell'ancora che durante la
notte avrebbe potuto "arare" sul fondo. La barca sarebbe andata indietro forse verso il
largo dove lo scuotimento delle prime onde del mare aperto m'avrebbe svegliato, oppure
verso gli scogli che avrebbero rapidamente frantumato la lunga pala del timone. Avevo
deciso! La cosa più sicura era "la cima a terra".
Calato in mare il piccolo tender (2) presi terra vicino ad una roccia dove legai una lunga
cima riportando il capo sullo yacht. Spostato a poppa (3) il residuo della catena d'ancora
cominciai a tirare la cima da prua (4) facendo avanzare lentamente la barca verso terra.
La catena invertì l'inclinazione e di colpo si tese bloccando l'avanzare dello yacht a
discreta distanza di sicurezza, e l'indomani, con la prua più vicina a terra, saremmo stati
favoriti per caricare i numerosi bidoni d'acqua che a Biserta non avevamo potuto
imbarcare.
I clienti erano già sistemati per la notte, e prima di dormire guardai i contorni dei due
monti ai lati della rada. A destra verso est si stagliava uno dei picchi con una parete
quasi piatta e verticale. Il vento veniva da nord, e la lieve altezza della terra a noi di
fronte, impediva che arrivasse con forza, smorzandolo in una dolcissima brezza
rinfrescante.
Soltanto in mare si gustano certi momenti di pace, mentre tu sai che fuori la rada c'è vita,
movimento, e l'aria tesa che per tante ore t'ha fatto tenere le mascelle serrate.
Dopo una breve cena mi addormentai subito, mentre la barca immobile, nell'acqua
appena screziata, galleggiava sicura ormeggiata con una "cima a terra".
Mi svegliai di soprassalto, la barca s'inclinava di lato, venni sbattuto dalla parte
opposta alla cuccetta. Un cupo mugolio di vento e di acque scroscianti nel nero della
notte, trasformarono l'ansia in paura che si esasperava per la subitaneità di quanto
accadeva. Il vento a raffiche violente arrivava da est. La cima di terra era tesa, poi di
colpo s'allentò e si poggiò sull'acqua, mentre la barca non smetteva di rollare (che è il
movimento altalenante da destra a sinistra e viceversa). Andai a poppa a controllare la
catena dell'ancora cercando di spiegarmi il fenomeno. Il vento aveva cambiato
leggermente direzione disponendosi da nord-ovest e, dopo aver attraversato l'isola,
colpiva il picco alla mia destra creando un vento di rotazione da est che intubandosi
colpiva la rada con raffiche micidiali di oltre 40 nodi. La cima dell'albero verso le stelle
descriveva ampi semicerchi dovuti all'effetto pendolo sulla zavorra messa in movimento
dalla raffica precedente. A tale movimento s'integrò la forza della raffica successiva che,
per un momento, portò la barca con il bordo sott'acqua. L'Athena era fatta per navigare
anche in quelle condizioni e soprattutto quando di bolina stretta (5) il bordo sottovento si
immerge fino alla battagliola (6). Altri scafi senza totale pontatura e sistemi auto-vuotanti
sarebbero affondati in meno di un minuto. Mi rendevo conto che l'Athena era
irrovesciabile grazie al bulbo in piombo di ben 2 metri e mezzo d'immersione, il pericolo
non era quello. Provai a pensare alle conseguenze di un cedimento dell'ancora. La
pressione laterale era troppa !
Tenendomi dalla battagliola andai a prua e mollai a mare la cima legata a terra. La barca
trattenuta soltanto dall'ancora iniziò a ruotare allontanandosi dalla riva e disponendosi
alle raffiche da est, esaurendo in breve ogni oscillazione laterale concedendoci finalmente
di riposare.
Al mattino tutto era calmo, anche al largo, e mentre gustavo il mio cappuccino, osservavo
il rientro dopo una notte di lavoro di alcuni pescherecci molto sporchi che venivano
ricoperti di lerci teloni per l'ombra sui ponti. La vecchia flottiglia usciva all'imbrunire a
pesca di aragoste. Il pescato era poi immerso in grandi vivai di rete metallica e posato a 25
metri di fondo, ed ogni tre giorni un peschereccio più grande, che faceva la spola con
Biserta, caricava nelle proprie vasche d'acqua salata un gran carico d'aragoste che dopo 10
ore erano in volo per Parigi dove giungevano ancora vive.
Sulla riva pietrosa notavo pezzi di pescherecci andati distrutti proprio a causa delle "cime
a terra" che non lasciando libere le imbarcazioni di assestarsi al vento ed alle onde,
creavano una pressione laterale talmente forte da determinare la rottura delle cime delle
ancore ed il conseguente spiaggiamento delle barche. Forse il relitto di Porticello era
affondato in analoghe condizioni ?
Non proprio, il relitto non era finito sulla riva, in quel caso noi moderni non avremmo
ritrovato nulla. I resti di qualsiasi naufragio sbattuti sulle rive o finiti a pochi metri
d'acqua, venivano raccolti dagli abitanti del luogo quasi immediatamente, senza lasciarne
memoria storica. Mentre i relitti poggiati su fondali più profondi, restavano quasi intatti
anche per millenni. Le parti esposte al continuo movimento delle maree ed agli organismi
ghiotti di legno, venivano via via dissolte nel corso dei primi decenni, mentre le terrecotte
(anfore, vasi, ecc.) e le parti metalliche specie se protette dal fango e dalla sabbia,
restavano pressochè immutate fino ai nostri giorni. Anche le parti in legno sepolte sotto la
sabbia resistevano al tempo, tanto che s'è potuta avere l'idea della forma e della
lunghezza di alcuni relitti ritrovati negli ultimi anni come quello di Yassi Ada nel 1961, e
lo stesso Relitto di Porticello del 1969.
Certo per noi navigatori moderni, muniti di motore, carte nautiche e sistemi elettronici di
rilevamento, andar per mare è facile! Gli antichi invece dovevano affrontare enormi
difficoltà legate alla scarsa conoscenza dei pericoli rappresentati dagli scogli affioranti e
dai fenomeni improvvisi come le intense correnti marine che impedivano le manovre.
La rada di La Galite per fortuna era sgombra di pericoli, e chissà se mai antico sbarcò in
quell'isoletta remota, posta proprio al centro del Mediterraneo. Il Bérard identifica in
Peregil o Alboran, presso lo Stretto di Gibilterra, la sede della "ninfa il crin ricciuto"
Calipso, isola troppo distante dalla rotta di Ulisse. Ma è possibile che Omero si riferisse,
nel descrivere l'Isola Ogigia proprio alla più vicina La Galite distante da Alboran oltre
500 miglia. La logica dell'antico poeta non aveva la necessità di coincidere con la realtà
delle cose, ma è pur vero che la genialità di Omero doveva forzatamente legarsi ad uno
schema geografico sia pur dilatato ed impreciso. Egli indica la modalità di costruzione
della zattera, larga quanto una nave da carico
Larghezza il tutto avea, quanta ne danno
di lata nave trafficante al fondo
periti fabbri.................
(Od. V - 298)
e precisa il punto d'arrivo, l'isola dei Feaci, Corfù, distante da noi 620 miglia, per un
tempo di percorrenza di 17 giorni, che ad una media di 1,5 miglia all'ora, fanno di La
Galite l'isola Ogigia
Dieci pellegrinava e sette giorni
sui campi d'Anfitrite. Il dì novello,
gli sorse incontro co suoi monti ombrosi
l'isola dé Feaci................
(Od. V - 333)
Ma il giorno passò, e con la sera giunse una fresca brezza, quasi un piacevole
appuntamento per la partenza della nostra barca a vela. A tutta randa (7) ed il grande
fiocco genoa (8), lo yacht prese a muovere verso la punta est dell'isola guadagnando in
breve 7 nodi di velocità.
Note:
(1) Charter: noleggio dell'imbarcazione.
(2) Tender: piccola barchetta o gommone di servizio
(3) Poppa: parte posteriore delle barche.
(4) Prua: parte anteriore delle barche
(5) Bolina Stretta: andatura a vela quasi controvento con scafo molto
(6) Battagliola: Cavi di protezione delimitanti i bordi della barca.
(7) RANDA: Grande vela centrale.
(8) Fiocco Genoa : Vela di prua
inclinato.
Capitolo Secondo
Le isole Eolie
La notte nascose l'isola e mi dedicai al calcolo della rotta su Ustica-Filicudi. Dopo
aver digitato le coordinate nel Loran, (1) il pilota automatico(2) accostò lo yacht verso estnord-est. Il vento mi dava 50 gradi di bolina larga (3) , ed affidai al congegno elettronico
la conduzione della barca sdraiandomi nella mia cuccetta di navigazione, vicina al
tavolo di carteggio. Ogni trenta minuti un cicalino mi svegliava, così controllavo
improbabili luci di altre navi in quelle acque generalmente deserte. La grande ruota del
timone si muoveva da sola, a piccoli scatti per compensare le variazioni dovute
all'irregolarità del vento o per le onde più grandi che potevano spostare la prua.
Nel dormiveglia ricordavo i lunghi tratti di mare che avevo attraversato negli ultimi
anni, quando dalla Grecia tornavo in Italia dopo aver toccato le isole dell'Egeo. Ancora
non erano state attivate le stazioni Loran per il diporto nautico e si navigava soltanto
con la bussola. Da Corfù si scendeva verso sud-ovest tentando di giungere su Crotone.
Era la rotta classica degli antichi che non avevano bussola e non potevano orientarsi
con la frequenza dei fari che indicavano, come nei tempi moderni, l'esatto punto verso
cui si stavano dirigendo. Per loro, una terra in avvicinamento e non riconosciuta poteva
offrire pericoli d'ogni genere, e non ultimo quello d'incontrare popolazioni aggressive.
Era l'opposto di quanto accadeva con le incursioni piratesche che tormentavano gli
abitanti di quelle terre, spesso trasferitisi sui fianchi dei monti non visibili dal mare.
Una volta, con un motor-yacht, scapolato Crotone per via di una pertubazione che mi
aveva spinto troppo a Sud, navigavo con molta apprensione per il timore di essere
all'altezza della Sicilia che non avrei potuto raggiungere per mancanza di carburante, e
con il finire del maltempo le onde mi consentirono una rotta verso Ovest. Finalmente
apparvero lunghe montagne e poi, una città. Era Locri, che non disponeva di un porto e
nessun attracco per il rifornirmento di carburante. Con il binocolo notavo sulla spiaggia
la presenza di alcuni pescatori. Mi avvicinai per quanto potevo, e passato il timone al
mio secondo, preparai tre bidoni vuoti da cinquanta litri legati tra loro che gettai a mare.
Subito mi tuffai rimorchiandoli a nuoto fino alla riva, mentre il motor-yacht si
manteneva nei pressi con i motori accesi, non potendo dar fondo all'ancora per via del
mare mosso. I pescatori mi aiutarono, fui accompagnato con un'auto ad un distributore,
fu varata una barca da pesca per il trasporto dei bidoni pieni, non senza difficoltà, ed in
breve eravamo di nuovo in rotta per Capo Spartivento e quindi per il porto di Reggio.
Intanto mi ero addormentato profondamente senza sentire i richiami del cicalino che
ogni mezz'ora mi ricordava di osservare se la rotta era sgombra. Per fortuna nessuna nave
incrociò l'Athena, ed al mattino, con il sole già alto e senza interrompere l'andatura, filai
(4) in acqua una robusta cima, ed a turno ci tuffammo lasciandoci trascinare in un
tonificante bagno d'alto mare. Era un gioco piuttosto pericoloso perchè potevano
incrociare grossi squali, e le gambe trascinate nell'acqua potevano costituire un
appetitoso stimolo. A turno stavamo di vedetta ed il bagno si completava in pochi
secondi, giusto il tempo d'una rinfrescata.
Incontrammo poco dopo un branco di allegri delfini che ci accompagnarono per
qualche miglio, ed il pomeriggio ci fermammo un paio d'ore ad Ustica, ritrovo mondiale
dei subacquei. Ogni anno, tra giugno e luglio viene organizzato un concorso di
fotografia subacquea che vede la partecipazione dei più noti subacquei del mondo. Vi si
svolgono convegni e simposi dove viene dibattuto ogni problema del mare.
Nelle prime settimane di settembre l'Accademia Internazionale di Scienze e Tecniche
Subacquee di Ustica organizza un corso di archeologia subacquea diretto da docenti
universitari ed assai valido come presupposto al definitivo ordinamento della materia
per cui la stessa Ustica è deputata. La parte dell'isola esposta ad ovest è dichiarata parco
nazionale; all'estremo sud i fondali sono ricchi di reperti ed ancore in piombo, ognuna
con il suo cartellino ad indicarne tipo ed età. E' il "parco archeologico" subacqueo, che
richiama centinaia di turisti che possono ammirare e fotografare quelle antiche
testimonianze.
L'anno prima, in giugno, avevo conosciuto proprio ad Ustica, il cubano Francisco
Ferreras detto "Pipin", il recordmen d'immersione in apnea. In quell'occasione si
svolgeva l'annuale concorso di fotografia subacquea ed erano presenti i più noti fotografi
del mondo collaboratori delle principali testate subacquee. Quasi tutti i concorrenti erano
accompagnati da bellissime modelle addestrate a posare in apnea. Nella grotta
dell'Accademia, senza disturbare, osservammo il lavoro del campione tedesco Binazer
che, per creare particolari giochi di luce, faceva tenere accese sott'acqua dalla modella
due torce al magnesio dalla luce rossa molto intensa.
Nei giorni successivi s'imbarcò con noi Raimondo Buker, ormai settantenne, l'inventore
dei primi fucili a molla nonchè teorizzatore della manovra detta del "valsalva" che
consiste nel premere il naso per compensare la pressione durante la discesa. Buker ci
raccontava che, malgrado l'età, andava normalmente con le bombole ad oltre 100 metri di
profondità, ed ogni anno si recava nei mari tropicali per filmare la moglie mentre dava
da mangiare a grossi squali. Cosa confermata dai documentari proiettati in quelle serate.
Pipin nel frattempo era diventato di casa sull'Athena, ed ormai occupava stabilmente la
cabina di prua. Si allenava un'ora al giorno raggiungendo agevolmente in apnea i sessanta
metri mentre io, con la telecamera subacquea registravo i suoi miglioramenti.
Una volta ancorammo a Nord dell'isola, dove era consentita la pesca subacquea e mi
acquattai con la telecamera vicino ad uno scoglio a 40 metri mentre Pipin in superficie si
iperventilava, cioè respirando profondamente, usava la tecnica di massima ossigenazione
dei polmoni. Improvvisamente avvertii una strana presenza e mi vidi circondato da un
branco di ricciole attirate dalla colonna di bolle che espiravo. I bellissimi pesci, curiosi
come i gatti, erano sopra di me e giravano attorno alle bolle. Azionai la telecamera
mentre verso l'alto inquadravo un punto nero che si avvicinava al centro delle bolle. Era
Pipin che si fermò sopra la mia testa a seguire la danza delle ricciole. I loro occhi erano
grandi quanto quelli di un bue, alcune più piccole, altre grandissime. Pipin era immobile,
la sua apnea gli consentiva di non respirare per circa 4 minuti e finalmente la curiosità
spinse i pesci a stringere il loro cerchio. Passarono i più piccoli, poi arrivò la ricciola più
grossa e partì il colpo che centrò il magnifico animale. In un caso del genere, se il fucile
non è collegato ad una sagola di superficie viene strappato di mano dalla potenza del
pesce. Ma Pipin, balzando in avanti ed afferrando la sagola, arrivò sul pesce
aggrappandosi all'arpione penetrato in profondità, e con le gambe circondò la coda
bloccando la ricciola che in breve fu in superficie. Pesava 30 chili.
Questa volta non avevamo tempo come l'anno prima per fermarci oltre, la vacanza era
finita e lasciammo Ustica, "la solitaria".
Durante l'avvicinamento alle Eolie dormii poco per la presenza di numerosi pescherecci
che inducevano ad una continua attenzione per non finire sulle reti fluttuanti per
chilometri.
Superata Alicudi ci fermammo nei pressi della grotta del "Bue Marino" a Filicudi. Lo
scenario era incantevole, verso ovest svettava "la Canna" uno scoglio di origine vulcanica
alto 85 metri, quasi una colonna nera, e nei pressi, lo scoglio Montenassar dava
impressioni d'inferno dantesco.
Calammo il tender (5) ed entrammo nella grotta. L'antro era stato per lungo tempo il
rifugio dell'ultima foca monaca vista nelle Eolie e portava quel nome anche per i
muggiti delle onde infuriate che si infrangevano all'ingresso durante le tempeste. Il
fondale rifletteva la luce proveniente dall'esterno, irradiando un color verde smeraldo.
L'umidità era altissima e dopo tanto sole, avvertivamo sulla pelle un piacevole senso
di frescura e gli occhi potevano riposarsi nella penombra.
Presto risalimmo a bordo e dopo mezz'ora ci ancorammo ad est di Filicudi a ridosso di
Capo Graziano, ove l'accogliente gentilezza della collina ricordava la forma di una tazza
rovesciata. Nell'immediato fondale giacevano i resti di ben due relitti entrambi del III
Secolo av.C., provenienti dalla Campania e diretti in Nord-Africa. La causa degli
affondamenti era dovuta ad un infido scoglio che da un fondale navigabile, si innalzava
fino ad un metro sotto la superficie del mare, invisibile a causa del nero riflesso della
collina sul mare, e posto a circa 150 metri dal capo che veniva circumnavigato dagli
antichi marinai. Alla base del monte, erano visibili alcune macine in pietra per la
lavorazione dell'olio che erano parte del carico di uno dei due relitti che era affondato
sul ciglio del costone nelle vicinanze dello scoglio. Il fondale si manteneva intorno agli
otto metri per poi scendere a picco fino ad una grande base di sabbia e scogli sparsi,
che dai trenta metri di profondità sfumava in un digradare più dolce.
Sicuramente il relitto che trasportava le macine, dopo lo squarcio operato dallo scoglio, si
era rovesciato seminando sul basso fondale tutte le grosse pietre circolari, mentre l'altra
parte del carico più leggero era rotolata giù lungo il costone. La Soprintendenza siciliana
operò un buon recupero di vasellame ed anfore che ora arricchiscono in suggestiva
coreografia il Museo di Lipari allocato nel castello spagnolo della seconda metà del '500,
costruito dopo la distruzione della città da parte del pirata tunisino Barbarossa.
Purtroppo, come i relitti di Spargi, delle Scole, della secca dello Sparviero al Giglio, ed
altri, anche i relitti di Filicudi furono preda di sommozzatori francesi, belgi, tedeschi,
americani ed italiani, e mai sapremo se tra quei reperti vi siano state opere d'arte o altri
reperti che avrebbero potuto comunque dare maggiori informazioni storiche. L'inverno
precedente durante un mio soggiorno al Club Mediterranèe di St.Moritz, un belga mi
aveva mostrato una serie di fotografie eseguite a Filicudi e ritraenti il prezioso
vasellame di una ceramica color nero perfettamente conservata, marchiata della
caratteristica decorazione del Campano-A.
Solo da pochi anni la zona viene controllata in qualche modo. La grande scritta "divieto
d'immersione" dovrebbe scoraggiare chiunque, ma in effetti ormai, salvo qualche collo
d'anfora e tanti cocci, non vi è più niente d'interessante.
Ma il secondo relitto, secondo l'opinione dei più, non si sovrappone al primo. Il secondo
relitto, dopo l'urto con lo scoglio, galleggiò ancora e si inabissò più avanti, a 500 metri
verso sud, ad una profondità di 58 metri. Ancora sono visibili alcune anfore, ma basta
scavare per pochi centimetri ed altre anfore appaiono, e forse potrebbe esservi qualcosa
di molto importante. Credo che una spedizione organizzata potrebbe svolgere un buon
lavoro. 58 metri non sono pochi, ed occorre un certo tempo per scavare ed esplorare con
calma.
Dobbiamo inoltre rilevare che il primo ceppo d'ancora da abbinare sicuramente ad un
relitto, è quello recuperato il 14 agosto 1960 da Gianni Roghi che nella sua relazione agli
atti del Congresso Internazionale di Archeologia Sottomarina di Barcellona nel 1961, così
riferisce:
"La nave romana di Capo Graziano ha comunque regalato una importante novità, e
cioè il primo ceppo d'ancora in piombo, per quanto ne sappiamo, che possa essere datato
con sicurezza.
Ho potuto individuare il ceppo grazie al suo lieve affiorare da sotto l'ammasso di anfore,
proprio al limite inferiore (m.42) del cumulo compatto, che in questo punto poteva
essere osservato come in sezione. Attirato da un profilo rettilineo che appariva per meno
di una spanna sotto il fango e i detriti, scavai e potei riconoscere la caratteristica
barra di piombo. Per liberarlo occorse un lungo ed assai faticoso lavoro, in due
immersioni. Dovetti spostare numerose anfore, e quindi estrarre il ceppo a forza di
braccia, pur con le dovute cautele necessarie per la sua integrità.
Decisi di ricuperare il ceppo sia per la sua importanza intrinseca, sia per essere il
relitto ormai noto e saccheggiabile (la vigilanza sulle coste archeologiche sommerse, in
tutto l'arcipelago, è inesistente).
Eseguii una decina di fotografie da diversi lati, poi lo imbragai e lo feci issare dal
nostro verricello a motore. L'operazione ebbe esito perfetto".
Ma era giunto il momento di salpare da Filicudi dopo un piacevole bagno nel mare
tiepido, e dopo aver fatto colazione. Traversammo in un paio d'ore da Filicudi a Lipari, e
nel canale di Vulcano puggiai (6) verso la punta Sud di Lipari, altro affascinante sito
archeologico chiamato Secca di Capistello.
Il "Relitto di Lipari" giaceva su un fondale pericoloso, anfore e vasellame erano rotolate
giù lungo una discesa di sabbia piuttosto precipite, che si addolciva a 108 metri di
profondità, dove gran parte del carico era stato depredato per lungo tempo. Le voci di
banchina raccontavano di "ordinazioni" di completi da 8 o da 12, e grandi cene si
organizzarono a Vulcano con le pietanze servite in quel vasellame. Dalle autorità fu
sequestrato un capanno colmo di anfore e qualcuno finì in prigione. Morì qualche anno
dopo per aver respirato i gas di scarico del compressore per la ricarica delle bombole.
Ma il relitto di Lipari volle ancora un suo tributo! Due eminenti studiosi, Helmut
Schlager ed Udo Graf dell'Istituto Germanico di Archeologia erano in quelle profondità,
quando per l'alta pressione saltarono le fascette in plastica dell'erogatore (7) di uno dei
due, che preso dal panico tentò di strappare il boccaglio dalla bocca dell'altro. La
respirazione alternata a due con un unico boccaglio è l'esercizio che si compie con più
frequenza nelle scuole subacquee, ma evidentemente l'azoto e quindi l'ebbrezza di
profondità che esaspera in quei casi ogni stato ansioso, determinò una drammatica
colluttazione ed entrambi morirono.
Alcuni anni prima mi ero immerso con la precauzione di appendere a circa 8 mt., lungo la
cima dell'ancora, un autorespiratore supplementare per la decompressione. L'immersione
era assai impegnativa, e per consumare meno aria iniziai la discesa a gran velocità
compensando senza interruzioni, fino ai 60 metri. Il costone era sempre più ripido e non
si vedeva ancora il fondo. I colori erano scomparsi, tutto era grigio e continuai la
discesa. Sentivo una leggera ebbrezza, l'acqua era più fredda e cristallina, piacevole.
Stavo veramente bene e compensando con le dita sul naso, picchiai ancora verso il fondo
che cominciava a spianare, e vidi sotto di me nel buio tante anfore. Illuminai con la
torcia l'ammasso di terrecotte: avevo la tentazione di svuotarne una e riempirla d'aria ma
guardando il profondimetro mi rendevo conto di essere a 108 metri ed il manometro già
segnava la metà del consumo d'aria (8), e così ritornai verso l'alto con grande fatica. Ero
troppo negativo a quella profondità (9): malgrado la potenza impressa alle pinne
guadagnavo pochi metri. A quel tempo non usavamo giubbetti equilibratori (10)
ritenendoli di grande impaccio nelle correnti, ed intanto entravo in affanno e fui costretto
a tirar fuori dal petto, dopo aver aperto la muta, un sacchetto di plastica, di quelli per far
la spesa. Mandai aria con l'erogatore ed in breve il sacchetto mi fece da ascensore; per
risalire non dovevo neanche pinneggiare. Ad 80 metri mi fermai un momento e sondai la
sabbia in alcuni punti immergendo le mani fino al polso, e sentii qualcosa. Provai a
tirare e venne fuori un magnifico piatto di ceramica nera. Sondai ancora qua e là, ed
estrassi una tazza che infilai nel retino e ripartii veloce verso l'alto. Restavano ormai 30
atmosfere, dovevo arrivare a quote minori altrimenti con un paio di respiri avrei assorbito
tutta l'aria. A 20 metri rallentai ed iniziai la decompressione, dosando la lentissima
risalita. Giunto a 9 metri esaurii tutta l'aria e mi attaccai all'altro respiratore. La
decompressione durò 40 minuti, e tutto finì in allegria, ma nel relitto di Lipari non
ritornai più. In quel posto s'avvertiva chiaramente la presenza della morte.
Mentre lasciavamo la piccola baia con lo scoglio emergente che aveva affondato il relitto,
accostai per l'entrata nello Stretto di Messina e vidi lontano lo Stromboli col suo
pennacchio eruttivo, e più vicina Panarea ed i suoi isolotti. A quella distanza non era
possibile vedere le "formicole", un gruppo di scoglietti appena emergenti situati proprio
al centro del canale d'ingresso tra il bellissimo scoglio Dattilo e Panarea. Le "formicole"
furono teatro di un'altra antica tragedia del mare!
Il "ritrovamento" ufficiale del relitto avvenne intorno al 1988, depredato totalmente.
Era stato il primo tra i relitti delle Eolie visitato da un gruppo di stranieri calati con le
nuove attrezzature ad aria compressa. I locali lo chiamavano "la fabbrica delle anfore", ed
alcune erano esposte nel più rinomato locale delle Eolie, il RAYA. Successivamente
furono sequestrate e rimasero soltanto suggestivi oggetti recuperati da navi più moderne,
ed i soliti gusci di tartarughe e mascelle di squali. Bisogna però ammettere che il Raya ha
contribuito notevolmente a creare una certa moda ed il successo turistico di quell'isola
bellissima, caratterizzata dalle notti buie, rischiarate soltanto da flebili lampade a petrolio
che rendono l'atmosfera stranamente eccitante.
NOTE
1) Loran: Strumento elettronico per la navigazione. Si avvale di una radio che riceve tre
stazioni distinte e che consente di effettuare il punto nave. Attualmente è in disuso
sostituito dal GPS, un sistema che si collega ai satelliti geostazionari.
2)
Pilota automatico: Congegno elettronico collegato ad una bussola.
Si digitano i gradi, da 1 a 360, ed il congegno trasmette ad un meccanismo collegato alla
timoneria, gli impulsi, a destra o a sinistra con il risultato di far procedere l'imbarcazione
sempre nella direzione precedentemente impostata.
3)
Bolina larga: andatura a vela non troppo stretta verso il vento, a circa 45 gradi dalla
sua direzione.
4)
Filare: far scorrere una cima.
5)
Tender: barchetta o piccolo gommone di servizio.
6)
Puggiare: azionando il timone accostare l'imbarcazione sottovento.
7)
Erogatore: Congegno collegato alle bombole d'aria compressa.
L'estremità contiene un boccaglio per la respirazione.
8)
Consumo d'aria: Maggiore è la profondità, maggiore è la quantità d'aria necessaria
a respirare.
9)
Essere negativi: Maggiore è la profondità, maggiore è la pressione che fa
diminuire la massa del subacqueo. La spinta dal basso verso l'alto è via via minore,
quindi, con l'aumentare della profondità, si "pesa" di più.
10) Giubbetto equilibratore: serve a compensare le variazioni di massa e quindi di
galleggiabilità.
Quando si è troppo negativi (quindi si cade verso il basso) si manda nel giubbotto un pò
d'aria, e l'equilibrio a quella quota è ristabilito. Quando si risale, bisogna scaricare aria dal
giubbotto, che con la diminuzione della pressione tende a gonfiarsi, e spinge troppo verso
l'alto.
Capitolo Terzo
Tra Scilla e Cariddi
"In eo freto est scopulus Scylla,
item Charybdis mare verticosum"
(Plinio lib.3 cap.8)
Entravo da nord nello Stretto di Messina con lo Zefiro in poppa e vele lasche (1),
quando improvvisamente mi trovai in un filone di corrente contraria. Per un timoniere è
sgradito sentire alla barra un morbido colpo e vedere la prua che tende a scadere,
malgrado le correzioni. Nel controllare gli allineamenti lungo la costa notavo che eravamo
praticamente fermi benchè la barca navigasse con i suoi soliti baffi di spuma bianca.
Dopo il caldo di quei giorni, sentivo per la prima volta quasi freddo dovuto alle masse
d'acqua gelida che risalivano dagli abissi che fronteggiavano il Golfo di Catania. Dietro,
verso il Tirreno, il fondale si manteneva piatto con un massimo di 200 metri di
profondità, mentre verso sud le carte nautiche mi davano perfino 4000 metri di fondo.
L'Athena non progrediva in avanti, era necessaria una manovra per evitare quel fiume a 5
nodi. Le possibilità erano due, la prima era d'accendere il motore e forzarlo, oppure virare
verso un filone di corrente favorevole. Nel punto d'incontro delle due correnti, si
formavano rumorosi vortici detti "garofoli", proprio quelli che avevano terrorizzato gli
antichi navigatori.
In effetti le descrizioni omeriche sono molto verosimili, perchè poteva accadere che
l'equipaggio spaventato smettesse di remare, e l'imbarcazione giunta nel garofalo
cominciasse a ruotare su se stessa, ricevendo nella parte immersa colpi di mare che ne
potevano determinare il rovesciamento.
"Ne sbigottiro i miei compagni, e i lunghi
remi di man lor caddero, e la nave,
che de' fidi suoi remi era tarpata,
là immantinente s'arrestò. "
(Omero XII - 261)
Fossi stato un antico comandante avrei ordinato la massima voga, per non perdere
l'abrivio, superare di slancio l'incrocio delle correnti e ritrovarci finalmente a navigare in
assoluta sensazione di pace, con vela sgonfia e senza baffi di prua.
Ora l'Athena, al centro del filone favorevole, navigava tranquilla, e mentre gli strumenti
mi davano appena 3 nodi, gli allineamenti a terra mi dicevano che filavo ad oltre 8
nodi. Andavo verso il porto di Reggio col mare e col vento !
Durante la manovra per uscire dalla corrente contraria, mi ero avvicinato alla costa
calabrese nei pressi dell'invitante rada di Porticello, ma nessun antico navigatore
proveniente da nord si sarebbe fermato in quel luogo. Una volta superato "il buco della
perdizione", la mitica Cariddi, l'unico imperativo era d'uscire daall'imbuto, lontano
dalla "cagna" Scilla, senza neanche pensare un momento a fermarsi, puntando gli
occhi verso sud, verso la maggior larghezza o verso l' avvolgente promontorio di Zancle
(Messina) che offriva, con la sua conformazione a "falce" sicuro rifugio sulla costa
siciliana.
"Scilla e Cariddi oltrepassate, in faccia
la feconda ci apparve isola amena"
(Omero XII - 334)
Il "Relitto di Porticello" prima d'affondare veniva da Sud.
E nel corso di quei secoli, molti furono i battelli che si ancorarono lungo il lato nord di
Capo Peloro (Cariddi) e poi, con l'arrivo del vento favorevole, pronti a ripartire verso
sud, non riuscirono ad imbarcare l'ancora che su quel fondale si arroccava con facilità.
Sono più di 30 le ancore ripescate clandestinamente dal 1960 al 1970, tagliate e fuse in
miseri pallini da caccia, o come piombi da pesca.
L'altro grande giacimento di ancore in piombo si trovava a Punta Pezzo, che delimita il
lato nord di Villa S.Giovanni. In quel punto si ancoravano i battelli che risalivano verso
nord e che attendevano l'Euro, il vento da sud, lo scirocco, che in tali zone causa le
maggiori traversie come Dante ricorda:
"E la bella Trinacria, che caliga
Tra Pachino e Peloro, sopra il golfo
Che riceve da Euro maggior briga"
(Dante Par.VIII)
Quindi l'osservazione attenta dei fenomeni metereologici e marini possono portarci
all'enunciazione di conclusioni inattaccabili sotto ogni profilo.
Le credenze e la mitologia non possono far testo anche se furono generate in presenza di
reali fenomeni poi enfatizzati e stravolti. Ma Omero enfatizzava all'eccesso un semplice
"garofalo" trasformandolo in immenso vortice ?
"........... e col novello sole
tra la grotta di Scilla e la corrente
mi ritrovai della fatal voràgo,
che in quel punto ingiottìa le salse spume"
Omero (XII - 548)
Oppure sono esistiti dei particolari fenomeni geoidrologici subacquei che oggi non si
ripetono più forse per la diversa natura dei monti ormai selvaggiamente disboscati o per
la probabile minore permeabilità del suolo? Sembra proprio che grandi e violenti vortici
marini si siano estinti per la graduale occlusione della foce subacquea dei fiumi
sotterranei, e ciò secondo gli eminenti studi del geofisico Alberto Defant (2).
Ebbene, l'ultima notizia certa di formazione di "vortici" viene espressa dal "Portolano
del Regno delle due Sicilie" del 1846 che li identifica in Calabria, al largo del paese di
Trebisacce, nell'alto Ionio, generati da forti correnti ascensionali d'acqua dolce, in
corrispondenza della foce del fiume Crati, il più grande fiume della regione. Si avanza
addirittura l'ipotesi della "scomparsa" dell'intera flotta siracusana di Dionisio, composta da
300 navi, pronta a distruggere Turi (378 av.C.), ed affondata a causa di "frangenti
geoidrologici" determinati da un poderoso vortice marino spiroidale sinistrorso provocato
dalla risorgenza d'acque dolci sottomarine che interferiva con il moto orbitale dell'onda
libera d'oscillazione (3).
Ma ciò che più affascina è che il "Banco dell'Amendolara", pescosissima zona situata a 9
miglia al largo di Trebisacce, con una profondità minima di 26 metri, sembra sia
composto da una cappa protettiva di incrostazioni madreporiche, concrezionate
su......RELITTI LIGNEI.
Quindi Omero con molta probabilità non era assai lontano dalla realtà, e le condizioni
dello Stretto di Messina, a quei tempi erano certamente diverse anche per la minore
distanza tra le due coste che restringendo "l'imbuto" acceleravano le correnti. Mentre oggi
con i moderni mezzi di cui disponiamo, diventa perfino piacevole traversare lo Stretto
specie con un'imbarcazione sicura come l'Athena che ormai era in vista di Reggio.
Durante l'attraversamento il tempo era cambiato ed in breve si formò una coltre di nuvole
grigiastre che rendevano il tramonto più scuro. Entrammo in porto con la prima
pioggerella che presagiva il classico temporale d'estate. Si levò anche un fastidioso vento
a raffiche che rese più difficoltoso l'ormeggio della barca, e subito si scatenarono tuoni
e fulmini.
Dal gavone di poppa estrassi una magnifica anfora punica recuperata al largo di
Cartagine che avvolsi in una coperta per proteggerla da occhi indiscreti, e mentre mi
preparavo al salto sulla banchina del porto, un fulmine colpì l'albero della barca. Il mio
gomito era a pochi centimetri dal paterazzo, che è il grosso cavo metallico che
sostiene la cima dell'albero dall'estrema poppa. Avvertii la scarica e caddi
all'indietro dentro il pozzetto, ma non mollai l'anfora che tenevo in braccio come un
bambino. Mi rialzai con fatica con la sensazione dell'arrivo di un secondo fulmine, anche
se le statistiche non consentono una simile evenienza. Completamente zuppo guardavo
con apprensione verso le nuvole nere, ed immaginavo Zeus molto adirato, convinto
dell'arrivo della seconda scarica distruttrice. I miei pantaloni erano bagnati non solo
d'acqua piovana, e saltai sulla banchina correndo verso l'auto in preda a paura mai
provata, una paura che si rinnova sempre, ad ogni temporale con fulmini.
Il secondo fulmine non colpì l'Athena, e la mattina dopo, con un ufficiale del porto,
controllammo i danni. Le antenne in testa d'albero erano pendenti e spaccate in due, le
centraline del Loran e del pilota automatico completamente fuse e tutta l'elettronica della
barca in avaria. Per fortuna avevo un'assicurazione e sostituimmo tutti gli strumenti
danneggiati. Mi restava il dubbio dell'evento soprannaturale!
E' certo che molti addetti all'archeologia, specie egiziana, sono stati colpiti da grandi
disgrazie, e per restare nel nostro ambito, alcuni luttuosi avvenimenti lasciano molto da
pensare. Morì il Soprintendente Foti che accolse i miei bronzi e quelli di Riace. Morirono
alcuni restauratori. Stefano Mariottini, il ritrovatore dei Bronzi di Riace perse, in un
incidente d'auto, moglie e figli. Morì il pescatore bombarolo che trafugò molti reperti
del Relitto di Porticello. Morì il Prof. Lamboglia. (4)
Io sono protetto da Poseidone che in mare mi offre sicurezza e freddezza anche nelle
situazioni più pericolose, mentre in terra, fin dall'epoca della scoperta del Relitto di
Porticello, vivo una vita difficile ed incerta. Oltre i 30 metri di profondità mi sento a
casa mia, sono finalmente felice, non uso più orologio e DC-meter (5), e quando non ho
voglia non faccio decompressione. Sono l'unico dei profondisti dello Stretto a non esser
mai finito in camera iperbarica (6). Ma a terra la vita mi fa paura, come un antico greco
osteggiato da numi avversi. E' una vita densa di contrasti, che dall'apatia scorre veloce
verso momenti esaltanti, dove tutto è possibile, dove l'ignoto va perseguito. E' la
caratteristica dei grecanici che conservano le doti caratteriali e somatiche proprie degli
antichi greci navigatori !
In effetti, i popoli stanziali, contadini e cacciatori, non esercitavano la mente alla
continua ricerca del nuovo. Al contrario alcuni grandi pensatori dell'antichità, con spirito
d'avventura e forse costretti da una vita difficile ed irregolare, navigarono e trasferirono
l'innato senso del bello e l'esigenza del perfetto riuscendo a produrre, grazie al
continuo esercizio mentale, le basi universali della cultura. Altri popoli invece, per cause
legate all'ambiente ed alla latitudine, trascorsero i loro millenni nella ripetizione di
gesti elementari.
E' inoltre da considerare come la diffusione delle conoscenze fosse collegata ad un
comune denominatore: lo spostamento che avveniva attraverso le vie del mare. Senza
arrivare a Cristoforo Colombo, appare chiara l'importanza dell'antica navigazione che
operò all'interno del Mediterraneo ed inizialmente lungo le coste dell'Italia meridionale.
Sorsero Taranto, Sibari, Crotone, Locri, Siracusa, Catania, Messina e Reggio, tappa
obbligata delle rotte commerciali. Reggio nacque nell'VIII sec. a.C. da un atto d'amore! I
navigatori calcidesi provenienti dall'Egeo videro una vite avvinghiata ad un fico ed
ubbidirono all'oracolo di Delfi di cui Diodoro ci riporta il testo:
" Laddove l'Apsias (Calopinace)
il più sacro dei fiumi, si getta nel mare, laddove,
mentre sbarchi una femmina si unisce ad un maschio,
la' fonda una città".
Strabone riferisce che l'etimologia del nome Rhegion possa derivare dalla "frattura" del
continente con la Sicilia, oppure dalla parola latina "regius". Purtroppo, a differenza delle
altre colonie greche, Reggio non aveva un retroterra coltivabile a causa dei rilievi collinari
e montuosi che la circondavano, quindi più che sulle risorse agrarie, fondò la sua
attività economica sulla produzione delle terrecotte, che sostenne attraverso gli ampi
scambi commerciali che il porto le consentiva. Era altresì sviluppata la cantieristica
navale e la produzione dei carri e suppellettili costruiti con i legni resinosi provenienti
dall'ubertoso Aspromonte, e lo sfruttamento delle risorse armentizie delle stesse zone
montane.
Tra il IX e l'VIII secolo in Grecia e nelle nuove colonie ioniche si diffonde l'alfabeto
fenicio, e mentre in madre-patria le leggi stentavano ad esser trascritte per il vantaggio
della classe giudicante d'assecondare a proprio piacere lo spirito delle norme espresse
oralmente, in Reggio, ma soprattutto nella Locri di Zaleuco nacquero i primi codici
scritti (7) che furono poi le fondamenta del Diritto Romano.
Reggio ebbe sempre atteggiamenti amichevoli con il nascente impero romano, che nel
272 a.C. proclamò la città dello Stretto "Socia Navalis" e successivamente conferì ai
reggini il diritto della cittadinanza romana.
Più avanti, nel corso della guerra contro Pompeo, Augusto scelse il porto di Reggio
come quartier generale della flotta, e da quel momento la città si fregiò del titolo di
"Rhegium Julii".
Quanta storia, e quanti avvenimenti non registrati riflettono il nostro quotidiano ! Cosa
non daremmo per esser trasposti in quei secoli con una macchina del tempo, per
vederli, sentirli, toccarli, ascoltare il racconto di vicende misteriose! E annusare i
profumi, e percepire l'"armonia italica", scoperta da Senocrito, un canto armonioso
accompagnato dai flauti, proprio nella magnifica città di Locri ov'era coltivata la musica,
ed a quelle limpide melodie sentirsi come un delfino
"che la melodia amabile dei flauti mosse
nella distesa del mare dai flutti tranquilli"
Ma le avare testimonianze non ci appagano, veniamo presi dai dubbi e dall'affascinante
ricerca del passato e, finalmente, dopo il volo con le pennute sirene, saremo tutti riuniti
nella sfera delle Esperidi (8) a scambiarci il racconto delle nostre vite.
NOTE
1)
Vele lasche: con venti provenienti di lato e da dietro, le cime legate alle vele, dette
scotte, vanno rilasciate, lascate.
2)
Alberto Defant: "Scilla e Cariddi e le correnti di marea dello Stretto di
Messina/Geofisica pura e applicata", Rivista dell'Istituto Geofisico e Geodedico di
Messina - 1940
3)
Agatino D'Arrigo:"Caractèristiques du dèferlement geohydrologique des vagues
au-dessus de sources sous-marines". Grenoble sett. 1954.
4)
Prof. Nino Lamboglia: per alcuni decenni massimo esponente dell'archeologia
subacquea italiana, deceduto in mare mentre si imbarcava con l'auto per l'isola d'Elba.
5)
DC-Meter: Decompressimetro, ovvero strumento subacqueo da polso che calcola,
in rapporto al tempo ed alla profondità, il tempo di decompressione alle varie quote di
sosta, a 9, 6 e 3 metri, prima di raggiungere la superficie, per dar tempo al corpo umano
di espellere con la respirazione, l'azoto che in precedenza era stato incamerato respirando
aria ad alta pressione.
6)
Camera iperbarica: Cilindro o cassa metallica dove viene introdotto il subacqueo
embolizzato (che accusa forti dolori) a causa di errata decompressione. La camera viene
portata alla stessa pressione della massima profondità raggiunta dal paziente, che via via
viene lentamente ridotta, secondo tabelle predisposte.
Esiste la possibilità, con una doppia entrata, di far accedere personale medico per
interventi che si dovessero rendere necessari.
7)
Codici scritti: In effetti i primi codici incisi su pietra risalgono ai babilonesi
(Codici di Amurabi).
8)
Le tre sirene alate Partenope, Leucosia e Ligea accompagnavano le anime elette
nella "sfera delle Esperidi".
Omero le impianta sugli scogli di Capri a tentare Ulisse legato all'albero della sua nave,
così come illustrato su uno "Stamnos" (vaso) del IV secolo a.C., custodito nel Museo di
Londra
Capitolo Quarto
La scoperta del relitto
Le prime settimane dell'autunno 1969 le impiegai battendo i fondali dello Stretto a
caccia di cernie. Operare in quelle acque non era semplice a causa delle forti correnti che
dopo tanti anni di immersioni avevo imparato a conoscere.
Il trucco stava nell'evitare di contrastarle e farsi trasportare allo scoglio interessato, girare
verso il lato protetto ed effettuare la caccia in tana. Guai a ritornare controcorrente verso il
punto di partenza, e finita la caccia, risalivo lentamente alle quote di decompressione,
mentre venivo trasportato a distanze imprecisate e senza alcun punto di riferimento del
fondale, visibile solo a piccole quote. Dopo 40 minuti riemergevo, ed iniziava la fase del
rendez-vous con il gommone. Per farmi avvistare, lanciavo spruzzi d'acqua, e presto il
gommone era nei miei pressi.
Mi persi solo una volta. Pescavo lungo il costone di Capo Peloro, e durante la
decompressione una fortissima corrente mi trasportò verso il centro dello Stretto,
proprio in mezzo ai gorghi cantati da Omero, e dove tra tanti spruzzi non potevo
essere avvistato. Finalmente un motoscafo di passaggio avvertì il gommone, e dopo
qualche minuto ero sul battello a ridere con i miei amici sconvolti che avevano temuto
un incidente di caccia.
Un episodio analogo accadde ad un grande dello Stretto, Michele Rossetti che da Punta
Pezzo in Calabria, finì quasi in Sicilia e fu pianto per morto. Una petroliera lo segnalò
dopo 4 ore, vivo e vegeto.
Ma erano preferibili questi rischi al dover effettuare la decompressione attaccato ad
una cima ancorata sul fondo con almeno 3 nodi di corrente. Ad ogni movimento della
testa la maschera si allagava, le braccia dovevano sostenere il peso del corpo allineato
come una bandiera al vento, si andava presto in affanno e spesso si riemergeva prima del
tempo necessario con la possibilità di un'embolia. La mia tecnica offriva il vantaggio di
evitare dannosi sovraffaticamenti, e mi consentiva di percorrere lunghe distanze. Ero
diventato un "navigatore subacqueo".
Il più delle volte mi immergevo fuori del porto di Scilla, tra colline ricche di gorgonie
alimentate dal fitoplancton trasportato in gran quantità dalle correnti, ma da qualche
tempo mi attirava una piattaforma sabbiosa e scogli sparsi, che dal punto più vicino alla
Sicilia, si estendeva verso sud fino alla rada di Porticello. Però in quelle acque occorreva
una prudenza supplementare: tenere d'occhio il bombarolo (1) della zona. Un'esplosione
anche lontana, poteva frantumarmi i timpani ed uccidermi.
Ma quel pomeriggio la rada era deserta, ed iniziai a planare su 40 metri di fondo. Sotto
di me scorrevano scogli isolati e larghe pianure di sabbia. Poi gli scogli si
intensificarono, e vidi i primi grossi saraghi e le murene. Dovevano esserci anche le
cernie. Il ciclo predominante era: polpo, sarago, murena-cernia. La murena convive con
la cernia, spesso nella stessa tana, e bisognava fare molta attenzione a stanare il pesce
ferito dall'arpione che proseguendo la sua corsa poteva aver pizzicato la murena che, se
ferita attacca. Il posto era molto ricco malgrado le bombe, anzi tale delittuosa attività
accresceva il numero di alcune categorie di pesci di tana. Le bombe non esplodevano sul
fondo, ma sicuramente erano tarate intorno ai 10 metri, altrimenti il pesce ucciso non
avrebbe raggiunto la superficie per essere raccolto con i coppi. Altri pesci con la vescica
natatoria strappata, cadevano lentamente sul fondale per il banchetto di murene e cernie
che non risentivano delle micidiali esplosioni. Restava il danno enorme dell'eliminazione
dei microrganismi ed uova, che a lungo andare avrebbe creato un nuovo deserto.
Intanto osservavo la direzione dei branchi di saraghi, o l'eventuale sbuffo di sabbia che
m'avrebbe segnalato il colpo di coda della cernia che si intana, o un'ombra a candela del
pesce pronto a scattare verso un riparo. Nella concentrazione della caccia tralasciavo
tutto ciò che era statico, i miei occhi funzionavano come un computer selezionato a
rilevare solo i movimenti. Ora gli scogli erano più grandi e concentrati, e controllai la
profondità, ero a 38 metri. Vidi due cernie partire dentro una piccola caverna, e scattai in
avanti con lampada ed arpione, quando notai che stavo passando sopra uno strano
biancore di scogli. Non erano pietre, avevano i manici, erano anfore !
Bloccando la corsa verso i pesci, mi sollevai di qualche metro per avere una visione più
allargata. La respirazione aumentava pericolosamente di ritmo, riuscivo a sentire il
rumore a tamburo del cuore. Ero confuso, avevo voglia di gridare e gridai nell'erogatore
urla gutturali. La maschera si allagò e soffiando con il naso la svuotai imponendomi di
calmarmi.
Sì, erano proprio anfore, tante anfore tutte ammassate alla rinfusa, concentrate nella
stessa area. Era un relitto. Era il Relitto di Porticello !
Qualcuno dice che siamo noi stessi a determinare il nostro destino, e forse, fino a quel
momento la mia volontà ne aveva guidato lo svolgersi. Fin'ora ero stato un guascone che
aggredisce la vita come un moderno moschettiere, allegro, goliardicamente felice e
realizzato. Sembravo in una botte di ferro, ma da quel momento divenivo un debole vaso
di coccio. Non avrei più diretto le mie giornate ed ogni mio atto. Ora il futuro non mi
apparteneva più. Era questo lo scotto per quanto accadeva, ormai ero soltanto strumento di
un nuovo destino !
Ed intanto mi aggiravo confuso sfiorando con le mani tremanti i reperti sommersi,
anfore di vario tipo, molte puniche, di Mende, le Solokha.
Ma era già tempo di decompressione, e sorgeva il problema della posizione del relitto
rispetto alla riva. La planata con la corrente m'aveva spostato verso sud, ma non potevo
valutare la distanza percorsa. Estrassi dal retino una boetta in sughero che legai al collo
di un'anfora. Il piccolo galleggiante partì verso l'alto, ma inclinò subito a favore di
corrente, e forse non avrebbe raggiunto la superficie.
Il giorno dopo iniziai l'immersione nella zona dove presumevo vi fosse il relitto. La
boetta era invisibile, era stata allineata sul fondo dalla corrente, e planando tenevo come
unico punto di riferimento i 38 metri di profondità. In breve riconobbi i posti e mi
portai sui reperti. Scelsi un'anfora di Mende, dalla bellissima forma a trottola, libera dalla
fanghiglia, poggiata sopra le altre, che legai con un lungo cordino e senza mollarlo risalii
contro corrente. Verso il basso, il cordino sotto la spinta del flusso, descriveva un arco
fissato da una parte all'anfora e trattenuto dalle mie mani doloranti. Per fortuna mi
occorreva solo un piccolo tempo di decompressione.
Emersi in affanno, chiamando a gran voce il gommone mentre notavo che il bombarolo
era in zona e ci osservava remando lentamente nella sua barchetta verde, ma a quel punto
dovevamo necessariamente recuperare anche se con il senno di poi avremmo dovuto
gettare a mare la cima e ripetere tutto il giorno dopo. Fissammo nella memoria i punti a
terra inquadrando un palo in corrispondenza di una finestra della casa di fronte, e di
lato, il grande pilone il cui asse traguardava il centro di una villa. Il bombarolo vide
l'anfora, mentre noi eravamo troppo felici per curarci delle nefaste conseguenze a cui
saremmo andati incontro.
Il pomeriggio contattai la bella signora della casa di fronte che mi affittò un deposito
proprio vicino alla spiaggia, sistemammo gommone, bombole ed attrezzature, ed il giorno
dopo eravamo pronti ad una nuova immersione. Ma il posto era già occupato! Dal mattino
la barchetta verde con due sub aveva iniziato il recupero di anfore, e dalla spiaggia
osservavo con un senso di impotenza le operazioni di imbarco dei reperti. Era gente
molto pratica, affinata da numerosi recuperi di ancore in piombo, alcune pesanti oltre
500 chili, nella zona di Punta Pezzo, appena fuori del porto di Villa S.Giovanni. Si erano
costruiti un accrocco in ferro già fissato all'Idrokin che è uno speciale paracadute
subacqueo per il sollevamento di grandi pesi dal fondo marino. In pochi momenti lo si
collegava al pesante reperto e si dava aria al grande pallone. L'ancora partiva verso l'alto
roteando e giunta in superficie veniva legata sotto la barca, in senso longitudinale
prua-poppa, e trasportata fino alla riva interessata lontano da occhi indiscreti.
Ormai la barca verde si avviava verso Punta Pezzo con il suo carico di anfore, ed ora
toccava a me tornare sul relitto. Nessuna logica mi assisteva, ero dominato soltanto da
una voglia prorompente di immergermi.
Allargai la ricerca prima a sinistra del gruppo principale di anfore, poi a destra, verso
sud, notando alcune anfore sparse e lontane che nel momento del naufragio avevano
galleggiato spostandosi dalla verticale del relitto. Tornato al centro, lungo una linea ideale
pinneggiai verso il largo. A 42 metri di profondità notavo sulla sabbia un rigonfio
rettilineo lungo quasi 2 metri. Scavando con le mani mi apparve l'ancora in piombo, o
meglio il ceppo d'affondamento che è la parte superiore di quelle antiche ancore, con il
tipico quadrato d'innesto centrale.
La nave era affondata all'ancora!
Il ceppo era veramente grosso e di forma armonica. Era arrotondato agli estremi,
massiccio e forse il più bello tra tutti i ceppi del Museo di Reggio, certamente il più
importante perchè tra i pochi da abbinare ad un relitto e dal quale trarre deduzioni
sull'affondamento. Doveva pesare circa oltre 200 chili! Ancore del genere non si usavano
per qualsiasi occasione come per brevi soste, e mai su fondo roccioso. La perdita era quasi
certa.
I grossi ceppi, assemblati con le parti in legno, venivano usati su bassi fondali sabbiosi e
nei porti dai fondali conosciuti. Solo in caso di pericolo, un forte vento o una mareggiata
che spingeva la nave verso gli scogli, o una corrente tanto forte da superare la forza del
vento sulle vele e lo sforzo dei rematori, si affidava alla pesante ancora la salvezza della
nave, qualunque fosse il fondale, anche il più roccioso e profondo tanto da impedirne
il successivo recupero.
Sicuramente l'ordine di ancoraggio da parte del comandante del relitto greco, seguiva
uno stato di panico dovuto all'incontrollabilità dell'imbarcazione.
Poteva trattarsi di un'ancora perduta in altro tempo da altro natante, ma la distanza dal
corpo centrale delle anfore, e la direzione in asse con la parte longitudinale del relitto,
davano credito alla mia deduzione noltre, la posizione dell'ancora era quasi trasversale
all'asse riva-largo. Impensabile una tale posizione per un normale ancoraggio in quel
punto ove i natanti si dispongono sempre paralleli alla costa per via delle correnti.
Necessariamente era stato creato un punto di fissaggio sulla riva per consentire all'ancora
di disporsi in tal guisa. infatti la posizione del relitto, quasi perpendicolare alla linea di
costa, così come rilevato dagli archeologi della Pennsylvania University, corrisponde
perfettamente.
Inoltre è da considerare che la linea del bagnasciuga poteva essere molto avanzata
rispetto a quella attuale, per via dei bradisismi molto attivi in questa zona e delle
erosioni dovute alle fortissime correnti.
Prima di risalire notai che la mancanza delle anfore già recuperate aveva lasciata
scoperta la sabbia stranamente colorata di verde scuro, dalla quale spuntavano gli orli
corrosi ed anneriti di strane tubazioni.
Mi rendevo conto che l'effetto delle correnti aveva insabbiato gran parte del carico che per
il momento era invisibile.
Effettuai la decompressione con il mio solito sistema. Restare attaccati alla cima
dell'ancora poteva rivelasi assai pericoloso, e per tale motivo, in seguito, alcuni
sommozzatori della Pennsylvania University finirono in camera di decompressione.
Poteva accadere che la corrente rinforzasse improvvisamente tanto da rendere difficile la
permanenza alle quote previste, per via dello sforzo muscolare per tenersi attaccati alla
cima, sforzo che portava presto all'affanno e quindi il sub emergeva pericolosamente
anzitempo.
Io invece, partivo verso la riva, ed in pochi minuti ero a decoprimermi a pochi metri, in
acque tranquille e giocare con i pesciolini colorati ai quali davo da mangiare qualche
riccio spaccato con il coltello.
Il pomeriggio lo dedicai a riordinare le idee, considerando gli aspetti negativi a cui mi
stavo esponendo, ma soprattutto non accettavo l'intrusione di altri sul "mio" relitto, e
decisi che l'unica cosa sensata era di comunicare alla Soprintendenza la scoperta, cosa
che avvenne ufficialmente la mattina dopo, il 16 ottobre 1969.
NOTE:
1)
Bombarolo: pescatore di frodo con le bombe.
Capitolo Quinto
I Bronzi di Riace
L'attività clandestina di quasi tutti i sommozzatori della zona porta a delle
considerazioni che certamente possono chiarire molti dubbi. In effetti ognuno di loro
aveva tentato di collaborare con le istituzioni. Trovata un'anfora o un'ancora l'avevano
trasportata fino al Museo per la consegna. Il reperto veniva adagiato all'ingresso,
qualcuno si limitava a richiedere il nome del consegnatario senza altri riscontri e senza
ringraziamenti.
Di solito, i funzionari vista la tipologia dei reperti, simile ad altri giacenti nel Museo, ne
ordinavano la conservazione negli scantinati, quasi sempre senza richiedere la località di
provenienza, informazione assolutamente necessaria per studi anche successivi sulle
attività marinare e commerciali che si svolgevano nel Mediterraneo.
Tali atteggiamenti da parte dei funzionari delle Soprintendenze creano un dannoso
scollamento tra le istituzioni ed il nutrito popolo dei subacquei che, visto il disinteresse e
la mancanza di qualsiasi incoraggiamento divengono automaticamente clandestini
eludendo con facilità la legge che impone la consegna di tutti i reperti ritrovati.
Si è creato così un ampio mercato illegale di anfore, mentre le ancore in piombo vengono
distrutte e vendute a peso. E ricordando con quanta facilità i clandestini effettuavano il
trasporto sotto le barche, mi vien facile dedurre la presenza dei Bronzi di Riace su un
fondale sabbioso di appena 8 metri, e distante dalla riva circa 300 metri.
Nei pressi dei due grandi reperti non fu rilevata massiccia presenza di anfore o altri
elementi che avrebbero potuto far pensare ad un naufragio.
I Bronzi di Riace furono volutamente adagiati ad 8 metri di profondità, dopo essere stati
prelevati dal vicino tempio dorico presso Punta Stilo scoperto da Paolo Orsi nel 1912.
Evidentemente la popolazione, allarmata per l'arrivo di una flotta nemica, o prima di
un'invasione da parte di un esercito ostile, aveva provveduto a salvare i due grandi
bronzi, oggetto di culto, nascondendoli sott'acqua, a quota di facile apnea per un
successivo recupero.
Anche per gli antichi non era difficile spostare dei pesi sott'acqua: bastava una barca o
una zattera e la forza di quattro uomini (I Bronzi sono più leggeri di una media ancora in
piombo). Si sollevava la parte anteriore del carico a prua, poi con altra cima si tirava da
poppa, ed il carico era sospeso ed allineato sotto la chiglia, ed a remi si trasportava per
brevi tratti ed acque calme, fin quasi alla riva o viceversa.
Perchè nasconderli a cinque chilometri e non immergerli proprio in corrispondenza del
tempio? La spiaggia vicina era certamente un approdo frequentato, tanto che in
precedenza il tempio era stato costruito in calcare siracusano, quindi è ipotizzabile un
certo traffico di imbarcazioni i cui equipaggi avrebbero potuto avvistare dall'alto i due
bronzi posati sul leggero fondale.
Le due grandi statue furono avvolte in due robuste vele ai cui bordi era fissata una serie di
anelli in bronzo (1) al cui interno normalmente scorrevano i picchi in legno dell'albero.
Più semplicemente proviamo ad immaginare due barelle in tela con i due assi in legno
per il trasporto. I millenni e le teredini (2) disfecero sia le due tele che picchi in legno,
mentre sono rimaste attorno ai bronzi, 28 boccole metalliche che sono oggi esposte nelle
vetrine del Museo.
Peccato manchino i rilievi. Non fu eseguita neanche una fotografia. La posizione delle
boccole attorno ai grandi reperti avrebbe confermato tale teoria. Per quanto attiene agli
accessori mancanti, come scudi e giavellotti, mi sembra improbabile che tali oggetti non
fossero stati smontati dagli antichi per l'ingombro durante il trasporto e lo scarico in
acqua. Del resto, in fase di studio e restauro non sono state rilevate parti non coperte dalla
millenaria incrostazione o tagli recenti, mentre fanno testo alcune ipotesi sull'origine delle
due statue, avanzate da eminenti studiosi dell'arte.
La rivista "Xenia" del 1981 pubblica un saggio di Antonio Giuliano che attribuisce la
paternità a Fidia, o quantomeno alla sua scuola, e quindi la provenienza dal "donario" di
Delfi, saccheggiato dai Galli nel 279 a.C.
Una conferma in tal senso viene dal soprintendente dell'Acropoli di Atene, Yorgos
Dontas che in un'intervista all'Europeo del luglio '81, non esclude "che almeno nella
statua A ci sia la mano di Fidia".
Altra ipotesi è la provenienza dal "donario" di Olimpia e quindi l'attribuzione allo scultore
Onatas della scuola di Egina (3).
Ma per un momento non prendiamo in considerazione gli stili, gli atteggiamenti, le
tecniche di fusione, i confronti, elementi probanti da cui gli eminenti studiosi possono
definire la storia d'ogni reperto. Affidiamoci soltanto ad alcuni elementi cronologici per
tracciare l'ipotesi della produzione "locale", peraltro già espressa, e che indicherebbe la
fattura dei due eroi, attorno al 460 a.c., in una delle officine della stessa Magna Grecia, a
Caulonia, Locri o Reggio dove operava Clearco, o Pitagora Rheginus, nato intorno al 510
a.C. di cui Plinio attesta (n.h. 34, 59) che per primo rappresentò con estremo realismo i
capelli, le vene, i tendini.
Meno di un secolo prima, attorno al 550 a.C. era stata combattuta la famosa battaglia
della Sagra proprio in quei territori. La battaglia fu vinta eroicamente dal piccolo esercito
locrese sulle preponderanti forze crotoniati, ed i 2 eroi ripescati a Riace potrebbero
rappresentare i gloriosi vincitori della Sagra, visti lottare alle ali dello schieramento e
scomparsi alla fine del combattimento. Ma ciò si sovrappone alla leggenda dei
"Dioscuri" su bianchi cavalli.
Inoltre è da considerare che l'abbinamento dei due bronzi alla battaglia della Sagra trova
un suo fondamento soltanto se si rende dimostrabile la messa in opera delle due statue
nel Tempio di Caulonia nel periodo della massima espansione locrese, cioè dopo la
prima guerra di Dionisio contro gli italioti, annientati nella battaglia dell'Elleporo nel 389
a.c., e che dal precedente confine sul fiume Torbido si estesero fino a Scillezio
(Squillace), accorpando i territori di Caulonia, i cui abitanti furono deportati a Siracusa.
Ci conforta il Paribeni che identifica la statua A nell'eroe omerico Aiace figlio di Oileo,
la cui immagine era destinata al santuario italiota.
Numerose altre ipotesi potrebbero affacciarsi, ed il campo è aperto per la formulazione di
nuove indicazioni relative ad un periodo ricco di eventi, di accordi e di guerre, di leghe
ed alleanze (koinonìa), dove tra Reggio, Crotone e Siracusa, spicca il popolo locrese i cui
discendenti meritano che i loro territori siano inseriti in un circuito archeologico degno
della propria grandissima storia. Sicuramente Locri costituisce il miglior punto d'avvio
per la comprensione di quel periodo che dall'arcaico ci porta al tardo ellenismo, periodo
che rappresenta il massimo splendore della Magna Grecia, come testimoniano gli ultimi
ritrovamenti in mare delle mirabili sculture.
Purtroppo sia Locri che tutta la fascia ionica sono state private delle proprie antiche
vestigia, come i Dioscuri ed il Pegaso alato trasferiti al Museo di Reggio.
Nel 1908, nella contrada Mannella, Paolo Orsi ritrova il santuario di Persefone ed il
tesoro dei "pinakes" (4) di cui lo stesso scopritore scrive "Per mio mezzo sta venendo
fuori dalle viscere della terra un ingente tesoro, fonte inesauribile di indagini per gli
studiosi di tutto il mondo".
Poi nel 1922, il Prof. Casagrandi dell'Università di Catania denuncia la presenza nel
Museo di Berlino della Persefone di Locri. E nel 1966 nel corso di una conferenza lo
storico locrese Gaudio Incorpora dichiara: "Nello stesso frantoio abbiamo rinvenuto le
pesanti catene e la grossa corda di canapa che certamente servirono per legare la Dea.
Queste catene noi vorremmo che venissero appese all'ingresso dell'Antiquarium quali
simbolo di tutte le spoliazioni e i trafugamenti perpetrati in ogni tempo ai danni della
città di Locri".
Della Persefone, almeno per ora, dobbiamo accontentarci della dolcissima descrizione di
Corrado Alvaro "che non sa resistere alla sua arcana maestà e insieme familiarità, che
rievoca il focolare, la casa natale, gli avi, le compagne d'infanzia e l'amore e le
nozze. Si avanza sbigottiti verso di lei e si dura fatica a compiere gli ultimi passi e farsi
troppo vicini, come è la prima impressione di fronte a monumenti antichi, ai templi e
alle rovine, di non dover violare un segreto e una dimenticanza, come se lo spazio che ci
divide da essi fosse una dimensione in cui tempo e spazio si confondono e formano un
velo che non si deve squarciare. E' uno dei momenti che hanno la virtù di far
dimenticare il tempo e l'ora".
Nel '59 intanto, in contrada Pirèttina, in una teca cilindrica venivano ritrovate trentasei
tabelle di bronzo scritte in greco. Si parlava anche di monete, lamine d'oro, corone,
serpenti di bronzo.
Ed infine, a pochi chilometri dal Tempio di Caulonia vengono ritrovati i Bronzi di cui il
Sindaco di Riace Cosimo Cristodero così dice: "Mi impegnerò fino allo spasimo; ma
almeno per un mese i due favolosi reperti dovranno restare qui in territorio di Riace o
al più a Locri".
Un paio d'ore dopo il recupero erano al Museo di Reggio, tappa di un flusso turistico
che soggiorna in Sicilia e compie una rapida visita in Calabria. Flusso turistico che
dovrebbe essere attratto da un proprio ricco itinerario comprendente i templi della locride
e l'Antiquarium rinforzato dei propri reperti.
I due bronzi furono scoperti il 15 agosto 1972 da alcuni giovani del luogo che
pescavano in apnea, e quasi contemporaneamente dal sub romano Stefano Mariottini che,
su consiglio di un parente del Soprintendente Foti, telefonò al Museo reggino nelle stesse
ore in cui avveniva la denunzia del ritrovamento alla locale Guardia di Finanza da parte
dei giovani.
Si intrecciano in proposito storie incontrollabili come il tentativo di sottrarre allo Stato
i grandi reperti per mezzo di un caterpillar che da terra con cavo metallico avrebbe
dovuto trascinare le due statue fino alla riva. Ma sembra assai improbabile che qualcuno
abbia potuto pensare ad un cavo lungo trecento metri da legare a manufatti che si
sarebbero frantumati al primo movimento contro le piccole dune del fondo sabbioso.
E' verosimile credere che tale storia sia stata resa per creare il solito polverone, così
come il furto improbabile di scudi ed elmi tanto che perfino il capo dello Stato Sandro
Pertini, in visita al Museo di Reggio, inveì contro "il subacqueo che vada agli inferi".
Polverone necessario a coprire il grande ulteriore errore da parte dei funzionari della
Soprintendenza che non effettuarono alcun rilievo salvo quello di intraguardare il punto
del rinvenimento con.... un capanno estivo sulla spiaggia. Eppure non si trattava di una
località di difficile accesso, o di un'isoletta lontana, o di una costa incontrollabile. La
spiaggia, quasi rettilinea è adiacente alla strada nazionale, quindi di facilissimo
pattugliamento.
Grande errore che ha pregiudicato gli studi degli archeologi che ancor oggi non sanno
dare una spiegazione convincente sulla presenza dei bronzi in quel sito, senza alcun
chiaro segno di naufragio.
Il recupero avvenne pochi giorni dopo, esattamente il 22 agosto 1972, in un clima di
tensione e di grande disordine. La giornata era calda e senza vento. Il mare antistante la
spiaggia di Riace pullulava di barche e piccoli motoscafi carichi di persone. Le
imbarcazioni dei carabinieri e della finanza riuscivano a malapena a distanziare quella
moltitudine dalla zona del recupero. Sulla riva si era raccolta una grande folla
proveniente dai paesi vicini, donne anziane e bambini compresi.
Il giorno prima i Carabinieri sommozzatori avevano scavato attorno ai reperti per
liberarli dalla morsa della sabbia, ed ora si accingevano ad imbracarli con delle funi
girate attorno e collegate ai palloni sollevatori. In breve fu data aria ai palloni ed i
reperti partirono verso l'alto.
L'apparizione dei palloni fu salutata da grida nervose, ed a nuoto furono rimorchiati
fin quasi a riva dove i reperti furono posati a due metri d'acqua. Spuntarono due barelle
per feriti, e lentamente i due guerrieri furono adagiati e trasportati come due corpi umani.
La gente urlava, non se ne capiva il perchè, le donne e molti uomini caddero in
ginocchio ed i reperti furono caricati su mezzi militari e tolti dall'adorazione del popolo
che li credeva propri. Perchè tale strano atteggiamento nella folla? Al momento non era
certo un calcolo per trattenere i due reperti che avrebbero apportato nella zona richiamo
turistico e notevole incremento economico.
I più non sapevano neanche trattarsi di statue in bronzo, e molti credettero al miracolo
vedendo sorgere dalle acque i santi Cosma e Damiano, stranamente protettori di quelle
zone.
Poteva forse essere che tra quella gente v'erano i discendenti di quegli antichi che
nascosero in acqua le due statue e poi morirono massacrati dall'invasione. Un misterioso
senso atavico li spingeva a sentirsene proprietari e ne urlavano la riconsegna.
Corriere della Sera/Corriere Romano del 16.5.81, pag.20
Intervista di Pietro Lanzara a Stefano Mariottini, ritrovatore ufficiale dei "Bronzi di
Riace":
"Era la mattina di ferragosto, nove anni fa, l'ultimo giorno di vacanza. Avevo pescato
fra gli scogli a riva: ombrine, saraghi, corvine. A mezzogiorno ho deciso di andare più
lontano a cercare tane migliori.
A trecento metri dalla riva, in uno spiazzo di sabbia a dieci metri di profondità ho visto
la spalla, il braccio. Erano scuri, quasi neri. Ho pensato a un morto, ho fatto una
capriola in apnea e sono andato giù: il nero è diventato verde scuro. Non potevo
sbagliare, era metallo: alla Selenia, sulla qualità dei metalli faccio i controlli.
Ho cominciato a scavare per liberare la statua dalla sabbia, era difficile; uscivo e
m'immergevo di nuovo, con apnee sempre più brevi. Sì, faticoso e un pò di emozione,
ma non troppa: sott'acqua si deve restare calmi.
Mentre pulivo la prima statua, ho visto a mezzo metro un ginocchio e le dita dei piedi
dell'altra, coperta da dieci centimetri di sabbia. L'ho ripulita tutta, era più semplice.
Alle due sono risalito definitivamente.
Ho pensato che doveva trattarsi di copie romane di statue greche, come se ne vedono
tante ai Capitolini o al Museo nazionale di Napoli".
Il resto è già storia. Da Monasterace dov'è in vacanza con amici, Mariottini telefona a
Giuseppe Foti, Soprintendente archeologico della Calabria.
Intanto, sulla riva, alcuni ragazzini hanno capito che c'è qualcosa di grosso,
sostituiscono la boa lasciata da Mariottini e la mattina dopo denunceranno il ritrovamento.
Ne nasce una causa civile durata fino al'78, quando finalmente e giustamente Mariottini
può ricevere il premio dello Stato, un quarto del valore attribuito alle opere: gli danno
ottanta milioni netti, abbastanza per una casetta a Roma e un pò di attrezzature da sub.
La cifra era stata fissata nel '73; oggi sarebbero forse dieci volte superiore. Ma allora
si parlava appena di Policleto, non ancora di Fidia.
"Il recupero delle statue avvenne dal 21 al 22 agosto (1972) in uno scenario da film
"Lo squalo". Carabinieri con palloni da sollevamento e lettighe, barconi e vele a
disturbare tutt'attorno folla urlante e scatenata sulla riva. Un incubo".
Mariottini non si smentisce, rimpiange una cosa precisa, da tecnico: "Non furono fatte
neppure le foto subacquee".
Nei due anni successivi Mariottini torna in Calabria, rivede le"sue" statue, fa anche una
ricerca subacquea nella zona. Ma non si trova nulla, neppure scudo o elmo dei guerrieri.
Nel '74 le statue partono per Firenze. "Mi è dispiaciuto, dice Mariottini, che da Firenze
non mi abbiano neppure invitato. Forse pensavano che, pagato il premio, io fossi
sistemato. Mi dispiace soprattutto che sul dépliant illustrativo, dove ci sono tutti i nomi
di tutti i restauratori, funzionari e così via, abbiano scritto: trovate da un subacqueo"
NOTE:
1) Boccole : "Il serait intéressant de savoir si ces ligatures étaient en métal, d'où intérèt
que peuvent présenter tous les petits anneaux métalliques trouvés lors de l'exploration des
épaves. On sait par exemple qu'on a remonté à Mahdia de nombreuses petites boucles de
bronze qui paraissent étre les oeils de chat par où passaient les cargues. ( Prof. L.
Foucher - Atti del II Congresso Internazionale di Archeologia Sottomarina-Albenga 1958)
2)
3)
Teredini: mollusco marino che si nutre di parti in legno.
Egina: isoletta greca di fronte Atene, sede di una grande scuola di
bronzisti.
4)
Pinakes: Tavolette votive in creta, ritrovate in abbondanza presso il Tempio di
Persefone, Locri.
Capitolo Sesto
Le teste in bronzo
Al Museo di Reggio Calabria ero conosciuto per le numerose consegne di grosse
ancore in piombo, e di un buon numero di anfore ritrovate isolatamente.
L'anno prima avevo recuperata, nella Rada dei Giunchi di Reggio, proprio sotto le
finestre del soprintendente, un ceppo d'ancora di 700 Kg con la scritta greca "HERA". Il
recupero non era facile sia per la profondità di oltre 50 metri, sia per il peso del reperto.
Oggi la grossa ancora, perfettamente sagomata, accoglie i visitatori proprio all'ingresso
della Sala Nautica del Museo di Reggio.
Ma dal giorno della mia comunicazione del ritrovamento del Relitto di Porticello, i
rapporti con i funzionari del Museo degenerarono. Io pressavo il Soprintendente Foti per
ottenere un'autorizzazione per il recupero. Ero preoccupato per gli altri subacquei, volevo
finalmente avere l'autorità e l'ufficialità del ritrovatore, volevo essere della "famiglia" del
Museo di cui sarei stato il migliore controllore, al contrario delle Forze dell'ordine i cui
orari di perlustrazione erano noti a tutti.
Ma il dott. Foti, consigliato per telefono dal Prof. Lamboglia, decise malamente di
bloccare tutto se prima non fosse stata effettuata un'accurata prospezione del relitto,
cosa che sarebbe potuta avvenire l'anno successivo. E mi diffidò a non immergermi,
comunicando a Finanza, Carabinieri e Capitaneria il divieto d'immersione in quella zona,
come se tale procedura potesse fermare i clandestini.
Così come accadde in Sardegna dal 1960 al 1964 a Spargi, un bellissimo isolotto nelle
Bocche di Bonifacio. La storia è raccontata dal compianto subacqueo Gianni Roghi in un
articolo apparso sulla rivista "Mondo Sommerso" del novembre 1966, dal titolo "La
Vergogna di Spargi ":
"....... si aprì un conflitto tra i due direttori (l'archeologo Prof. Lamboglia ed il tecnico
dott. Roghi). Poichè il tempo stringeva e non dava tempo a prospezioni successive
(l'archeologo pretendeva che per ogni strato di anfore si rifacesse l'operazione da capo:
cioè una faccenda di almeno tre mesi di lavoro continuato), il tecnico suggerì e insistette
che si procedesse al recupero immediato e totale dell'intero carico, naturalmente con tutte
quelle cure che erano garantite ampiamente da un'esperienza ormai acquisita.
L'archeologo si oppose recisamente, minacciando la sconfessione dell'intera impresa.
Il tecnico avvertì che sarebbe stata follia lasciare un relitto di quel valore, giacente ad una
profonditàdi diciassette metri, di cui tutti ormai conoscevano l' esatta ubicazione, alla
pubblica mercè per un anno, ma non fu ascoltato.
Il tecnico disse anche: l'esempio di prospezione ci ha chiaramente definito la posizione
della nave, lo scavo di recupero del materiale può dunque essere fatto senza eccessivo
demerito.
L'archeologo disse per l'ultima volta di no!
Da allora il Relitto di Spargi fu abbandonato non già per un anno, ma per sempre.
Quello che era stato definito il relitto ideale (per la sua felicissima posizione sul
fondo, la bassa profondità, il suo carico ricco e vario, la sua antichità, eccetera) fu
letteralmente regalato ai clandestini.
Corre voce che dal settore di poppa sia stata estratta una rarissima statua in bronzo, alta
circa un metro e venti, che si trovava infissa nel fondo, in posizione eretta."
Intanto a Porticello gli altri subacquei recuperavano molte anfore, mentre io mi limitavo a
non lasciar loro completamente campo libero, e per fortuna ripresi ad immergermi
malgrado la diffida.
Tra noi, come per i pescatori di corallo vigeva una legge non scritta che imponeva ad
ogni subacqueo di non avvicinarsi se il posto di caccia era già occupato, e la presenza
della barca appoggio faceva fede.
Avevo letto che pochi anni prima, nel relitto di Yassi Ada segnalato da Peter
Throckmorton al largo della costa turca, erano state ritrovate 16 monete d'oro e 32 di
rame raffiguranti l'imperatore Eraclio che governò tra il 610 ed il 641.
Da una ditta importatrice di apparecchiature elettroniche subacquee avevo acquistato un
metal-detector nella speranza che qualche anfora contenesse dell'oro, e dopo un paio di
immersioni iniziarono i primi segnali, ma non venivano dalle anfore ma dalla sabbia
lasciata libera da quelle già recuperate. Dopo ogni rilevamento saggiavo la sabbia con le
mani e, sentita la presenza del metallo scavavo fino a metterlo in vista per poi ricoprirlo.
Si trattava di pezzi di piombo a forma di lingotto, alcuni molto grossi tanto da pesare oltre
cento chili. Durante lo scavo veniva alla luce la parte in legno completamente perforata ed
attraversata da numerosi gusci biancastri e sinuosi, grossi quanto un dito, che era quanto
rimaneva delle teredini che nei primi decenni dopo l'affondamento attaccarono il relitto.
Il metal-detector dava segnali anche sul legno. Provai a spostare alcuni gusci
ammucchiandoli a pochi metri, ma lo strumento non reagiva, mentre ricevevo distinti
segnali dal legno. Provai allora a scalfire nella parte ove il segnale era più forte ed
apparvero i chiodi in rame con la tipica polvere verdastra. Ne prelevai alcuni
ripromettendomi di non insistere sulle parti lignee che ricoprii con la sabbia.
In quei giorni mi ero incaponito a cercar monete, senza capire che mi trovavo di fronte
ad un tipico esempio di primordiale monetazione basata sullo scambio di metalli.
Per un pò di tempo mi immersi mattina e pomeriggio accumulando azoto che poteva
rendere necessaria la camera di decompressione. Usavo un sistema particolare per evitare
l'embolia che poteva sopraggiungere entro le sei ore successive all'immersione. Al primo
dolore alle articolazioni od alle parti periferiche del corpo, anche se poteva trattarsi di un
dolore da sforzo muscolare, mi affrettavo ed in pochi momenti ero nella spiaggia più
vicina e scendevo a 30 metri, iniziando la lenta risalita con soste ai 9 metri, poi a 6,
infine a 3 metri dove restavo per quasi un'ora.
Dopo immersioni di ricerca al tardo pomeriggio, più di una volta balzai dal letto in piena
notte per correre come un matto al lido comunale dove mi immergevo nella totale
oscurità. In auto avevo sempre un bibombola carico d'aria. Sicuramente devo la mia
integrità a tale sistema!
Intanto notavo che la chiazza di sabbia si allargava maggiormente a causa del continuativo
prelievo di anfore. Puntai allora verso la piccola zona macchiata di verde scuro da cui
spuntavano due neri orli circolari, distanti tra loro meno di 50 cm. Il metal-detector
sembrava impazzito per un raggio di circa due metri. Provai sullo scoglio a due gobbe che
limitava la zona dei segnali ed anche dalla sommità ricevevo impulsi che mandavano a
fondo scala lo strumento. Cominciavo a perdere lucidità e mi parlavo dandomi gli ordini.
Con il coltello saggiai l'estremità di uno degli orli frastagliati che mi apparve del tipico
giallo dell'oro o del bronzo.
Iniziai lo scavo con la tecnica del movimento veloce delle mani che determina un
microturbine escavante, e dopo il primo leggero strato di sabbia bianca, dalla torba nera
e compatta mi apparve una breve parte liscia, poi la ricciolinatura della barba, e
prima del naso, le labbra perfettamente colorate di violetto intenso, che è il rosso così
come appare a quelle profondità. Si trattava di una scultura bronzea!
La respirazione era aumentata, ero quasi in affanno ed incameravo troppo azoto, mi
trovavo in piena ebbrezza. Vedevo con velature forse anche a causa della polvere che
sollevavo, il tutto si svolgeva come se dormissi e stessi vivendo un sogno bellissimo.
Ero felice, ma come al di fuori della realtà! Lavoravo come d'abitudine a testa in giù
quindi in perfetto asse con il reperto capovolto, la mia e la sua faccia erano a pochi
centimetri. Stavo toccando una scultura antichissima forse raffigurante il dio del mare.
Proseguendo lo scavo toglievo la torba nera per godere subito il colore del metallo, e
spuntò una profonda rottura, direi volontaria, all'incrocio del naso con gli occhi. Ora
iniziava la fronte ed i primi riccioli dei capelli, e di lato riuscivo a scoprire anche un
orecchio.
Quanto tempo era passato, io non usavo orologio, forse un'ora, o tre ore, o cinque minuti,
l'azoto nel cervello m'impediva i riferimenti, il cuore batteva a tamburo, lanciavo strani
urletti gutturali poi urla più forti, e mi scattò la sopravvivenza.
Controllai il decompressimetro da tempo in zona rossa, il manometro dell'aria mi dava
appena 30 atmosfere insufficienti alla decompressione, ero in serio pericolo, dovevo
partire verso l'alto. Pochi secondi ancora li dedicai a ricoprire il reperto quasi sorridente,
senza riuscirvi completamente.
In zona decompressione l'ebbrezza scomparve e dopo il sonno dell'azoto assaporai la
gioia del ritrovamento in totale lucidità. Avevo trovato Poseidone fiero e sorridente, e non
Zeus dalla tesa espressione lanciante una saetta.
Succhiai l'ultima aria senza completare la decompressione e mentre toglievo la muta,
guardando in lontananza vedevo come da un occhio. Provai a coprire prima uno poi
l'altro occhio, ma il fenomeno si ripeteva. Il problema era dentro la testa, l'embolia era
in agguato. Ma anche quella volta non fu necessaria la camera di decompressione, presto
il fastidio agli occhi scomparve, e pian piano espulsi con la respirazione il gas disciolto nel
sangue, senza danni.
Ora mi preoccupavo degli altri subacquei, ma sapevo che andavano ad anfore non tutti i
giorni, e non di mattina quando erano di passaggio i natanti della Finanza. Non potevo
assolutamente immergermi nuovamente prima di dodici ore, dovevo espellere tutto l'azoto
residuo.
Nel primo pomeriggio del giorno dopo mentre ritornavo in auto a Porticello vidi la barca
verde rientrare verso Punta Pezzo.
Non era possibile, erano andati ad anfore, il reperto era nascosto. Non era possibile.
Non era possibile. Lo sconforto mi prendeva alla gola mentre indossavo la muta. Erano
andati ad anfore.
Calai a 38 metri, Poseidone non c'era più. Andai in affanno, fui costretto a risalire, avevo
nausea, stavo male.
Al tramonto, dopo 2 ore d'attesa sulla riva, la lancetta del decompressimetro mi indicò un
certo spazio di sicurezza, e tornai giù con rabbia. Scavai come un forsennato in tutta la
zona verdastra dalla quale apparivano pezzi di statue che riponevo in un retino, e
finalmente la testa barbata, la TESTA DEL FILOSOFO annerita dalla fanghiglia, molto
pesante.
Scavai ancora nello stesso punto ed apparvero oggetti di ceramica nera, d'uso comune
ma importanti per la datazione del naufragio. Non provavo le stesse emozioni del giorno
prima, agivo di fretta, quasi senza osservare nulla, con l'unica foga di prelevare tutto il
bronzo presente in quell'area.
Il retino era troppo pesante e per aiutare la risalita legai una busta di plastica entro la
quale mandai un pò d'aria dall'erogatore, e lasciando tutto sul fondo, risalii alle quote di
decompressione
Finalmente dal gommone tirammo con grande sforzo la cima collegata al retino, e dopo
qualche metro, con la diminuzione della pressione, l'aria della busta aumentò sempre più
facendo da ascensore ai reperti che videro la luce dopo oltre 2 millenni.
A sera, i miei genitori osservavano stupiti gli oggetti anneriti. Mia madre, con delicatezza
provò a lavarli dal fango che li aveva protetti per tanto tempo. La Testa del Filosofo
veniva quasi carezzata sotto un filo d'acqua del rubinetto che ammorbidì la massa di fango
cementata all'interno della testa. Lentamente mia madre tirò fuori un piccolo pezzo
rettangolare, poi un'altro, ed infine un malloppo più grosso. Apparve un membro virile,
completo di ricciolinatura. Si scherzò un momento, ma la meraviglia era tanta di fronte
alla perfezione del reperto. Evidentemente l'antico conservò i pezzi di bronzo nel cavo
della testa. Apparve poi nell'occhio destro una palpebra lucida da sembrare d'oro, e
finalmente potevamo ammirare l'espressione pensante della scultura.
Mio padre, uomo all'antica, cercò d'impormi una telefonata al soprintendente, con il quale
tra l'altro era in rapporti d'amicizia e di lavoro come fotografo del Museo, ma sentivo
d'aver commesso gravi errori, e non potevo concedermene altri. Mi avrebbero bloccato,
e quant'altro vi fosse stato ancora sul relitto sarebbe andato perduto. Gli chiesi solo un
giorno di tempo e la massima discrezione per evitare che un'intera squadra di carabinieri
si scatenasse dentro casa.
Il mattino dopo, alle prime luci ero a circa 1 Km. dal posto. Occorreva operare con grande
prudenza per evitare d'esser sorpresi dalla Finanza proprio in quel momento, e con la
casa piena di reperti eccellenti.
Con tecnica militare fu lanciato il gommone alla massima velocità sull'asse pilone-villetta,
ed appena il palo traguardò la finestra andai giù di spalle, mentre il gommone
continuava la sua corsa per posizionarsi molto lontano, ma in attenta osservazione del
bombarolo e gli altri subacquei che potevano arrivare, e che sarebbero stati bloccati con
ogni mezzo, non esclusi i fucili subacquei.
Recuperai altro bronzo più grande, come il panneggio perfettamente mimetizzato sullo
scoglio, parti di glutei, parti di gamba che legai direttamente al cordino, mentre nel
retino raccolsi altri pezzi più piccoli, un piede, una mano, altri pezzi rettangolari. Scavai
ancora inutilmente e finalmente mi sentii appagato.
Ma questa volta non potevo tornare sull'asse del relitto, la Finanza poteva incrociarmi
proprio nel momento dell'emersione e mandai in superficie uno speciale galleggiante
azionato da una cartuccia d'aria che la corrente non avrebbe potuto piegare. Dopo
essermi allontanato con l'aiuto dell'amica corrente, emersi direttamente a riva.
Con una certa tensione riposi l'attrezzatura subacquea nel gommone e puntammo al largo
per avere una visione migliore di Punta Pezzo da dove poteva spuntare la Finanza, ma il
mare era libero e ci concedeva abbastanza tempo per il recupero definitivo. In un minuto
soltanto, forse meno, i reperti ed il retino erano a bordo, e dopo un'ora a casa mia, al
centro di Reggio.
Certo, un simile atteggiamento potrebbe far pensare ad una sfida alle istituzioni, ad una
mentalità malavitosa. Ma la mia "guerra" era contro i clandestini, non curandomi quasi
degli altri aspetti. In effetti, con il "senno di poi" ho capito che non avevo corso alcun
rischio di rilevanza penale. L'articolo 48 della Legge sull'Archeologia 1089 recita "....Ove
si tratti di cose mobili di cui non si possa altrimenti assicurare la custodia, lo scopritore
(ed io avevo già inviato un mese prima la denunzia di ritrovamento) ha la facoltà di
rimuoverle per meglio garantirne la sicurezza e la conservazione....."
La mattina dopo allineai tutto il materiale rinvenuto sul tavolo del soprintendente. Il
dott. Foti era molto nervoso e compiaciuto al tempo stesso, e non dimostrava quel senso
di fastidio e di fretta che faceva trasparire allorquando gli si consegnavano anfore o ceppi
d'ancora che prendevano la strada degli scantinati del Museo. Lo guardavo a denti
stretti e gli comunicai, quasi con rabbia, l'ammanco del Poseidone. Volle una descrizione
particolareggiata e mi limitai a descrivere la testa dello Zeus di Artemision con una
profonda rottura tra il naso e la fronte.
Quindi la Soprintendenza "fu informata" proprio da me, dallo stesso scopritore ufficiale.
Anzi, l'informazione del saccheggio l'avevo già data in precedenza, quando inutilmente
chiedevo ai funzionari del Museo l'autorizzazione al recupero che mi venne negata perchè
erano convinti della sola presenza di anfore, senza dar credito al possibile ritrovamento di
bronzo, e per sottostare al parere degli "esperti del Museo di Albenga", di cui Lamboglia
era direttore, che avevano il solo interesse d'effettuar
rilievi e pubblicarli nei vari congressi in giro per l'Europa, noncuranti dei clandestini che
già da qualche anno, rappresentavano una nefasta realtà, come insegnavano le vicende
legate al "Relitto di Spargi".
Ed ora, al severo cospetto della "Testa del Filosofo" era evidente lo stato di disagio in
cui si trovavano, dimostrando di essere abituati a scoperte su terraferma, ma incapaci
di gestire un grosso ritrovamento subacqueo.
Seguirono anni di sospetti e diffidenze, fui perfino accusato di aver segato le statue. Mi
difendevo pregando gli addetti di controllare le incrostazioni sui tagli. Era facile stabilire
che non esisteva alcuna manomissione recente. Le parti in bronzo erano di diverse statue,
e mi si chiedeva conto dei resti mancanti. Non capivano che il Relitto di Porticello era un
trasporto metalli da rottamazione. Il piombo ed il bronzo erano materiali pregiati e
servivano per gli scambi di derrate durante il viaggio, la monetazione non era diffusa.
E dopo 15 anni di causa, il Tribunale di Catanzaro con sentenza del 24/10/79, mi
assegnava la paternità della scoperta del Relitto di Porticello, condannando il Ministero
dei Beni Culturali al pagamento delle spese processuali ed al pagamento del quarto del
valore dei reperti.
Purtroppo la valutazione degli esperti di quel Ministero, relativa alla "Testa del Filosofo",
opera ellenistica probabilmente di Fidia, e degli altri 17 reperti consegnati, fu
complessivamente di 275 milioni. Nel 1984 mi furono liquidati 52 milioni netti.
Comunque, c'è mancato poco! C'è mancato poco che tutto sparisse!
Ma fu solo un caso?
O un Destino già programmato, mi ha condotto in quei giorni in quel tratto di mare. E
perchè proprio io?
A quei tempi il mio maggior tratto caratteriale, dovuto all'intensa attività sportiva, era
l'esibizione e perchè no, la ricerca della gloria ed ora, dopo tanti decenni si spiega perchè
consegnai tutto, anche se ho dovuto sopportare grandi dispiaceri, come quello di non
vedere il mio nome al Museo. Ma a questo ci penseranno i posteri!
Capitolo Settimo
L'ultima navigazione
Mi aggiravo spesso su quella spiaggia.
Era il punto più vicino alla Sicilia, nel breve braccio cantato da Omero, che ogni
navigante attraversa con timore.
Così come si volle, dopo alterne vicende, avevo sposato in seconde nozze la "guardiana
del sito", la proprietaria della casa di fronte al relitto.
Abitavo finalmente a Porticello e la mia finestra dava proprio sul teatro dell'affondamento.
Abbandonato il lavoro, mi dedicavo soltanto alla vela, alle immersioni, allo studio delle
correnti e della storia antica, non frequentando più gli amici che avevano allegramente
accompagnato la mia giovinezza. Ora la mia mente era presa dai dubbi e dalla voglia di
conoscere gli antichi marinai dell'holkas. Qualche volta, indossate muta e bombole,
scendevo nel mare limpido e dopo una breve nuotata vagavo nella zona ov'era affondata la
nave greca.
L'immersione era calma, tranquilla, senza le emozioni vissute anni prima quando
ritrovai l'ammasso di anfore, e poi, la mirabile "Testa del Filosofo".
Ormai restavano cocci d'anfore e qualche arnese usato per lo scavo dagli archeologi. La
sabbia bianca rimossa dagli scavi s'era macchiata d'erbetta, mentre i soliti pesci curiosi si
tenevano a distanza innervositi dalla mia presenza. Carezzavo ancora una volta il punto
dove avevo trovato il bronzo, e lentamente tornavo a riva.
Dopo il freddo dell'immersione solevo stendermi al sole, ed in quelle ore di sonnolenza
mi abbandonavo all'onda del tempo per rivivere ogni atto dell'antico capitano e dei suoi
uomini che avevano fatto naufragio su quelle stesse pietre.
Avviliti e piangenti avevano trovato conforto su quella riva spazzata dal vento caldo che
aveva rovesciato il battello. Li vedevo seduti quasi in fila con gli occhi fissi al mare nel
punto ov'era scomparsa la loro casa, loro che erano gli "oizys" dell'Ellade, imbarcati
verso nuovi spazi e terre, erano gli incompresi, erano il di più. Come loro, altri avevano
lasciato la Grecia, per uno spazio vitale che in patria non era concesso. Una moltitudine di
novelli naviganti aveva tentato l'avventura, e alcuni erano giunti su grandi pianure di
grano, accompagnati dall'innato senso ellenico della bellezza. Tra tutte le migrazioni,
quella dei Greci in occidente ci ha affidato la conoscenza delle più alte forme d'arte, ed ha
lasciato un'impronta indelebile sulla nostra cultura, influenzandola dalle fondamenta.
Ora entravo in diretto contatto con loro: era un sogno o qualcosa di diverso? Io per primo
li avevo toccati, ed avevo preso in consegna quelle sculture per donarle all'ammirazione
del mondo intero. Quel primo tocco, quel metallo, quale impulso poteva trasmettermi da
cambiarmi così tanto la vita?
E mentre lo scirocco mi soffiava la sabbia nei capelli, ero ormai dolcemente cullato nel
mare sconfinato del tempo....
Allora chiesi al capitano di far parte della loro Apoikìa (1), ed il greco accettò!
Le faci illuminavano Reggio e bagliori rossastri percorrevano la tranquilla rada dei
Giunchi dove la nave, ancorata non lontano dalla spiaggia, era quasi immobile. Presto
sarebbe tornato il capitano che fin dal mattino era andato a cavallo lungo la costa ad
osservare il mare, e per avere dai pescatori locali ogni informazione sulle correnti e sul
vento.
Da qualche giorno era iniziato il periodo dello scirocco che dopo il secondo equinozio,
soffia costante dal tardo mattino fino alla sera. Prima di partire dalla Grecia avevano
ascoltato con molta attenzione alcuni naviganti tornati per il "chresmòs" (2) della pizia
delfica (3), e sapevano che "l'immensa onda" andava affrontata dopo la primavera e non
oltre i primi freddi.
I parenti del capitano avevano rifornito la nave di grano, olio, mandorle, vino e salsa di
pesce, contenuti nelle belle anfore "a trottola" prodotte a Mende, una località non
lontana da Atene, e verso poppa, nella cabina di comando (4), erano riposti i metalli che
costituivano tutti gli averi della spedizione. Era un buon numero di pezzi di bronzo e
piombo per la fusione di utensili, razziati nei paesi vicini, martellati e spezzati per una
più comoda forma di pagamento per le necessità dell'equipaggio.
I pezzi più piccoli di statue frantumate erano raccolti in un cesto e tra questi una mano
recisa al polso, un membro virile, una parte di gamba, altre parti del corpo, un
panneggio, e due teste di cui una ancora colorata, tanto da sembrare vivente.
Dopo la grande traversata verso ovest erano giunti a Leucopetra (5) dove avevano
incontrato alcune navi della flotta eoliana inviate dal saggio stratega di Lipari Timasiteo
come scorta ad una debole nave romana diretta a Delfi. I romani recavano un prezioso
cratere d'oro al divino Apollo per la vittoria sulla potente città etrusca di Vejo da parte
del console Marco Furio Camillo (6). La piccola Roma costruiva a quei tempi le premesse
del suo grande destino.
Gli equipaggi si scambiarono informazioni sulle rotte da seguire, e mentre la flotta
affrontava l'alto mare verso levante, l'holkas dava fondo nell'ospitale porto della splendida
Reggio, che viveva in gran parte dei dazi imposti alle navi in transito e del commercio
con i vicini porti della Sicilia.
Gli uomini avevano scambiato un buon numero di anfore di Mende ormai vuote, con altre
puniche colme di alimenti, prelevate dai magazzini del porto. Il pagamento era
avvenuto con pezzi di bronzo e piombo, comprensivo della tassa d'ancoraggio.
Il capitano dormì a terra, ed alle prime luci venne a bordo ordinando di salpare l'ancora.
Con lente vogate la nave si mosse e puntò su Zancle.
I monti della Sicilia ricchi di foreste si coloravano al primo sole, ed ogni rilievo
appariva chiaro e distinto. Gli stessi colori erano diversi, il blu del cielo più blu, il
verde scuro degli alberi più pastoso, mentre l'ultima stella del mattino era d'uno
splendore mai visto. L'aria era fresca, il respiro più facile. Tutto era terso e pulito.
L'acqua marina senza l'offesa del tempo moderno, era giovane, limpida e pura dove i
delfini giocavano a sud, mentre a nord una coppia di marlin si cullava nell'estro
amoroso.
Ora gli uomini remavano con forza, e l'holkas fendeva l'acqua appena screziata dalla
prima brezza.
I pescatori avevano consigliato una rotta larga dalla costa per evitare le correnti
discendenti, ed il battello si mantenne al centro dello Stretto, dove la corrente
principale lo avrebbe aiutato a risalire.
Con il sole già alto, giunsero le ventate da sud, e fu issato il pennone trasversale con la
vela trattenuta dai bracci di destra e di sinistra. I rematori, con la portanza (7) della vela,
attendevano l'ordine di riporre i remi, ma il capitano ordinò di restare ai loro posti coi
remi sollevati, ed affiancò al timoniere un altro marinaio per reggere la barra che diveniva
via via più pesante.
Dopo qualche ora mentre il vento rinforzava, i timonieri non riuscivano a compensare le
prime oscillazioni di rotta, così arrivò ai rematori l'ordine di voga contraria, ora di
destra, ora di sinistra. La tensione a bordo era palpabile, tutti restavano in silenzio,
s'udiva a tratti la voce del capitano che sovrastava il rumore delle acque friggenti. Le
onde viaggiavano con la nave e tutto sembrava più facile del previsto, quando in
lontananza si schierò davanti un muro di spuma che indicava una forte corrente che si
scontrava con il vento. L'ordine fu immediato, e la voga contraria di destra indirizzò la
nave verso Punta Pezzo in un canale d'acqua più calma e più protetto dal vento. Si
accorciarono i bracci della vela e fu necessario dare buona voga per tenere la rotta. La
costa calabrese proteggeva dal vento più intenso, ma un filone scendente fermò quasi la
nave, ed i vogatori furono costretti a portare al massimo la frequenza della battuta, per
giungere finalmente, dopo molte ore, in vista della rada di Porticello.
Era ormai pomeriggio, ed al centro scrosciavano ondate da tutte le direzioni. Era
impensabile l'attraversamento in quel momento, meglio con la calma dell'alba e poi il
sospirato mare aperto che si intravedeva oltre le spume, vicino a Cariddi.
Ma la corrente era troppo forte e respingeva indietro il battello. I rematori erano
stremati e le battute diminuivano, la nave iniziava a perdere abrivio e sbandare di lato
senza più controllo. La rada di Porticello sembrava proteggere dal vento di terra, ed il
capitano che ormai aveva quasi perso il governo, diede l'ordine d'ancoraggio su un
fondale di 42 metri, proprio al limite della rada. La grande ancora fece presa su uno
scoglio, la cima si tese, ma la nave non si fermò e cominciò a ruotare con grandi
strattoni, come un cavallo legato ad un palo che tenta di sciogliersi.
Il vento di scirocco la respingeva verso nord e tesava la cima dell'ancora in un senso,
poi, finita la raffica, la corrente scendente prendeva il sopravvento e la riportava verso
sud prima allentando la cima d'ancoraggio e poi tendendola di colpo facendo oscillare lo
scafo pericolosamente.
L'equipaggio ormai era in preda al panico ed il capitano ordinò "una cima a terra". Due
nuotatori si portarono dietro un leggero cordino collegato ad una gomena che, da terra, fu
trascinata e fissata ad uno scoglio.
Si era alla fine dell'estate, nei giorni in cui i venti da sud rendono l'aria più calda, e
l'acqua di superficie, dopo mesi di sole, è maggiormente riscaldata. Le masse fredde
risalendo dai grandi fondali si scontravano con l'acqua calda, accentuando le correnti;
queste a loro volta raffreddavano gli spazi sovrastanti che a contatto con l'aria rovente
generavano delle piccole trombe d'aria dette "code di topo". Ma il fenomeno di
Porticello era principalmente il vento di scirocco che colpiva la parete a nord che
sovrastava la rada, ed in rotazione ritornava da sud con raffiche di oltre 50 nodi. Era lo
stesso fenomeno della rada di La Galite !
Gli uomini girarono l'argano e la gomena di prua, fissata a terra, cominciò a tendersi,
mentre la cima dell'ancora veniva legata a poppa. La nave mosse virando verso la riva
disponendosi quasi verticalmente ad essa, impiccata dall'ancora e dalla cima a terra senza
possibilità di assecondare la forza della corrente o la pressione improvvisa del vento.
La rada sembrava tranquilla poichè il vento da terra non aveva il tempo di generare moto
ondoso, ed il capitano ne subiva l'inganno. Il battello entrava lentamente nell'invisibile
trappola, e pochi metri più avanti giunse una prima raffica velenosa che lo mandò in
oscillazione lungo l'asse creato dalle due cime bloccate. Cosi' come l'Athena nell'isola
africana !
La corrente ora colpiva la parte immersa del fianco sinistro, ed una nuova raffica aggredì
il fianco destro emerso, imprimendo un perpetuo rollio. I bordi ormai rasentavano
l'acqua, prima il destro, poi il sinistro, e l'equipaggio fu sbattuto da ogni parte.
Ed ecco che, all'oscillazione si sommò la raffica mortale e la nave mise il bordo sinistro
sott'acqua e fu catturata dalla corrente che in un momento ne allagò il ventre. E
mentre gli uomini nuotavano gridando, affondò, per essermi riconsegnata dopo oltre
2000 anni.
La sonda Galileo viaggia nell'iperspazio con il suo contenuto di scienza e di storia, così
come il relitto di Porticello è strumento di conoscenza per i moderni. Per gli antichi, il
fato ineluttabile determinava ogni azione e fenomeno, mentre oggi noi crediamo solo in
quel che è.
Ma fu solo un caso?
E se invece è stato voluto, come il progetto preciso di Qualcuno, da una Mente Superiore,
per trasmettere ancor di più la Conoscenza nel mondo?
Talvolta ci sfiora "il sospetto", ben riposto nei remoti angoli della nostra anima.
E' la presenza tra noi d'entità e fenomeni non ancora spiegati dalla scienza!
NOTE:
1)
Apoikìa: colonia, colonizzazione.
2)
Cresmòs: auspicio dell'Oracolo di Delfi
3)
Pizia delfica, sacra indovina di Delfi
4)
Cabina: la presenza della cabina di poppa è dimostrata dal ritrovamento di "coppi"
o tegole da me segnalati il 12 novembre 1996. La costruzione di tali cabine a poppa
viene confermata dai relitti di Kyrinia ed Yassi Ada studiati dall'equipe di George
G.Bass, di cui era componente David Owen allora studente della Brandeis University.
5)
Leucopetra: Capo dell'Armi, estremo sud d'Italia. La navigazione verso Delfi della
nave romana scortata dagli eoliani risale al 396 a.C.. L'analisi al C 14 di campioni di
legno del relitto lo inseriscono intorno al 420 a.C. (data riferita al momento del taglio del
legno per costruire la nave)
6)
M.F.Camillo: quel console romano "secondo fondatore di Roma" che rispose ai
Galli ed a Brenno: "Non auro, sed ferro, recuperanda est patria" (Roma la si conquista
col ferro non con l'oro).
7) Portanza: quando la vela è attiva, si gonfia col vento e fa avanzare la barca.
Capitolo Ottavo
L'ancora della nave greca
Campagna di scavo settembre 1997
L'errore di manovra, o meglio, un difetto d'ancoraggio causarono l'affondamento del
Relitto di Porticello. I numerosi archeologi che hanno scritto sul nostro relitto, con la
prudenza che distingue ogni studioso, hanno tralasciato di formulare ipotesi sulla
modalità del naufragio che si può decifrare solo con una buona dose di conoscenze
marinare.
Ipotesi quella dell' "affondamento all' ancora" molto vaga senza le prove della
presenza di quel reperto, che necessariamente dovevasi trovare a 20 metri dalla poppa,
verso nord ed in asse con lo stesso relitto.
L'avvistamento del ceppo d'ancora era tutto da provare ed era necessario ritrovarlo per
dare conferma alla mia credibilità, malgrado nutrissi poche speranze a causa dell'attività
clandestina degli squagliatori di piombo antico.
Non sentendomi disposto ad effettuare nervose immersioni di autonoma ricerca con la
possibilità di essere frainteso dalle Istituzioni, l'11 settembre 1996 inviavo un fax alla
Soprintendente Elena Lattanzi.
Oggetto: Ricerche Archeologiche nello Stretto di Messina.
"Appena le condizioni meteorologiche lo consentiranno, procederò alla ricerca
dell'ancora del relitto di Porticello. Ciò servirà a dimostrare che il relitto affondò
all'ancora. Comunicherò immediatamente l'avvistamento alla Soprintendenza, misurerò
la distanza dal punto dei bronzi, effettuerò fotografie, e dopo il Vs via procederò al
recupero. Nella speranza che nel frattempo l'ancora non sia già stata recuperata
clandestinamente."
Era la prima volta che comunicavo direttamente con la Soprintendenza dopo il
ritrovamento del Relitto. Non fui creduto, e si cominciò a sospettare la presenza di reperti
eccellenti, forse un'altra statua in bronzo, e comunque quella era l'occasione per effettuare
una nuova campagna di scavo per definire meglio quanto già gli americani della
Pennsylvania University avevano espresso nel corso della loro ricerca nel lontano 1970.
Il 16 giugno 1997, giungeva da Roma il dirigente lo STAS (1) Claudio Moccheggiani
che, dopo le immersioni di controllo con l'assistenza del Nucleo Carabinieri
Sommozzatori di Messina, confermava l'interesse ad una nuova campagna di scavo,
autorizzandone il finanziamento.
Si provvedeva quindi a selezionare i migliori gruppi di archeologi subacquei italiani che
godevano la fiducia delle Soprintendenze, e la scelta cadeva sull'Aquarius di Milano, una
cooperativa molto attrezzata e diretta dall'archeologa Alice Freschi che godeva di un
curriculum notevole.
La Freschi, ottima sommozzatrice era stata allieva di Lamboglia così come la
soprintendente Elena Lattanzi che aveva partecipato nel 1963, fresca laureata,
all'ultima campagna della nave "Daino" sul relitto di Giannutri, con il compito di
smistamento e classificazione del materiale.
L'Aquarius si avvale di una vecchia goletta portoghese di 20 metri, il "Costa d'Ouro"
munita di tutto il necessario per la ricerca, scavo, mappatura e recupero di antichi relitti,
mentre l'èquipe è composta sommozzatori brevettati e tra questi alcuni laureati in
archeologia.
Durante le immersioni, staziona nella spiaggia vicina un camioncino attrezzato con una
camera di decompressione sempre in efficienza, e quasi tutti i componenti l'equipaggio
dispongono di un attestato per il trattamento dei sommozzatori che malauguratamente
dovessero accusare problemi fisici dovuti ad un'errata risalita dal fondo marino.
Il "Costa d'Ouro" proveniente da Gela dov'era stata impegnata per il recupero di un relitto
a 10 metri di profondità, ormeggiava nel porto di Reggio il 14 settembre 1997. Il giorno
successivo, felice ed emozionato, mi imbarcavo e dopo un'ora di navigazione indicavo i
punti del "Relitto di Porticello".
In immersione, ho segnalato al capo-èquipe Ettore i punti del ritrovamento dei reperti in
bronzo. L'immersione tendeva inoltre a verificare la possibilità di legare direttamente ad
uno scoglio un sicuro ancoraggio con boa di superficie.
Durante quella prima immersione, ci siamo allontanati dall'ancora del "Costa d'Ouro"
senza riuscire a tornarvi per una fortissima corrente appena entrata e che ben conoscevo;
immediatamente indicavo al collega di fuggire verso terra dove, dopo un'intensa nuotata
subacquea quasi controcorrente, con tutta calma s'è potuta completare la
decompressione, perfettamente assistiti dal gommone di servizio che nel frattempo, viste
le nostre bolle d'aria che si allontanavano, si era staccato dalla goletta per seguirci
dall'alto.
Dal 17 al 30 settembre 1997 si sviluppava la campagna di scavo eseguita da tre coppie
di sommozzatori ognuno dei quali effettuava ben due immersioni giornaliere alla
profondità di 38/42 metri.
Il primo giorno si provvedeva a legare due robuste cime ad uno scoglio. All'altro capo,
in superficie veniva collegato un galleggiante. Il secondo giorno, giunti sul posto,
notavamo l'assenza del galleggiante. In quel momento imperversava una corrente da
stimare attorno ai 6 nodi, un fiume. Tale forza, agendo sulle cime legate sul fondo,
aveva vinto la spinta di galleggiamento della boa, sommergendola. Il comandante dava
l'ordine d'ancoraggio e mentre la grossa catena si svolgeva, la goletta veniva investita
dalla corrente e trascinata verso sud. L'ancora fece presa su un scoglio ed appena la
catena di ben 12mm. si tese, trasmise, all'imbarcazione che tretocedeva, un terribile
colpo che la mandò in pericolosa oscillazione. Alice Freschi gridò, gli uomini si
guardavano attoniti. Subito dopo tutto era calmo, la goletta galleggiava tranquilla ma
transitava a 6 nodi verso sud spinta dalla corrente: la grossa catena s'era tranciata. Era
finalmente una prova della modalità d'affondamento del relitto, e da quel momento fui
guardato con maggior rispetto dall'equipaggio che cominciava a credere le mie deduzioni.
Per fortuna avevamo un bel Mercedes da 350 cavalli e ritornammo sul posto. Dopo
qualche ora la corrente diminuiva, la boa ritornava a galla e si recuperò in immersione
l'ancora perduta, con il lungo spezzone di catena. Fu rinforzato il galleggiante con due
grossi bidoni da 50 litri.
I giorni successivi videro un proficuo lavoro: il capo-èquipe eseguiva la ricerca con il
metal-detector e segnalava con picchetti i punti da cui giungevano i segnali. Gli altri
gruppi di sommozzatori, me compreso, provvedevano poi a scavare nella zona indicata,
con la sorbona che è un sistema per l'aspirazione della sabbia. Si avvale di un tubo da
10 cm., dove viene immessa aria compressa che determina un flusso aspirante (tubo
Venturi). Ogni reperto veniva contrassegnato con un numero progressivo e fissato su
una mappa con opportune misurazioni. Al terzo giorno si ritrovava un grosso lingotto di
piombo di circa 100 chili ed alcune anfore puniche. Veniva fuori parte del legno dello
scafo e la sua chiodaggione in rame che dopo i rilievi veniva ricoperto con la stessa
sabbia. Curioso il rinvenimento di un pettine in legno. Si identificavano alcuni puntali in
bronzo per le ancore, ma del ceppo non vi era traccia.
Del resto, durante il sopralluogo di giugno, i carabinieri avevano saputo da alcuni
pescatori di Punta Pezzo che il grosso reperto era già stato sicuramente recuperato e
spezzato. Io al contrario ero convinto che i clandestini, non disponendo del metaldetector, prelevavano solo ciò che era in vista, mentre il ceppo da me visto molti anni
prima, era nascosto sotto trenta centimetri di sabbia.
Provai a chiedere l'uso del metal-detector, ma mi fu detto che quella era una mansione
esclusiva del capo-èquipe.
I giorni passavano, si giunse all'ultimo giorno prima del recupero di tutti i reperti
individuati e riportati su mappa, e chiesi ad Ettore di effettuare ancora un passaggio con il
metal-detector.
Ero deluso, e non riuscivo a spiegare a me stesso la ferma convinzione della presenza del
ceppo. Il tempo dell'immersione passò e durante la decompressione, guardavo Ettore
dall'alto della prua della goletta, nella speranza di un cenno positivo. Finalmente emerse, e
venne verso di me guardandomi:
"Questa sera porta una bottiglia di champagne, l'ho trovato, è lui."
Nota:
1)
STAS : Servizio Tecnico per l'Archeologia Subacquea del Ministero dei Beni
Culturali.
Appendice
Aspetti legali sull'archeologia subacquea
Nel 1942 i francesi Cousteau e Gagnan misero a punto un autorespiratore ad aria
compressa che consentì ad un numero sempre maggiore di subacquei d'operare
agevolmente nella profondità marine.
I "palombari" operavano già da tempo, senza tuttavia poter estendere il loro raggio
d'azione per via della manichetta che li collegava alla barca appoggio, ed alle pesanti
attrezzature.
Si deve proprio ad un palombaro che pescava corallo, la prima scoperta archeologica
subacquea che avvenne nel 1894 a Port de Selva nella Catalogna spagnola al confine,
quasi, con la Francia. Furono estratte 62 anfore in ottimo stato ed un ceppo d'ancora.
Poi, dopo la seconda guerra mondiale, l'autorespiratore ad aria compressa si sviluppò
rapidamente ed oggi non c'è isola o località balneare che non disponga di una propria
stazione di ricarica delle bombole.
Ne consegue che molte decine di migliaia di potenziali ricercatori girano indisturbati
lungo le coste italiane ormai da 50 anni, su quello che si può definire il più ricco
giacimento archeologico subacqueo del mondo.
Una legge sull'Archeologia fu promulgata nel 1939, la 1089, ma non prevedeva i
ritrovamenti in mare, ed i soprintendenti e i magistrati che si scontravano con tale
materia, sono stati chiamati a notevoli sforzi interpretativi. D'altro canto nessuno finora
ha creduto di adeguare la legge ai progressi tecnici delle attrezzature subacquee, con la
conseguenza che gran parte del patrimonio archeologico subacqueo è andato perduto per
via dell'attività clandestina dei sommozzatori italiani ed esteri, che non si adattano ai
disposti di legge ritenendoli ingiusti e penalizzanti. I decenni ormai trascorsi confermano
che è assolutamente necessario intervenire con delle normative pratiche, utili e
bilanciate.
Notiamo come in questo settore vi siano due schieramenti contrapposti ben delineati,
da una parte le Istituzioni rappresentate dal Ministero dei Beni Culturali ed in
particolare lo STAS Servizio Tecnico per l'Archeologia Subacquea, i funzionari delle
soprintendenze, le forze dell'ordine. Dall'altra i subacquei attrezzati di bombole, capaci
di superare facilmente i 40 metri di profondità, e che quantificherei in 80.000 unità, solo
in Italia. Questi ultimi sono i padroni assoluti dei fondali italiani, in quanto le esigue
forze dell'ordine, come tutti noi ben sappiamo, non possono far niente per un controllo
totale delle nostre spiagge, e non basterebbe un esercito ad acta per esser certi di un
pattugliamento continuativo.
Ed ora fissiamo un paletto: tale attività esplorativa non costituisce delitto, il codice penale
non lo prevede, pertanto ogni cittadino è libero di compiere ricerche archeologiche
subacquee. In caso di regolare ritrovamento spetta fino ad un quarto del valore dei
reperti, però quando si dimostra che il subacqueo opera con la precisa intenzione di
ricerca, a meno che non vi sia una preventiva autorizzazione della Soprintendenza, non
scatta alcun diritto che matura solo in caso di "scoperta fortuita" (art.48).
Cioè se il villico zappettatore, mentre intende piantare un alberello, ritrova un reperto,
in questo caso matura il diritto. La cultura, la sensibilità archeologica, la febbre di
ricerca come forma di contributo alla società sono aspetti penalizzanti. Quindi è
impossibile creare associazionismo con scopo di ricerca.
Questa legge fu promulgata quando ancora gli autorespiratori non esistevano e non
esistevano gli 80.000 di oggi, la maggior parte diplomati, laureati, e comunque con un
livello culturale diverso dalle percentuali dell'anteguerra.
Stando cosi' le cose, l'intero patrimonio archeologico subacqueo è alla mercè di chiunque,
mentre i ritrovamenti ufficiali avvengono dopo intense attività clandestine. Pertanto
occorre creare l'Albo dei Ricercatori, facendo entrare anche a solo titolo onorifico nelle
strutture del Ministero dei Beni Culturali gran parte dei subacquei, che a loro volta
saranno i migliori gelosi controllori delle nostre coste, così le Istituzioni avranno
finalmente un quadro dettagliato di quanto avviene sotto i mari italiani. Le
soprintendenze organizzeranno annualmente un simposio aperto a tutti i subacquei che
avranno modo di confrontarsi, ed ai ritrovatori più assidui dovranno essere attribuiti
encomi ufficiali, e per le scoperte di prestigio mondiale dovrà essere conferita allo
scopritore un'onorificenza da parte del Capo dello Stato e tale prospettiva conterà più
dello stesso premio in denaro previsto dalla legge.
Per far nascere la "Legge sull'Archeologia Subacquea" non occorrerà modificare o
abrogare la 1089 che può essere tutt'ora valida per i ritrovamenti terrestri, così come
volle lo spirito del legislatore. Ma si nutrono scarse speranze per assistere, entro pochi
anni, alla sistemazione di tale materia che sembra non interessare nessuno. Non interessa
ai funzionari delle soprintendenze, studiosi compresi, non interessa a nessuna forza
politica, non interessa ai subacquei ed ai titolari di Diving (1) che avrebbero nuovi
impulsi alla propria attività, non interessa a quei circoli culturali vicini alle attività
museali, tra i cui soci il più delle volte si annoverano fior d'avvocati che dovrebbero
percepire al volo tali dannose incongruenze.
Questa situazione di stallo sembra accontentare tutti, poi quando vien fuori il saccheggio
di un relitto, si grida allo scandalo e si creano polveroni utili all'una o all'altra fazione.
Dopo tanti decenni poco è cambiato. E' nato lo STAS, è vero, ma sostanzialmente è tutto
come prima. L'archeologia subacquea italiana del 2000 è in mano ad una cerchia
ristretta, direi una casta impenetrabile per chi non abbia almeno la laurea in archeologia
che da sola non fornisce quelle cognizioni necessarie all'archeologia subacquea.
Purtroppo fanno testo ancor oggi le convinzioni del Prof.Nino Lamboglia e dei francesi
Ripoll e Benoit, che nel corso del Congresso di Albenga del 1958, così rispondevano al
collega spagnolo Vidal che riteneva utile inquadrare l'attività dei subacquei volontari per
la formazione della carta archeologica sottomarina del Mediterraneo:
"....Ma lasciamo che lo Stato e l'interesse nazionale prevalgano, specialmente in questa
materia, sul diritto individuale: formalmente non può che essere così. Sono già tante le
infrazioni e le concessioni che dobbiamo fare agli "exploits" individuali e sportivi,
che ammetterli a priori sarebbe aprire la via a tutte le trasgressioni possibili e
immaginabili; significherebbe non frenare, ma al contrario aprire tutte le strade agli
esploratori clandestini....... Non intendo assolutamente creare nessun contrasto o far
questione di superiorità o inferiorità scientifica fra gli archeologi e i sommozzatori. Ma è
vero che il problema fondamentale dell'archeologia sottomarina è anzitutto scientifico;
ora la funzione di chi scopre e di chi rileva un relitto è una, la funzione di chi lo scava è
un'altra, la funzione di chi lo pubblica può essere ancora un'altra.
Stabilire un diritto assoluto di prelazione per il sommozzatore che ha scoperto un relitto
significherebbe frustarne lo scavo e la pubblicazione in sede scientifica. Può esistere il
caso fortunato di un sommozzatore che sia anche archeologo, capace di studiare e
pubblicare lui interamente lo scavo ed esaurirne i problemi; ma è un caso eccezionale.
La regola è che una serie di persone di buona volontà, assai digiune di archeologia,
scoprono ed indicano dei relitti alla Soprintendenza; la quale deve preoccuparsi, prima
di ogni altra cosa, che la scienza, che è cosa duratura, non sia abbassata al livello dello
sport, che è vita contingente. E' lo stesso scopo per cui esiste la Soprintendenza, per cui
essa dipende dal Ministero della Pubblica Istruzione (2) e non da quello del Turismo.
La Soprintendenza deve anzitutto difendere i diritti scientifici di fronte ai diritti
contingenti.
Quindi stendiamo un pietoso velo di silenzio sulla vendita e sull'emigrazione degli
oggetti recuperati in mare e lasciamo che le Soprintendenze e gli Istituti scientifici
stabiliscano chi e come deve pubblicarli e conservarne la documentazione ai
posteri."
Prof. RIPOLL: "Il y a dans toute recherche scientifique la régle de la "prise de date" à
la fin de chaque recherche. Mais ces prises de date sont faites en général par des petits
amateurs qui font du sport et qui n'arrivent jamais à faire bien la fouille, ils arriveront
encore moins à faire bien la publication. Je suis d'accord que la publication doit étre
prise en charge par les archèologues"
Prof. BENOIT: "Il y a une prise de date à laquelle correspond le droit d'invention. La
prise de date en France est marquée par le signalement de l'épave à l'Inscription
Maritime, qui est juridiquement la seule capable de la faire, et la Direction des
Antiquitès. Il y a una prise de date nècessaire parce que si un autre plongeur va y tomber
dessus, il dira: "Je l'ai decouverte": c'est donc le droit d'invention. La prise de date
scientifique, comme on fait dans les revues archéologues, est une chose bien différente".
Questo il parere dei più importanti accademici che hanno deciso il destino di quasi tutto
il patrimonio archeologico del Mediterraneo, non consentendo alcuna apertura verso la
massa dei subacquei che hanno solo il dovere di compiere segnalazioni alle
soprintendenze, senza toccare i reperti ritrovati. Forse riceveranno un pò di denaro come
premio. Fine del rapporto. Il saccheggio continua !
Però mi è necessario ammettere l'indubbio valore degli accademici soprattutto del Prof.
Lamboglia, tra l'altro grande organizzatore, che come i suoi colleghi ha espresso un suo
convincimento. Convinzione che ha pesato come un macigno sui destini di chissà quante
opere d'arte trafugate. Gli accademici agivano in nome della scienza, o meglio in nome
dello studio delle antiche navi, che per noi, uomini di mare, costituisce quanto di più
appassionante si possa immaginare, e che ha completamente abbagliato quel gruppo di
persone che di fatto gestivano l'archeologia subacquea ufficiale. Abbagli che non
consentivano di valutare le dimensioni dei trafugamenti.
Quindi, se da una parte è necessario bloccare un recupero per consentire la mappatura di
ogni reperto e trarre indicazioni sulla grandezza della nave e sullo sviluppo dell'arte
marinara del periodo, dall'altra è opportuno valutare i pericoli di trafugamento, non solo
delle anfore, ma anche di tutto ciò che in genere si nasconde sotto le anfore : le opere
d'arte.
E non si tratta solo di esposizione nei Musei, ma di scienza, di....STUDIO dei reperti,
ma a condizione che questi siano comunque disponibili. Quindi, alla prima segnalazione
consiglio di recuperare in fretta quanto i clandestini non hanno ancora prelevato,
rinunziando in certi casi alle prospezioni subacquee, fino alla promulgazione di una nuova
legge talmente idonea da far nascere una mentalità nuova in tutti i subacquei.
Ma non sempre l'attività clandestina ha reso vana la possibilità di assegnare un'opera
d'arte all' ammirazione del mondo.
Infatti, il 10 gennaio 1993 veniva restituita dalla Svizzera all'Italia una testa bronzea
che dalle prime fotografie sui giornali sembrava essere quella intravista nel Relitto di
Porticello. Aveva una frattura tra il naso e l'occhio e successivamente i rilievi chimici
confermarono le stesse incrostazioni degli altri reperti di Porticello.
La restituzione formale al Ministero dei Beni Culturali, avveniva in Roma da parte
dell'ambasciatore svizzero, ed in seguito, nel corso della conferenza di presentazione
avvenuta il 7 febbraio 1993, il direttore del Museo di Basilea confermava che il reperto
era stato donato dall'associazione "Amici del Museo d'Arte Antica" che in precedenza
l'aveva acquistato in Italia. Era la prima volta che la Svizzera restituiva un'opera d'arte,
e ciò confermava il miglioramento delle relazioni sia con l'Italia che con la Grecia
che per prima aveva sollevato il problema creato dai musei che senza eccessivi
scrupoli fanno incetta di opere trafugate. Il reperto così restituito subiva le necessarie
cure da parte del qualificato Centro di Restauro di Roma, e successivamente veniva
esposto a Venezia nel corso della Mostra "I Greci e l'Occidente" del 1996, a fianco,
finalmente dopo 27 anni di separazione, della Testa del Filosofo.
Infine, nell'estate del 1997 la Testa di Basilea ribattezzata "Porticello B", raggiunge la
sua definitiva collocazione nel Museo Nazionale di Reggio Calabria, di nuovo a fianco e
per sempre alla "Testa del Filosofo".
N O T E:
1) Diving: stazione di noleggio e ricarica bombole. Punto d'incontro dei subacquei.
Scuole per subacquei.
2)
Nel 1958 era il Ministero della Pubblica Istruzione a sovrintendere l'archeologia.
BIBLIOGRAFIA
1969 Indro Montanelli
1970 G.FOTI
1971 D.I.OWEN
1974 G.F.BASS
Storia di Roma \ Rizzoli
Klearchos
Archeosub nello Stretto di Messina
Archeologia Sub -Mursia
1979 C.J. EISEMA The Porticello Shipwreck/University of
Pennsylvania
1980 P.GIANFROTTA/DOMEY Archeologia Subacquea
1981 C. SABBIONE
Dal mare il terzo bronzo di Reggio
-Atlante/De Agostini
1983 A.M.ARDOVINO
Il Relitto di Porticello ed il cosi'
detto "Filosofo"/Istituto di Archeologia dell'Università_ di Perugia
1984 E.PARIBENI Le statue bronzee di Porticello
1984 M. CAVALIER
1986 Gin Racheli
Il Museo eoliano di Lipari/Ragusi
Eolie di Vento e di Fuoco / Mursia
1987 P.E.ARIAS Storia della Calabria Antica/Gangemi
Salvatore Calderone"Sorgenti perenni della nostra cultura"
Gazzetta del Sud 29/9/96.
Congresso di Albenga 1958
Atti
Congresso di Barcellona 1961 Atti
Congresso di Nizza 1970
Atti
SOMMARIO
Premessa
Introduzione
6
Capitolo I
L'isola africana
7 - 12
Capitolo II
Le Isole Eolie
13 - 24
Capitolo III Tra Scilla e Cariddi 25 - 34
Capitolo IV La scoperta del relitto 35 - 45
Capitolo V
I Bronzi di Riace
46 - 57
Capitolo VI Le teste in bronzo 58 - 69
Capitolo VII L'ultima navigazione 70 - 78
Capitolo VIIIL'Ancora della nave greca.Campagna di scavo settembre 1997
Appendice
90 - 114
Giuseppe Mavilla
Nato a Reggio Calabria il 18 marzo 1940.
Dipendente della Marine Geophisical Italy collabora all'installazione di stazioni
correntometriche d'alta profondità e ne cura la manutenzione ed il prelievo periodico dei
dati, nel corso della realizzazione del Porto di Gioia Tauro.
Esperto navigatore, partecipa ad alcune regate d'alto mare in solitario, e si classifica al
4° posto nella TRASMED dell'86 sul percorso Marsiglia-Napoli-Barcellona.
Per conto della RAI realizza una serie in 12 puntate "Veleggiando sotto costa" andate in
onda su RAI 3 nella primavera del 1990.
Nel 1969 recupera e consegna alla Soprintendenza Archeologica, la mirabile "Testa del
Filosofo " e numerosi altri reperti, che uniti ai suoi precedenti ritrovamenti, colmano la
Sala Nautica del Museo di Reggio Calabria.
Nel 1993 gli viene assegnato il "Pericle d'oro" per l'archeologia subacquea.
Nel 2005 fonda la SEVENSTAR CHARTER sas
Un veliero attraversa il Mediterraneo nei tratti di mare che avevano impaurito gli antichi
navigatori. In immersione sveleremo i misteri dell'archeologia subacquea, e come gli antichi,
attraverseremo lo Stretto di Messina a bordo di un holkas.....verso Scilla e Cariddi.
Stampato nel febbraio 2000