Yves Klein: L`atto di creazione del Vuoto

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Yves Klein: L`atto di creazione del Vuoto
Yves Klein (Nizza, 28 aprile 1928 – Parigi, 6 giugno 1962)
I. Il Problema della Rappresentazione: l'Immagine e il
Colore
Yves Klein:
L'atto di creazione
del Vuoto
«Mi meravigliava d'altra parte, perché sempre più, davanti
a qualsiasi quadro,figurativo o no, provavo la sensazione
che le linee e tutte le loro conseguenze, contorni, forme,
prospettiva, composizione, costituissero per l'appunto le
sbarre di una finestra di prigione. In lontananza, nel colore,
la vita, la libertà e io davanti al quadro, mi sentivo in
prigione. Ed è, penso, a causa di questa stessa sensazione
di imprigionamento che Van Gogh ha esclamato: “Vorrei
essere liberato da non so quale orribile gabbia!”. E più
tardi: “Il pittore del futuro sarà un colorista come non se
ne sono mai ancora visti”. Ciò accadrà una generazione più
tardi. Ho fatto dunque a poco a poco la conoscenza
dell'immateriale attraverso il colore». Così si esprime Yves
Klein durante la conferenza da lui tenuta a Parigi, alla
Sorbona, il 3 giugno 1959, con una manciata di parole che
rappresentano il manifesto dell'inizio folgorante della
propria rivoluzione artistica. Nel giugno del cinquantanove
Klein è già un artista affermato e completo e, invitato da
Iris Clert a tenere un discorso alla Sorbona, egli si impegna
a ripercorrere le tappe fondamentali della propria crescita
artistica, la genesi della sua arte e i suoi intenti passati,
presenti e futuri. Nelle parole precedentemente citate
l'artista francese parla delle motivazioni profonde che
l'hanno spinto verso una nuova idea di arte, che hanno
mosso il suo animo verso la ricerca di un cambiamento:
Yves è ribelle, come lo era lo stesso Vincent Van Gogh, e
non può far altro che sentirsi imprigionato, in un'arte e una
società carcerarie. Un'arte che insiste su forme, linee,
demarcazioni, territorialità fisse e inscalfibili. Seguendo
una prolifica generazione di artisti egli afferma l'effettiva
predominanza del colore. Il problema del colore e della sua
prevalenza è certamente una questione di capitale
importanza, che segna profondamente la storia dell'arte:
non è, o almeno sembra, possibile creare senza usare il
colore. Esso è abitante dello spazio e strumento necessario
del pittore, che si trova costretto a conviverci, in un
rapporto di amore e odio. Il colore è tiranno: rappresenta
per il pittore l'unica possibilità per rappresentare e allo
stesso tempo si interpone come un ostacolo tra l'artista e la
propria idea. Prendendo per vera e assodata l'estetica di
Benedetto Croce, nel XXI secolo non si può non
ammettere il reale rapporto necessario tra forma e
contenuto: l'arte è intuizione-espressione, due facce della
stessa medaglia che coesistono e non possono sussistere da
sole. “L'arte non è aggiunta di una forma ad un contenuto
ma espressione, che non vuol dire comunicare,
estrinsecare, ma è un fatto spirituale, interiore come l'atto
inscindibile da questa che è l'intuizione.”. Risulta dunque
evidente come il Colore di un'opera esista già nell'idea,
nell'intuizione, dell'opera, in quanto parte fondamentale
della rappresentazione. La dicotomia tra forma e contenuto
è un'illusione, il colore e la sua stesura sono già di per sé
un contenuto: se la forma è una infinita indefinizione di
blu, il contenuto sarà effettivamente l'infinito indefinito,
arte senza più linee. Ma partiamo da più distante, perché
attendere fino agli anni cinquanta del Novecento per un
concetto tanto semplice? Vale la pena soffermarsi ad
osservare la tappe fondamentali che hanno portato alla
nascita della rivoluzione kleiniana: la nascita del nuovo
concetto di colore. Durante uno dei suoi viaggi in Italia
Yves si trova a visitare ad Assisi la basilica di San
Francesco e rimane estasiato dal blu degli affreschi di
Giotto (Klein stesso ammette di non conoscere se
effettivamente essi siano opera di Giotto stesso o di
qualcuno dei suoi allievi, anche se lo stile è
inconfondibile). Così blu, così monocromi, così eterni, egli
osserva in essi una intenzione autenticamente monocroma,
seppur probabilmente inconsapevole. Per arrivare invece a
una delle principali fonti di ispirazione di Klein dobbiamo
compiere un salto di circa cinquecento anni, giungendo ad
Eugene Delacroix, definito dal pittore nizzardo “il
campione del colore”. Klein pone Delacroix come
iniziatore della pittura lirica contemporanea e la lettura del
diario del pittore romantico segnerà tutta la sua carriera,
influenzando ad esempio la nascita dell'arte-azione
immateriale, idea artistica che si fonda sulla volontà di
poter lasciare un segno di momenti di vita vissuta come
espressione della vita artistica dell'artista, che è
innanzitutto performance. Facendo un passo indietro,
prima di giungere all'arte contemporanea, è fondamentale
ricordare l'importanza di un pittore visionario, che pose il
colore a fondamento della propria espressione, ovvero El
Greco. Egli di fatto fu precursore della rivoluzione
concettuale impressionista, con l'affermazione della
supremazia del colore rispetto all'immagine. Parlando di
ventesimo secolo sono due i principali autori, citati anche
da Klein a più riprese, ad aver affrontato il problema del
rapporto tra forma e organizzazione del colore. Se Piet
Mondrian si è maggiormente concentrato nella
schematizzazione del colore e dello spazio, ordinato
secondo linee ordinate, seppur dopo aver attraversato una
prima fase pittorica da colorista puro e ribelle, il vero
innovativo precursore di Yves Klein è Kazimir Severinovič
Malevič. Il pittore russo ha condotto l'arte contemporanea
all'esasperazione della forma, incarnando magistralmente
la crisi del post-moderno, creando figure costituite soltanto
da puro colore perse nello spazio della tela. Non ancora un
colore che si appropria di tutto ma in ogni caso
l'affermazione coraggiosa del colore sull'immagine. L'arte
di Malevič è ben distante, seppur non graficamente, al
concetto kleiniano di dematerializzazione dell'arte, il
problema sono gli oggetti che rimangono persistenti sulla
tela. La rivoluzione non era ancora stata elaborata,
nonostante colore e non colore dominassero la tela: il
problema fondamentale è che nelle composizioni
suprematiste il colore è oggetto della rappresentazione e
non protagonista totale che si fonde col suo autore in modo
idealistico e completo. Nonostante le apparenze Malevič e
Klein sono due artisti concettualmente distanti, anche se
risultano comunque estremamente centrate ed efficaci le
parole della gallerista Iris Clert: “Se Kazimir Malevič si è
spinto fino all'esasperazione della forma, Yves Klein, lui, si
è spinto fino all'esasperazione del colore e persino più in là
ancora, sino all'immaterializzazione del quadro”. Pittore
che, con la sua opera, si avvicina molto al problema in cui
era incappato l'artista russo, è il surrealista Joan Mirò.
Analizzando nel particolare i suoi dipinti Bleu I, Bleu II e
Bleu III (di cui è importante notare la caratteristica blu del
titolo e degli sfondi dei quadri) emerge chiaro e definito
nuovamente
il
problema
dell'oggetto
della
rappresentazione, dell'impossibilità di rappresentare
un'immagine senza un'immagine tangibile di qualche tipo.
In Bleu III (1961) la libertà dell'allucinazione inventa un
sistema di segni: l'oggetto, il segno, è ridotto al minimo
possibile, una linea e due punti posti contro la potenza
immanente di un blu indefinito. Nonostante questa opera
sia posteriore ai monocromi di Klein, Mirò rimane e torna
all'astrattismo, come lo stesso Malevič precedentemente
trattato, portando la sua arte su un piano antico e classico
di rappresentazione materiale. La materia ha ancora potere
e i segni sono gli ambasciatori dei significati. È
emblematica l'espressione di Mirò “l'inizio è immediato, è
la materia a decidere” ed è incredibile quanto l'artista
spagnolo sia giunto così vicino all'artista di Nizza ma
rimanga così distante concettualmente. Paradossalmente, le
loro rimangono due arti inconciliabili. Lasciando a Klein
l'ultima parola su questa diatriba, egli è inequivocabile:
«Sono il pittore dello spazio. Non sono un astrattista, ma
un realista. Per dipingere lo spazio ho il dovere di recarmi
sul posto, nello spazio stesso», il contrario
dell'allucinazione di Mirò, dunque.
Giungiamo quindi all'ultimo pittore di questa rassegna, una
mente geniale che si divincola da ogni contestualizzazione
cronologica, ovvero il già precedentemente citato Vincent
Willem van Gogh. Per il pittore olandese non aveva
importanza la materia, la causa fondamentale di tutto
doveva essere il delirio, la ribellione, l'idea e la turbolenza.
Il colore prende potere e i segni, i simboli, contano poco. È
inevitabile poi, parlando di van Gogh, citare Antonin
Artaud, personalità straordinaria che trasformerà il
Novecento culturale, grande estimatore dell'artista. Sono
tratte proprio dal saggio di Artaud a lui dedicato, “Van
Gogh, il suicidato dalla società”, queste riflessioni ricche di
significato: “La pittura lineare pura mi rendeva pazzo da
molto tempo quando ho incontrato van Gogh che
dipingeva, non linee o forme, ma cose della natura inerte
come in piene convulsioni” - “Non c'è carestia, o epidemia,
o esplosione vulcanica, o terremoto, o guerra, che rovesci
le monadi dell'aria, che torca il collo alla figura torva di
fama fatum, il destino nevrotico delle cose, quanto un
dipinto di van Gogh”. Si ritrova nell'artista olandese una
fusione tra artista, vita e quadro che difficilmente è
riscontrabile nella storia dell'arte. Una cosa è
fondamentale: l'arte non è comunicazione, linguaggio. Lo
dicono chiaramente Artaud, Croce (nella frase prima citata)
e lo stesso Klein. L'arte è ribellione, atto di resistenza alla
mortalità, gesto di sfida, rappresentazione della natura
esterna e interna al soggetto dipingente, che si fonde con
l'oggetto dipinto. “È un fatto spirituale”. Nei modi e nel
genio è impossibile non riscontrare molte analogie tra van
Gogh e Klein. Ed è proprio all'artista francese che siamo
finalmente arrivati. Le caratteristiche della sua arte, di cui
abbiamo già ampiamente parlato, sono appunto la
liberazione dalla prigionia e il raggiungimento dell'assoluto
immateriale. Yves racconta «quando ero ragazzo feci un
sogno ad occhi aperti in cui firmavo il confine della volta
celeste. Quel giorno iniziai ad odiare gli uccelli che
volavano nel cielo perché cercavano di bucare la mia opera
più importante e più bella. L'evento segnò l'inizio della mia
carriera come pittore». È immediatamente chiaro il dialogo
a distanza che si trova qui a tessersi tra Klein, Marcel
Duchamp e Piero Manzoni: l'artista che firmando crea
l'opera d'arte. È la genesi di una carriera visionaria.
Firmare la volta celeste non è solo il simbolo
dell'appropriazione della natura, della fusione tra natura e
artista, ma è soprattutto l'atto d'amore verso il blu. “Il
materialismo è nemico della libertà”. Klein dipingerà
monocromi per anni, cercando nella stesura del colore
totale una risposta alla sua ricerca di indefinibile, e
giungerà finalmente solo nel 1956 a creare "la più perfetta
espressione del blu", a creare il suo colore, il suo blu.
L'International Klein Blue. Klein è esso stesso il suo blu.
Nel 1957 è appena entrato nella sua epoca blu ed espone
nella galleria di Iris Clert: soltanto monocromi di colore
blu. Ma perché proprio tale colore? Per Klein il blu è
l'unione tra cielo e mare, “quanto c'è di più astratto nella
natura tangibile e visibile” - “Nello spazio dell'aria blu
sentiamo che il mondo è permeabile alla fantasticheria più
indeterminata”. Egli trae grande ispirazione dalla lettura di
Gaston Bachelard e ama citarne una frase: “Prima, non c'è
nulla, poi c'è un nulla profondo, poi una profondità blu”.
La tela, conquistata dal suo colore, non offre un punto fisso
in cui guardare e lo spettatore si trova dinanzi ad essa
spaesato e avvolto. Avvolto da cosa? Dalla profondità
dell'immateriale. Yves Klein si rende conto però di non
potersi fermare al monocromo, lui vuole raggiungere
l'immateriale totale, il vuoto: vuole crearlo. D'altronde,
come creare qualcosa di immateriale con il materiale
colore? Procedere con un atto simile è creare un blu che
rappresenti l'immateriale, non raggiungere il vuoto. Il
problema della rappresentazione è proprio questo:
rappresentare non è creare-raggiungere uno stato, il vuoto,
nell'obiettivo di Klein, ma è dare vita ad una immagine. Il
merito dell'artista francese è certamente quello di aver dato
pieno potere al colore ed aver dimostrato come sia
possibile creare immagine, rappresentazione, arte, senza
l'uso della linea. L'esasperazione del colore continua
comunque a creare un'opera d'arte, e in quanto arte la sua
condizione necessaria è quella di esistere, e dunque esistere
nella materia, proprio perché non esiste opera artistica allo
stadio dell'inespresso. Dipingere una tela di un unico
ipnotico blu costringe l'artista a fare i conti con la materia e
con i problemi dell'espressione artistica. Diventa quasi
ridicola la critica di chi sostiene che quella di Klein non sia
arte: è proprio il fatto che sia ancora arte, perlomeno arte
classica, a rendere complicato e apparentemente
irraggiungibile l'arduo obiettivo del pittore di liberarsi della
materia. Anche Klein stesso è cosciente dei propri limiti,
necessita di una trasformazione, e annuncia la sua
rivoluzione: «Lo schermo tangibile del blu sulla tela
impedisce la visione dell'orizzonte». Occorre raggiungere
l'atto, oltre la mera rappresentazione, una sfida mai tentata
prima. Creare da zero un nuovo orizzonte, più immateriale,
più intangibile, più vuoto.
II. Creare il Vuoto? Una sfida tra Artista, Arte e Materia
Yves Klein, nel mezzo del suo cammino artistico, cominciò
ad amare l'idea. L'idea su tutto, che sovrastasse anche il
concreto. Ma in quanto idea essa necessitava di
un'espressione, nonostante fosse la fantasia di uno spazio
vuoto. C'era bisogno di creare l'ambiente nel quale l'opera
si sarebbe trovata. Una sfida paradossale, di nuovo:
rappresentare la non materia attraverso la materia, ma ora
con un nuovo alleato, lo spazio. Nell'aprile del 1958, a
Parigi, sempre nella galleria Iris Clert, si tenne quella che è
probabilmente la sua più celebre e affermata mostra:
“Epoca Pneumatica, la sensibilità pittorica immateriale allo
stato materia prima”, meglio conosciuta come “Le Vide”
(Il Vuoto). Klein prese in prestito un'intera galleria d'arte e
in qualche giorno la dipinse semplicemente di bianco. Ogni
oggetto fu rimosso, e al posto della galleria che esisteva
precedentemente ora si trovava semplicemente un bianco
eterno e impalpabile. Il Bianco e lo Spazio governavano da
soli, e l'uomo si perdeva, camminando all'interno dell'opera
d'arte. Ma quale opera d'arte di preciso? Le pareti? La
stanza? No, al contrario, l'opera stessa era lo spazio creato
dal vuoto che si trovava nella stanza. Klein aveva pensato
al Vuoto e l'aveva creato nella materia, almeno in linea
teorica. La mostra lasciò gli spettatori sgomenti, entusiasti,
frustrati e muti. Certamente l'artista aveva raggiunto
l'obiettivo di dare forma ad una idea astratta, ma si era
realmente liberato dalla prigione della rappresentazione? Il
Vuoto, l'immateriale, hanno la peculiare caratteristica di
non esistere nel mondo e la loro presenza è possibile solo
con lo sforzo dell'immaginazione umana. Ma
l'immaginazione basta a dare vita reale a ciò che sarebbe
altrimenti irreale?Le risposte sono con tutta probabilità
irraggiungibili, ma la domanda fondamentale da porci è
però: l'arte crea mondo o rappresentazione del mondo?
Perché se l'arte creasse mondo allora il vuoto sarebbe
possibile. Se considerassimo l'arte come la rivalsa
dell'uomo su Dio, la sua possibilità unica di dare forma ai
propri sentimenti in un atto di creazione che esterna, allora
anche l'espressione artistica del vuoto potrebbe essere una
porzione di spazio che potrebbe essere chiamata
autenticamente Vuoto. Occorre solo, per spettatore e
artista, accettare l'assurdo dell'arte, e accettare che l'assurdo
fa parte della vita. Applicare dunque la sospensione
dell'incredulità alla materia stessa, un problema grande
quanto l'accettare la non esistenza del soggetto. E allora
Klein diverrebbe il primo uomo nello spazio, lo spazio
autentico: lo Spazio creato intenzionalmente, per essere un
vuoto immateriale. D'altro canto non possiamo, in qualità
di uomini razionali e materiali, evitare di riflettere a come
sia contraddittorio dare vita ad un vuoto partendo da una
stanza materiale e del palpabile colore bianco. Ritorna in
Le Vide, mostra e al tempo stesso opera d'arte
tridimensionale, il medesimo problema inestricabile che ci
siamo posti interrogandoci sull'esito finale dei dipinti
monocromi. Proviamo però di nuovo ad immedesimarci
nell'artista, e nello spettatore che si trova dinanzi ad una
esposizione che mette in scena una stanza dai confini
cancellati e confusi e null'altro, insomma a sospendere
l'incredulità. Riconosciamone i pregi: d'altronde Klein nei
termini che utilizza per descrivere ciò che fa è
estremamente coerente e tanto preciso da creare una
tautologia artistica praticamente inattaccabile. L'artista
aveva previsto le critiche che gli si sarebbero potute
muovere e si era armato contro il disprezzo attraverso i
discorsi e le parole proprie dell'uomo di genio che conosce
pienamente ciò che sta compiendo. Klein parla di
immaginazione e di sensibilità, poco gli importa il fatto che
creare il vuoto sia un atto di creazione di un artificio
artistico ingannatore che illude lo spettatore. L'opera d'arte
per lui deve proseguire oltre queste inutili contraddizioni
formali. Se, come abbiamo detto prima, l'arte è forma e
contenuto, e i due termini sono inseparabili e si
influenzano l'un l'altro, allora il contenuto del vuoto deve
corrispondere necessariamente ad una forma inesistente,
immateriale. Ma di nuovo, se si guarda alla forma si vedrà
una stanza colorata di bianco, al di là del significato di tale
significante, e unendo forma e contenuto si otterrà
semplicemente una stanza bianca senza nulla al suo
interno, non il concetto astratto di vuoto. È sicuramente
vero che questo cinismo e una tale puntigliosità
nell'analizzare un'opera la svilisce e abbatte la magia, ma la
pretesa di Klein, l'ambizione di creare l'immateriale
dell'arte, è un progetto di importanza storica immensa e la
volontà di superare l'arte si scontra irrimediabilmente con
le tecniche e le forme dell'arte tradizionale. Occorre fare un
passo in più, cambiare il punto di vista. Ma prima di
trattare la fase successiva è doveroso soffermarsi a
sottolineare i meriti straordinari che vanno riconosciuti alla
mostra Le Vide.
Hans-Georg Gadamer critica la tendenza moderna a
scorgere nel fatto artistico una zona segregata e asettica
dello spirito. L'arte è strettamente connessa con la realtà
concreta della vita, è esperienza del mondo e nel mondo
che modifica radicalmente chi la fa. Esiste invece la
tendenza a sradicare l'opera dal suo contesto vitale
originario, separandola dal proprio retroterra, per fruirne il
puro valore estetico. Niente di più sbagliato dunque. E
l'esempio principe di tutto ciò è il museo, che strappa l'arte
e la ripone in un contesto atemporale, rendendola
eternamente ferma e contrastando il movimento che l'opera
d'arte richiede per la propria produzione e che si trova
insito in essa. Klein non si distacca mai completamente dal
mercato, non ha motivo di farlo del resto, ma comprende
profondamente tutto ciò, forse anche inconsapevolmente.
Sono sicuramente notevoli a questo proposito i suoi lavori
prodotti all'aria aperta con gli elementi della natura, che
fondono ancora di più arte e mondo, ma è proprio a questo
proposito che la mostra dell'aprile del '58 risulta innovativa
e visionaria. Klein prende una galleria d'arte e,
letteralmente, la smonta. Elimina gli oggetti, le pareti, il
concetto stesso di mostra. Abbatte il museo: lo spettatore
varca la soglia e si ritrova spaesato nell'opera d'arte, nulla
intorno a sé e nessuna figura da osservare sino al termine
dell'orizzonte del bianco profondo dei muri impalpabili.
L'arte è già lì, non necessita di essere osservata perché
l'osservatore ci si trova catapultato dentro, ed essendo
un'opera concettuale, che fa dell'idea il suo tutto essa è
costantemente
collegata
all'animo
dell'artista.
L'atemporalità stessa cessa di essere un problema con la
scomparsa del tempo dell'opera. Perché tutto questo conta
così tanto più del già ben geniale dipinto eseguito
utilizzando la caduta della pioggia sulla tela? Perché Klein
agisce al cuore dell'istituzione ed è la forma
istituzionalizzata dell'arte quella che fa più chiasso quando
viene infranta. Al di là delle critiche, “La sensibilità
pittorica immateriale allo stato materia prima” è prima di
tutto un atto di coraggio.
Passiamo ora oltre, per giungere al marzo del 1959, quando
Yves Klein avrà l'occasione di poter esporre alla mostra
collettiva “Vision in Motion / Motion in Vision”
organizzata da Pol Bury e André Balthazar all'Hessenhuis
di Anversa. Queste sono le parole che lui stesso utilizza per
raccontare tale esperienza, durante la sua conferenza alla
Sorbona di due mesi più tardi: «Al momento
dell'inaugurazione, nello spazio a me riservato, invece di
mettervi un quadro o un qualsiasi altro oggetto tangibile e
visibile, pronuncio ad alta voce davanti al pubblico queste
parole prese a prestito da Gaston Bachelard: “Prima, non
c'è nulla, poi c'è un nulla profondo, poi una profondità
blu”. L'organizzatore belga della mostra mi chiede allora
dove sia la mia opera. Rispondo: “Qui, qui dove sto
parlando in questo momento” […] “Vi sembrerà forse che
io stia tentando l'impossibile, che mi stia precipitando
verso qualcosa d'inumano”» e conclude trionfalmente:
«Avrei potuto fare dei gesti simbolici […] No! Quelle
poche parole che avevo pronunciato erano già troppe». Si
tratta di un'esibizione unica, arrogante e geniale. Klein
sottolinea il fatto che egli avrebbe potuto compiere un
gesto simbolico, come dipingere con un pennello asciutto
le pareti, ma tutto ciò non è necessario: era finalmente
giunto a qualcosa di nuovo e diverso dall'opera d'arte pura
e tradizionale. Costituire l'immateriale era possibile
soltanto compiendo un passo in più, osando andare oltre
non soltanto a linee e forme, ma agli stessi pennelli, alla
tela, alle pareti. L'opera che Klein espose quel giorno era il
semplice uso della parola. Il concetto espresso dall'artista,
che si trasforma in rivelatore in tempo reale della propria
espressione, contemporaneamente opera e artefice,
avvolgeva lo spettatore nel tempo di un istante. Le parole
fluiscono e danno vita al concetto, che viene recepito e
costruito
direttamente
nella
mente
dell'osservatore/ascoltatore; non c'è più bisogno del
simbolo tangibile, intagliato nella materia. Con questa
esibizione l'artista ha finalmente fatto il passo decisivo
verso il proprio fine. “Voglio superare l'arte – superare la
sensibilità – superare la vita – voglio raggiungere il vuoto”.
Ha compiuto l'atto di creazione di qualcosa mai visto
prima, che si interpone tra arte e vita, e che
paradossalmente sembra superare tutto ciò. È
probabilmente giunto all'atto più simile all'atto di creazione
del Vuoto che un uomo possa pensare. Proprio colui che
aveva auspicato «l'uomo abiterà lo spazio con la forza
terribile ma pacifica della sensibilità» è riuscito per primo,
almeno nell'arte, a superare anche l'antica sensibilità,
producendone una nuova. Ma, se come abbiamo affermato,
l'arte fa tutt'uno con la vita, dobbiamo ammettere che
effettivamente il vuoto è venuto ora a crearsi anche nella
realtà che ci circonda, evento intangibile ma esperibile
concettualmente. Perché il vuoto kleiniano non è il nulla,
ma un preciso stato immateriale. Il concetto fondamentale
a cui dobbiamo riferirci diventa l'immaginazione. Per Yves
“Immaginare è lanciarsi verso una nuova vita”: superare le
forme precedenti non è possibile se non rinunciando al
passato, lanciandosi e rinascendo. È come se l'artista stesso
ci dicesse, citando le prime pagine de “La Luna e i Falò” di
Cesare Pavese, che «Dove son nato non lo so» e poi
ancora, sembra andare oltre, sino ad affermare: «Muoio
ogni attimo e rinasco nuovo e senza ricordi, rinasco arte,
artista, nell'immateriale».
III. Senza Desiderio Nessuna Realtà: Yves Klein come
Autore nel Contesto del Pensiero Deleuziano
Il vuoto non è il nulla. Questo è un concetto fondamentale.
Più volte l'ha rimarcato lo stesso Klein, soprattutto
attraverso la citazione di Bachelard che già abbiamo
ripreso: “Prima, non c'è nulla, poi c'è un nulla profondo,
poi una profondità blu”. È determinante prendere atto della
differenza che notevole che si interpone tra il nulla e il
vuoto, in quanto il vuoto, come stato artistico, necessita di
essere creato, o perlomeno possiamo dire che richieda uno
stato nel quale sia possibile la sua rappresentazione. Non
rappresentazione allegorica ma, come appunto per Klein,
una rappresentazione totale e fedele, che proietti l'illusione
sensibile di trovarsi di fronte a dell'immateriale, al confine
dunque tra rappresentazione e creazione. Le domande
fondamentali da porsi a questo punto sono quindi due,
ovvero quale rapporto ci sia tra arte e atto di creazione e
quale rapporto ci sia tra creazione ed artista. Nel pensiero
del filosofo francese Gilles Deleuze, appartenente alla
corrente post-strutturalista, uno dei concetti cardine è
quello di desiderio. Per come è presentato il desiderio
nell'Anti-Edipo, tale elemento è completamente discostato
dal classico concetto freudiano di desiderio come
mancanza: movimento inconscio verso una casella vuota,
che sentiamo la necessità di riempire. Senza scendere
oltremodo nei dettagli, per Deleuze il desiderio è invece
una caratteristica assolutamente fondante e fondamentale
dell'essere umano, elemento propulsivo e sconfinante. Non
più una casella vuota da raggiungere ma la stessa casella
che si espande e produce mondo senza un deterministico
finalismo, razionale o irrazionale che sia. Tale nozione
deve però essere inquadrata nell'ambito post-strutturalista.
Prendendo a prestito da Michel Foucault la definizione di
struttura: “Dal momento in cui ci si è accorti che ogni
conoscenza umana, ogni esistenza umana, ogni vita umana,
e forse persino ogni ereditarietà biologica dell’uomo, è
persa all’interno di strutture, cioè all’interno di un insieme
formale di elementi obbedienti a relazioni che sono
descrivibili da chiunque, l’uomo cessa, per così dire, di
essere il soggetto di se stesso, di essere in pari tempo
soggetto e oggetto. Si scopre che quel che rende l'uomo
possibile è in fondo un insieme di strutture, strutture che
egli, certo, può pensare, può descrivere, ma di cui non è il
soggetto, la coscienza sovrana.”. Deleuze vuole però
andare oltre a tutto ciò: è chiaro che l'esistenza sia
influenzata dalla struttura in cui abita, ma la struttura stessa
deve essere messa in dubbio. Essa non è cancellata, ma alla
sua staticità viene opposta un'idea nuova di forze
vitalistiche che attraversano ogni cosa. Il concetto cardine
diventa la produzione, non in termini di produzione
soggettiva ma di forza impersonale e pulsionale (in senso
freudiano). Si va al di là della struttura proprio in quanto
l'universo è ora desoggettivato e attivato da differenze
libere, non vincolate. Il desiderio è in sostanza, per
Deleuze, una pulsione produttiva. Ma soprattutto il
desiderio è rivoluzionario. Esso collega l'individuo,
desoggettivato, al mondo e a ciò che produce nell'universo.
Quando l'individuo si trova poi, casualmente o volutamente
(e in questo caso è da sottolineare il fatto che Klein, come
Duchamp e Manzoni, pone la sua volontà in quanto artista
come condizione centrale per la produzione/trasformazione
artistica), a produrre un'opera d'arte, il collegamento che
avviene trai due è inscindibile: l'artista è all'interno
dell'opera, come era già stato ravvisato dall'ermeneutica,
ma in questo caso non in veste di rappresentatore che fa
cadere pezzi di sé stesso sulla tela ma in qualità di
macchina desiderante e produttrice che crea senza sosta
mondo intorno ad essa e si trova accidentalmente a
produrre anche arte. Chiarito ora il concetto deleuziano di
desiderio è possibile proseguire con ulteriori osservazioni.
Per Klein, come abbiamo visto nel capitolo II, fare arte è
immaginare e immaginare è lanciarsi. La ricerca
dell'immateriale di Yves Klein sembra superficialmente
minimale, ma nasconde una forza produttiva e dirompente
che è difficile non ricondurre al desiderio deleuziano.
Costruire monocromi di un blu profondo o dipingere di
bianco una galleria non sono una semplice stesura di
colore, ma la scelta di ripercorrere l'intera tradizione
artistica occidentale e di giungere alla soluzione che l'unico
modo per eliminare la crosta della materia dall'arte è quello
di rompere ogni linea, ogni forma, ogni prospettiva e
figura. In qualche modo, se la produzione artistica è frutto
di un desiderio estremamente produttivo e a-razionale,
utilizzare la forma d'arte per esprimere il proprio desiderio
e poi attraverso la stessa arte cercare, rompendo le regole,
di raggiungere uno stato immateriale, è tentare un viaggio a
ritroso per ritornare alla forma pura del desiderio. Per
Deleuze, l'arte è percetto, ovvero “in filosofia, il contenuto
dell'intuizione empirica, cioè l'oggetto della percezione
senza alcun riferimento alla cosa fisica da cui proviene lo
stimolo”. Le opere concettuali di Klein sono dunque
totalmente ascrivibili alla definizione di arte, ma
soprattutto anche l'immateriale della mostra “Epoca
Pneumatica, la sensibilità pittorica immateriale allo stato
materia prima” è una manifestazione artistica e in quanto
tale un prodotto della produzione desiderante. Il tentativo
di Klein, ben lungi dal dimostrarsi un fallimento, è
definibile come atto provocatorio di grande ambizione:
tornare al desiderio attraverso una manifestazione dello
stesso, rompendo gli schemi della natura e collegando arte
e desiderio attraverso il termine rivoluzione, caratteristica
comune ai due aspetti. È chiaro che osservando
cinicamente l'operazione compiuta dall'artista francese
sembra abbastanza evidente che ogni operazione possa
essere rimessa al motivo fondante del desiderio, in quanto
anche il tentativo di oltrepassare le barriere della materia
non può essere un reale ritorno all'origine dell'atto ed tale
tentativo è compiuto proprio seguendo il flusso del
desiderio stesso, ma la portata di una sfida simile lascia un
segno indelebile nell'arte, materia (ambito, in questo caso)
che del resto deve sapere anticipare e talvolta fregarsene
della filosofia, per non smarrire il proprio atteggiamento
rivoluzionario e rivoltoso. Perché del resto sono le
rivoluzioni artistiche le sole rivoluzioni a non fallire e a
portare in ogni caso, ad ogni costo, un cambiamento. E
positivo o negativo non esistono, quando si parla di
rivoluzione artistica e desiderio rivoluzionario. Yves Klein
aggredisce la tela e non ha paura di nascondere il proprio
desiderio: la smembra e vi lascia traccia del vuoto, il suo
vuoto, ciò che vuole manifestare. Gettarsi, come fa Klein
(quindi come autore/fautore), in opere di tale genere, è
paragonabile ad affrontare a viso aperto il processo schizo,
il viaggio iniziatico di perdita dell'Io. Per citare R.D.
Laing, come viene ripreso nell'Anti-Edipo da Deleuze:
“Ero in qualche modo giunto al presente a partire dalla
forma più primitiva della vita” - “Guardavo, no, piuttosto
sentivo davanti a me un viaggio spaventoso”. E ritorniamo
ora sul termine “rivoluzione”, che spesso ho utilizzato in
questo saggio. Credo che si possa affermare che il concetto
di rivoluzione sia uno degli aspetti maggiormente cruciali
dell'esistenza umana – insieme a quello di “atto di
resistenza”, di cui parleremo più avanti – dunque della vita
dell'umanità intera, di quella dell'uomo comune e
soprattutto di quella dell'artista. Deleuze nell'intervista
contenuta nel suo Abecedario dichiara: «Tutte le
rivoluzioni falliscono» e poi ancora «Che le rivoluzioni
falliscano, che finiscano male, non ha mai fermato la gente,
non ha mai impedito che la gente diventasse
rivoluzionaria». Una visione cruda e determinata, ma che
ammette il perseguire umano dell'idea di rivoluzione con
un tono tutt'altro che pessimistico: il divenire
rivoluzionario è una condizione umana che esiste da
sempre e fa parte del procedere sincronico della struttura;
si trova sullo stesso piano della vita e della morte. Abbiamo
ora parlato della rivoluzione a caratteri generali, ma
occorre fare una puntualizzazione: le rivoluzioni di cui
parla Deleuze nelle frasi sopra riportate sono quelle
compiute con le armi. Che le armi siano le parole, la non
violenza oppure la barbarie e i fucili non importa, perché le
rivoluzioni di società sono destinate a fallire in partenza.
Nessun sovvertimento di questo tipo è destinato a
mantenere i propri propositi, perché l'essere umano quando
si rapporta con gli altri, e fa dunque politica, è fallaceo per
natura. Ciò di cui non ho ancora trattato sono invece le
rivoluzioni artistiche, e sono proprio esse le uniche
rivoluzioni a poter non fallire, il modo privilegiato con il
quale lo spirito rivoluzionario riesce a manifestarsi
compiutamente. L'arte vede continuamente rivoluzioni,
lotte, artisti in collera con l'ambiente che li circonda
determinati a cambiare, rivoltare gli schemi, e che riescono
nel loro intento. Dopo ogni artista l'arte non è più la stessa
di prima. È evidente come i sistemi politici e le dittature
continuino a tornare periodicamente nella storia: una
rivolta antizarista diviene rivoluzione socialista e infine
ricade nella dittattura, una protesta pacifica che utilizza
l'arma della non-violenza come quella di Gandhi libera un
popolo da un oppressore esterno per poi lasciarlo in balia
di un tiranno interno ad esso, la religione, che continua
imperterrito il suo lavoro di oppressione. Non c'è un vero
progresso e il cambiamento è solo a breve termine,
immediato, e quando la ferocia rivoluzionaria è placata il
mondo continua nel suo sviluppo sincronico e sempre
uguale. Ciò non significa certamente che il cambiamento
sia impossibile, ma è importante sottolineare il destino
fallimentare della rivoluzione armata per evidenziare
invece la storia delle rivoluzioni artistiche. L'arte prosegue
imperterrita dalla nascita dell'uomo, sopravvive alle
rivoluzioni e non torna mai la stessa, nemmeno nei modi. Il
pensiero si modifica e trovandosi cambiato non riesce più a
pensare un mondo senza cambiamento, proprio perciò l'arte
sembra continuare ad evolversi in una sola direzione,
seppur con arresti e sporadici cammini all'indietro.
Specialmente in campo artistico però l'arte richiede la
presenza di grandi uomini, grandi artisti. Parlando, nei
precedenti capitoli, del cambiamento apportato da Klein, si
è detta una cosa fondamentale che occorre tenere a mente:
la rivoluzione si prepara. Non avviene mai da sola e non
accade mai senza motivo, seppur partorita dalla genialità o
da impulsi improvvisi. Questo perché la rivoluzione è un
processo in fieri, in costante divenire: ogni rivoluzione
prepara quella successiva e ogni artista dà un contributo
inestimabile, anche quelli minori. È ora molto chiaro
perché si sia parlato di Yves Klein come un individuo
rivoluzionario: non è abusare di un termine, ma riconoscere
oggettivamente la portata del suo operato. Egli è uno di
quei grandi nomi che hanno lasciato una traccia indelebile
nel percorso dell'arte. Potrebbe non aver creato davvero il
vuoto che voleva raggiungere, ma non ha mai in nessun
modo tradito le premesse e gli obiettivi della sua
rivoluzione, apportando una modifica concettuale alla
quale gli artisti dopo di lui dovranno guardare per poter
“proseguire”. È un fatto di potere, avere questa possibilità.
Tutto ciò l'aveva ben compreso Albert Camus, quando,
dopo aver visto la già citata mostra “Le Vide”, dove Klein
aveva dipinto di bianco e svuotato la galleria d'arte, ebbe a
dire la celebre frase profetica “Avec le vide, les pleins
pouvoirs” (trad. “Con il vuoto, pieni poteri”). Creare il
vuoto è una svolta epocale: in quel momento Yves Klein
teneva le redini delle sviluppo mondiale della dialettica
dell'arte, stava segnando un punto di svolta e stava
scegliendo personalmente che forma dare all'arte del
futuro, seppur parzialmente inconsciamente. Ritornando al
tema della "preparazione", Klein fa diventare la
preparazione stessa dell'opera, del colore, parte dell'opera,
in quanto parte fondamentale dell'idea e dell'atto di
creazione artistica. Il vuoto non è composto soltanto dal
quadro, appeso e fermo, o dall'esibizione "istantanea", ma
dalla preparazione stessa: la creazione del più perfetto blu,
il blu necessario alla creazione, e la preparazione alla
performance, dunque la vita stessa dell'artista.
Concetto chiave della filosofia dell'arte di Deleuze è poi
quello di arte come “atto di resistenza”. È infatti
impossibile parlare di Deleuze e di arte senza farvi
riferimento. L'idea alla base è chiara e inequivocabile, ed
era già stata propria di Croce e dello stesso Klein: l'arte
non comunica, ma costituisce una resistenza. Ciò non
annulla assolutamente la funzione sociale dell'arte, bensì
sposta semplicemente il punto di vista, spostando il
rapporto artista-opera-mondo. Klein spazia tra le arti, si
muove quando dipinge, porta la sua tela sotto la pioggia, la
sottopone allo spettacolo feroce del fuoco, alla nudità dei
corpi cosparsi di colore. E ancora: compone musica, recita,
getta oro nelle acque e progetta architettura immateriale.
La sua è una ricerca continua ed estenuante, che non può
terminare, in quanto la ricerca è la componente essenziale
del suo modo di fare arte. È forse proprio per questo che la
sua morte in giovane di età ci è di così alta ispirazione, lo
mitizza ai nostri occhi di comuni mortali e non artisti: la
ricerca forsennata dei pochi anni che ha vissuto si è
interrotta troppo presto, ma ci consegna l'illusione che la
vita di Klein potesse essere ancora lunga e straripante, mai
banale o terminata. Si può quasi dire paradossalmente che
la morte ha reso grande Klein, evitandogli il rischio di
venir accusato di banalità, ripetitività, caratteristiche che la
personalità del pittore francese avrebbe sicuramente mal
sopportato di ascoltare. Un destino simile ma opposto a
quello di un suo quasi contemporaneo: Jean-Michel
Basquiat, morto giovanissimo – 28 anni – ma che aveva
dovuto sorbirsi l'accusa di aver esaurito la sua creatività e
originalità. Uno smacco difficile da metabolizzare, per un
rivoluzionario come lui, un rivoluzionario molto vicino per
“aggressività” e pathos a Yves Klein. Proprio quest'ultimo
infatti, ha saputo con tenacia e coraggio perseverare nel
suo continuo percorso di mutamento. Ma perché cambiare
sempre? Perchè spostarsi e assumere forme diverse è il
modo migliore per poter resistere: farsi trovare
irriconoscibile davanti alla morte, che allora non sarà più
solamente annientamento, ma una gloria secolare. Deleuze
riassume chiaramente, in una conferenza del marzo 1987,
pubblicata nella raccolta “Che cos'è l'atto di creazione?”:
«L'opera d'arte non ha niente a che fare con la
comunicazione, non contiene la minima informazione, c'è
invece affinità tra l'opera d'arte e l'atto di resistenza. Essa
ha qualcosa a che fare con l'informazione e la
comunicazione in quanto atto di resistenza. […] Malraux
sviluppa un bel concetto filosofico, dice una cosa molto
semplice, dice che l'arte è la sola cosa che resiste alla
morte. […] Basta guardare una statuetta di tremila anni
avanti Cristo». Le opere di Klein creano rapporti di
potenzialità, di inespresso, di potenza, che raramente si
sono visti nella storia dell'arte: danno vita ad un atto di
resistenza che rimane di straordinaria ispirazione ancora
oggi. Non solo opere, le performance di Klein danno vita
ad un discorso artistico e filosofico che rimane ad aleggiare
nei musei, nelle gallerie, nelle università. Quale migliore
atto di resistenza di quello che si mantiene vivo anche nelle
parole oltre che nei fatti materiali?
Poste le basi dei rapporti reciproci tra desiderio,
rivoluzione e resistenza, si potrebbe fare un passo ulteriore
e domandarsi come possa reagire l'arte alla sopravvivenza,
quando essa raggiunge l'immateriale tanto auspicato da
Klein. Se l'arte è l'unica cosa che resiste alla morte ciò
significa che l'arte è immortale e questo porta con sé la
problematizzazione del discorso sul “supporto” sul quale
poggia/vive l'opera. Ovvero: l'arte è immortale quando è
solo atto? Su cosa si basa la sua sopravvivenza, se non è
presente un supporto fisico che può essere preservato? Tale
questione è in realtà ben più antica di Klein e affonda le
sue radici sulle forme di narrazioni letterarie tramandate a
voce. In questo caso però si parla di letteratura, non
dell'arte plastica/pittorica a cui allude Klein:
paradossalmente la letteratura, come forma d'arte, è nata
nell'immateriale, nell'esibizione orale, per poi trasferirsi
alla scrittura, mentre la pittura è nata per rappresentare il
reale, per resistere sulle pareti di roccia e dare un'immagine
universale di ciò che si aveva visto, e soltanto con Yves
Klein ha raggiunto l'immaterialità. Al di là del parallelo tra
le due forme artistiche, rimane chiaro come entrambe siano
parimenti arte e dunque siano sottoposte alle stesse regole.
Ebbene, il supporto in questo caso rimane la memoria. La
memoria è trasformata dall'arte in materia. Che ciò
avvenga all'inizio o al termine dell'evoluzione poco
importa. Dunque,
l'atto artistico che è appunto
immateriale, trova nella memoria e nel ricordo la propria
tela, che porta con sé gli stessi difetti della tela materiale:
anche la tela deperisce, si sbiadisce, come il ricordo si
perde con il corso del tempo. L'astratta performance è
immortale atto di resistenza quanto lo sono le pitture
rupestri.
Antonella Moscati, nella postfazione a “Che cos'è l'atto di
creazione?” scrive: « […] Soprattutto se con questo
termine (opere) si intende il risultato di una delle tre
attività fondamentali – lavoro, produrre, agire – di cui
secondo Hannah Arendt si compone la vita attiva degli
esseri umani. La Arendt fa rientrare esplicitamente l'opera
d'arte nel produrre come attività poietica: ovvero in quella
attività umana “in cui si manifesta la dimensione antinatura di un essere che dipende dalla natura”. In maniera
non molto diversa da Deleuze, la Arendt attribuisce
all'opera due caratteristiche fondamentali: avere
un'esistenza indipendente e separata da chi le ha prodotte e
poter durare anche oltre la vita di chi ne è l'autore. Ma il
paradosso è che questa sorta di resistenza alla morte
avviene nell'opera, cioè nell'artefatto o, meglio, nel
manufatto, di cui l'opera d'arte è solo un caso particolare,
non tanto per l'intervento umano, una coscienza o una
soggettività atemporale che si esteriorizza nei suoi prodotti,
quanto per la necessaria relazione che ha l'opera con il
materiale. È infatti al supporto materiale […] che l'opera
deve la sua capacità di permanere.». I punti da commentare
sono qui due: innanzitutto il concetto che l'opera d'arte
rientri nel produrre come attività poietica, nella quale si
manifesta la dimensione anti-natura dell'uomo (che pur vi è
legato, talvolta suo malgrado), e poi il problema della
persistenza dell'opera oltre la vita dell'autore. Grande ed
evidente esempio di performance art che si unisce alla
fotografia è il celebre “Salto nel Vuoto”, fotografia nella
quale Klein è immortalato nel mezzo di un volo plastico,
conseguente ad un salto dall'apice di un muro. L'essere
umano è qui catturato nel suo massimo atto di sfida verso
la natura: il pericolo sfidato a costo del dolore fisico, in
quanto scegliere di andare contro le leggi della natura,
raggiungere nuovi stadi dell'arte, rappresenta il prometeico
atto dell'uomo che deve obbedire alla natura ma è per sua
costruzione un ribelle, un contro-natura. Bisogna però
compiere un'importante scissione tra l'atto del salto e il
fotografo che immortala la scena. L'obiettivo dell'artista è
sicuramente rappresentare (ancora una volta scegliendo
un'arte diversa) fisicamente su pellicola il gesto dell'essere
umano che tenta di staccarsi definitivamente dalla terra per
raggiungere uno stato di vuoto e che lo raggiunge, nella
realtà momentaneamente ma, nella fotografia, in eterno.
Non bisogna però ignorare che la stessa performance
eseguita davanti alla macchina fotografica è essa stessa un
momento dell'atto di creazione artista, uno step così
diverso nelle proprie caratteristiche da poter quasi essere
diviso dalla fotografia. Ciò che voglio esprimere e che ho
già precedentemente sottolineato è proprio questo: non è
assolutamente un errore attribuire all'opera d'arte la
caratteristica di poter vivere dopo la vita dell'autore, ma è
un errore fondamentale considerare la memoria dell'istante
come un supporto non persistente. Le gesta leggendarie e
provocatorie di Klein, che egli non esitava a definire arte,
come del resto tutta la performance art e i lavori di Marina
Abramovic, tanto per citarne un autore, non possono essere
escluse dalla categoria di opere d'arte, proprio per la vita
che esse ancora possiedono nelle memorie degli uomini,
negli scritti che ne parlano e nei cambiamenti che hanno
ispirato. Dopotutto, è Benedetto Croce ad aprire il suo
breviario di estetica con la frase “l'arte è ciò che tutti sanno
che cosa sia”: il confine è sottile e in un mondo nel quale la
produzione originale è sempre più scoraggiata, a favore
della riproduzione macchinosa, non possiamo permetterci
un atteggiamento di spietato cinismo nei confronti di
qualche cosa che effettivamente crea rivoluzione e
resistenza.
IV. Il Popolo che Manca: Paul Klee e Martin Heidegger
Rifacendoci nuovamente ad un testo di Gilles Deleuze:
«Che rapporto c'è fra la lotta umana e l'opera d'arte? Il
rapporto più stretto e, secondo me, più misterioso. Proprio
ciò che Paul Klee intendeva dire quando diceva: “Sapete,
il popolo manca”. Il popolo manca e allo stesso tempo non
manca. Il popolo manca vuol dire che questa affinità
fondamentale tra l'opera d'arte e un popolo che non esiste
non è ancora chiara e non lo sarà mai. Non c'è opera d'arte
che non faccia appello ad un popolo che non esiste
ancora». Come definito appunto da Klee, e Deleuze stesso,
è presente uno strettissimo legame tra popolo, artista e
opere d'arte: l'atto di resistenza si mette necessariamente in
dialogo con l'essere umano, in quanto è l'uomo ad attribuire
il valore all'arte e l'uomo si struttura sempre nella forma di
un popolo. Il popolo manca perché l'arte è sempre un passo
avanti, l'artista è in qualche modo veggente sino dal
momento in cui l'arte pittorica ha cessato di essere mera
rappresentazione e ha cominciato a portare con sé
effettivamente l'espressione del proprio autore. È avvenuta,
con l'arte d'avanguardia, una svolta epocale nella storia: se
il popolo è sempre mancato, in un certo senso, ora si
venivano a creare le condizioni per un'azione di creazione
di popolo e di linguaggio, molto similmente a ciò che
Martin Heidegger diceva nei confronti della poesia. Il
popolo che non esiste ancora a cui fa riferimento la nuova
opera d'arte viene creato in concomitanza con l'atto di
creazione artistica. Il filosofo tedesco, grande esaltatore
della poesia e grande studioso delle opere di Hölderlin,
sosteneva infatti che “i poeti forniscono ad un popolo la
sua identità e istituiscono usanze e costumi” e dare identità
ad un popolo che precedentemente non ne aveva una
significa di fatto crearla, praticamente dal nulla. E ancora:
«La poesia è il linguaggio originario di un popolo. […] La
poesia è il fondamento che regge la storia». Dunque l'arte
non esprime un'epoca, ma la plasma: proprio ciò che ci
stanno dicendo Klee e Deleuze quando ci mettono davanti
al problema della mancanza del popolo. L'errore evidente e
principale di Heidegger fu però appunto, al di là delle
motivazioni di origine ideologica che mossero le sue
riflessioni e vanno considerate, quello di limitare il suo
pensiero alla poesia. Se infatti esso è un discorso quasi
totalmente veritiero nel momento in cui si osserva l'arte
antica, medievale e moderna, appena si approda a valutare
l'arte contemporanea e soprattutto le arti concettuali e le
avanguardie, è evidente come costantemente siano gli
artisti i principali fautori del progresso, coloro che
anticipano e influenzano il popolo. E ciò è ancor più vero
quando parliamo di Yves Klein. Fu proprio lui, nel Chelsea
Hotel Manifesto, a cantare con audacia il potere dell'uomo
e dell'arte: «La sensibilità dell'uomo è onnipotente sulla
realtà immateriale. La sua sensibilità può anche leggere
nella memoria della natura, che si tratti di passato, di
presente o di futuro! Questa è la nostra autentica capacità
di azione extra-dimensionale! E, ce n'è bisogno, ecco
qualche prova di ciò che affermo: Dante, nella Divina
Commedia, ha descritto con precisione assoluta quel che
nessun viaggiatore del suo tempo avrebbe ragionevolmente
potuto scoprire, la costellazione, invisibile dall'emisfero
nord, conosciuta sotto il nome di Croce del Sud». E,
ancora, in un breve scritto chiamato “Cattura del Vuoto”
egli fece riferimento al suo rapporto col popolo, in quantità
di avanguardista: l'artista doveva creare la condizione di
mancanza della folla, doveva trovarsi solo, per poter
preparare un nuovo mondo al popolo del futuro. Nella sua
esperienza di cattura del vuoto, un'intera città, o meglio
un'intera nazione, doveva rinchiudersi in casa per due ore,
lasciando allo Spazio la vista di un luogo immenso senza
esseri umani. In un contesto surreale di silenzio e
desolazione, l'artista doveva essere spinto fuori dalla
propria casa, per poter esperire in solitudine la cattura del
vuoto stesso, e tale esperienza sarebbe stata soltanto il
primo passo verso una consapevolezza nuova dello spazio.
V. Una Breve Riflessione: Jiro Yoshihara e Ad Reinhardt
Una caratteristica singolare che è possibile notare in autori
come Klein, Mondrian e Rothko è quella di aver reagito in
modo sorprendente all'avvento dell'era della riproducibilità
dell'opera d'arte. Come dice Walter Benjamin infatti, con la
possibilità della riproducibilità dell'opera d'arte si toglie ad
essa la propria caratteristica “auraticità”; è curioso dunque
vedere come alcuni artisti, anziché difendere strenuamente
l'unicità del proprio lavoro con il ritorno alla tradizione
pittorica, la quale richiede al pittore una straordinaria
abilità innata, si siano concentrati su un tipo di pittura
concettuale, che esprimesse le loro idee attraverso opere
d'arte di estrema semplicità realizzativa. Semplici da
realizzare tecnicamente ma di estrema complessità
nell'elaborazione mentale. È evidente infatti come i
monocromi di Klein siano opere non soltanto riproducibili
grazie alla fotografia ma facilmente riproducibili da
chiunque sotto forma di tela materiale e colore:
l'importanza della novità è spostata sul fatto che
semplicemente nessuno avesse pensato a realizzare un
quadro di quel tipo prima dell'artista. Due artisti che hanno
seguito una via estremamente vicina a quella di Yves Klein
sono l'americano Ad Reinhardt (Buffalo, 24 dicembre 1913
– New York, 30 agosto 1967) e il giapponese Jiro
Yoshihara (1905 – 1972). L'opera più rilevante di
Reinhardt per la nostra riflessione è Abstract Painting, del
1963: semplicemente una gigantesca tela quadrata dipinta
di un intenso e uniforme nero. Come definisce questo tipo
di produzione lo stesso artista, nel 1961:
“A square (neutral, shapeless) canvas, five feet wide,
five feet high, as high as a man, as wide as a man's
outstretched arms (not large, not small, sizeless),
trisected (no composition), one horizontal form
negating one vertical form (formless, no top, no
bottom, directionless), three (more or less) dark
(lightless) no–contrasting (colorless) colors,
brushwork brushed out to remove brushwork, a
matte, flat, free–hand, painted surface (glossless,
textureless, non–linear, no hard-edge, no soft edge)
which does not reflect its surroundings—a pure,
abstract, non–objective, timeless, spaceless,
changeless, relationless, disinterested painting—an
object that is self–conscious (no unconsciousness)
ideal, transcendent, aware of no thing but art
(absolutely no anti–art).”
Gli anni di sviluppo di tale concetto sono i medesimi nei
quali opera Klein, ed è evidente la sua influenza, come del
resto è chiara la fonte di ispirazione principale di
Reinhardt: il quadrato nero di Malevich, opera che come
abbiamo detto ha fortemente influenzato anche l'artista
francese. La tecnica che il pittore americano adotta per i
propri Black Paintings gli permette di dare vita ad un
quadro che in apparenza si presenta come un unico blocco
nero, ma che è in realtà composto di sfumature. Travasava
l'olio dai pigmenti che sceglieva, per ricreare una finitura
satinata molto delicata. In questo modo, le sue superfici,
ora opache, riuscivano ad assorbire maggiormente la luce.
Le correnti a cui si possono ascrivere tali opere sono
certamente l'espressionismo astratto (la stessa corrente di
Rothko, del resto) e il minimalismo, movimenti molto
vicini quanto paradossalmente distanti dal Nouveau
Réalisme di cui faceva parte Klein. Il tema del monocromo
avvicina gli autori, che però si distanziano fortemente a
causa del diverso uso del colore: Klein proverà diversi
monocromi prima di approdare definitivamente al blu, il
suo personale blu, e snobberà completamente il nero. Il
punto fondamentale è appunto il fatto che il nero sia un
non-colore. “Lightless”, senza luce, come dice la
presentazione del suo stesso autore. La differenza tra nero e
blu profondo è immensa: il blu di Klein nasconde un'anima
di aggressività e creatività, proprio dove il nero totale
esprime l'annullamento di ogni colore e dell'arte stessa. Nel
bianco che Klein utilizza per creare un intero ambiente che
sia un luogo sconfinato è celata una forza rivoluzionaria
che si trova appunto in netto contrasto con l'annullamento e
la ricerca del nulla di Reinhardt.
L'artista che persegue un obiettivo completamente diverso
da quest'ultimo è invece Jiro Yoshihara, che opera nei
medesimi anni e può essere considerato a ragione
probabilmente il vero corrispondente di Klein per l'arte
contemporanea nipponica. Nella sua serie di Work
realizzati intorno 1964, egli dipinge sfondi di un intenso
arancione, spezzati soltanto da un chiaro e definito cerchio
giallo che campeggia al centro della tela. Il tema trattato è
quello del cerchio come finestra sul mondo e Yoshihara
dipingerà per quasi tutta la vita opere il cui soggetto sarà
semplicemente il cerchio.
“While Yoshihara never associated his art with Zen
teachings, his celebrated circles are instantly
reminiscent of traditional ensō (circle) paintings. In
Zen Buddhism, the ensō symbolizes both
enlightenment and the void, representing
emptiness, freedom, unity and infinity. Constituting
the ultimate transcendent form in Zen painting,
ensō is the prerequisite to every act of creation,
indicating the moment when the mind is emptied so
as to allow the body to create.”
Il cerchio è libertà, vuoto, unità ed infinito: il punto più
vicino a Klein raggiunto dall'arte del Novecento. Il cerchio
che domina sullo sfondo monocromatico collega la
tradizione Zen con la novità della contemporaneità,
creando una rappresentazione che al contempo con la
propria presenza dà vita ad una finestra sull'immateriale e
sull'indefinita infinità avvolgente del colore.
Perché “I colori sono i veri abitanti dello spazio”.
Bibliografia
- Yves Klein / Verso l'immateriale dell'arte / O barra O
edizioni
- Antonin Artaud / Van Gogh il suicidato dalla società /
Adelphi
- Gilles Deleuze / Che cos'è l'atto di creazione? / Cronopio
- G. Deleuze, F. Guattari / L'anti-Edipo / Einaudi
- N. Abbagnano, G. Fornero / La filosofia / Pearson Paravia
- wikipedia.org
- youtube.com / La rivoluzione (Deleuze) /
youtube.com/watch?v=Y51Rxv4VvVE
- sothebys.com / Jiro Yoshihara /
sothebys.com/en/auctions/ecatalogue/2016/moderncontemporary-asian-art-evening-sale-hk0628/lot.1002.html
- moma.org / moma.org/collection/works/78976
- The Chelsea Hotel Manifesto /
http://www.ikb2002.altervista.org/scritti/scritti1.htm
Leap into the Void, 5, rue Gentil-Bernard, Fontenay-aux-Roses,
France, october 1960. The title of this work by Yves Klein,
according to his newspaper Dimanche 27 novembre 1960, is:
''A man in the Space ! The painter of the Space throws himself
into the Void!'', 1960. Artistic action by Yves Klein. Photo
Harry Shunk-John Kender.
Yoshihara Jiro (1905 – 1972), WORK, executed circa 1964,
oil on canvas, 61 by 73.1 cm; 24 by 28¾ in.
Yves Klein, Monochrome bleu sans titre (IKB 171), ca. 1960, 62
x 50 cm
Ad Reinhardt, Abstract Painting, 1963,
Oil on canvas, 60 x 60" (152.4 x 152.4
cm)
La Spécialisation de la sensibilité à l’état matière première en
sensibilité picturale stabilisée. Galerie Iris Clert, Paris, April 28 - May
12, 1958.