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Eurostudium3w aprile-giugno 2016
Direttore: Francesco Gui (dir. resp.).
Comitato scientifico: Antonello Biagini, Luigi Cajani, Francesco Dante, Fabio
Grassi, Piero S. Graglia, Francesco Gui, Giovanna Motta, Pèter Sarkozy.
Comitato di redazione: Andrea Carteny, Stefano Lariccia, Chiara Lizzi, Enrico
Mariutti, Daniel Pommier Vincelli, Vittoria Saulle, Luca Topi, Giulia Vassallo.
Proprietà: “Sapienza” - Università di Roma.
Sede e luogo di trasmissione: Dipartimento di Storia moderna e contemporanea,
P. le Aldo Moro, 5 - 00185 Roma
tel. 0649913407 – e - mail: [email protected]
Decreto di approvazione e numero di iscrizione: Tribunale di Roma 388/2006
del 17 ottobre 2006
Codice rivista: E195977
Codice ISSN 1973-9443
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
Indice della rivista
aprile - giugno 2016, n. 39
MONOGRAFIE
Mantenere l’Inghilterra nella Respublica Christiana
Il cardinale legato Reginald Pole e il suo messaggio ai sovrani d’Europa (1537-1539)
Con il testo della prefazione del De Unitate per il re di Scozia
Silvia Mangano
p. 3
Is there any justification for the Crusades in the Old Testament
of the Holy Bible?
Robert Jr. Brunelli
p. 61
Bartolomé de Las Casas, defender of human rights
and universal brotherhood
The dispute of Valladolid versus Juan Ginés de Sepulveda
Francesca Russo
p. 73
«Fatti non foste a viver come bruti»
L'autobiografia di Altiero Spinelli
Silvana Cirillo
p.82
RASSEGNE E RECENSIONI
La tutela dei beni culturali nell’attività del Consiglio D’Europa
Evoluzioni concettuali e modelli di governo multilivello
Flavio Rodeghiero
p. 94
L'Anti-americanismo in Europa
Aspetti politici, sociali e funzionali
Giuseppe De Lauri
p.
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Mantenere l’Inghilterra nella Respublica Christiana
Il cardinale legato Reginald Pole e il suo messaggio ai sovrani
d’Europa (1537-1539)
Con il testo della prefazione del De Unitate per il re di Scozia
di Silvia Mangano
Reginald Pole (1500-1558), per nascita, formazione e parabola di vita, può
considerarsi una delle più importanti figure storiche del Cinquecento.
Per parte materna, Reginald poteva considerarsi un Plantageneto. La
madre, Margaret, era figlia di Isabella e Giorgio, primo duca di Clarence e
fratello dei due re York Riccardo III ed Edoardo V. Il matrimonio della figlia di
quest’ultimo, Elisabetta, con il pretendente al trono della fazione Lancaster,
Enrico VII Tudor, aveva ratificato la fine della sanguinaria Guerra delle Due
Rose. Da quell’unione, poi, era nato Enrico VIII (1491), unico erede diretto
rimasto dopo la morte del fratello maggiore Arthur (1502). Alla fine della
guerra, Margaret, che era dunque una Rosa Bianca, aveva sposato Richard Pole,
cugino alla lontana di Enrico VII. Dal loro legame era nato Reginald, uno dei
pochi rampolli della nobiltà a poter vantare diritti sulla corona d’Inghilterra1.
In seguito alla rottura con Enrico VIII sulla questione del divorzio da
Caterina d’Aragona, divenne il volto pubblico della propaganda romana contro
il re inglese, notoriamente autore di quello che verrebbe da definire il Brexit
originario dalla Respublica cattolico-europea. Fu cardinale (1536) e primo
presidente del Concilio di Trento (1545), cercando parallelamente di accogliere
parte della predicazione protestante e conquistandosi un posto d’onore nella
storia della spiritualità italiana con l’esperienza della “Chiesa viterbiense”
(1541-1543).
Per ulteriori informazioni genealogiche rimando al volume di A. Weir, Britain's Royal Family: A
Complete Genealogy, London 1999, p. 136.
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
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Personalità portata più alla meditazione che alla guerra, sostenitore
dell’unità del mondo cristiano con l’appoggio della componente filo-imperiale
(Gonzaga, Colonna, Valdès, etc.), cercò di trovare un compromesso tra cattolici
e riformati e di “conciliare l’inconciliabile”2 finendo per attirare su di sé
l’attenzione degli zelanti intransigenti romani. Durante il conclave del 1549,
questi riuscirono a boicottare la sua candidatura al soglio di Pietro, sostenuta
anche da Carlo V, e a trasformare la sua immagine “da papa angelicus a
cardinale inquisito”3. Seppur osservato sempre con sospetto dal Carafa
inquisitore, riuscì a tornare in Inghilterra, previa scomparsa di Enrico VIII, e a
terminare la sua vita in veste di ultimo arcivescovo cattolico di Canterbury,
dopo aver celebrato il rientro ufficiale dell’Inghilterra tra i figli della Chiesa di
Roma. Morì nella stessa data della regina Maria Tudor, detta anche la
Sanguinaria, e a pochi giorni dalla scomparsa di suo fratello Geoffrey, rendendo
presumibilmente più agevole la successione di Elisabetta.
Dai pochissimi accenni biografici fin qui forniti si può facilmente
comprendere il peso politico che una personalità come Reginald Pole ebbe non
soltanto in Inghilterra, ma nell’intero continente. Per molti anni, infatti, si
prospettò la duplice possibilità per l’inglese di poter diventare sia papa sia re,
senza che questo rappresentasse una contraddizione. Da cardinale con i soli
ordini minori, avrebbe potuto sia rivendicare la corona di Enrico VIII sia essere
scelto come sovrano pontefice per guidare la cristianità.
Quanto è importante tenere presente queste due alternative per studiare la
vita e le opere di Reginald Pole? Moltissimo, senza dubbio. A ragione, dunque,
lo storico Thomas F. Mayer4 lo definisce un personaggio prismatico di cui è
impossibile parlare al singolare: in lui si alternano una serie di personae di cui la
ricerca storica si è occupata e continuerà a occuparsi.
Negli ultimi tre decenni del ventesimo secolo, la storiografia italiana ha
riscoperto il preziosissimo contributo di Pole alla vicenda religiosa e culturale
della penisola italiana nel Cinquecento. La difficile definizione storica della
cerchia spirituale, che lo ebbe come punto di riferimento, e il suo legame con
quello che viene comunemente definito evangelismo italiano sono stati affrontati
da storici come Delio Cantimori, Gigliola Fragnito e Massimo Firpo5, mentre sul
Cfr. F. Gui, Per il Papa o per Lutero? Reginald Pole e il De Pontificis Maximi Officio, in Storia sociale
e politica: omaggio a Rosario Villari, a cura di A. Merola-G. Muto-E. Valeri-M.A. Visceglia, Milano
2007, pp. 186-218; p. 186.
3 Cfr. M. Firpo, La presa di potere dell’Inquisizione romana (1550-1553), Roma-Bari 2014, pp. 3-51.
4 Cfr. T.F.Mayer, Reginald Pole: prince and prophet, Cambridge University Press, Cambridge 2007,
pp. 1-2.
5 Rimando qui soltanto ad alcuni studi: D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche
storiche, Firenze 1967; Id., Studi di storia. Umanesimo, Rinascimento, Riforma,Torino 1976; G.
Fragnito, “Evangelismo e intransigenti nei difficili equilibri del pontificato farnesiano”, in
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
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“mito di santità” del cardinale inglese e sulle controversie che legarono Pole a
Paolo IV ha fornito un contributo essenziale Paolo Simoncelli6. Quest’ultimo ha
inoltre evidenziato l’importanza rivestita da Pole nella sua veste politica,
lasciata inevitabilmente in secondo piano dagli studi storico-religiosi, e ha
dimostrato il ruolo chiave giocato dall’inglese negli avvenimenti della prima
metà del Cinquecento. Procedendo nella stessa direzione di Simoncelli,
Francesco Gui ha aggiunto numerosi tasselli all’originalissimo puzzle della
personalità di Pole e ha fornito la ricostruzione del suo ruolo decisivo
all’interno della Chiesa e sui suoi rapporti con il potere imperiale7.
Percorrendo questa tensione tra sfera pubblica e personalità individuale,
che segnò l’intera vita di Pole e ne plasmò il carattere, la storiografia ha
riconsiderato il ruolo avuto dal cardinale: non più soltanto spirituale, pervaso
dall’illuminazione interiore, non più personalità di riferimento per anime intrise
di spiritualità erasmiano-valdesiana, ma personaggio politico al centro dello
scacchiere europeo. Vicina a queste idee, ma meno vincolata alle problematiche
Rivista di Storia e Letteratura Religiosa, XXV, 1989, pp. 20-47; Id., Gli “spirituali”, l’Accademia di
Modena e il formulario di fede del 1542: controllo del dissenso religioso e nicodemismo, in “Rivista di
storia e letteratura religiosa”, 20 (1984), pp. 40-111.; Id., Valdesianesimo ed evangelismo: alle
origini dell'"Ecclesia Viterbiensis" (1541), in Libri, idee e sentimenti religiosi nel Cinquecento italiano,
Ferrara-Modena, Panini, 1987, pp. 73-76; Id., Tra alumbrados e "spirituali": studi su Juan de Valdes e
il valdesianesimo nella crisi religiosa del '500 italiano, Olschki, Firenze 1990; Id., Inquisizione romana e
Controriforma: studi sul cardinal Giovanni Morone (1509-1580) e il suo processo d'eresia, Morcelliana,
Bologna 1992; Id., Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento. Un profilo storico, BariRoma 1993; Id., "Disputar di cose pertinente alla fede": studi sulla vita religiosa del Cinquecento
italiano, Milano 2003; Id., Juan de Valdés e la Riforma nell'Italia del Cinquecento, Roma-Bari 2016.
6 P. Simoncelli, Il caso Reginald Pole: eresia e santità nelle polemiche religiose del Cinquecento, Edizioni
di Storia e Letteratura, Roma 1977. Il capitolo “Paolo IV. Accuse d’eresia e il mito di santità” è
stato ripreso in T. Mayer, A Sticking-Plaster Saint? Autobiography and Hagiography in the Making of
Reginald Pole, in The rhetorics of life-writing in early modern Europe: forms of biography from
Cassandra Fedele to Louis XIV, a cura di T.F. Mayer – D.R. Woolf, Ann Arbor 1995, pp. 205-222.
7 F. Gui, L’attesa del Concilio: Vittoria Colonna e Reginald Pole nel movimento degli spirituali, Roma
1998; Id., Il papato e i Colonna al tempo di Filippo II, in B. Anatra-F. Manconi (a cura di), sardegna,
Spagna e stati italiani nell’età di Filippo II, Cagliari 1999; Id., La Riforma nei circoli aristocratici
italiani, in S. Peyronel Rambaldi (a cura di), Cinquant’anni di storiografia italiana sulla Riforma e i
movimenti ereticali italiani 1950-2000, Torino 2002; Id., Carlo V e la convocazione del Concilio agli
inizi del pontificato farnesiano, in F. Cantù-M.A. Visceglia (a cura di), L’italia di Carlo V. Guerra,
religione e politica nel primo Cinquecento, Roma 2003; Id., Chi ha paura di Reginald Pole?, in F. Gui (a
cura di), Momenti di storia europea, Soveria Mannelli 2006. Nel suo L’attesa del Concilio parla della
“pattuglia spirituale” come di un gruppo che “sembra trovarsi a suo agio dentro le stanze del
potere”: “Soprattutto, detto con insolita convinzione, ad animarla sono uomini, e donne, che per
la loro statura pubblica, le loro tradizioni, gli interlocutori cui si trovano di fronte, andrebbero
considerati non solo come singole anime dalla straordinaria sensibilità, ma anche come punte di
iceberg di strutture storiche, culturali, e sociali notevolmente corpose. E da passare in quanto tali
sotto il vetrino delle indagini”, p. 26.
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
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religiose, è anche la storiografia anglosassone, di cui il rappresentante di spicco
è appunto lo storico Mayer, che con la sua trentennale opera di ricerca e di
approfondimento ha restituito un quadro sfaccettato, e per certi versi
contestato, di Pole8.
Nel complesso si può osservare che la storiografia italiana si è concentrata
soprattutto sull’esperienza di Pole al di qua delle Alpi, privilegiando gli anni
della ecclesia di Viterbo, del conclave di Giulio III e del Concilio di Trento e
fornendo preziosi contributi sul profilo storico, politico e religioso di coloro che
vanno sotto il nome di spirituali9, nonché sull’intricatissimo quadro dei rapporti
tra questi ultimi e le dinamiche che in quegli anni coinvolsero la penisola. La
presente ricerca si focalizza invece sul quinquennio che precedette la fama
“spirituale” di Pole e tenta di trovare il fil rouge che collega le vicende del
Cfr. T.F. Mayer, Reginald Pole: Prince and Prophet, Cambridge University Press, Cambridge 2007;
Id., Cardinal Pole in the European context, Ashgate, Aldershot 2000; Id., A Reluctant Author:
Cardinal Pole and His Manuscripts, Philadelphia 1999 (Transactions of the American
Philosophical Society, New Series, 89), pp. i-viii+1-115; Id., “‘Heretics be not in all things
heretics’: Cardinal Pole, His Circle, and the Potential for Toleration”, in Beyond the Persecuting
Society: Religious Toleration Before the Enlightenment, a cura di J.C. Laursenand – C.J. Nederman,
Philadelphia 1998, pp. 107-124; Id., Il fallimento di una candidatura: il partito della riforma, Reginald
Pole e il conclave di Giulio III, in «Annali dell'Istituto storico italo-germanico in Trento», 21 (1995),
pp. 41-68; Id., Reginald Pole in Paolo Giovio's Descriptio: A Strategy for Reconversion, in «The
Sixteenth Century Journal», 16 (1985), pp. 431-450. Negli ultimi anni della sua lunga carriera,
tuttavia, Mayer ha preferito spostare la propria indagine nel campo della cosiddetta storiografia
di genere. La scelta, operata nella sua monumentale biografia, di attribuire a un’omosessualità
mai dimostrata tutte le incongruenze e le dinamiche inspiegabili della storia di Pole ha sollevato
diversi dubbi da parte degli studiosi. I misteri che circondano l’esistenza di Pole continuano a
restare un dilemma insoluto per gli storici e sono impossibili da ridurre nei soli termini della
storia di genere. Sull’argomento rimando all’analisi di F. Gui, Chi ha paura…, cit., pp. 11-49; cfr.
inoltre la recensione di William V. Hudon in «The Catholic Historical Review», 88.2 (2002), pp.
356-59.
9Rimando qui soltanto ad alcuni studi: D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche
storiche, Firenze 1967; Id., Studi di storia. Umanesimo, Rinascimento, Riforma, Torino 1976; G.
Fragnito, Evangelismo e intransigenti nei difficili equilibri del pontificato farnesiano, in «Rivista di
Storia e Letteratura Religiosa», XXV, 1989, pp. 20-47; Id., Gli “spirituali” e la fuga di Bernardino
Ochino, in «Rivista Storica Italiana», LXXXIV, 1972, pp. 777-813; M. Firpo, “Valdesianesimo ed
evangelismo: alle origini dell'’Ecclesia Viterbiensis’ (1541)”, in Libri, idee e sentimenti religiosi nel
Cinquecento italiano, Ferrara-Modena, Panini, 1987, pp. 73-76;Id., Tra alumbrados e "spirituali":
studi su Juan de Valdes e il valdesianesimo nella crisi religiosa del '500 italiano, Olschki, Firenze 1990;
Id., Inquisizione romana e Controriforma: studi sul cardinal Giovanni Morone (1509-1580) e il suo
processo d'eresia, Morcelliana, Bologna 1992; Id., Riforma protestante ed eresie nell’Italia del
Cinquecento. Un profilo storico, Bari-Roma 1993; Id., "Disputar di cose pertinente alla fede": studi
sulla vita religiosa del Cinquecento italiano, Milano 2003; Id., Gli “spirituali”, l’Accademia di Modena e
il formulario di fede del 1542: controllo del dissenso religioso e nicodemismo, in «Rivista di storia e
letteratura religiosa», XX, 1984, pp. 40-111.
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
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continente europeo negli anni 1535-1539 con l’edizione dell’opera più nota del
cardinale, Pro Ecclesiasticae Unitatis Defensione o De Unitate, scritta nel 1535-36 e
resa pubblica, con buona approssimazione, nel ’3910. Inizialmente destinato in
segreto al solo Enrico VIII, il De Unitate sarebbe stato successivamente inviato
sempre in modo riservato anche a Carlo V, nonché ai re di Francia e di Scozia
(con l’aggiunta niente affatto trascurabile delle relative prefazioni) per poi esser
dato alle stampe a Roma all’insaputa dell’autore. Ma su tutto questo, con
ulteriori particolari e quesiti, si rimanda a più oltre.
In sé il testo del De Unitate risulta indiscutibilmente ricco di
argomentazioni teologiche, che gli storici religiosi hanno approfonditamente
analizzato11, ma per quanto riguarda il messaggio politico in esso contenuto si
deve constatare che è stato oggetto di assai minore attenzione. Le problematiche
che vi emergono, infatti, sono molteplici e stratificate e si ricollegano
esplicitamente al contrasto, in quegli anni al centro del dibattito e dell’azione
politica europea, tra funzione religiosa e funzione temporale della figura
regnante.
Nel momento in cui l’Inghilterra recepisce una svolta in senso assolutista
nel suo ordinamento politico mediante l’Atto di Supremazia12 (1534), Pole
risponde con il De Unitate per sconfessare i presupposti teologici e politici su cui
si basa l’opera accentratrice di Enrico VIII e del cancelliere Thomas Cromwell.
Così facendo, teorizza un modello nuovo d’Europa, in cui sovrani, imperatore e
pontefice sono armoniosamente ridistribuiti nel corretto esercizio delle loro
funzioni.
La finalità dell’opera di Pole è di ristabilire il primato della Chiesa
nell’ambito spirituale e proporre un sistema politico per l’intera Europa che
Del De Unitate si conoscono quattro edizioni a stampa complete, di cui ben due vennero
pubblicate prima della morte dell’autore. La prima è l’edizione del 1539, pubblicata a Roma da
Antonio Blado: la datazione si basa sull’accenno a Cromwell in una nota a margine e sul
riferimento a tale edizione in una lettera di Pole. Al 1555 risale l’edizione di Strasburgo
pubblicata da Wendelin Rihelius; mentre è del 1587 la versione di Davide Sartorius stampata a
Ingolstadt. Bisogna, poi, aspettare più di un secolo per l’ultima edizione pubblicata dal
Rocaberti nel 1698. Scritto in latino e pubblicato in traduzione soltanto dal Vergerio durante gli
anni di aspra polemica con il Pole, il De Unitate, per via dell’argomento estremamente scottante,
risvegliò l’interesse dal cattolicesimo ecumenico fuoriuscito dall’assise conciliare del Vaticano II
e venne tradotto sia in inglese (a cura di J.G. Dwyer, 1965) sia in francese (a cura di N.-M.
Egretier, 1967), con l’auspicio che potesse rappresentare una tappa vincolante nella riflessione
ecclesiologica della Chiesa postconciliare. Nel presente lavoro faccio riferimento soprattutto alla
versione del 1587; da qui [De Unitate 1587].
11 Cfr. V. Mignozzi, “Tenenda est via media”. L’ecclesiologia di Reginald Pole (1500-1558), Assisi
2007, pp. 52-62; G. Groveland Walsh, Cardinal Pole and the Problem of Christian Unity, in «The
Catholic Historical Review», 15 (1930), pp. 389-407.
12 Senza dimenticare l’Atto di Tradimento, di poco successivo, su cui più avanti nel testo.
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
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coniughi l’antico e il nuovo. Il nucleo fondamentale della speculazione del
cardinale è costituito dal corretto rapporto che deve esistere tra il re e il suo
popolo, senza il quale crollerebbero le fondamenta di tutto l’impianto della
universitas europea13. Il punto di riferimento principale di Pole per questo tema
è la tradizione inglese riguardo alla dialettica tra funzione temporale e ruolo
spirituale della corona. In quanto membro di spicco della nobiltà, infatti, lo
York è fautore della netta distinzione tra le due funzioni, arrivando addirittura
a sconfessare la natura ierocratica del potere del re, che distanzierebbe
irrimediabilmente questo dalla nobiltà di cui, invece, è parte integrante14.
Per Pole il sovrano non è un primus inter pares, ma è il primo servitore
della comunità. Infatti, egli è innanzitutto tenuto a prestare giuramento di
fedeltà ai nobili tanto quanto questi lo devono al sovrano. Secondo la tradizione
giuridica inglese, lo status di signore feudale, condiviso tanto dal Tudor che
dalla nobilità, costituisce un vero e proprio iuris vinculum, impossibile da
sciogliere. Pertanto, in primo luogo, il sovrano non è nulla in più rispetto a
qualunque appartenente ai “pari”. Inoltre la voluntas del re in materia
normativa necessita di un consenso esplicito dei vassalli (da qui anche
l’importanza del Parlamento come rappresentanza di tutto il “popolo”) e
l’esercizio della sovranità deve fondarsi sulla bona fides, cioè sulla lealtà e la
fiducia fra le parti contraenti, elemento essenziale nella stipula di qualsiasi
contratto.
Da qui deriva, secondo Pole, la possibilità di destituire un sovrano che,
mancando ai suoi doveri, si trasformi in un tiranno: il governo non può essere
assoluto (come quello teocratico), ma deve fondarsi sulla continua relazione tra
re, nobiltà e Parlamento.
Occorre fare un’altra precisazione su che cosa intenda Pole quando parla
di “sudditi” o “popolo”. Per l’inglese la regalità non è ovviamente sinonimo di
sovranità popolare: mentre in quest’ultima il potere viene delegato dal popolo
nelle mani del re, nella prima, il governo è in primo luogo il risultato di un
esercizio congiunto del potere da parte di nobili e re, in quanto “pari”. A ciò si
aggiunge l’importantissima idea di rappresentanza, fortemente sentita in
Inghilterra fin dal tredicesimo secolo, di cui la Magna Carta è espressione:
governare attraverso il commune consilium del regno significa dover cooperare
con il Parlamento nell’esercizio della sovranità. Dunque, il dominium politicum
del re si esprime nel governo sui sudditi del re (attorniato dai pari) solo e
soltanto attraverso quelle leggi a cui il Parlamento ha dato il suo consenso.
De Unitate 1587, pp. 86-88.
Ivi, pp. 40-41.
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
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Il sistema politico teorizzato da Pole reinserisce inoltre il regno nel
contesto della tradizione universalistica medievale. Egli ricostruisce un
universo ordinato gerarchicamente, all’interno del quale, sulla scia dei canonisti
e decretalisti medievali peraltro non citati, il papa è espressione massima
dell’universalità della christianitas, mentre l’imperatore ne è il braccio armato e
garante dell’ordine divino sulla terra. Solo così si giustifica il lungo appello
rivolto al Cesare nella sezione centrale dell’opera. Subito al di sotto di questi, vi
sono le entità territorial-giurisdizionali comunemente denominate regna. I regni
sono un prodotto del diritto naturale, e non divino come l’Impero e la Chiesa, e
il governo viene affidato al re sulla base di un patto tra il prescelto sovrano e la
nobiltà feudale (cioè legata storicamente a un territorio, e non la neonata nobiltà
cortigiana15) che richiama esplicitamente la tradizione inglese: mentre l’uno
deve impegnarsi affinché regni pace e giustizia, l’altra costituisce l’essenza
stessa del regno e deve guidare il sovrano nell’esercizio del suo potere.
Questo, in compendio, il contenuto filosofico politico espresso nel trattato,
cui Pole deve l’inizio della sua carriera diplomatica. Al fine di seguire e, in
alcuni casi, ricostruire le intricate vicende politiche di quei cinque anni che
vanno appunto dal ’35 (con eventi conseguenti alla scrittura del De Unitate e alla
sua più tarda pubblicazione a Roma come atto conclusivo delle sfortunate
legazioni antitudoriane di Pole – su cui subito qui sotto –), è stato essenziale
procedere con ordine partendo dai primi cambiamenti istituzionali operati da
Enrico VIII nel ventiseiesimo anno del suo regno. In questo modo, grazie anche
alla lettura delle prefazioni ai sovrani (di cui quella al re di Scozia consultata
nella sua versione manoscritta originale), sarà presumibilmente più agevole
valutare la notevolissima valenza politico-religiosa del ruolo svolto nella sua
epoca da Reginald Pole.
Per il seguente lavoro sono stati consultati, presso la Biblioteca Apostolica
Vaticana, i manoscritti del cardinale Pole contenuti in Vat. Lat. 5970.1 e 2 (da cui
la trascrizione della prefazione al re di Scozia) e le lettere contenute in Urb. Lat.
86516.
Declare your sentence truly and plain
Nel pensiero di Pole presente nel De Unitate la nobiltà cortigiana è un prodotto dei giochi di
potere orchestrati a corte (ovvio riferimento a Cromwell). Per questo preferisce riferirsi alla
nobiltà terriera, ossia le famiglie che hanno invece un passato militare “al servizio del popolo
inglese”. Famiglie come la sua, insomma, neanche a dirlo.
16 In particolare: Vat. Lat.5970.2, ff. 193r-235v; ff. 239r-268v; Vat. Lat.5970.1, ff. 184r-189v; Vat.
Lat. 5970.2, ff. 278r-283v; Urb. Lat. 865, ff. 331r-339v; ff. 140r-142v; ff. 158r-159v.
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Il 1535 si apre con la promulgazione dell’Act of Treason (1° febbraio), che
stabilisce l’equiparazione di ogni manifestazione contraria all’Atto di
Successione17 (febbraio 1534) e all’Atto di Supremazia18 al reato di alto
tradimento, la cui pena è la morte per squartamento19. L’Act of Treason conta i
propri sostenitori solo nel partito più vicino alla corona, mentre tra i Comuni e
la parte della nobiltà più legata alla monarchia tradizionale si iniziano a
percepire i primi dissensi. Tuttavia, avvalendosi di un provvedimento tanto
stringente, Cromwell è in grado di assicurare una stabilità al governo del regno,
o almeno dota la corona delle armi adeguate per conseguirla: con la
promulgazione dell’Act hanno inizio i processi, seguiti dalle esecuzioni, di tutti
coloro che si oppongono alla supremazia di Enrico VIII in campo politico e
religioso. In particolare, le esecuzioni dei priori certosini John Houghton,
Augustin Webster e Robert Lawrence, di John Hale e del brigidino Richard
Reynolds, avvenute il 4 maggio 1535, sono quelle che più sconvolgono la
popolazione.
Il clamore per tante illustri uccisioni non tarda a investire re Enrico: la
nazione e l’intera cristianità rimangono attonite di fronte alla ferocia dimostrata
dal Tudor. L’immagine del sovrano inizia ad acquisire tratti tirannici e i mesi a
seguire sono molto difficili da gestire per Enrico 20. L’ambasciatore veneziano
Con tale atto la linea di successione dinastica venne spostata da Mary (figlia di Caterina
d’Aragona e unica erede riconosciuta da Roma e dall’Europa) a Elizabeth (figlia avuta con Anne
Boleyn), sconfessando la legittimità del primo matrimonio e assestando un duro colpo ai
rapporti diplomatici con l’imperatore.
18 L’Act of Supremacy è la legge con la quale Enrico VIII fu proclamato Capo supremo della
Anglicana Ecclesia [fin dalla Magna Charta termine utilizzato per indicare la Chiesa e il clero
d’Inghilterra, oggi utilizzato per definire la Chiesa riformata inglese, n.d.A.]. “L’Atto di
Supremazia approvato nel novembre 1534 non fu che il coronamento di un lungo processo: la
proclamazione ufficiale di ciò che in realtà era già un fatto compiuto. […] L’Atto non imponeva
giuramenti né stabiliva sanzioni: il suo valore era semplicemente declaratorio. Ma l’estensione
della sua portata non va trascurata: con esso, alla Chiesa d’Inghilterra veniva lasciato ben poco
che non cadesse sotto il diretto controllo del re, sia in campo temporale che in campo spirituale
[…] anche in queste materie, il re veniva ad assumere pieni poteri di vaglio e di correzione” Cfr.
E.E. Reynolds, The Trial of St. Thomas More, Londra 1964, pp. 118-119.
19 Il reo veniva trascinato per la città legato a un graticcio fino a Tyburn, qui veniva appeso a un
cappio, tirato giù e sventrato ancora in vita. Una volta morto, il cadavere del condannato veniva
squartato ed esposto in vari punti della citta, mentre la testa veniva infilzata e mostrata sul
Ponte di Londra.
20 “The consequences of that severity [della nuova legislazione, n.d.A.] were themselves very
disquieting; and we have good reason to believe that never before in all his reign, and perhaps
never afterwards either, was Henry so deeply harassed by anxiety as during the six months
following the death of Fisher and Sir Thomas More”; cfr. Letters and Papers, Foreign and Domestic,
of the Reign of Henry VIII. Preserved in the Public Record Office, the British Museum, and elsewhere in
England, edd. J.S. Brewer – J. Gairdner – R.H. Brodie, voll. I-XXI, London 1862-1910, vol. IX, p. i.
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
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Carlo Capello consegna alla Serenissima un ritratto impietoso della situazione
inglese21. Dalla sintesi del suo dispaccio è chiaramente percepibile il clima che si
respira a corte: il re perde popolarità tra quelli che ritengono indegne le mosse
politiche di Cromwell per centralizzare e rafforzare il potere monarchico, si
tratti di leggi o della spoliazione dei monasteri. Oltretutto, una larga parte della
nobiltà sostiene la legittimità della discendenza di Mary e, in caso di morte del
re, pretenderebbe che il passaggio delle consegne regali spetti a lei e non, come
vuole l’Act of Succession, alla figlia della Boleyn, la piccola Elizabeth. Da parte
sua, Eustace Chapuys22, ambasciatore dell’imperatore in Inghilterra, ci ha
lasciato una straordinaria raccolta di lettere che descrivono nel dettaglio la vita
di corte degli anni 1529-1545. Nel suo dispaccio non riporta i nomi di chi, a
corte, la pensa in questo modo, ma è facile immaginare che si possa trattare
delle antiche famiglie Carew, Neville, Exeter e Pole23.
Con la morte del cardinale John Fisher (22 giugno 1535) e di Thomas More
(6 luglio 1535), lord cancelliere ed ex uomo di fiducia di Enrico VIII, si
oltrepassa senza dubbio il punto di non ritorno. Da Roma arrivano notizie sulla
preparazione di una bolla di scomunica contro il re fedifrago, contenente una
clausola che vieta a qualsiasi regno della cristianità di intrattenere rapporti
commerciali con l’Inghilterra24. Pole, intanto, si trova in Italia da quando nel
1530 ha rifiutato il titolo di arcivescovo di York25 ed è stato inviato dal re a
studiare a Padova.
“[3 giugno 1535] England has very bad laws and statutes, not being governed by the Imperial
Code, but by laws in her own fashion, to which she was subjected by one William the Bastard,
who conquered the country, and had dominion over it. […] The King is most unpopular, and a
rebellion might easily break out some day, and cause great confusion. He has rare endowments
both of mind and body, such as personal beauty, genius, learning, etc., and it is marvellous how
he has fallen into so many errors and false tenets. It is believed that were the King to die,
although there are two or three pretenders to the Crown, the Princess Mary, Queen Katharine's
daughter, would be made Queen and succeed to the kingdom”; cfr. Calendar of state papers and
manuscripts, relating to English affairs, existing in the archives and collections of Venice, and in other
libraries of northern Italy, vol. V (1534-1554), ed. R. Brown, London 1873.
22 Lo studio scientifico più approfondito e interamente dedicato a Chapuys è quello di R.E.
Lundell, The Mask of Dissimulation: Eustace Chapuys and Early Modern Diplomatic Technique, 15361545, Urbana-Champaign 2001.
23 Definite la “Carew-Exeter faction”, queste famiglie erano legate agli York dalla Guerra delle
Due Rose e giocarono una parte importante delle vicende di Pole nel 1538. La morte del fratello
maggiore di Pole (avvenuta tramite esecuzione nel dicembre del 1538) fu solo la prima di una
lunga serie. Dopo l’esecuzione a seguire della madre Margaret nel 1541, ci sono sempre le morti
sospette di Mary e Reginald (avvenute nello stesso giorno) e l’ancor più sospetto decesso di
Geoffrey, il fratello minore di Pole, avvenuta a pochi giorni di distanza.
24 Cfr. Calendar of state papers..., cit., p. 31, doc. 68.
25 Seggio rimasto vacante dalla morte di Wolsey e che il re aveva gelosamente custodito per il
Plantageneta.
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
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La motivazione dietro al rifiuto ci è nota dal racconto dello stesso Pole e di
Ludovico Beccadelli, segretario prima di Gasparo Contarini e poi dello York. Al
ritorno dalla missione in Francia, dove era stato inviato per ottenere (con esito
positivo) la conferma sulla liceità del divorzio da Caterina da parte dei teologi
della Sorbona, Enrico aveva fatto chiamare il giovane emissario per offrirgli
l’arcivescovato e per interrogarlo sul divorzio; come risposta Reginald, dopo
lungo tergiversare, aveva dovuto ammettere di essere contrario26. Scontento, il
re aveva ritenuto più conveniente che l’ingombrante cugino si allontanasse il
più possibile dall’Inghilterra – su tale idea erano entrambi d’accordo – e l’aveva
rimandato in Italia con un assegno annuale di £25027, sperando in questo modo
di assicurarsi almeno un certo “quietismo” da parte sua. Sebbene Mayer metta
in discussione la veridicità di tale colloquio, non fornendo peraltro alcuna
prova convincente a supporto della sua tesi, quello che è importante
sottolineare qui è che Pole sente la necessità di allontanarsi dalla patria per non
affrontare l’imminente terremoto che si sta scatenando a corte, ed Enrico non
solo si trova in accordo con lui, ma gli fornisce persino una cospicua rendita per
mantenerlo abbastanza lontano dalla corte.
A cinque anni di distanza da questi fatti, cioè all’inizio del 1535, Pole
riceve due lettere da parte del nuovo cappellano di sua Maestà, Thomas
Starkey28. Nella prima, Starkey si dilunga nell’accurato racconto di un incontro
avuto con il re. In sintesi, tramite la sua sollecitazione, Enrico richiede che Pole
si esprima definitivamente sul divorzio e sull’Atto di Supremazia. Al re, infatti,
non basta l’assicurazione di Starkey che Reginald si manterrà a ciò che il
Parlamento ha decretato sul divorzio, ma desidera avere un riscontro preciso
dallo York. La risposta non deve necessariamente essere un lungo trattato;
basterebbero poche righe contenenti l’opinione di Pole espressa in modo chiaro
Nell’ottobre del 1529 Pole venne inviato da Enrico alla Sorbona per raccogliere il parere dei
teologi francesi sul divorzio e fu proprio il risultato positivo della missione a meritargli la
candidatura alla sede arcivescovile di York. Per questa apparente incongruenza, dovuta al
successivo rifiuto di Pole di fronte al divorzio, Mayer ipotizza che l’incontro tra Enrico VIII e
Pole, rimasto tanto famoso per il racconto che Beccadelli e lo stesso Reginald hanno tramandato
nella biografia e nel De Unitate, sia un prodotto di pura fantasia del cardinale inglese. Dietro
l’invenzione si nasconderebbe il desiderio di costruire attorno alla propria figura un’aura di
santità. Cfr. T. Mayer, A Sticking-Plaster Saint?..., cit., pp. 205-222.
27 Cfr. Id., “Cardinal Pole’s Finances: The Property of a Reformer” in Cardinal Pole and European
Context, Ashgate, Aldershot 2000, p. 2.
28 Thomas Starkey, oltre a essere divenuto cappellano del re durante i burrascosi anni del
divorzio, fu un famoso umanista e filosofo politico. Approfondì l’amicizia con Pole a Padova, in
cui si recò a studiare nel 1526. Di lui sono note le tesi conciliariste, contenute nel suo A Dialogue
Between Reginald Pole and Thomas Lupset (pubblicato a cura di K.L. Burton, Londra 1948). Cfr. T.
Mayer, Thomas Starkey and the Commonwealth: Humanist Politics and Religion in the reign of Henry
VIII, Cambridge 2002.
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e conciso (“declare your sentence truly and plain without colour or dark of
dissimulation” si legge nel testo)29.
Ad essa segue una seconda lettera, molto più sbrigativa, in cui Starkey
sostiene in maniera esplicita e urgente che Pole deve abbandonare la condotta
di prudenza politica nei confronti delle materie in questione, per rispondere in
modo soddisfacente e una volta per tutte dirimente sulla sua posizione al
riguardo30. Lo stesso Cromwell invia una lettera indirizzata a Pole, datata 15
febbraio, per assicurarsi che lo York esegua le istruzioni riportate da Starkey,
rimarcando che si tratta di “the King’s express commandment”31.
Parallelamente, Starkey e Cromwell si rivolgono anche a Edmund Harvel32, un
mercante che gravita attorno alla casa di Pole, chiedendogli di perorare la causa
del re nel caso in cui il giovane Pole preferisca non esprimersi sulla questione.
Il 12 aprile 1535 Reginald invia la risposta, assicurando che accontenterà il
re mettendosi subito al lavoro. Negli stessi giorni, Edmund Harvel scrive a
Starkey per rassicurarlo sulle buone prospettive dello scritto. Harvel spiega di
non sapere cosa abbia in mente lo York – sembra infatti che Pole mantenga un
alone di mistero sul contenuto della risposta – ma dà per scontato che si tratti di
“Shortly after his Highness called me to his presence, and asked me about you, your studies,
and your opinion in his causes lately defined here. I answered, as I have always thought
convenient to answer to a prince, that is, plainly to affirm what I know to be true, and to
rehearse only by conjecture what I stand in doubt of. I therefore boldly affirmed your desire to
do his Grace true and faithful service, but as to your opinion in his causes of matrimony and
concerning the authority of the Pope. [...] I could affirm nothing plainly; but I said that as far as
your learning and judgment would extend ... all the power, knowledge and learning which you
have obtained by the goodness of God and his liberality, you would gladly use to maintain
what he had decreed by Court of Parliament. […]”The King was not satisfied with this, but
desired to know your sentence therein plainly, and commanded me to write to you that you
should, like a learned man, consider these things, disregarding all affections and leaving
possible dangerous results to the King's wisdom and policy; and declare your sentence truly
and plain without colour or dark of dissimulation, which his Grace most princely abhorreth. He
does not wish for a great volume or book, but the most effectual reasons briefly and plainly set
forth. Consider how princely a request this is, and then I am sure you will employ yourself with
all diligence and study to satisfy his desire, to which Mr. Secretary, whose loving goodness to
you gives place to no man, also exhorts you”“; cfr. Letters and Papers…, cit., vol. VIII, doc. 218,
pp. 85-86.
30 “The King does not ask your judgment on the policy of either of these matters. […] Only show
whether you would approve his first marriage, if it were to make, and why not. Thus weigh the
thing in itself and fearlessly state your opinion”. Cfr. Ivi, doc. 219, p. 86.
31 Ivi, doc. 220, p. 87.
32 Su Edmund Harvel si hanno poche notizie biografiche. Ricco mercante residente a Venezia,
apparteneva alla comunità inglese che aveva aderito alla Riforma e, dopo la frattura di Pole con
la madre patria (1536), la casa di H. divenne il vero centro di ritrovo degli inglesi rimasti fedeli
alla corona. E.H. Cfr. R. Barrington, “Two Houses Both Alike in Dignity: Reginald Pole and
Edmund Harvell”, in «The Historical Journal», vol. 39 n. 4, pp. 895-913.
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un “noble monument of his wit and virtue”33. Due sono quindi le ipotesi che
accompagnano queste affermazioni: la prima è che fosse nelle intenzioni di Pole
assecondare il re per evitare contrasti, come scrisse anche nel primo libro del De
Unitate, ma che avesse cambiato idea alla notizia delle prime esecuzioni
(Richard Reynolds fu giustiziato il 29 aprile34). La seconda è che, in realtà,
Harvel non fosse mai riuscito a capire le vere intenzioni di Pole, il quale aveva
già impostato il De Unitate così come è arrivato a noi35. Una versione
quest’ultima che sarebbe confermata dalla lettera che il neocardinale veneziano,
nonché celebre protagonista della stagione “de reformanda Ecclesia”, Gasparo
Contarini36 scrisse all’imperatore37 nella primavera del ‘35.
Le esecuzioni di Fisher e More non attirano solamente aspre reprimende
sul re inglese38, ma gettano una nuova luce sullo York, di cui si inizia a parlare
come di un possibile erede al trono. Già la ripudiata Caterina d’Aragona, in
passato, ha espresso il vivo desiderio di uno sposalizio tra Mary e Pole,
Letters and Papers…, cit., doc. 579.
Starkey inviò subito una lettera al P. per spiegare i motivi che avevano portato all’esecuzione
di Reynolds, per evitare che la sua morte gli venisse riportata da fonti tendenziose: “At the last
Parliament an Act was made that all the King’s subjects should, under pain of treason, renounce
the Pope’s superiority; to which the rest of the nation agreed, and so did these monks, three
friars, and Reynolds of Sion, though they afterwards returned to their old obedience. […]
Therefore they have suffered death, according to the course of the law, as rebels to the same,
and disobedient to the princely authority, and as persons who, as much as in them lay, have
rooted sedition in the community”; cfr. M. Haile, Life of Reginald Pole, Longmans, Green and Co.,
New York 1910, p. 141. È probabile che la notizia della morte di Reynolds giungesse in
contemporanea con il concistoro che investì del cardinalato John Fisher, imprigionato insieme a
T. More nella Torre, e che tale mossa fosse stata pensata per prevenirne la morte. Il seguito degli
eventi dimostrò che la furia del re non si sarebbe fermata di fronte a nulla.
35 Nel panorama bibliografico su Pole manca uno studio approfondito sul processo di redazione
del De Unitate. Il pessimo stato del manoscritto conservato alla BAV è probabilmente una delle
cause principali di questa assenza. Lo studioso Dunn ha provato a cimentarsi nell’impresa, cfr.
più avanti p. 30 e ss.
36 Cfr. G. Fragnito, Contarini, Gasparo in DBI, vol. 28, Roma 1983; Id., Gasparo Contarini. Un
magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze 1988; Id., Cultura umanistica e riforma
religiosa: Il De officio viri boni ac probi episcopi di Gasparo Contarini, Firenze 1969; Id, “Gasparo
Contarini tra Venezia e Roma”, in F. Cavazzana Romanelli (a cura di), Gaspare Contarini e il suo
tempo: atti del convegno di studio Venezia, 1-3 marzo 1985, Venezia 1988; F. Dittrich, Gasparo
Contarini, 1483-1542: Eine Monographie, Braunsberg 1885; H. Mackensen, The diplomatic role of
Gasparo Cardinal Contariniat the Colloquy of Ratisbon, in «Church History», XXVII (1958), pp. 31237.
37 M. Haile, Life of Reginald…, cit., p. 143.
38 Harvel scrisse a Starkey che a Venezia: “It was considered to be extreme cruelty, and all
Venice was in great murmuration to hear it. They spoke a long time of the business, to my great
despair for the defaming of our nation, with the vehementest words they could use”, citata in
ivi, p. 145.
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rendendo noto al nipote imperatore che la principessa sarebbe stata ben
contenta di convolare a nozze con il cugino Reginald39. L’ambasciatore
Chapuys, inoltre, accenna all’idea di un matrimonio tra i due per ben tre volte
nei suoi dispacci diretti a Carlo V, non ottenendo però l’effetto sperato. Una
riprova del fatto che l’idea venga accarezzata non soltanto dalla regina e
dall’emissario, ma anche dalla famiglia di Reginald è la richiesta che il fratello
minore, Geoffrey Pole, rivolge a Chapuys di prestare i propri servizi
all’imperatore e partire così per la Spagna40. Tuttavia, onde evitare spiacevoli
incidenti diplomatici e manifestare apertamente l’opposizione a Enrico di una
parte della nobiltà cortigiana, Chapuys è costretto a declinare l’offerta,
promettendo però al giovane Geoffrey una menzione speciale all’imperatore.
A differenza del “partito spagnolo” alla corte inglese, Carlo V immagina
invece per Pole una brillante carriera ecclesiastica. Dello stesso avviso sembrano
essere il nunzio in Francia, Rodolfo Pio41, e il cardinale Palmieri42, i quali in una
lettera rendono chiare le intenzioni del partito imperiale in seno al collegio
cardinalizio. Il nunzio chiede a Palmieri di rammentare al papa che Pole non è
solo un “parente del Re”, ma anche un “Rosa Bianca” e si trova in Italia.
Continua dicendo che si tratta di un giovane “di grande cultura e virtù, ma
adesso in uno stato di miseria e rovina perché non ha acconsentito a sostenere
gli appetiti disordinati e illeciti del Re, né a scrivere a suo favore. […] Se il Papa
gli desse il cappello di Fisher, oltre ad altri vantaggi, sembrerebbe al popolo
d'Inghilterra una cristiana e lodevole vendetta contro il Re”43.
Ai primi di dicembre, Harvel continua a mandare assicurazioni a Starkey
sul lavoro di Pole44, senza poter dare tuttavia informazioni più specifiche,
perché lo York persiste nel voler tenere segrete le proprie carte, desiderando che
il primo lettore del trattato-risposta sia Enrico in persona. Il 1° gennaio ’36, Pole
scrive a Contarini raccontando che dall’Inghilterra sono giunti due trattati che il
re desidera il cugino consulti per la scrittura del suo45. I testi in questione sono
Cfr. P. de Gayangos (a cura di), Calendar of State Papers, Spain, vol. IV, pt. 2, doc. 1130, p. 813 e
vol. V, pt. 1, doc. 109, p. 323.
40 Cfr. Haile, p. 144.
41 Cfr. F. Capanni, Rodolfo Pio da Carpi (1500-1564): diplomatico cardinale collezionista: appunti biobibliografici, Meldola 2001; P.G. Baroni, A proposito della nunziatura francese di Rodolfo Pio da Carpi,
Napoli 1963.
42 Andrea Matteo Palmieri (1483-1537), cardinale “imperiale”, fu nominato governatore di
Milano da Carlo V, poco prima della sua morte.
43 Lettera datata 4 luglio 1535, citata in Letters and Papers…, cit., doc. 986, p. 390. Traduzione
nostra.
44 Lettera datata 6 dicembre 1535, citata in Letters and Papers…, cit., vol. IX, doc. 927, p. 313.
45 Epistolarum Reginaldi Poli S.R.E. Cardinalis et aliorum ad ipsum collectio, ed. A.M. Querini, voll. IV, Brixiae 1744-57, vol. I, p. 428. [Da qui ERP].
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l’Oratio di Richard Sampson e il De vera obedientia di Stephen Gardiner, cioè i
trattati al centro della futura confutazione del De Unitate di Pole. Rivestendo i
panni del defensor fidei, ormai dismessi da Enrico VIII, Reginald spiega al
Contarini che non può più restare in silenzio di fronte allo scempio che
l’autorità papale subisce ad opera di Gardiner e Sampson. Trenta giorni dopo
invia al Contarini la prima parte del manoscritto, che contiene la confutazione
dell’Oratio di Sampson circa la legittimità dell’Atto di Supremazia46.
Inoltre, il 4 marzo, spedisce un plico, probabilmente lo stesso di Contarini,
ad Alvise Priuli (in viaggio verso Roma), mostrando una certa dose di
imbarazzo per aver chiesto al cardinale di leggere e correggere la bozza. Per
scusarsi di una così ardita richiesta, ricorda che la causa per cui sta scrivendo
non è la sua, ma di Cristo in persona47. Giunto a Roma, Priuli riceve un’ulteriore
lettera di Pole, in cui questi chiede notizie sulle intenzioni dell’imperatore atteso notoriamente a Roma per discutere dell’assetto complessivo della
Respublica ed anche di quello geopolitico dell’Italia settentrionale48 -in merito
alla “questione Enrico VIII” ed esprime il desiderio di recarsi nella sede della
cristianità per conversare con Carlo V. Risponde, poi, alle perplessità del
cardinale sul linguaggio impetuoso del De Unitate, giustificandolo con
l’impellente necessità di mostrare al popolo inglese, anzi al “grex Christi”, la
scelleratezza del re, che gestisce il suo regno a seconda degli umori di una
donna. Infine, chiede al Priuli di non mostrare lo scritto a Paolo III49, poiché non
vuole si possa dire che il papa abbia letto il trattato prima di Enrico 50.
ERP, I, p. 430.
ERP, I, p. 434.
48 Alla morte del duca Francesco II Sforza, rimasto senza eredi, si era acceso un nuovo conflitto
tra Impero e Regno di Francia. Il Milanese, infatti, costituiva un punto chiave nell’Italia
settentrionale: oltre a essere un naturale punto d’appoggio per lo spostamento di truppe e il
commercio, divideva a livello geografico i due maggiori Stati indipendenti della penisola
italiana, ossia il Ducato sabaudo e la Repubblica di Venezia. Pur essendo Milano entrata nella
sua orbita dal 1525, in assenza di un erede, Carlo V l’aveva occupata e vi aveva instaurato un
governatore. Il ducato funzionava come un vero e proprio “sistema città-stato” ed era suddiviso
in nove distretti autonomi. Per Carlo V, e in seguito per il re spagnolo, Milano si trovava in una
posizione strategica perché sorgeva come baluardo contro le mire francesi su Napoli e impediva
un contatto geografico diretto tra i francesi e i loro alleati veneziani. Ai governatori era poi
concessa numerosa autonomia gestionale e diplomatica; oltretutto la guarnigione di stanza a
Milano concorreva al mantenimento della pace nel nord Italia. Tenere presente questi dati è
essenziale per avere un quadro completo della situazione politica dell’Italia, mentre Pole era
intento a scrivere il De Unitate. Situazione politica che avrebbe potuto pregiudicare o aiutare
l’autore nell’intento che si prefiggeva di raggiungere con il suddetto trattato. Cfr. D. Sella, Lo
stato di Milano in età spagnola, Torino 1987.
49 Cfr. G. Fragnito, Paolo III, papa, in DBI, vol. 81, Roma, 2014
50 ERP, I, pp. 437-439
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Finalmente, il 24 marzo 1536, dopo mesi di duro lavoro, Reginald Pole annuncia
a Priuli, in un’ulteriore lettera, che il De Unitate è pronto e che non rimane altro
da fare se non spedirlo al re e attendere la sua risposta51.
La situazione in Inghilterra, intanto, ha subìto importanti mutamenti. Il 7
gennaio Caterina d’Aragona muore in circostanze sospette 52.Viene così a
mancare il motivo principale per cui l’imperatore potrebbe muovere guerra
contro l’Inghilterra e che riveste particolare importanza nell’appello a Carlo V
contenuto nel De Unitate. Pochi giorni dopo, il 29 gennaio, Anne Boleyn, in
seguito a complicazioni, partorisce prematuramente un feto morto. L’episodio
frattura irreversibilmente il rapporto con il “coniuge” Enrico, mentre la
pressione politica all’interno delle fazioni cortigiane la porta a entrare in attrito
con il potente cancelliere Cromwell. La mossa, che le risulterà fatale, segna
definitivamente la fine della parabola regale della Boleyn, che nel giro di poche
settimane viene arrestata e giustiziata. In breve, nel maggio 1536, si apre un pur
lugubre spiraglio di luce: morte Caterina e Anne, il vedovo Enrico VIII viene
sciolto da ogni legame matrimoniale precedentemente stipulato e i presupposti
della sua scomunica decadono.
A quel punto, pur venuto a sapere del processo e dell’esecuzione di Anne
Boleyn53, Pole decide di inviare comunque il manoscritto a Enrico. Sceglie come
messaggero Michael Throckmorton54, a cui ordina di consegnare il De Unitate al
re in persona e a nessun altro, allegando una lettera e le istruzioni da mostrare
al sovrano55. In esse chiarisce che l’unico motivo per cui ha intrapreso l’opera di
scrittura è l’esplicito ordine ricevuto dal sovrano: tutto ciò che Enrico leggerà
nasce dalla sua volontà, poiché Pole, per parte sua, reputa assai improbabile che
il cugino possa ormai tornare sul retto cammino.
A corte il De Unitate dovette venire avvertito come “troppo onesto”, come
anche era sembrato agli amici italiani Priuli e Contarini; sicché non sorprende,
stando a quanto contenuto nell’Act of Treason, che la risposta riportata da
Throckmorton dall’Inghilterra e destinata allo York lo inviti a rientrare in patria
ERP, I, pp. 442-446.
In una lettera di Francesco Contarini, ambasciatore veneziano presso il re dei Romani,
Ferdinando d’Asburgo, leggiamo: “He [Ferdinando] told me he had letters from his
ambassadors in England, who a few days before went to visit her Majesty, whom he found
much better (molto megliorata), and three days later wishing to visit her again, they told him it
was unnecessary, as she was dead”; cfr. Calendar of state papers..., cit., p. 39.
53 Cfr. Ivi, p. 42, doc. 99.
54 Micheal Throckmorton ci è noto soprattutto per essere stato il “peripatetico agente” tramite
cui Pole inviava e riceveva le lettere dall’Inghilterra. Cfr. A. Overell, Cardinal Pole's Special
Agent: Michael Throckmorton, C.1503–1558, in «History», 94, 2009, pp. 265-78.
55 Probabilmente l’istruzione è quella Oratio ab Henrico in BAV Vat.lat. 5970.1, ff. 155r-181v.
Inoltre, cfr. Letters and Papers…, cit., vol. X, doc. 974, pp. 403-404.
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per discutere personalmente con il re della faccenda. Sappiamo del contenuto
della lettera grazie a una missiva che l’8 luglio – il giorno di rientro del
messaggero – Pole invia al Contarini56: racconta che Enrico, con affettata
cordialità, ha espresso rammarico per il libro e definito “divergenti” le loro
opinioni. Desidera dunque che Pole ritorni in Inghilterra per poterne discutere a
voce. Nella sua risposta – informa sempre la missiva al cardinale veneziano –
Pole ha vincolato il proprio ritorno a corte con quello del sovrano
all’obbedienza romana, intuendo perfettamente quale sarà la reazione del
Tudor. In risposta, il Contarini gli riporta una conversazione avuta con papa
Paolo III: dopo aver raccontato al Farnese l’invito che Enrico VIII ha rivolto a
Pole, il pontefice ha domandato se Pole sia davvero intenzionato a tornare a
Londra. A tale quesito Contarini ha risposto che se il suo amico è veramente
saggio, come tutti credono, non rientrerà mai in Inghilterra57. Nessuno dubita
della fine di qualsiasi oppositore del re, una volta giunto a portata di boia.
In Inghilterra, chi resta più disarmato dal contenuto del libro sono i
familiari di Reginald e il cappellano Starkey. Su quest’ultimo iniziano a cadere i
primi sospetti di connivenza con il Pole, tanto da essere costretto a scusarsi con
Cromwell58 e con lo stesso re59 per le speranze riposte nel traditore Pole, a cui
peraltro indirizza una lettera poco diplomatica60. Per contro l’entusiastico
accoglimento dei pur riservati dissensi britannici registrato a Roma si deduce
con facilità dalla convocazione ufficiale rivolta a Pole da Paolo III61, desideroso
di conoscere l’opinione dell’inglese sull’imminente concilio. Al Farnese non
sfugge il valore di una figura del calibro di Pole, che potrebbe rappresentare
una seria possibilità di cambiamento nell’assetto politico-religioso europeo.
Avendo appreso dal Contarini l’effetto suscitato dal De Unitate alla corte
inglese, esprime il vivo desiderio di incontrare lo York62 e di discutere con lui di
varie questioni.
In proposito va anche ricordato che siamo nel 1536 e che in quegli anni
Pole si è già ritagliato una buona fama di studioso a Padova, dove è stato
studente di cose ecclesiastiche (fino al 1526) e dove, nel 1532, aveva conosciuto
Gian Pietro Carafa, Jacopo Sadoleto e Alvise Priuli, proprio nel ‘36 tutti divenuti
membri insieme a lui, compreso l’autorevole confidente Gasparo Contarini, del
ERP, I, p. 455. Qui è datata 8 giugno, ma dev’essere stata una svista del compilatore. In una
lettera al Contarini, datata 24 giugno, Pole lo informa che non ha ancora ricevuto notizie del suo
libro.
57 ERP, I p. 463.
58 Cfr. Letters and Papers…, cit., vol. XI, doc. 73, p. 36
59 Ivi, doc. 156.
60 Ivi, doc. 74.
61 ERP, I, p. 463.
62 Ivi, p. 464.
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Consilium de emendanda Ecclesia. Dal quale Consilium, come è noto, sarebbe
provenuto l’impulso per il rinnovamento della Chiesa, posta di fronte alla sfida
protestante.
Non è facile comprendere per quale motivo, quattro giorni dopo aver
accettato l’invito del papa, Pole invii una copia della convocazione di Paolo III a
Cromwell. La mossa, infatti, sembrerebbe un goffo tentativo di mettere
pressione alla corte (forse per mandare un non troppo velato messaggio a chi
mal sopporta la rottura con Roma). Oltretutto essa giunge in un momento
alquanto delicato: il matrimonio della principessa Mary è ormai un problema a
cui urge mettere un punto, perché risulta questione impellente per il re.
Sappiamo dai dispacci inviati regolarmente da Chapuys ad Antoine Perrenot de
Granvelle, uomo di fiducia di Carlo V, che a corte gira voce di un probabile
sposalizio tra Mary e Cromwell. Quest’ultimo, infatti, riserva sempre più di
frequente affettuose attenzioni alla figlia di Caterina, ma sul buon esito delle
avances lo stesso ambasciatore nutre forti dubbi: è vero che il re non desidera
che la probabile erede al trono – probabile se egli morisse e scoppiasse una
guerra civile – vada in sposa a un principe non inglese; tuttavia la principessa
Mary pare non ammetta altri pretendenti se non lo stesso Pole, o suo nipote
Henry, figlio omonimo di Lord Montague, fratello maggiore di Reginald63.
Enrico teme l’ingerenza dei sovrani europei negli affari inglesi, sapendo
fin troppo bene che la stabilità del suo regno dipende soprattutto dalla
persistenza del contrasto tra Francesco I e Carlo V sulla questione milanese; ma
ancora di più teme che Mary possa sposarsi con uno degli ultimi discendenti
del ramo spodestato dai Tudor (ossia l’erede di Margaret Plantageneta,
Reginald Pole), che conta sul consenso di parte della popolazione e
sull’appoggio del resto dell’Europa cattolica.
Stando così le cose, la diffusione del manoscritto di Pole potrebbe
scatenare una reazione a catena senza precedenti, che né lui, né il pur attento
operato di Cromwell riuscirebbero ad arrestare. Al riguardo, il ducato di
Milano assume un ruolo ancor più decisivo nello scenario europeo: se
l’imperatore e il re francese continuassero a coltivare la competizione tra i loro
regni, nessuno dei due impiegherebbe certo le proprie truppe per invadere
l’Inghilterra, ma se Francesco I riuscisse invece a barattare il suo appoggio
all’impresa contro Enrico con l’ottenimento del ducato, per il Tudor sarebbe
una vera catastrofe64. E l’ipotesi si fa ancora più inquietante se si prendono in
“Still I do not the more believe about Cromwell marrying her, though I think, as I have written
above, that [the King] will not marry her out of the realm, and I am sure she would not consent to
it herself, unless it were to Master Reynold Pole, who is at Venice, or to the son of my lord
Montague”; cfr. Letters and Papers…, cit., vol. XI, doc. 41, p. 24.
64 Cfr. Haile, Life of Reginald…, cit., p. 154.
63
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
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considerazione gli accenni di Pole nel De Unitate al fatto che le voci di dissenso
dei nobili inglesi sono giunte fino in Italia: insomma, qualora l’Europa sapesse
che il consenso di cui gode il re in Inghilterra è più che mai traballante, chi
potrebbe fermare i francesi e Carlo V dall’invaderlo?65
La colossale portata dell’operazione viene compresa da tutti – veneziani in
testa – tanto che l’ambasciatore di costoro a Roma, Lorenzo Bragadino, scrive di
aver parlato con il papa degli “affari inglesi”66. Paolo III gli ha raccontato di un
colloquio con un “gran personaggio” (Pole?), il quale ha assicurato che in
Inghilterra non c’è alcuna possibilità di un accordo. Si prepara, infatti, una
ribellione che coinvolgerà l’intera isola e che investirà verticalmente tutta la
piramide sociale inglese, poiché con i ribelli ci sono anche “molti nobiluomini”.
Sua Santità, continua l’ambasciatore, si dice speranzoso che un intervento possa
portare a una veloce e favorevole risoluzione e per tale ragione la situazione
esige di trovare un accordo tra i principi (Carlo V e Francesco I).
Anche da Martin de Zormoza, ambasciatore spagnolo a Venezia,
giungono notizie di tal senso. Notizie riferite all’imperatore in termini quanto
mai espliciti:
Reginald Pole ha intrattenuto un’intima corrispondenza con i sudditi scontenti del Galles del
Nord, del Berwick, del Somersetshire e di altre parti del regno. Se l’imperatore gli desse soltanto un
piccolo aiuto potrebbe facilmente detronizzare re Enrico e mettere a disposizione dell’imperatore
l’Inghilterra. 67
Se l’imperatore non sembra voler cogliere l’occasione, avendo per di più
promesso la mano della giovane Mary Tudor al principe portoghese Don Luis, è
Paolo III ad accogliere il De Unitate come un’opera profetica e a patrocinare la
carriera del giovane inglese. Tra la fine del 1536 e il febbraio del 1537, quando
ormai il Farnese ha già posto la berretta rossa sul capo di Reginald Pole,
l’ambasciatore imperiale a Roma scrive a Carlo V. Si tratta di una lettera,
Cfr. la lettera molto esplicita del vescovo di Tarbes al balivo di Troyes, in cui pare assicurato
l’appoggio di un’ormai stanca popolazione inglese ad una possibile invasione dei continentali;
Letters and Papers…, cit., vol. IX, doc. 566, pp. 188-189.
66 “Which he said were going quite against the King, and that he had seen trustworthy advices
from a great personage that there was no hope whatever of an agreement; and that well nigh
the whole Island had rebelled […]; and with the insurgents there were the Archbishop of York
and many noblemen and gentry. His Holiness had no further recollection of their names […]
showing that he had very sure hope of a speedy and favourable result. […] we must […] find
the road to concord between these Princes”; Cfr. Calendar of state papers..., cit., pp. 52-53, doc.
132. Il documento è riportato a stralci perché la pagina è poco leggibile.
67 Cfr. T.D. Hardy, Report to the Right Hon. the Master of the Rolls upon the Documents in the
Archives and Public Libraries of Venice, Londra 1866, pp. 69-70. Traduzione e corsivo nostri.
65
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
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conservata a Simancas, che riveste per questa ricostruzione una notevole
importanza, sia per la sua franchezza che per i contenuti.
Il contesto, vale la pena di sottolinearlo, è quello dell’attesa del concilio
che dovrà riappacificare la cristianità, con lo York fra i protagonisti, si fa sempre
più concreta e pressante. Ma al tempo stesso non si può dimenticare che
imperatore e papa non sono sulla stessa lunghezza d’onda a proposito di Pole:
mentre il primo lo vorrebbe presidente della grande assemblea, se non
addirittura papa in un futuro più o meno prossimo, al fine di poter collocare un
proprio fiduciario al fianco di Mary, viceversa per il papato l’ipotesi del
cardinale-re sembra risultare decisamente più convincente.
Un cardinale re? Pole e i pellegrini di Grazia
Riferisce dunque nella sua missiva il rappresentante spagnolo a Venezia che il
papa è intenzionato a mandare Pole come legato in Inghilterra per incoraggiare
e guidare i ribelli, detronizzare Enrico, sposare la principessa Mary e diventare
re68. Il piano è di far passare l’inviato papale attraverso la Germania e le
Fiandre; dopodiché, una volta giunto Oltremanica, Pole dovrebbe supportare i
ribelli inglesi con ogni mezzo, sposare Mary e “candidarsi” per il trono. Per
questo motivo, viene spiegato nella lettera, egli è stato creato cardinale diacono,
e non vescovo, e gli sono stati conferiti solo gli ordini minori. In questo modo,
qualora favorito dalle circostanze, potrebbe prendere in moglie la principessa
senza incorrere in sanzioni canoniche.
Si sta parlando cioè, ormai è evidente, della prima legazione del cardinale
“ad res Angliae componendas” (1536-37)69. In base ad essa, Pole viene almeno
ufficialmente inviato a negoziare con Cromwell ed Enrico dalle Fiandre: non
potendosi recare direttamente in Inghilterra, il legato deve giungere,
attraversando il territorio tedesco, a collocarsi presso la reggente delle Fiandre,
Maria d’Ungheria, e di lì prendere contatti a distanza con il Lord cancelliere. In
realtà, stando alla lettera del diplomatico spagnolo, il quadro che emerge risulta
assai differente. L’incarico di negoziare a distanza, e lo vedremo tra poco, è
“The Pope intended to send R. P. as his legate to England. Pole was to encourage and to lead
the rebels, to dethrone King Henry, to marry the Princess Mary, and to become king of England.
Ten thousand ducats were given to him werewith to entertain sharpshooters in Flanders and
Germany in succour of the English rebellion. But all this was to be done with the outward
appearance of a mission of peace. The ‘soldier of the true faith’, the pretender to the hand of the
Princess Mary, and the candidate for the English crown was therefore made a cardinal in
appearance, the Pope taking care that he should not enter even the lowest degree of holy orders,
and content himself with having the tonsure shaved on his head”; ivi, p. 70.
69 Cfr. G. Van Gulik – C. Eubel, Hierarchia catholica mediiet recentiores aevi, Münster 1923, vol. III.
68
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soltanto una scusa. L’obiettivo vero è quello di sostenere ufficiosamente quel
che va sotto il nome, alquanto famoso, di Pellegrinaggio di Grazia70.
Dall’Inghilterra del Nord, infatti, si solleva un possente manipolo di
ribelli che rivendica l’antica appartenenza al cattolicesimo e si scaglia contro la
dubbia politica matrimoniale della corona, contro la spoliazione dei monasteri e
contro lo strapotere del cancelliere di Sua Maestà, alias Thomas Cromwell. Il
Pellegrinaggio, così come ormai lo conosciamo, è l’unificazione in un unico
movimento di sollevazioni popolari nate spontaneamente in diverse parti del
regno, piuttosto che una ribellione organizzata. Al riguardo, la storiografia ha
operato un vasto lavoro di ricucitura, ricostruendo i legami tra il Pellegrinaggio
e le altre rivolte coeve71. Ciò che rende interessanteai nostri occhi la rivolta di
Robert Aske, capo del Pellegrinaggio, oltre al grave attentato alla stabilità del
regno guidato da Enrico e da Cromwell, è la matrice geografica e dinastica del
movimento. Sebbene il Cumberland e il Northumberland, cioè le terre
confinanti con la Scozia, si oppongano alla ribellione, dallo Yorkshire si
sollevano più di quarantamila persone. Lo stesso Robert Aske è un avvocato
(un barrister) appartenente a un’antica famiglia del luogo ed è quindi legato per
appartenenza familiare e politica agli York. Il fatto che lo stesso Pole appartenga
ai “Rosa Bianca”, anzi che ne sia uno degli ultimi eredi, non può sfuggire a
nessuno.
Il già citato nunzio in Francia, Rodolfo Pio, è uno degli ispiratori della
legazione e uno dei più esimi peroratori della causa del Pole a Roma e di fronte
al re di Scozia, Giacomo V, che in quei mesi si trova a Rouen. Lo Stuart, infatti, è
un alleato imprescindibile per chiunque voglia destabilizzare il regno inglese: la
Scozia confina con le zone da cui si sta sollevando il Pellegrinaggio e può
contare su una tradizione anti-inglese ben radicata. L’efficiente lavoro
diplomatico del nunzio viene notato dall’ambasciatore inglese in Francia, che,
tramite una lettera, tiene al corrente Enrico e conferma al re l’avvenuta nomina
di Pole a cardinale72. Nella missiva, l’ambasciatore continua parlando degli
scozzesi, dei quali scrive di reputarli ostili nei confronti di Enrico, e avanza
ipotesi sul sospetto che il re francese sia a sua volta incline ad aiutare re
Giacomo nell’invasione dell’Inghilterra.
ERP, II, p. CCLXXIX.
Tra queste, la rivolta del Lincolnshire esplose alcuni giorni prima del Pellegrinaggio di Grazia.
Sulle mura della St. James’ Church (a Louth), a memoria dell’evento, spicca la placca
commemorativa che riporta tale dicitura: “The Lincolnshire Rising began in this church 1st
October 1536. For his part in it, the Vicar was hanged, drawn and quartered at Tyburn 25th
March 1537”; per utilizzare le parole dello storico James A. Williamson, possiamo dire che
“molte teste caddero, poiché Cromwell ben sapeva come dominare il malcontento”.
72 Record Office (da qui, R.O.), St. P. VII. 668 (9 gennaio 1537). L’ambasciatore commentava a
proposito: “whereof I am right sorry, for I knowe well the King can not take it well”.
70
71
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La paura, mai sopita, che il re di Scozia possa muovere guerra al re inglese
convince Cromwell a sbarrare la strada del ritorno in patria a Giacomo V e alla
sua sposa, Maddalena di Valois. Intanto Paolo III fa pervenire al re scozzese,
tramite il nunzio, una lettera in cui annuncia la missione di Pole come legato
per il popolo d’Inghilterra. Cercando di delineare un primo quadro di alleanze,
vengono spedite lettere simili a Francesco I e a Maria d’Ungheria, reggente
delle Fiandre: anche in queste il papa si affida ai sovrani per la buona riuscita
dell’impresa di Pole ed esorta gli ambasciatori a convincere i rispettivi principi
ad aiutare l’emissario della Santa Sede in questo difficile compito.
Importante ai fini della comprensione delle reali motivazioni sottostanti
alla prima legazione è la lettera che Pole scrive a Paolo III prima di partire 73. Si
tratta di una scrittura, conservata alla BAV (Urb.lat. 865), che risulta davvero
preziosa e illuminante, anche per percepire una certa duttilità in campo
dottrinale, non meno della concretezza operativa del cardinale potenzialmente
re. Da questa apprendiamo che lo York fa richiesta di una “Bolla della
Legatione […] che sia, e di parole, e di facoltà onorevole, et ampla di sorte, che
da essa si conosca l’honore, che lei fa a quella Natione mandandole uno de suoi,
così innocentemente e con tanta modestia”74. Inoltre, prega di poter esercitare
l’intera gamma di facoltà legate al suo ufficio anche “in Scotia, e nei luoghi
sudditi à quel Regno, perché me ne valerei dove sapessi che fosse necessario e
bene adoperarle”75. Continuando sulle finalità del viaggio:
la somma di quello, che si desidera in Anglia, giudico che sia che il Re ritorni ogni cosa in quello
stato ch’era avanti che facesse li disordini che ha fatto e che si emendi tutto quello che si può
comportare. Prima de dogmi della fede, e Religione senza una minima diminuzione, poi di
restituir l’obedientia e l’authorità solita in quel Regno, e da sé, e da tutti, et ecclesiastici e
secolari, nel modo ch’era prima fecondo, et in fatti, et in parole, et in ogni demonstratione, e
quelli segnali, et effetti, che si potran condurre a fare per ricuperar la gratia di Dio, et di Vostra
Santità, et incorporatione de fideli. 76
Pole è peraltro consapevole che, pur potendo tornare cattolico, il popolo
inglese ha ormai subìto una trasformazione culturale irrecuperabile. Per questo
interroga il Farnese su quanto è in suo potere concedere “parlando sempre non
di quello ch’è di sostanza nelli Dogmi, senza i quali né lor posson esser nostri né
noi accettarli, ma di qualche libertà, […] più di quella che hanno havuta per il
passato”. In cambio, Pole assicura Paolo III che farà “quanto Nostro Signore Dio
BAV Urb. lat. 865, ff. 331r-339v. Il documento è sprovvisto di data, per questo è stato inserito
alla fine della sezione dedicata a Paolo III, ma la datazione (1537) è facilmente ricavabile dal
riferimento al Pellegrinaggio di Grazia.
74 F. 334r.
75 F. 335r.
76 Ff. 335r-v.
73
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mi darà gratia” per mettere ordine nelle questioni “del Concilio, delle materie
lutherane, et altri inconvenienti d’heresia che fussero pullulati per questi
disordini del Re”77.
Fin qui sembra di trovarsi di fronte a una normalissima missiva, da cui
emerge l’importante connessione con il Concilio che Farnese, sotto la spinta di
Carlo V, cerca di preparare dal ’36. Tuttavia, alla fine del documento, ci si
imbatte in un inciso alquanto significativo – non solo per la conferma della
completa sfiducia nei confronti del Tudor -che vale la pena riportare per intero:
Ma Padre Santo una cosa non voglio ommettere, che mi par importantissima e potria esser
ripreso da Vostra Santità d’haver poco pensato al suo servitio quando la pretermetessi. Potria
essere che vedendosi il Re a mal partito con tanta furia dei Popoli addosso, havesse cercato, con
dimandare le loro petitioni e monstrato di giudicarle honeste, e promettendo di volerle
accettare, di levarsele da dosso con animo di non osservar cosa alcuna quando si vedrà fuor di
pericolo, e col tempo andarsi levando gl’Authori della seditione hora con una occasione, hora
con un’altra. A questo quando i Popoli non stessero saldi, overo essendo inutili per suscitarli penso che
sarria una gran provisione se ci fosse chi in nome di Vostra Santità li confirmasse, e sollicitasse non solo
con parole, ma ancora con fatti, i quali bisognaria che fussero di quella quantità di denari, che il bisogno
portasse. I quali essa vede come di poco migliore, e più necessario uso, et in aiuto di persone, che
son così benemerite sarriano spesi, e di quanto bene potria esser causa haver il rimedo pronto.
Però tra l’altre cose mi è parso riverentemente ricordarle, che sarria bene, che in quella parte di
Fiandra che fosse più libera, la ci havesse un credito nelli Fuccari e Belzeri, e quanto fosse
maggiore, meglio sarria, de quale havesse a valersi quella persona, a che le piacesse dar questa
fede quando ch’io per occasione che fussero si ben spesi giudicassi di metterci mano: che può
ben esser certa ch’io non sarei mai sì temerario, né sì poco amorevole, che lo facesse se non in
caso, che la m’havesse a riprendere quando pretermettessi di farlo. 78
Pole dà per scontato che Enrico cercherà di calmare i “pellegrini di
Grazia” con false promesse e poi di liberarsi alla prima occasione dei capi della
rivolta. Per questo motivo, ritiene necessario sostenere a qualunque costo i
ribelli.
Il fine ultimo della legazione è dunque riportare l’Inghilterra sotto l’egida
del cattolicesimo romano e rivedere i termini con cui Enrico VIII si era
proclamato capo della chiesa anglicana79 in seguito all’approvazione dell’Atto
di Supremazia. Ma la riconversione del Paese deve essere perseguita a ogni
costo, anche attraverso una rivolta. Gli scenari di effettiva riuscita dell’impresa
sono due. Nel primo, Pole riuscirebbe a convincere il cugino a ripensare quegli
anni di politica religiosa sconsiderata come a un incidente di percorso e a
ripristinare il ruolo del pontefice more antiquo; in contraccambio Enrico
otterrebbe la revoca del cardinalato di Reginald, mentre quest’ultimo
Ff. 336v-337r.
Ff. 338r-v. Corsivo nostro. Il riferimento è ai Fugger (Fuccari) e i Welzer (Belzeri).
79 Da intendersi “d’Inghilterra”.
77
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distruggerebbe ogni copia esistente del De Unitate, ritirandosi in un monastero
per il resto della sua vita80. Nel secondo, incontrato un netto rifiuto da parte del
re inglese, Pole scatenerebbe una rivolta interna, aizzando contro Enrico, con la
sua sola presenza nelle Fiandre, quel partito di nobili scontenti del governo
Tudor-Cromwell, cui si aggiungerebbe il concorso dai principi europei e dei
“pellegrini”.
Quest’ultimo scenario, profetizzato dallo stesso Pole, è quello che più
preoccupa Enrico VIII e che, come si è visto, ritorna con più frequenza nei
dispacci diplomatici del periodo. Con queste prospettive “il Polo” abbandona
Roma il 14 febbraio 1537, accompagnato dal vescovo di Verona, Gian Matteo
Giberti81, per dirigersi verso la Francia.
In Inghilterra, intanto, i pellegrini riottosi hanno ormai raggiunto un
numero considerevole (tra i trenta e i quarantamila seguaci82) e cominciano ad
apparire una minaccia talmente seria da costringere il re ad inviare a sedare la
rivolta il terzo duca di Norfolk83, Thomas Howard, e il quarto conte di
Shrewsbury, George Talbot. Intuendo che l’ostacolo principale alla missione di
Pole è la sua lontananza dall’Inghilterra e la rivalità tra il re di Francia e
l’imperatore, re Enrico e Cromwell sono consapevoli che l’unico modo per
riuscire a evitare la catastrofe è agire con celerità, sedando la rivolta e cercando
di togliere di mezzo lo scomodo cugino84.
Venuto a sapere della legazione, Carlo V decide tuttavia di impedire il
passaggio del cardinale attraverso Trento e la Germania, dirottandolo in
Francia. Si tratta, in definitiva, di una mossa politica contro il re francese:
aiutando Pole ad ottenere un salvacondotto fino alle Fiandre, Francesco I
Notizie che ci vengono fornite sia da Throckmorton, sia da Beccadelli.
Tra le monografie più importanti su Giberti troviamo: A. Grazioli, Gian Matteo giberti, Vescovo
di Verona, precursore della Riforma del Concilio di Trento, Verona 1955; P. Bassi, Il vescovo Gian
Matteo Giberti e il suo epistolario, Bologna 1963/1964; A. Prosperi, Tra evangelismo e controriforma:
Gian Matteo Giberti (1495-1543), Roma 1969; A. Turchini, Giberti, Gian Matteo in DBI, vol. 54,
2000.
82 Cfr. la voce "Pilgrimage of Grace" (a cura di E. Burton) in The Catholic Encyclopedia, Vol. 12,
New York 1911.
83 A pensarci bene, la situazione che Thomas Howard si trovò a vivere rasenta il dramma
shakespeariano. A corte, infatti, Norfolk rappresentava il partito di quei nobili rimasti fedeli al
cattolicesimo e fu forse per testare la sua fedeltà che Enrico lo inviò nello Yorkshire. Tuttavia, le
convinzioni religiose della famiglia Howard non si spensero, tant’è che il quarto duca di
Norfolk, il figlio di Thomas H., venne giustiziato da Elisabetta I per aver partecipato a due
complotti per portare Mary Stuart al potere e ristabilire il cattolicesimo in Inghilterra.
84 Cfr. T. Mayer, A Diet for Henry VIII: The Failure of Reginald Pole's 1537 Legation, in «Journal of
British Studies», 26 (1987), pp. 305-331; Id., If Martyrs are to be Exchanged with Martyrs: The
Kidnappings of William Tyndale and Reginald Pole, in «Archiv für Reformationsgeschichte», 81
(1990), pp. 286-307.
80
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correrebbe il rischio di incorrere nella rottura dei rapporti diplomatici con
l’Inghilterra; in alternativa, arrestando il legato, si attirerebbe le ire del papa.
Per parte sua, il re cristianissimo, onde evitare ogni tipo di compromissione
diplomatica, rifiuta di ricevere in pubblico Pole, negandogli persino il passaggio
sui suoi territori e invitandolo piuttosto a fare ritorno a Roma. Intanto, nelle
trattative di pace tra i ribelli e la corona a Doncaster, Norfolk promette ad Aske
la convocazione del Parlamento per discutere delle rivendicazioni dei ribelli e il
perdono generale da parte di Enrico VIII.
Messo alle strette dall’assenza di un appoggio esterno (Pole non riuscirà a
giungere in tempo nelle Fiandre per sostenere il Pellegrinaggio), il capo della
rivolta è costretto a licenziare e a disperdere i “pellegrini di Grazia”. Fallisce
così il Pilgrimage of Grace, che può essere considerato un banco di prova per i
sostenitori del cardinale. Il piano di chi lo voleva a guidare una rivolta contro
Enrico si infrange di fronte alle tergiversazioni del re di Francia e
dell’imperatore.
Quando la notizia della pacificazione giunge alle sue orecchie, Pole non
può esimersi dal commentare la situazione. In una lettera destinata a Paolo III,
ancora una volta si dice scettico sull’effettiva misericordia del cugino re: è
sicuro che, alla prima occasione, non esiterà a punire con la pena di morte i
leader della ribellione85. E difatti ha intuito in pieno le vere intenzioni di Enrico:
una successiva rivolta in Cumberland e nel Westmorland (territori troppo vicini
alla Scozia per non destare la viva preoccupazione del governo) dà il pretesto al
sovrano per reprimere l’insurrezione nel sangue e ordinare l’arresto e la
decapitazione dei capi delle tre rivolte86.
Fintanto che, in Francia, le notizie sul Pellegrinaggio sembrano confermare
il successo della rivolta contro Enrico e i suoi sostenitori, re Francesco appoggia
idealmente la battaglia di Roma e del legato papale. Tuttavia, desideroso di non
voler inclinare troppo l’ago diplomatico da una parte piuttosto che dall’altra, si
è dichiarato disposto a pubblicare la censura87, ossia a notificare la scomunica e
a renderla esecutiva nel regno con il blocco del commercio e l’interruzione dei
rapporti diplomatici con l’Inghilterra, solo a condizione che le modalità non
corrodano i rapporti con il re inglese. Quando però la notizia della disfatta dei
“pellegrini” giunge a Parigi, Francesco si affretta a cambiare i termini della sua
Citata in Haile, Life of Reginald…, cit., p. 201.
La cronaca di Wriothesley riporta numerose informazioni al riguardo; cfr. C. Wriothesley, A
chronicle of England during the reigns of the Tudors, from A. D. 1485-1559, voll. I-II, a cura di W.D.
Hamilton, Londra 1895-1897.
87 La censura è un tipo di “pena con la quale il battezzato che ha commesso un delitto ed è
contumace, è privato di alcuni beni spirituali o annessi ad essi finchè cessi dalla contumacia e
venga assolto” (can. 2241 Codex Iuris Canonici 1917).
85
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fedeltà alla crociata romana88 e prende le distanze dalla missione di Pole. Nel
frattempo l’imperatore si destreggia in acrobazie non meno audaci del re di
Francia. Convinto dai suoi ambasciatori che la missione di Pole non abbia il
semplice fine di riportare il cattolicesimo in Inghilterra89, l’imperatore dà
istruzione a due inviati speciali di contrattare il matrimonio tra la principessa
Mary e suo nipote Luigi di Portogallo e di smascherare la condotta riprovevole
di Francesco, sostenitore dei Turchi nella lotta contro l’Asburgo.
Nonostante il vantaggio recuperato su Pole, dopo aver sconfitto e disperso
la ribellione e averne decapitato il centro decisionale, Enrico continua a sentire
minacciate le basi del proprio consenso. Il nemico, che fino a poco tempo prima
si è scatenato all’interno dei confini inglesi, adesso assume la forma di un cane
bicefalo sguinzagliato all’esterno: da un parte, mostra la fauci del traditore
Reginald Pole; dall’altra, quelle del re di Scozia, Giacomo V. Enrico è
terrorizzato dal ruolo che gli scozzesi possono avere nella rovina del suo regno
ed è per questo che costringe il duca di Norfolk a restare a Newburgh, sebbene
quest’ultimo abbia più volte smentito l’esistenza di minacce dal Nord.
Dopo aver assicurato la protezione del confine settentrionale, gli sforzi del
re si concentrano sull’eliminazione della minaccia costituita dal legato. Tramite
un attento lavoro di pressione politica, magistralmente giostrato dai suoi
delegati90, il governo inglese convince Francesco I e Maria d’Ungheria a rifiutare
udienza all’inviato papale e invita entrambi i sovrani a consegnare Pole
all’Inghilterra. Enrico sa che, così facendo, otterrebbe interamente o in parte ciò
che vuole: la consegna di Pole e il suo ritorno in patria, per il processo d’alto
tradimento, o almeno la compromissione della missione diplomatica. In questi
anni (1536-1539) Enrico ha subìto fortissime scosse alla stabilità del suo regno e,
dopo un processo di maturazione durato diversi mesi, nel 1537 è convinto che
queste siano tutte causate direttamente o indirettamente da Reginald Pole.
Uccidere Pole significherebbe uccidere quella parte di Inghilterra che, secondo
A proposito del cambio di rotta della politica francese, M. Haile cita l’istruzione che il re diede
a un inviato presso la corte inglese. In questa, Francesco I non usa mezzi termini: Pole è stato
inviato dalla Sede Apostolica per fomentare le rivolte contro Enrico; se il re francese può fare
qualcosa, Enrico non deve far altro che chiedere, a patto che il Tudor rispetti i trattati siglati in
precedenza e riconsideri la proposta di matrimonio tra il Duca d’Orleans e la principessa Mary.
Cfr. M. Haile, Life of Reginald…, cit., p. 205.
89 Cfr. supra p. 14. Durante le ricerche, mi sono imbattuta in un microfilm contente il riassunto di
alcune lettere inviate dall’ambasciatore spagnolo a Venezia all’Imperatore e conservate
all’archivio di Simancas. Tra queste, una si riferisce chiaramente al progetto di Pole di
spodestare Enrico, sposare Mary e diventare re d’Inghilterra. Tale documentazione sarà materia
di prossimo studio e approfondimento.
90 Sir Francis Brian e un certo Sadler in Francia, John Hulton alla corte della Reggente di
Fiandre.
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il Tudor, si oppone alla sua sovranità. Dichiaratolo pertanto colpevole di
tradimento, mette una taglia di 50.000 ducati sulla sua testa, mentre Cromwell
assolda diversi agenti per attentare alla vita del cardinale91.
Su tale questione Mayer ha sottolineato quanto non fosse insolito
nell’Inghilterra tudoriana che si ricorresse a tali espedienti per eliminare
eventuali avversari92. A conferma si può ricordare tra l’altro che nella città di
Roma, sulla via Appia, si trova tutt’oggi la cappella del cardinale Pole,
all’interno della quale un’edicola votiva tiene viva la memoria di un tentativo di
sopprimerlo, narrato dallo stesso Pole e dai suoi biografi.
Non ottenendo l’appoggio dal re francese e temendo per la propria vita,
grazie al beneplacito dell’imperatore93 Reginald trova alla fine ospitalità presso
il vescovo di Liegi, anch’esso cardinale, presso cui rimane per sei mesi.
Dall’epistolario di Pole emerge la descrizione di un soggiorno tranquillo,
trascorso in serena operosità, e tutto disposto al sostegno a distanza delle cellule
di insubordinazione all’interno del regno inglese. Il cardinale vive nell’attesa
che le alleanze politiche mutino a sfavore di Enrico ed è pronto a salpare verso
l’Inghilterra qualora una delle due potenze, la Francia o l’Impero, o entrambe di
comune accordo, si decidano per un intervento armato. Purtroppo però, come
avrebbe narrato il Beccadelli:
Quivi [a Liegi] sei mesi dimorò, aspettando ch’agli humori d’Inghilterra dessero fomento, come
intentione date havevano l’imperatore, et il Re di Francia; ma essi attesero a conservarse, et a
mercantare il Re d’Inghilterra, il quale con le discordie loro, stabiliva il suo tirannico governo,
pascendo hor l’uno hor l’altro di que’ Principi con le sue lusinghe. 94
Con il che, Paolo III, avendo compreso che la missione di Pole si trova a un
punto morto, riconvoca il legato a Roma per fargli offrire i suoi servigi
all’organizzazione dell’imminente Concilio95.
Secondo quanto riportato dalla biografia di Haile, al suo ritorno a Roma,
Pole viene a sapere che il De Unitate è stato stampato dalla tipografia di Antonio
Blado a sua insaputa. Il numero di copie è veramente esiguo; ciononostante il
cardinale cerca di raccoglierne il più possibile e di distruggerle96. Molto
Cfr. supra, p. 17, nt. 72.
Cfr. T. Mayer, If Martyrs are…, cit., p. 288.
93 In Haile, p. 219, viene citatata la lettera in cui l’ambasciatore John Hutton avvisa Enrico che il
“traditore” Pole è riuscito a trovare rifugio presso Liegi.
94 L. Beccadelli, “Vita del cardinale Reginaldo Polo”, in Monumenti di varia letteratura tratti dai
manoscritti di Monsignor Lodovico Beccadelli arcivescovo di Ragusa, I/2, Bologna 1799, pp. 269-333.
95 Ricordiamo che il Concilio era stato convocato la prima volta a Mantova il 2 giugno 1536 con
la Bolla Ad Dominici Gregis Curam ed era fortemente voluto dall’imperatore, passato per Roma
nel 1536, per cercare di trovare una soluzione al “problema luterano” che aveva diviso l’Impero.
96 Cfr. M. Haile, Life of Reginald…, cit., p. 230.
91
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potremmo interrogarci sulla volontà di Pole di rimediare alla pubblicazione
arbitraria della sua opera: perché tanta contrarietà a che il suo scritto circoli
nella ristretta cerchia dei porporati romani? Perché cercare di evitare la
diffusione di un’opera che ha indirettamente indirizzato all’intera cristianità?
Secondo il biografo Haile, si tratta dell’ennesima dimostrazione di coerenza e
fedeltà ai suoi buoni propositi. Avendo promesso di distruggere il manoscritto
qualora Enrico fosse tornato cattolico, non voleva lasciarsi scomode
pubblicazioni alle spalle97.
Questa immagine di Pole è stata in qualche modo rivisitata dallo storico
Mayer, che tuttavia non si sofferma sull’evento in questione98. A prescindere
dalle supposizioni che si possono fare, la questione resterà insoluta, ma è
importante tenerla in considerazione. Non possiamo escludere che l’aspra
invettiva contro Enrico VIII, perno del De Unitate, necessitasse di una
contestualizzazione per il lettore che l’autore non era stato in grado di fornire in
questa prima edizione e che quindi Pole desiderasse disfarsi delle copie
stampate senza la sua autorizzazione per curarne personalmente, dotandola di
un’introduzione, una futura edizione.
Mentre Enrico è di nuovo in cerca di una moglie
In ogni caso gli impegni pubblici impediscono a Pole di dedicarsi all’otium come
vorrebbe. Paolo III lo sceglie per farsi accompagnare in una missione
diplomatica di estrema importanza99: le trattative di pace tra Carlo V e
Francesco I a Nizza100. Con la tregua siglata nel ‘38 si conclude la Guerra d’Italia
scoppiata nel 1536, dopo la morte del duca di Milano, Francesco II Sforza.
Durante le trattative di pace, sottoscritte nonostante l’incompatibilità profonda
tra i due sovrani, il pontefice cerca di perorare la causa inglese dinnanzi alle due
corti. A tal proposito, Beccadelli racconta che l’imperatore, tramite Granvelle,
chiede di poter interloquire di persona con Reginald Pole per ringraziarlo della
fedeltà dimostrata alla defunta zia nei tormentati anni del ripudio di Enrico e
per interrogarlo sugli affari d’Oltremanica101. Nei colloqui intercorsi tra Paolo III
e i due sovrani si accenna inoltre alla possibilità che la censura contro Enrico
possa essere pubblicata e rispettata da entrambi i regni, a costo di interrompere
gli scambi commerciali con l’Inghilterra. Tuttavia non verrà mai pubblicata,
probabilmente perché il papa sarà convinto a desistere da coloro che
Haile descrive Pole come “chivalrously true to his word”, ivi.
Cfr. T. Mayer, Reginald Pole, cit., pp. 91-102.
99 ERP, II, 107.
100 Cfr. L. Von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, Vol. V, Roma 1942, pp. 187-193.
101 Beccadelli, Vita del cardinale…, cit., pp. 296-297.
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presagiscono una discreta perdita di immagine del papato, qualora siano
pubblicate disposizioni che difficilmente il seggio di Pietro avrebbe il potere di
far rispettare ai capricciosi monarchi.
In Inghilterra Enrico inaugura il 1538 con l’inasprimento delle
persecuzioni a danno di chiunque non si conformi all’Atto di Supremazia
(cattolici e riformati). Da una lettera del nunzio di Francia, Rodolfo Pio,
apprendiamo particolari vagamente comici:
il re [Francesco I] non può mostrare un'opinione peggiore di quella che ha sul re d'Inghilterra,
che si pavoneggia contro la Francia e l'imperatore, ma indulge in stravaganze che a pensarci il
re non riesce a smettere di ridere. Il re mi ha detto che Enrico ha dato licenza di mangiare uova
e latticini ed elargisce dispense di persona, come farebbe sua Santità, ed è sicuro che a breve
vorrà anche celebrare la messa. 102
Rimasto vedovo nell’autunno del 1537, Enrico deve ritenere opportuno
trovare una nuova moglie. Cromwell e il partito a lui vicino caldeggiano un
matrimonio “riformato”, che legherebbe indissolubilmente Enrico ai sentieri
della Riforma e lo svincolerebbe dai giochi di potere tra l’Impero e la Francia.
Tuttavia il re è propenso invece a rischiare e propone a Francesco I il
matrimonio con Marie de Guise, promessa sposa di Giacomo V di Scozia
(rimasto vedovo dopo pochi mesi di matrimonio con Maddalena di Valois).
Ottenuto un ovvio rifiuto per la promessa matrimoniale già stipulata con gli
scozzesi, Enrico rompe nuovamente i rapporti diplomatici con il regno a nord
del Vallo di Adriano e proibisce il passaggio in Inghilterra della futura regina di
Scozia. Di fronte a ciò, Carlo V avanza l’offerta di un matrimonio filoimperiale
con Christina di Danimarca, vedova dello Sforza, e rinnova l’invito a unire i
destini della principessa Mary e di Luigi di Portogallo. Ma le trattative risultano
inconcludenti e l’idea del matrimonio con l’Impero fallisce come fallisce quella
dell’unione al profumo di Francia.
Le notizie dall’Inghilterra investono Pole come un vento gelido:
nell’ottobre del 1538, il governo inglese ha iniziato a investigare sulla cosiddetta
“congiura di Exeter”. A scatenare la furia repressiva del sovrano sono le
dichiarazioni estorte sotto tortura a Geoffrey Pole, il fratello minore di Reginald,
il quale conferma i sospetti che vedevano la presunta fazione composta dalle
famiglie Exeter, Carew e Pole al centro di un complotto per rovesciare il
Tudor103. Quella che viene denominata la “Carew-Exeter faction” ripone infatti
Letters and Papers…, cit., vol. XIII, 1, doc. 678. Traduzione nostra.
Lo studio più approfondito sulla Exeter conspiracy risale al 1915. Secondo le autrici, Madeleine
e Ruth Dodds, sostengono che non si trattò di una vera e propria congiura e soprattutto che la
famiglia Pole non fu mai direttamente coinvolta. Cfr. M.H. Dodds – R. Dodds, The Pilgrimage of
Grace 1536-1537 and The Exeter Conspiracy 1538, Cambridge 1915.
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grandi speranze in Reginald Pole dall’epoca del De Unitate104 ed è sicuramente
considerata una presenza scomoda a corte. Secondo Mayer, “erano il gruppo al
quale Pole avrebbe naturalmente fatto riferimento“105. Non sorprende pertanto
che, dopo un sommario processo, gran parte di loro venga giudicata colpevole e
giustiziata alla fine dell’anno. Tra questi spiccano i nomi di Sir Nicholas Carew,
una delle personalità più importanti della corte dell’epoca, e di Lord Montague,
conosciuto al mondo come Henry Pole, fratello maggiore di Reginald. La
notizia della morte del fratello scuote profondamente il cardinale, come
intuiscono molti dignitari d’Inghilterra106 e come conferma lui stesso nelle
lettere a Contarini, Beccadelli e Priuli107.
In contemporanea con questi eventi, nel dicembre 1538, ha inizio la
seconda legazione di Pole. Nelle istruzioni al cardinale, Paolo III chiarisce che lo
scopo della sua missione è convincere ad ogni costo Francesco I e Carlo V, i
quali dalla tregua di Nizza vivono in una condizione di pacificazione forzata,
ad appoggiare e a rispettare i termini della famosa censura. Reginald Pole deve
assicurarsi il consenso politico della Francia e dell’Impero. Il cardinal nepote,
Alessandro Farnese, rispolvera la bolla di scomunica del 30 agosto 1535 contro
Enrico e si prepara a rinnovarla: se Carlo e Francesco, costretti dalla scomunica,
sospendessero i commerci con l’Inghilterra, la popolazione inglese,
economicamente danneggiata dall’interruzione delle tratte commerciali,
potrebbe rovesciare il governo di Enrico. Nella monumentale storia della
Riforma inglese, il vescovo anglicano Gilbert Burnet riesce bene a dare l’idea di
come potesse essere interpretata da Cromwell e da Enrico VIII la seconda
legazione di Pole. Scrive, infatti, che l’erede dei Plantageneti viene incaricato di
visitare tutte le corti della cristianità “per convincerli a costituire una lega
contro l’Inghilterra, considerandola un’azione più importante e di maggior
merito rispetto a promuovere una guerra contro i turchi”108.
Cfr. E.W. Ives, Faction at the Court of Henry VIII: The Fall of Anne Boleyn, in «History», 57
(1972), pp. 169-188.
105 Cfr. T. Mayer, A Diet for Henry VIII…, cit., p. 322. Traduzione nostra. Da notare che Mayer
utilizza il termine “to attach himself”, che ha una sfumatura molto più forte di “fare
riferimento”.
106 Il vescovo di Worcester, Hugh Latimer, scrisse a Cromwell: “Blessed be God of England that
worketh all, whose instrument you be! I heard you say once after you had seen that furious
invective of cardinal Pole that you would make him to eat his own heart, which you have now,
[I trow], brought to pass, for he must [needs] now eat his own heart, and be[as] heartless as he
is graceless”, cfr. Letters and Papers…, cit., vol. XIII, 2, 1036.
107 T. Mayer, The correspondence of Reginald Pole, Aldershot 2002, nn. 237, 258 e 298.
108 Cfr. G. Burnet, The history of the Reformation of the Church of England, I, p. 551.
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È altrettanto interessante notare che J. Gairdner, nella sua prefazione al
vol. XIV delle Letters and Papers, paragona la situazione in cui si sarebbe trovato
Enrico a quella in cui si era trovato tre secoli prima il re Giovanni Senza Terra:
E se questo delegato [Pole] fosse giunto dalla corte francese alla Scozia e si fosse procurato la
piena assicurazione dall’imperatore e da Francesco riguardo alla proibizione del commercio tra
i loro sudditi e quelli di Enrico, quest’ultimo si sarebbe trovato, come il suo predecessore re
Giovanni, costretto da un interdetto papale e da un’invasione straniera, appoggiata dai suoi
stessi sudditi, ad amministrare il suo regno con il contegno più simile a un principe della
cristianità. 109
Forse consigliato dallo stesso Pole110, che aveva trovato negli scozzesi
ottimi alleati, il papa crea cardinale l’abate David Betoun con la speciale
missione di recarsi in Scozia e pubblicare la scomunica contro Enrico VIII,
assicurandosi l’alleanza con Giacomo V. Probabilmente in contemporanea con
Betoun è inviato anche Latino Giovenale Manetti111, già staffetta di Paolo III
presso Francesco I, con la seguente istruzione:
Appresso parlate con la debita caldezza et maniera della causa publica d’Inghilterra, per la
quale principalmente siete mandato, mostrando quanto sia a cuore a Sua Santità et quanto come
a buon Padre et Pontefice ch’è, le doglia veder la total rovina d’un così fatto Regno, et quanto si
senta dimandata dall’impietà. Et l’opera che ha fatta et di continuo fa con gli altri Principi
Christiani per la riduttione a sanità di detto Regno, dichiarandole la buona inspiratione che li
detti Principi mostrano d’haver havuta da Dio, d’adoperarsi etiam per ogni via per la detta
riduttione non senza dar intentione di lasciar non solo pubblicar la Bolla che portate, et levar
ogni comercio de lor popoli, ma etiam ogni prattica et intelligenza delle maestà loro particolari.
… [Il pontefice] ha fatta spedir la detta Bolla per la publicatione della quale nel Regno di Scotia
havete a far l’instantia che sapete, essortando la Maestà Sua a continuar di tener netto et ben
purgato il Regno suo da così diabolica contagione. 112
Reginald parte da Roma il 27 dicembre 1538113, pochi giorni prima
dell’esecuzione del fratello. Al suo fianco, in questa missione che sembra
tutt’altro che disperata114, c’è il fedele Beccadelli. Rispetto al 1537, la compagnia
parte preparata a ogni evenienza “et perché la sua gita fosse presta, et meno
Cfr. Letters and Papers…, cit., vol. XIV, p. xiv. Traduzione nostra.
Pole inviò una lettera di congratulazioni a Betoun, ricordandogli gli onori e gli oneri della
missione di cui era stato investito. ERP, II, 51.
111 Su Manetti, cfr. A. Quattrocchi, “Latino Giovenale de' Manetti. Un diplomatico 'umanista'
nella Curia pontificia”, in A. Jamme - O. Poncet (a cura di), Offices et Papauté (XIVe-XVIIe siècle).
Charges, Hommes, Destins, Vol. 334, Roma 2005, pp. 829-840.
112 Urb. Lat. 865 138v-159v.
113 ERP, II, 62.
114 Il tentativo di una nuova missione diplomatica, dopo il recente fallimento della legazione del
1537, può essere giustificato solo dal fatto che Roma credeva di avere qualche possibilità di
riuscita.
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insidiata dal Re d’Inghilterra, [Paolo III] volle ch’andasse senza habito di
Cardinale con non molta gente”115. La situazione politica internazionale pare
favorevole alla legazione. Il 10 gennaio 1539, infatti, è stato stipulato un patto
tra il re di Francia e l’imperatore, in cui i due si impegnano a non firmare nuovi
accordi o alleanze con l’Inghilterra senza il mutuo consenso. Mentre il re di
Scozia è sempre sul piede di guerra, alla corte londinese (e tra il popolo) prende
piede una certa agitazione, soprattutto dopo la triste fine di Carew e di Henry
Pole.
Nonostante tutte le aspettative, anche la seconda legazione si rivela un
fallimento. Nel febbraio del 1539, Pole giunge a Toledo per convincere
l’imperatore ad agire contro il re inglese. Come apprendiamo anche dalla lettera
che Pole scrive al cardinale Farnese il 25 marzo 1539, Carlo V e i suoi consiglieri
sono contrari alla pubblicazione della censura e, soprattutto, alla messa in atto
di misure restrittive contro Enrico: l’imperatore si trova stretto tra due fuochi,
quello turco e quello luterano, e non può permettersi di inimicarsi anche il re
d’Inghilterra. Sicuramente spera che quest’ultimo rinsavisca e torni sotto l’egida
del cattolicesimo, ma in queste particolari circostanze non può fare di più.
Davvero istruttivo un breve passo, in traduzione, ai fini della presente
narrazione:
Ma con tutto questo non riuscivo a convincerlo a manifestarsi contro il re d'Inghilterra, né riuscii
chiaramente a capire le ragioni che lo frenano; forse teme che se si mostra disposto a fare questa impresa
gli altri principi [Francesco I] possono pensare che desideri usurpare quel regno, e quindi forse pensa
che sia meglio aspettare fino a quando non sia invitato da loro, piuttosto che il contrario. O forse
è come i consiglieri hanno detto alla mia partenza, vale a dire che Sua Maestà si aspetta di
sistemare gli affari dei luterani [...] nel frattempo hanno voluto ammonire il re d'Inghilterra
affinché tornasse all'obbedienza della Chiesa, o, se rifiuta, come è molto probabile, essi saranno
in grado poi con più sicurezza, essendo stato rimosso l'ostacolo dei luterani, a partecipare a
questa impresa. È possibile che in questo caso potrebbe decidersi, ma non posso affermare
nulla, e lascio a sua Santità di giudicare e di istruirmi. 116
Appare dunque evidente che a frenare Carlo V sia la paura della reazione
francese e lo scoppio di un’ulteriore guerra sul continente. Pole scrive inoltre
che, temendo per la sua vita, ha deciso di fermarsi a Carpentras e inviare al re di
Francia “un suo gentilhuomo”117, il quale, una volta giunto, non può che
confermare “ch’erano li medesimi rispetti ch’erano in Spagna per le cose
Beccadelli, Vita del cardinale…, cit., pp. 297-298.
La lettera è stata acquisita dal Record Office e, pur essendo scritta in italiano, sono riuscita a
recuperarla solamente nella sua traduzione inglese. Cfr. Letters and Papers…, cit., vol. XIV, 1,
doc. 603.
117 Si tratta di Vincenzo Parpaglia, presbitero dell’arcidiocesi di Torino e divenuto protonotario
apostolico. È il fondatore dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro.
115
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d’Inghilterra”. Informa inoltre, consumata astuzia del Tudor, “che quel Re
[Enrico VIII], et in Francia, et in Spagna ad un medesimo tempo faceva le stesse
offerte, pascendo l’uno e l’altro di speranze fallaci”118. Furbescamente Francesco
I risponde alla richiesta d’intervento di Pole che la Francia è, sì, l’umile serva di
Roma, ma che agirà per il bene della cristianità solo e soltanto in accordo con
Carlo119. In breve, i due sovrani rispondono alle richieste di Pole nello stesso
modo, adducendo le stesse giustificazioni per il loro rifiuto di intervenire con le
armi contro Enrico.
È di fronte a questa impasse che entrano in gioco le prefazioni al De Unitate.
A Carpentras, Reginald Pole comprende che la legazione sta prendendo una
piega molto simile a quella del 1537. Il rischio è che i sovrani, pur di giostrarsi
tra i fuochi della diplomazia, finiscano per lavarsene le mani. Il cardinale sa che
il momento è cruciale: se anche questa volta fallisce, difficilmente si presenterà
un’altra possibilità di cambiare le sorti dell’Inghilterra. L’ultima carta che gli
rimane è inviare il privatissimo trattato De Unitate, scritto tre anni prima, e
convincere i due (forse tre?) sovrani a intervenire attivamente contro Enrico. Si
dedica così a scrivere l’Apologia ad Carolum Quintum120, una lunghissima
prefazione indirizzata all’imperatore per introdurlo alla lettura del trattato. Il
manoscritto è conservato alla Biblioteca Apostolica Vaticana 121 e la datazione
della redazione ci viene offerta dallo stesso Pole122.
L’Apologia si apre con una lunga introduzione alla genesi del De Unitate: il
cardinale racconta delle difficoltà per un patriota, consanguineo e persona
profondamente legata al re britannico, di scrivere un virulento attacco contro
quello stesso Enrico che l’ha cresciuto ed educato123. A spingerlo sono cause di
ordine superiore: l’allontanamento del re dalla rotta di Dio e l’assassinio di
Fisher e More, “duo maxima lumina nostrae provinciae”124. Prosegue parlando
della lunga esitazione interiore vissuta prima di scrivere l’opera (di cui
riassume il contenuto) e di inviarla al re nella speranza di farlo rinsavire.
Racconta della richiesta di Enrico fatta a Pole di tornare in Inghilterra per
rispondere di persona alle accuse a lui rivolte nel De Unitate e della rinuncia a
partire del cardinale, temendo – a ragion veduta – per la propria vita125.
Beccadelli, Vita del cardinale…, cit., p. 300.
Cfr. Letters and Papers…, cit., vol. XIV, 1, doc. 602.
120 Titolo scelto dal Quirini, curatore dell’unica edizione a stampa nelle ERP; Cfr. Apologia
Reginaldi Poli ad Carolum V Caesarem super quattor Libris a se scriptis de Unitate Ecclesiae, ERP, I,
pp. 66-171.
121 BAV Vat. Lat.5970.2, ff. 193r-235v; ff. 239r-268v. [Da qui in poi, Apologia]
122 Apologia, VI: “Haec omnia, CAESAR, ante tertium annum sunct facta”.
123 Ivi, I.
124 Ivi, II-III.
125 Ivi, V-VI.
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Tuttavia adesso – continua l’inglese – la Chiesa ha dichiarato Enrico
nemico pubblico della cristianità e ha incaricato Pole di assolvere al compito che
si era prefisso tre anni prima nel suo libro: convincere i principi cristiani
dell’iniquità del re inglese e dimostrare all’Europa che egli è, in realtà, un
nemico ben peggiore da temere rispetto ai Turchi. Per questo motivo è
necessario che l’imperatore rivolga le armi verso occidente e smetta di
combattere l’Impero Ottomano126. Segue un lunghissimo excursus sulla
degenerazione di Enrico, che da principe illuminato si è trasformato nel
peggiore dei tiranni, e sulla descrizione delle nefandezze da lui compiute negli
ultimi anni, indulgendo particolarmente sul calvario patito dai due martiri
suddetti e sugli scempi perpetrati a danno dei luoghi di culto127.
All’accusa di accanimento contro la fede, Pole aggiunge quella di
persecuzione della nobiltà. Dedica un intero paragrafo alla memoria dei nobili
giustiziati a seguito della presunta congiura di Exeter del 1538 - che,
ricordiamo, ha segnato la fine di suo fratello Henry e posto le basi per la
successiva decapitazione di sua madre, Lady Salisbury, nel 1541 - e lo conclude
con un lapidario giudizio complessivo sulla condotta di Enrico128. Secondo Pole,
tale condotta, degna di un vero e proprio Anticristo, ha la sua origine in un
magistrale orchestratore. Qualcuno che ha convinto il re della superiorità
morale e legale del suo istituto rispetto a quello della pontefice e del suo
popolo; qualcuno che lo ha sedotto e persuaso di poter essere sacerdote e Capo
della Chiesa, qualcuno che lo ha reso certo di poter disporre del regno come di
un possesso personale e di poter definire tradimento qualsiasi atto si opponga
al suo volere129.
Il nome dell’astuto consigliere viene svelato nel paragrafo successivo:
questi è Thomas Cromwell, un uomo di umile nascita, figlio di un mercante,
divenuto una personalità pubblica grazie alla sua intelligenza, alla sua
esperienza e all’appoggio del cardinale Wolsey130. Ciò che insomma per noi –
Ivi, VIII.
Ivi, IX-XXIV.
128 “In his vero eo magis valebat sententia mortis, quo tandem principium jamdiu deliberato
consilio daret florem virtutis extinguendi in nobilitate, ut Religionis in Sacerdotibus”, ivi, XXV.
129 “Et cum dicto quasi in pinnaculum Templi, vel in montem excelsum eum elevasset, unde
omnia subjecta potestati Ecclesiasticae videri possent, sic omnia Regni monasteria, […] omnes
Episcopatus, universum denique Ecclesiae patrimonium illi ostendit, cum illud adjungeret: hae
omnia tua sunt, tantum te Caput Ecclesiae, quod revera es, vocari te facias, et hunc titulum
consensu Concilii supremi Regni, quod non erit difficile impetrare, si idoneos ministros, qui hoc
rite proponant, habeas, facias dari” ivi, XXVII.
130 Ivi, XXVIII. Thomas Wolsey fu cardinale e lord cancelliere nei primi anni di regno di Enrico
VIII. Conquistatosi la fiducia di Enrico VII prima e, successivamente, di Enrico VIII, scalò le
vette della carriera ecclesiastica divenendo prima vescovo di Tournai (1513), poi arcivesco di
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abituati alla mentalità occidentale contemporanea – è un chiaro esempio di selfmade man, per Pole rappresenta il pedigree più antitetico a ciò che viene
considerato onorevole nel mondo da cui proviene, un’Inghilterra ancora legata
alle tradizioni feudali e che sta entrando in contrasto con il nascente spirito
mercantile e protestante che si respira nel nord Europa. In uno studio
sull’Apologia, lo storico Paul Van Dyke, forse non a caso di assonanze olandesi,
si sofferma parecchio su questa differenza identitaria e sociale dei due uomini,
che rispecchierebbe la distanza tra la nuova e la vecchia Europa che in quegli
anni iniziano a confliggere131.
Una volta introdotto fra le righe dell’Apologia, il cancelliere del re ne
diventa quasi il protagonista. Oggetto di tutte le accuse è lui: Pole descrive le
modalità con cui si è abilmente avvicinato alla corona e spiega anche il successo
politico delle sue azioni. In tempi non sospetti – racconta il cardinale –
Cromwell ha interrogato il giovane Pole sui doveri di un attento consigliere di
sua maestà: di fronte alla risposta di Reginald, secondo cui il fine della condotta
di un cancelliere dev’essere l’onore del principe, Cromwell gli ha risposto che
questi sono discorsi sostenibili soltanto nelle università, non nella vita reale. Per
l’opinione di quest’ultimo, un consigliere prudente deve prima studiare le
inclinazioni del sovrano e poi agire di conseguenza: è la volontà del re il fine di
tutte le azioni di un buon consigliere. Non trovando riscontro favorevole in Pole
e per convincerlo della ragionevolezza dei suoi discorsi, continua lo York nel
racconto, Cromwell gli ha consigliato la lettura di uno scrittore contemporaneo.
Il testo, a quanto scrive Pole132, altro non è che Il Principe, opera che per il
York (1514) e cardinale nel 1515. Perse potere a corte durante gli anni del divorzio (inimicandosi
la fazione favorevole ai Boleyn) e, in seguito al fallimento dell’intervento presso Clemente VII
per lo scioglimento del matrimonio, fu accusato di tradimento. Morì in disgrazia prima del
processo. Cfr. P. Gwyn, The King's Cardinal: The Rise and Fall of Thomas Wolsey, Londra 1990.
131 “These two ideals were to engage four generations in wars. The wars were complicated by
theological opinions and religious beliefs, race hatred and class feeling, dynastic greed and
personal ambition, but behind them all from the battle of Miihlberg to the peace of Westphalia
there lay this central question, whether Christendom was or was not divinely constituted as an
organic unity possessing somewhere, either in pope or council, or in both, a common, visible,
and ultimate authority to define truth finally and judge righteousness for every nation and
every man. The trumpet-call for that fight had come to Pole. Asked to say whether in the last
analysis the supreme authority over England in questions involving a moral issue was at Rome
or in London, taste, reason, and conscience led him to stand by the old ideal. He threw down
the glove to Henry as a tyrant who had betrayed England because in withdrawing from the
papal obedience he had broken the unity of Christendom, the God-given guaranty of saving
truth and social order”, P. Van Dyke, Reginald Pole and Thomas Cromwell: An Examination of the
Apologia ad Carolum Quintum, in «The American Historical Review», 9 (1904), pp. 696-724.
132 Van Dyke afferma, invece, che si trattasse del Cortigiano di Castiglione, cfr. ivi, pp. 712-715.
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cardinale è da considerarsi scritta dalla mano di Satana attraverso la penna di
Machiavelli133.
Pole continua esponendo la dottrina del testo esecrato e confutandone il
contenuto, marchiandolo con l’effige del demonio e attendendo la vendetta di
Dio contro Enrico, che si è fatto sedurre dai discorsi di Cromwell 134. Con l’aiuto
del cancelliere, il re ha reso incerta la successione del proprio regno, ha rovinato
la nobiltà che più gli era fedele perché troppo vicina alla sua linea di sangue e
ha dimostrato la crudeltà di un tiranno nei confronti del proprio popolo e delle
sue tradizioni. L’imperatore non può restare a guardare tale scempio. Nei
paragrafi finali, con tono apocalittico, si reclama urgentemente l’intervento
combinato dell’intera cristianità contro questo Anticristo135.L’intervento deve
infatti comprendere gli altri tasselli-chiave dello scacchiere internazionale.
Questi non possono essere altri se non Giacomo V, il re scozzese che più volte
ha accennato un segno d’intesa in merito ai piani del papa e di Pole contro
Enrico, e Francesco I, il sovrano che avrebbe voluto patrocinare la
pubblicazione della censura quando la prima legazione del cardinale sembrava
sul punto di detronizzare il Tudor.
Si comprende in sostanza– e vale la pena di soffermarsi a rifletterci - il
motivo per cui il cardinale volle inviare anche a Giacomo e a Francesco una
copia del De Unitate, aggiungendovi una prefazione per ciascuno. Un tema
decisamente suggestivo quello delle due ulteriori prefazioni, rimaste a tutt’oggi
fin troppo trascurate. I manoscritti di queste ultime si trovano anch’esse nella
Biblioteca Apostolica Vaticana136. Entrambe le prefazioni sono incomplete e non
ne esistono attestazioni nei cataloghi137, ponendo seri dubbi sul fatto che siano
state realmente spedite. Inoltre, fino a poco tempo fa, era opinione comune che
si trattasse in realtà di due minute della stessa versione e che fossero entrambe
indirizzate al re di Scozia138. Ultimo, ma non meno importante problema è la
Apologia, XXX. Sul rapporto tra Pole e Machiavelli, cfr. T. Mayer, Reginald Pole Prince and
Prophet, cit., pp. 78-91.
134 Ivi, XXXI-XXXVI.
135 Ivi, XXXVIII-XLIII.
136 La versione scozzese si trova in Vat. Lat. 5970.1, ff. 184r-189v; Vat. Lat.5970.2, ff. 284r-289v
(minuta), mentre quella francese in Vat. Lat. 5970.2, 278r-283v. Quest’ultima è stata da me letta
per gentile concessione della biblioteca, ma l’irreversibile deterioramento del volume ne ha
impedito la trascrizione. Vat. Lat. 5970.2 è attualmente impossibile da consultare.
137 Cfr. T. Mayer, A reluctant Author…, cit., p. 51.
138 Cfr. T.F. Dunn, The Development of the Text of Pole's ‘De Unitate Ecclesiae’, in «The Papers of the
Bibliographical Society of America», 70 (1976), pp. 455–468; p 467.
133
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
loro effettiva datazione. Secondo Haile, “la” prefazione risale al 1540139.
Domanda: è plausibile sostenere che sia quella scozzese chela francese siano
state redatte nello stesso periodo dell’Apologia? E se è così, per quale motivo?
Iniziamo rispondendo a quest’ultimo interrogativo. Nell’Apologia il Pole fa
esplicito riferimento a un libro che ritiene essere implicato nella condanna e/o
nell’esecuzione dei membri della sua famiglia140. Il libro in questione è il famoso
Invective against Treason di Richard Morison141, pubblicato a Londra il 9 gennaio
1539, e fornisce un chiaro terminus a quo142per la datazione della prefazione
“carolina”.
Ciò che può consentire di far risalire le altre prefazioni allo stesso periodo
dell’Apologia sono taluni riferimenti interni e i contenuti simili. Infatti le lettere
contengono alcuni passi rintracciabili specularmente nella prefazione a Carlo V:
esempio lampante è il richiamo alle tentazioni di Cristo (Luca 4:1-13) e il
parallelismo con ciò che ha spinto Enrico a proclamarsi Capo della Chiesa 143.
Questo passo è praticamente identico in tutte e tre le versioni144, tanto da far
supporre che esse siano state redatte nello stesso periodo. Inoltre l’accenno a
Cromwell come fautore e massimo colpevole degli errori di Enrico, presente in
tutte le prefazioni, e il fatto che non se ne parli come di una personalità in
declino né come un defunto, rende impossibile credere che le lettere a Giacomo
V e a Francesco I siano state scritte nel 1540 (Cromwell venne giustiziano il 28
luglio 1540). Non è da escludere, inoltre, che Cromwell sia diventato il
principale bersaglio della polemica di Pole dopo che questi ha tentato di
Cfr. M. Haile, Life of Reginald…, cit., p. 273. Haile, come tutti gli storici fino a Mayer, non
prende in considerazione l’esistenza della prefazione a Francesco I, quindi si riferisce soltanto a
quella indirizzata a Giacomo V.
140 Apologia, XXV.
141 R. Morison, An invective agenste the great and detestible vice of treason wherin the secret practices
and traitorous workings of them that suffered of late are disclosed, Londra 1539.
142 Datazione confermata dallo stesso Pole, quando fa riferimento al De Unitate scritto “ante
tertium annum”, cfr. ERP, I, p. 75.
143 Cfr. Apologia, XXVII, p. 121; BAV Vat. Lat.5970.1, ff. 189r-v BAV, Vat. Lat. 5970.2, f. 282v.
144 Nell’Apologia: “Et cum dicto quasi in pinnaculum Templi, vel in montem excelsum eum
elevasset, unde omnia subjecta potestati Ecclesiasticae videri possent, sic omnia Regni
monasteria, […] omnes Episcopatus, universum denique Ecclesiae patrimonium illi ostendit,
cum illud adjungeret: hae omnia tua sunt, tantum te Caput Ecclesiae, quod revera es, vocari te
facias, et hunc titulum consensu Concilii supremi Regni, quod non erit difficile impetrare, si
idoneos ministros, qui hoc rite proponant, habeas, facias dari”; nella prefazione scozzese: “et
cum hoc dicto, quasi in pinnaculum templi vel in montem excelsum eum sustulisset, unde
omnia subiecta potestati ecclesiasticae videri possent, sic omnia regni monasteria, quae magno
numero et opulenta fuerunt, omnes episcopatus, universum denique ecclesiae patrimonium, illi
ostendit, moxque illud adiunxit. Haec omnia tua sunt, tantum te caput ecclesiae, quod revera es,
vocari iubeas, et hunc titulum, consensu supremi concilii regni, tibi dari cures”; praticamente
identica a quest’ultima anche quella francese.
139
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ucciderlo durante la prima legazione. A ogni modo, le due versioni interrotte
devono per forza essere state redatte almeno nello stesso anno dell’Apologia
(1539), se non proprio nello stesso lasso di tempo, ovvero durante il soggiorno a
Carpentras.
Il secondo interrogativo, invece, è di più difficile soluzione. A favore
dell’ipotesi che Vat. Lat. 5970.2, 278r-283v sia oggettivamente rivolta al re di
Francia c’è soltanto l’importante opinione di Mayer145 e il riferimento nel fo.
277r del fascicolo, che riporta la dicitura “Ad Regem Gallorum”. È innegabile
che le due versioni siano quanto mai simili (quasi uguali) e che senza un
oggettivo riscontro non si possa sostenere con certezza che i ff. 278r-283v
contengano la prefazione a Francesco I. Ciononostante è difficile credere che, in
una situazione così delicata, Pole potesse escludere dai giochi un player così
importante come il re di Francia. Del resto, la legazione era precisamente
indirizzata ai tre sovrani in parola.
Lo studioso Dunn146 ha elaborato in proposito un’affascinante teoria che
potrebbe collegare il discorso sulle prefazioni alla pubblicazione del De Unitate
e che può avvalorare la tesi dell’esistenza di una prefazione al re di Francia. Si è
detto in precedenza che il De Unitate viene pubblicato a Roma da Antonio Blado
e che la pubblicazione deve risalire per forza a un periodo in cui Pole non si
trova in città147. Questo periodo è sempre stato fatto coincidere con la prima
legazione, poiché i primi mesi della missione lasciavano ben sperare in una
buona riuscita della stessa. Tuttavia, pubblicare e far circolare un’invettiva così
aspra nei confronti di Enrico è da considerarsi una scelta in sé piuttosto incauta,
data la situazione così promettente. Dunn propone quindi lo slittamento della
pubblicazione a un momento in cui la diplomazia pontificia, trovandosi ad un
punto di stallo, utilizza il De Unitate come ultima carta per destabilizzare il re
inglese. Questo momento combacerebbe proprio con l’infelice esito della
legazione presso Carlo V, con cui
Paolo III sperava che egli avesse ottenuto che la Francia e la Spagna si unissero contro
l'Inghilterra e quindi costringessero Enrico VIII, con l'aiuto di simpatizzanti papali in Inghilterra
e di Giacomo V di Scozia, a sottomettersi di nuovo a Roma. Quando vide che il piano era fallito,
Cfr. T. Mayer, A reluctant Author…, cit., p. 51, nt. 131.
Thomas F. Dunn è stato un professore di lingua e letteratura inglese alla Drake University.
Dopo la pubblicazione in traduzione del De Unitate, si è interessato ai manoscritti vaticani di
Pole, su cui ha pubblicato due contributi. Oltre a quello citato in precedenza, vedi anche T.F.
Dunn, Cardinal Reginald Pole and Codex Vaticanus Latinus 5970, in «Manuscripta», 22 (1978), pp.
75-82.
147 Nella cinquecentina manca un’introduzione che possa far pensare a una revisione dell’autore
in vista di una pubblicazione.
145
146
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è molto probabile che Contarini autorizzasse la pubblicazione del libro di Pole per convogliare
ulteriormente la pressione dell'opinione pubblica su re Enrico. 148
Probabilmente Pole deve aver avuto la stessa idea e deve aver deciso di
inviare il suo scritto ai tre sovrani, in un ultimo accorato tentativo di
convincimento. La Francia risulterebbe così automaticamente inclusa, anche
perché espressamente citata nel De Unitate. In sintesi, dovendo convincere in
primis Carlo V, senza l’appoggio del quale neanche Francesco I potrebbe
decidersi per l’invasione, Pole redige dapprincipio l’Apologia, mentre lascia che
quella al re di Scozia e quella al re di Francia siano confezionate in un secondo
momento. Allo stato attuale delle indagini archivistiche è impossibile dire se le
prefazioni minori furono mai terminate e spedite.
Tuttavia, in questa sede si è scelto di trascrivere il manoscritto della
prefazione al re di Scozia per due motivi. Innanzitutto, la versione pubblicata
da Quirini149 presenta diverse differenze da quella consultabile presso la
Biblioteca Apostolica, la quale ha presumibilmente subìto modifiche durante la
trascrizione, nell’intento, da parte dell’editore, di alleggerirne lo stile. La sua
consultazione è inoltre essenziale per dare compimento al percorso che si sta
seguendo ed è sembrato opportuno, ai fini del nostro discorso, renderne
disponibile la lettura anche a chi non può recarsi direttamente alla BAV.
La struttura della prefazione incompleta non differisce da quella
dell’Apologia, se non nella lunghezza dell’argomentazione. Innanzitutto, Pole si
rivolge direttamente al re e introduce il tema cardine della premessa: il
confronto tra i due sovrani, l’eretico e il destinatario dello scritto, promosso a
nuovo defensor fidei (f. 184r). Lo svilimento di Enrico VIII procede di pari passo
con l’elogio del re scozzese, fino a giungere al paragone biblico tra la tribù di
Israele/Inghilterra e quella di Giuda/Scozia (f. 184v). Nonostante il De Unitate
trabocchi di citazioni bibliche, nella prefazione infatti se ne trova solo una, ma
di estrema importanza. Il passo è una citazione di Osea150, uno dei profeti
minori dell’antico testamento. Ciò risulta interessante, soprattutto se si prende
in considerazione il testo profetico nella sua integralità e lo si paragona al
contesto in cui Pole scrive.
Il perno della narrazione di Osea è il rapporto tra un Dio innamorato di
Israele, come uno sposo lo è di una sposa, e la parallela ingratitudine del suo
popolo. Il profeta attribuisce la responsabilità dell’infedeltà israelitica
soprattutto alle classi dirigenti: i re, eletti contro la volontà di Dio, avviliscono
T.F. Dunn, The Development…, cit., p. 462. Traduzione nostra.
R. Pole, Proemium alterum ejusdem libri a Reginaldo Polo transmissi ad regem Scotiae, in ERP I, pp.
172-178.
150 “Se ti prostituisci tu, Israele, non si renda colpevole Giuda”, Os 4:15.
148
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con il loro comportamento lo stato elettivo della tribù di Israele, degradandola
allo stesso livello degli altri popoli. Se violenze e ingiustizie concorrono all’ira
di Dio, ciò che rende completa la corruzione di Israele è soprattutto l’infedeltà
religiosa. Tuttavia, laddove Israele cade, Giuda resta eretta e, come un
baluardo, resiste.
Di sicuro Pole sa che, pur trovandosi di fronte a una citazione assai breve,
al lettore colto del Cinquecento non potrà sfuggire il palese riferimento (f. 184v).
Continua sottoponendo esplicitamente all’attenzione del re di Scozia il suo
scritto, del quale viene giustificata la redazione esponendo gli stessi motivi che
si ritrovano nella prefazione a Carlo V e riservando a Cromwell un’attenzione
particolare151 (ff. 185r-186v). Segue, infine, una lunga polemica nei confronti del
re inglese, in cui il cardinale fa riferimento alla questione del divorzio (ff. 186r187v) e alla trasformazione in tiranno (in particolare f. 188r-v). Una polemica
che si intreccia alla tematica del rapporto tra il potere regale e quello del papa,
la quale costituirà il perno del De Unitate, a cui Pole sta via via introducendo
Giacomo V.
Tuttavia, proprio durante la composizione delle prefazioni, giunge la
lettera di Paolo III che richiama Pole a Roma. Si spiegherebbe, allora, perché nei
manoscritti entrambe si interrompono bruscamente 152. Le due lettere che
seguono nell’epistolario di Pole, entrambe risalenti all’agosto del 1539,
rivestono un’importanza storica vitale153. In quella datata 6 agosto, Pole scrive a
Contarini di essere stato avvisato dalle lettere del pontefice e del cardinal
Farnese di dover tornare in Italia e di attendere tempi migliori per risolvere “le
cose d’Inghilterra”, ma non volendo rientrare a Roma, chiede che gli venga
concesso tempo per riposarsi a Carpentras o in Lombardia. In quella datata 29
agosto, invece, dopo aver ringraziato sua santità per avergli permesso di restare
nella sua attuale dimora, Pole avvisa di aver ricevuto notizie non buone dal
nunzio di Francia: il re non vuole che Pole venga ricevuto a corte poiché la sua
presenza comprometterebbe i rapporti con l’Inghilterra154. Sconfortato da tali
notizie, è probabile che Pole decida di abbandonare l’esperimento diplomatico
Ricordiamo che la menzione a Cromwell è essenziale per stabilire la datazione, altrimenti
non disponibile, delle prefazioni.
152 Si noti che, al f. 190v, il compilatore si interrompe senza neanche finire la frase. In modo
simile è stata interrotta anche la minuta, presumibilmente, destinata al re di Francia.
153 ERP II, nn. 81-82.
154 “Io ho avuto ultimamente lettere del Nunzio di Francia de’ x. d’Agosto, che mi scrive, che il
Re di bocca gl’ha detto, che per niente li piace, che io vada in Francia, ma che havendo negozio,
e commissione alcuna io scriva prima, e faccia intender il tutto, perché dice che la mia andata
non giovaria ad altro, che metter sospetto al Re d’Inghilterra, e farlo stare più provisto, il che
faria, non facendo questi Prencipu esecuzione alcuna in fatti contro di lui, come non fanno. Io
non so quello, che mi dire. Molte cose mi vanno per la mente”, ERP II, 82.
151
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
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delle prefazioni al De Unitate, come è altrettanto probabile che la posizione di
Francesco I – resa nota al pontefice tramite questa missiva – faccia scatenare la
reazione editoriale da parte di Paolo III e Contarini. Dunn, infatti, pur non
facendo riferimento a quest’episodio, ipotizza che l’edizione di Antonio Blado
del De Unitate debba esser fatta risalire alla fine dell’estate o all’inizio
dell’autunno di quell’anno, proprio in coincidenza con l’arrivo a Roma della
lettera di Pole.
La versione pare essere confermata dallo stesso Pole che, nell’Epistola ad
Edwardum VI Angliae Regem de opere adversus Henricum patrem155, racconta di aver
trovato pubblicato il suo trattato per opera di amici eccessivamente zelanti156 al
ritorno dalla Spagna. Dall’evidente sorpresa di vedere pubblicato
quell’infuocato attacco contro suo cugino deve essere scaturita la normale
reazione di Pole di collezionare più esemplari possibili e di bruciarli: il testo che
avrebbe indirizzato soltanto a pochi (e scelti) sovrani, è ormai di dominio
pubblico. Il re di Francia ha voltato le spalle ai progetti romani, mentre
Giacomo di Scozia non può far nulla senza l’appoggio del continente: il
progetto delle prefazioni viene abortito e Pole chiede di poter abbandonare
l’attività diplomatica per dedicarsi a una più “spirituale”.
Abbozzando le conclusioni
Lungo questa dissertazione, si sono seguite le vicende inglesi dal 1535, quando
vennero poste le basi politiche e umane del De Unitate, fino al 1536, anno della
stesura e dell’arrivo del trattato in Inghilterra. Si è poi seguito Pole nelle sue
lunghe peregrinazioni europee durante le due legazioni e si è sottolineato
quanta importanza le diplomazie europee – ognuna peraltro secondo la propria
visione – diedero al compito assegnato al cardinale. Infine, si è giunti al 1539,
anno conclusivo di “attività” del De Unitate e relative prefazioni, nonché, in un
certo senso, dello stesso legato Pole.
Qual è, dunque, il vero significato di questo trattato? Dopo averne
esaminato la genesi e ciò che stava avvenendo nel contesto europeo,
bisognerebbe cominciare a rivedere l’idea che si trattasse soltanto di un’opera
per “la difesa dell’unità della Chiesa”. I continui appelli all’intervento che Pole
ERP IV, pp. 306-381.
“Nam cum ad Urbem ex Hispania rediens, libros injussu meo typis excusos [sic] reperissem,
toto volumine amicorum studio et opera, non sine ejus auctoritate, qui ius imperandi haberet, in
plures libros disposito (quod ego non feceram, quippe qui de eius editione nunquam
cogitassem) nihilque iam prohiberet, quo minus ii libri divulgarentur praeter adventus mei
expectationem”. Ivi, p. 340. Sulla divisione in quattro libri e sul fatto che Pole non potesse non
esserne a conoscenza cfr. T. F. Dunn, The Development…, cit., pp. 461-462.
155
156
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rivolge ai sovrani, l’impegno del pontificato Farnese nel promuovere l’estremo
tentativo delle due legazioni, tutto porta a credere che insieme a un messaggio
ecclesiologico il De Unitate ne volesse proporre un altro altrettanto importante e
squisitamente politico. Quest’ultimo non sfuggì né a Enrico, che dichiarò il
cugino “traditore della corona” e mise una taglia sulla sua testa, né a quella
fazione a corte che caldeggiava un ritorno al cattolicesimo, la quale venne
stroncata dalle esecuzioni del 1538, e nemmeno alla principessa Mary, che
dichiarò all’ambasciatore Chapuys di voler sposare Reginald. Ancor meno il
particolare sfuggì a Carlo V, che individuò in Reginald Pole un fedele alleato
nella sua veste religiosa (papale?) a Roma e dintorni, ma un ostacolo per la
politica europea dell’Impero, qualora avesse scelto le vesti secolari e fosse
riuscito ad attraversare la Manica.
È proprio alla spregiudicatezza politica dell’imperatore che può essere
ricondotta la fine del tentativo politico di Pole di scatenare un’insurrezione in
Inghilterra – perché di questo, che lo si voglia o no, si trattò in entrambe le
legazioni. Carlo V non avrebbe mai potuto detronizzare Enrico VIII partendo
dalle condizioni di Roma, che erano poi quelle espresse nel De Unitate, poiché
alla base del trattato c’era la sconfessione della monarchia come di
un’istituzione divina e, soprattutto, perché la naturale conseguenza di ciò che
scriveva Pole era che sul regno non potesse sedere se non un principe inglese
(dunque né Luigi di Portogallo, né suo figlio Filippo).
Azzardato, quindi, il tentativo di Pole di convincere i sovrani con i suoi
infuocati quattro libri contro il tiranno inglese, ma indice del fatto che il De
Unitate non venisse considerato come una semplice composizione teologica, pur
nella suggestione della sua perorazione per l’unità della Christianitas. Esso
veniva interpretato in primo luogo come l’arma letale con cui assestare un colpo
definitivo al già traballante trono di Enrico. Per questo motivo l’entourage
intorno a Cromwell, in particolar modo vescovi riformati e controversisti di
corte, si affannarono a sconfessare e a confutare tutto ciò che vi era contenuto.
L’eco suscitata dal De Unitate nell’estate del 1536 presso le corti fu
insomma davvero notevole. Bisognerebbe capire tuttavia con più precisione
quanto la missione ufficiosa di Pole fu realmente compresa in Inghilterra e se il
suo possibile sostituirsi al sovrano-cugino in vena di supremazie abbia
contribuito allo sviluppo del Pellegrinaggio di Grazia. Ed anche quanto la sua
sfida sotterranea abbia contato per la fazione Carew-Exeter, cioè la nobiltà
cattolica che sperava in un ritorno alla tradizione monarchica e religiosa
dell’Inghilterra tardo-medievale.
È peraltro incontestabile che Pole venne considerato un punto di
riferimento dal resto d’Europa: lo dimostrano il carteggio con il nunzio di
Francia, grande sostenitore della prima legazione, i riconoscimenti attribuitigli
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
da Paolo III, gli innumerevoli accenni degli ambasciatori spagnoli alla sua
particolare posizione e tanti altri riferimenti presi in considerazione nelle
precedenti pagine. Solo e soltanto per questo motivo si può comprendere la
decisione del pontefice di organizzare una seconda legazione, nella speranza di
scuotere il trono di Enrico VIII, pur avendo clamorosamente fallito due anni
prima. Tuttavia, la missione era destinata a concludersi come la prima legazione
a causa della sua stessa natura. Carlo V non poteva permettere di rovesciare un
principe e scatenare una rivoluzione157. Enrico e i suoi emissari erano riusciti nel
loro intento: Pole era considerato un “subverter of princes” e chiunque avesse
nutrito dubbi poteva convincersi della sua indole eversiva leggendo il De
Unitate.
Altrettanto “colpevole” del fallimento delle legazioni fu Francesco I: nella
gestione del conflitto con l’Impero, non poteva permettersi di perdere un alleato
come Enrico. In sostanza, il soffiare sul fuoco del perenne conflitto tra le due
potenze (francese e imperiale) fu la carta vincente giocata dal Tudor per far
naufragare i piani romani. Bisogna inoltre tenere presente che il ruolo di Pole
nella “questione inglese” non venne mai ufficialmente chiarito. Da una parte,
Carlo V desiderava che la vasta cultura religiosa di Pole venisse attivamente
impiegata nel “Corpo mistico di Cristo” (tant’è che nel conclave successivo ne
patrocinò la candidatura a papa): Dall’altra, Paolo III avrebbe forse preferito che
Pole sposasse Mary e, divenuto re, riconvertisse l’Inghilterra. Senza venire
informati con la chiarezza necessaria circa il futuro di Pole, fu difficile per
Francesco I e Carlo V concedere l’appoggio di cui lo York necessitò durante le
due legazioni.
Sic stantibus rebus, nel 1540, la parabola politica di Reginald Pole (almeno
per quanto riguarda le legazioni e il De Unitate) si sarebbe conclusa
negativamente, mentre si inaugurava l’epoca della Ecclesia di Viterbo. Il
cardinale aveva dunque deciso di dimenticare il De Unitate ed era riuscito a
conquistarsi quella vita tranquilla, dedicata all’otium spirituale, che sognava dai
tempi di Venezia? Presumibilmente Reginald Pole non sarebbe mai riuscito a
districarsi nettamente nel dilemma fra trono e altare, fra politica e teologia.
“Spirituale” dai molti significati e relativi interrogativi (amico dei valdesiani e
del partito imperiale? disponibile al compromesso con i protestanti per rendersi
amici gli innovatori britannici? Anima ieratica ma perché mai con l’ordinazione
sacerdotale?) lo York sospettato di eresia dall’Inquisizione avrebbe concluso la
sua carriera attendendo il matrimonio tra Filippo e Maria prima di poter
prendere il suo posto come ultimo arcivescovo cattolico di Canterbury.
157
Cfr. T. Mayer, Reginald Pole: Prince…, cit., pp. 95-96.
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
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Di sicuro, il passato-futuro sembrò bussargli alla porta quando gli venne
recapitata una lettera scritta il 12 ottobre 1540 dal portoghese Damiano Goes. In
essa si faceva richiesta di inviare a Lovanio una copia del libro contro il re
d’Inghilterra, poiché quella in suo possesso era stata bruciata dall’ambasciatore
inglese. Nei saluti finali, il lusitano chiudeva la lettera profetizzando che Pole
sarebbe diventato, un giorno, re d’Inghilterra158: segno che molti in Europa ci
speravano e ci avrebbero sperato ancora a lungo.
Nella sua risposta, il cardinale scrisse di non saper spiegare come mai una
copia del De Unitate fosse giunta fin lì. Tuttavia, quanto all’augurio finale si
dichiarò pronto a servire l’Inghilterra e la Chiesa in qualsiasi modo fosse
piaciuto a Dio e in qualunque momento fosse stato chiamato159.
“Te vero iam, cuius semper studiosus a suscepta nostra amicitia fui, quaeso, unum exemplar
ad me, per manus Oratoris Regis Portugalliae, qui has tibi est traditurus literas, transmittere
digneris, quod si feceris, nobis rem gratissimam facies, et valebis, amplissime Pole, quem, si in
meis auguriis aliquid veri est, adhuc Regem Angliae videbimus, quod cum evenerit, fac ut
memor sis nostri. Et prophetiae nostrae” ERP, III, 19.
159 Ivi, 20.
158
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S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
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T RASCRIZIONE
APPENDICE
DELLA P REFAZIONE
AL RE DI
S COZIA 160
BAV, Vat. lat. 5970/1, ff. 183-190
183r
Prohemio del libro del R.mo Polo al Re d’Inghilterra
Quo magis mecum considero, inclyte Rex, quam facile vicini tibi Regis
animum, acerrimi paulo ante defensoris cum fidei tum omnis ecclesiasticae
disciplinae, utilitatis obiecta species sic immutaverit et a recta via abduxerit, ut
nullum postea vel maiorum suorum religiosorum Regum vel piorum
principum qui hodie regnant exemplum, nulla legum reverentia, nullum
utcumque pium et salutare consilium, nullus denique timor Dei vel hominum
revocare ad pristinum pietatis cursum possint; hoc vehementius admiror
singularem Dei erga tuam Maiestatem benevolentiam, quae ab omni huiusmodi
contagione, cum sępe et graviter ad defectionem tentatum te fuisse non
ignorem, illęsum et incontaminatum servavit. Nec enim si nullum privatum
commodum labefactare animum tuum tali in causa potuit, hoc hominis vel
prudentiae vel constantiae tribuendum est, non tibi, non tuis consiliariis,
utcumque piis, sed ei uni ascribendum qui Regum corda in manu habet. Cuius
cum maxime insigne beneficium hoc sit erga vestram gentem, ut nullus
superiorum Regum post acceptam fidem, quam antiquissimam habetis, in
haeresim aut schisma aut inobedientiam eius Ecclesiae, a qua tanquam a matre
quae vos in Christo genuit fidem accepistis, declinaverit (sic enim vestrae
narrant historiae), ab eodem fonte eximii cuiusdam amoris erga vos emanasse
est credendum, in tanta defectione cum principum tum populorum, magnis ut
humano iudicio videtur emolumentis propositis, ut tua Maiestas cum populo
tuo in eadem fide et obedientia maiorum constantes ac nusquam declinantes
hucusque permanseritis. Neque enim prorsus minorem divinae benevolentiae
prerogativam in hac perseverantia obedientiae vestrae gentis erga genus
sacerdotale et principem Ecclesiam, Dei authoritate constitutam, video,
deficiente praesertim vicino et cognato populo, quam illa fuit erga tribum Juda,
quam cęteris tribubus deficientibus ab obedientia domus Regiae || 184v et stirpis
Davidis, cui omnia illa magnifica promissa facta constabat, divina providentia
constantem in eadem servavit; de qua paternae curae plena erant illa Dei per
Prophetam verba: “Si fornicatur Israel, non delinquat saltem Juda”. Idem vero
vobis dixisse videtur. Si Anglus deficit, si reliqui illius insulae populi cum Rege
184r
Ringrazio particolarmente il dott. Ugo Taraborrelli per l’aiuto offertomi durante il lavoro di
trascrizione.
160
46
S. Mangano, Mantenere l’Inghilterra
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
suo fornicantur, non deficiat saltem nec fornicetur casta per tot sęcula Scotorum
hominum obedientia, dixit omnino et prestitit, in quo simul ostendit te
legitimam et nobilem prolem, ab illa numquam interrupta serie piorum Regum
procreatum, quorum pietatis constantiam sic in omnibus referas, ut etiam
superes, quo maiores tibi, quam illis occasiones deficiendi fuerunt, quibus
tamen nihil flecteris. Haec, inquam, maxima Dei erga tuam Maiestatem ac
vestram gentem beneficia mecum animo reputans, vel hoc potius solum castae
et constantis obedientiae bonum a summa Dei bonitate vobis concessum, in quo
cetera omnia continentur, cum non ignorarem et multas insidias tuae pietati
iam factas, et plures quotidie strui, hoc quidem, si quid aliud, ad meam erga
Deum pietatem pertinere iudicavi, et ad meum erga talem Regem amorem et
observantiam, quo cum me non solum communis lingua, verum etiam
sanguinis propinquitas coniunxit, sed ante omnia idem cultus religionis ac
eorumdem sacramentorum et rituum communio, ut has insidias, quae cum
honori Dei tum saluti tuae et honori tenduntur, quantum quidem in me esset
aperirem, id quod nunc facere institui. Cum vero triplici in genere has tendi
tuae pietatis obedientiae viderem. Unum quod a consilio humanae prudentiae
instruitur. Alterum a ficta Scripturarum authoritate. Tertium ab exemplo, nihil
quidem horum intactum praeterire statui, sed omnia explicare, ut nihil in tanta
re quod quovis modo pietati tuae officere possit, te lateat. Licet vero hoc ordine
insidias repetam et tria earum genera esse dicam, revera tamen omnia ab ipsa
humana prudentia serpentis afflatu olim infecta ||185r tanquam ab uno fonte
proficiscantur. Haec enim est, quae fictam Scripturarum authoritatem
introducit et exemplum adducit, ex quibus tandem letale venenum omnibus
haurientibus conficit. Ac primum quidem omnium hunc quasi succum ex
Scripturarum corticibus ut piorum gustui gratius redderetur infundit. Huius
vero generis insidiarum tuam Maiestatem minime inexpertam novi, qui
gloriosissimum tuum factum audivi, cum ad te ab eo qui huiusmodi
argumentis se decipi libenter est passus, libri mitterentur, qui per Scripturarum
authoritatem, licentiam defectionis darent ac tuerentur, statim ut inscriptionem
legisses, libros ipsos, licet magni muneris loco ad te missos et preciose ornatos,
illis ipsis astantibus, qui attulerant te in ignem proiecisse, cum satius esse
diceres illos a te in ignem proiici quam te propter illos, si impiis eorum
suasionibus adhereres, in periculum aeterni ignis venire. O vocem vere
catholico et christiano Principe dignam. Sic ergo te eo tempore regio more ab
hoc insidiarum genere liberasti, de quo quidem nihil aliud dicendum esset,
siquidem hii, qui hoc venenum divinis verbis miscent, conquiescerent. Sed quia,
ut audio, modis omnibus tuam ac tuorum pietatem tentare non desinunt, cum
saepius repetant ex sola lectione illorum librorum nihil incommodi accidere
posse, cum, si non placeant, semper integrum sit illos reiicere atque hoc modo
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te ac tuos cives ad lectionem provocant. Ideo cum difficile esse iudicarem piam
istam tuam continentiam omnes diutius imitari posse, ut prorsus a lectione, ubi
occasio aderit, abstineant, quod proximum remedium esse iudicavi, hoc fuit, ut
venenatis eorum argumentis, his, qui ab illorum librorum lectione se continere
non possint, antidotum adiungerem. Quod quidem cum ante aliquot annos
paravissem, scripto libro, in quo simul eorum argumenta et quae ea diluunt ac
vim omnem veneni retundunt, coniunguntur; eum ad te librum, Catholice
Princeps, nunc mitto et sub nominis tui auspiciis, vel potius Christi nominis
auspiciis, cuius te strenuum pietatis ministrum ||185v prebes, in lucem exire
volo, cum quo spero sic in lucem eorum simul malitia proferetur, qui suam
defectionem umbra Scripturarum tegere nituntur, ut qui non sponte se decipi
velit, numquam sane simulatis illorum verbis utcumque in specie sanctis decipi
possit. Hic vero omne periculum est, spontaneae scilicet deceptionis, in quod
qui incidit iam omni generi periculorum et insidiarum est obnoxius. Hoc vero
periculum affert, imprimis humana prudentia, quam Divina Scriptura carnis
prudentiam appellat, cuius finis mors est, ut inquit Apostolus. Haec vero est,
quae cum praecipuam curam humanae vitae sese gerere profiteatur et omnes in
se sollicitudines ob hanc causam suscipiat, ut quam fęlicissime et diutissime
vivatur, prima omnium ac pene sola homini curas auget, et fęliciorem statum in
miseriorem semper commutat. Quare cum insidias, quae tuae pietati struuntur,
mihi nunc propositum sit patefacere, si hoc solum patefecero, quo tandem pacto
prudentia humana eas struat, vel si hoc tantum dixero, quo pacto illi Regi
fuerunt instructae, a cuius exemplo te deterreo. Satis ipse quidem quod volui,
praestitisse videbor, nec enim periculosius strui nec lętalius venenum parari
posse, quam quod illi fuit per prudentiam humanam propinatum, illius
gravissimus casusostendit et totius habitus animi tam monstrosa mutatio, qui a
magna pietatis laude in omne dedecus impietatis decidit. Sed ne in parabolis
loqui videar, quod alienum esse debet ab eo qui sua verba clare intelligi velit,
quique pro aliena et tanti Regis ac populi salute loquatur, quod ego nunc
maxime profiteor, sic tandem explico quod dico. Noveras, Rex inclyte,
Cromvellum Regis Angliae nuper primarium consiliarium, etsi de facie fortassis
non noveras, at vero ex actis eius, ex consiliis scio eum tibi fuisse notissimum, et
cum magno animi tui dolore te insignem illius impietatem novisse certo scio,
quanto magis pietati faves, quam ille prorsus ex Regis sui animo, et quantum
quidem in eo fuit, e toto ipsius regno fugavit. Huius enim consilium || 186r quod
ipsi Regi egregie persuasisse videtur hoc fuit, ut contra omne ius fasque in
regno suo supremi sibi capitis Ecclesiae nomen, ius et authoritatem vindicaret
ac sumeret. Hoc vero factum etsi nosti, modum tamen et rationem persuadendi
fortasse non ita nosti, atque hae demum, Rex, insidię illęsunt, quas imprimis
patefacere tuae Maiestatihoc libello proposui, de quibus te praemonere multo
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magis necessarium duxi, quam deceptiones argumentorum, quas sequentes
libri detegunt indicare, ob hanc quidem causam, quod sciam a nulla spetie
divinorum verborum pietatem tuam decipi posse, si hos laqueos evaseris, quos
prudentia humana non sine magna arte tendere consuevit. Quare hos primo
loco tibi detegere volui, et rationem ac modum detegere, quemadmodum ab eo
qui in omni serpentis calliditate fuit instructissimus sunt positi. Sed ne diutius
tuam Maiestatem morer, sic se res habet. Cum hic ingenio vafer, animo audax
ac natura ambitiosus Regem desiderio concupiti amoris ardentem cognovisset,
ad quem nisi repudiata uxore via nulla pateret, quod illa, cuius amore Rex
deperibat, pertinacissime negaret sui corporis potestatem nisi matrimonio
coniunctam se illi numquam facturam, idque ipsi Regi imprimis placeret.
Primum autem pudore deterreretur, si pudicissimam, nobilissimam ac
religiosissimam mulierem a se repelleret, quam per viginti annos consortem
thori habuisset, ex qua filiam tali matre et tanti regni successione dignam
suscepisset, in quam omnium vota pro hereditate consentirent. Cum ergo hic
primum, partim quidem pudor ac partim etiam reverentia divinarum legum, ne
aliquid huiusmodi tentaret, Regem retinerent. Deinde timor, modo suorum, qui
nomen divortii horrebant, matrimonio autem tanquam maxime legitimo,
unanimes consentiebant, de quo ne minima quidem controversia unquam ante
illud tempus fuerat facta, modo externae potestatis, tam Pontificiae, quam
Cesarae, utraque enim eius concupiscentiae se opponebat, et propterea eandem
magis accendebant, ut ||186v fieri solet, quo maiora repagula libido inveniret,
quae semper in vetitum nititur, ex quo variis curis animum eius distrahi fuit
necesse, quae omnem illi quietem adimerent. Cum ergo Regem sic affectum,
hic, de quo paulo ante dixi, serpentis antiqui artibus instructus cognovisset,
quod etiam vel vultus ipse satis prodebat, solito multo tristior ac deiectior (satis
enim memini illorum temporum statum) cum apud intimos Regis saepius
iactasset, se consilium habere, cui si Rex obtemperaret, facile eum his curis
liberari posse, non dubitaret, ob hanc igitur causam, cum facilem aditum
invenisset, in hunc modum sermonis initium cum Rege habuisse accepi, cum
diceret, fieri non posse in tanta animi sollicitudine Principis, quantam vel vultus
eius facile omnibus qui eum aspicerent ostendebat, ut non subditi quoque, ut
quisque animum benevolum erga Regem suum gereret, curis etiam animum
occupatum habeant, idque cum Principis, quem amant, tum vero sua ipsorum
causa, cum id facile cuivis sit perspicere diu Principis tam acerbas curas durare
non posse, ut non simul cives incommodis et periculis maximis implicent.
Periculum vero quod nam maius civibus imminere posse, quam quod totius
corporis immutatus habitus, ob tantas curas, in tam brevi tempore omnium
oculis ostendit, quod non aliud portendere potest, quam de illius salute (quod
Deus omen avertat) periculum, cum qua simul civium omnium ac pene
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singulorum, ut nunc sunt tempora, incolumitatem periclitari necessarium esse,
se non tam stupidum esse quin videat, quod nemo fere in universo Regno paulo
cordatior non videt. Quare merito se ut fidum servum ac Regis sui et patriae
amantem hac de causa animo angi et curis premi, sed non propterea inertem ac
languidum reddi, ut plerique solent, magis vero animo acui et exercitari, ut
omnia excogitet, quo eum, si fieri possit, curis liberet. Quo facto se certo scire
una cum Rege, seipsum et universum regnum curis et periculo maximo
liberare, se ergo, licet ||187r indignum agnoscat, qui Principis sese rebus
immisceat, fidem tamen et amorem audentiorem fecisse, ut quae diu de
Principis desiderato negotio cogitasset ad eum tandem deferret, quae si benigno
animo auscultet, non dubitare, se non solum in praesenti negotio, sed in
omnibus aliis quoque, ad quae voluntas eius ferretur, quod desideraret
consequi posse, non modo sine ullo detrimento honoris et potentiae, verum
etiam cum magno utriusque incremento, neque amplius opus fore, ut cum suo
desiderio satisfacere velit, ipse alios, maxime suos timeat, sed ut sui potius,
quemadmodum quidem par est, illum timeant, si illius voluntati quovis modo
obtemperare recusent. Quid enim interest, inquit, inter Regem, et privatum, nisi
hoc unum consequatur? Quot vero sunt privati subiecti legibus, subiecti
imperio principum, qui tamen desideriis suis non modo non fraudantur,
quamvis cum legibus pugnare illa interdum videantur, sed securi etiam
fruuntur! Quid ergo Princeps, qui supra leges est, qui leges mutare et aliis dare
debet? An cum aliquid, quod vehementer ad animi eius quietem et
tranquillitatem pertineat, desideraverit, leges tantopere timere debet, et multo
deteriore conditione seipsum privatis constituere? Haec omnia evenire ex
timiditate eorum, qui ante Regi fuerunt a consiliis, ut nihil gravius in eos dicat,
vel fortassis, ut verius dicat ex quorundam malitia, qui quod subditos discere
magis decet, ac perpetuo servare, Regem docere volunt, ut timeat suis desideriis
satisfacere, nempe ut sibi libertatem, Regi vero servitutem quaerant: non enim
causam Regis hoc modo, sed subditorum, sed suam ipsorum causam procurant,
quorum maxime interest, timiditatem satisfaciendi desiderio suo in Principis
animo inseri, atque omnibus in causis confirmari. Neque vero se propterea
dicere, ut in hiis, quae aperte turpia sunt, quisquam Regi animum addat, ut
desiderium suum impleat, qualia neque in mentem ei venire posse, se certo
scire, hoc tantum dicere ac suadere, ne se stricte eorum regulae, qui in scholis
de natura honesti et turpis ociosi disputant, astringi nimis patiatur, qui ita || 187v
semper de honesto statuunt, habere id principium in natura, quare nullo modo
ab eo declinare posse quenquam, quin turpis statim habeatur, sive sit Princeps,
sive sit privatus. Idem enim iugum utrique imponunt, quorum conditio est
dissimillima, et sic tandem de honesto concludunt, nec populi scitum, nec
Principum decretum, quicquam de eo immutare posse, quae licet ab usu rerum
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et communi sensu abhorreant, tantum tamen suis argutiis profecisse videntur,
ut vix aliquis Princeps inveniatur, qui animo suo satisfacere audeat in eo, quod
eorum cavillationes honestum esse non concludant, cum tamen experientia
rerum multo melior magistra doceat, honestum sepe mutari, quod si ut ipsi
iactant, principium in natura fixum haberet, non ita sepe apud eos qui in natura
vivunt variaretur, ut quod apud unam nationem turpe appellaretur, apud aliam
appelletur honestum, quin etiam apud eandem plęrumque quod uno tempore,
et sęculo iudicaretur honestum, altero turpis nomen sortiatur. Id quod cum
pluribus exemplis confirmasset, sic tandem de ipso honesto conclusit, mutationi
subiectum esse, et ab hominum voluntate, non a natura pendere, quod si
hominum arbitrio honesti ratio mutatur, quorum magis hoc licebit fieri, quam
Principum, quorum voluntates pro legibus haberi debeant, ex quibus etiam,
quae pro firmissimis habentur, ipse leges fluxere. Haec vero non se ideo in
presenti Regis negotio dicere, quod quicquam mutari in eo sit necesse de
ratione honesti, vel aliter statuere, quam quod omnes qui ubique sunt, sentiant:
qui cum legem Dei cum suo desiderio coniunctum habeat, quae apertissime
prohibeat, uxorem fratris ne quis habeat, quid hic tandem opus erit aliqua
haesitatione aut disputatione de honesto? Praesertim cum omnes secum scholas
omnium gymnasiorum assensum habeat. Sed ideo haec se commemorasse, ut si
ab eo, quod honestum vulgo videtur, regius animus aliquando deflectat, non
populos de facto principis iudicare debere, nec principes tantopere iudicium
populi timere, quem semper voluntatem principis ||188r tanquam legem par est,
accipere. In hac vero causa ubi Princeps legem Dei cum sua voluntate
coniunctam habet, quam poenam satis severam illi esse posse, qui huic se
opponere audeat? Quod si externa authoritas timeatur, maxime illa Romani
Pontificis, quae in huiusmodi controversiis maxime solet supremum sibi
tribunal vindicare, nolle se dicere, quin omnes viae tentari debeant, ut eius
praerogativa et fautrix sententia habeatur, maxime quod ea utilis esse possit ad
opponendum quęrelis illius Principis, qui se lęsum dicet in hoc divortio. Quod
si nihilominus in sua ille perstabit pertinatia, ut iusto Regis desiderio suum
neget assensum, non se videre, cur Rex causam habeat, magis timendi eius
iudicium, quam amplectendi occasionem omnium praeclarissimam, ut se et
regnum suum ex servitute Romani Pontificis subtrahat. Servitutem enim
magnam esse, et grave iugum, quod Pontifex Romanus collis Regum et
Principum imposuit, mirari se, eos non videre Germaniae principes hoc tandem
sensisse, et iam iugum excussisse. Quid ipse dubitaret illos sequi? An quia
malum aliquod propterea ad ipsos pervenerit? Qui inde multum opibus
creverunt. Sed quis magis eo crescere possit, et potentia, et divitiis, ita ut omnes
maiores suos facile superet, si tantum quod illi debetur, et non nisi cum damno
Regni, externo homini concedi potest, se caput Ecclesiae in suo regno, ut par est,
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haberi velit. Cui veromagis debetur nomen capitis in Regno suo, quam ipsi
Regi, monstri simile videri, duo capita in eodem regno, fictionem hoc
sacerdotum esse, ut se vindicent a iurisdictione Regum. Sed revocet Rex ad ius
suum, quod illi astute abstulerunt, atque hoc pacto ornabit simul authoritatem
regiam, augebit, etditabit. Et cum hoc dicto, quasi in pinnaculum templi, vel in
montem excelsum, eum sustulisset, unde omnia subiecta potestati ecclesiasticae
videri possent, sic omnia regni monasteria, quae magno numero et opulenta
fuerunt, omnes Episcopatus, universum denique ||188v Ecclesiae patrimonium,
illi ostendit, moxque illud adiunxit, haec omnia tua sunt, tantum te caput
Ecclesiae, quod revera es, vocari iubeas, et hunc titulum, consensu supremi
consilii regni, tibi dari cures, quod non erit difficile impetrari, modo idoneos
ministros, qui hoc rite proponant, habeas. Hoc vero si consequaris, non solum
horum omnium bonorum eris dominus, verum etiam tuorum desideriorum
posthac sine ulla maiore sollicitudine compos praesertim si hoc unum
observetur, quod initio omnis novae potestatis, ut authoritatem stabilem habeat,
plusquam necessarium esse solet, ut scilicet graves poenas resistentibus statuas,
ac nemini delinquenti parcas. Hoc vero crimen illorum, qui isti tuo honori, vel
verbo, vel scriptis resistere audebunt, proprio nomine signari facias, ut crimen
lęsę maiestatis, sicuti est, ita appelletur, et quae poena perduellionis reis
statuitur, eadem omnibus qui istam tuam authoritatem quovis modo
oppugnare audeant, statuatur. Qui enim, revera, maiestatem regiam lędunt, aut
diminuunt, quam qui, quod maximum authoritatis nomen est, externo magis,
quam Regi suo tribuunt, ut sit caput Ecclesiae. Sed postquam consensus regni
hoc tibi tribuerit, quis inimicus aut hostis huic erit comparandus?Qui contra
consensum suorum in Rege suo honorando externo homini Pontifici Romano
plus faveat? An maiore iniuria te afficeret, si dimidium regni abs te auferret?
Quid enim, an non ita faciunt, qui dimidiam authoritatem auferunt, eam quae
est in sacerdotes, et tuo iuri subtrahunt? Vindices ergo quod est proprium regii
nominis, ut sis caput in tuo regno, et solum caput, iamque omnes maiores tuos
prudentia omnium prudentum iudicio viceris, qui vel hoc non viderunt, quo
pacto regia maiestas per externam potestatem diminueretur, quod est maximae
imprudentiae, vel si viderunt, in eo maxime defecerunt, quod viam invenire
non potuerunt, quo pacto iura sua recuperarent. Hoc vero illis fortasse || 189r
obfuit, quod in externo imperio Galliae tuendo et acquirendo occupati, qui
domi eorum imperium magis quam hostes diminuerent, quia specie religionis
se celabant, non animadvertebant, illos solos hostes putabant, qui arma
manibus tenentes eis se opposuerunt. Qui vero sine armis ius regni domi, plus
quam omnes reliqui hostes, foris, tanquam ex insidiis diminuebant, et
auferebant, non videbant. Hoc autem fecerunt Romani Pontifices; sed quis non
videt Dei hoc opus et beneficium esse, ut Principi per quietem ab externis bellis
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hanc occasionem, quam habet in manibus, oculi aperiantur, ut videat, quid de
suo iure detractum sit, et preaclaram oportunitatem ad id recuperandum a Deo
oblatam agnoscat, quam nunc tandem amplectatur, per quam primum omnium
suo desiderato amore sine ulla maiore solicitudine frueretur, et in posterum ad
omnia sua desideria fruenda aditum sibi liberum patefaceret, opesque et famam
simul augeret. Si vero sunt qui huic consilio obstare videantur, impedimenta, ne
dubitet omnibus, ut locus, et tempus, postulabunt posse remedia afferri, nihil
tanti esse, ut eum removere debeat a vindicanda supremi capitis authoritate, in
omni genere iurisdictionis in suo regno, per quod tandem in plenum ius Regis
seipsum et successores suos vindicare possit, et hanc famam prudentiaeper
auctam authoritatem et potentiam posteris relinquere. Sed num iam pias aures
maiestatis tuae impii et scelesti hominis venenatis verbis plus satis personui?
An fortassis nondum veneni inditia se produnt? Et hoc quidem facile credo;
Nec enim hoc opus prudentiae, praesertim serpentinae esset, si dum paratur
poculum venenum appareret. Eo vero minus etiam creditur fraudem subesse in
verbis, aut venenum infusum, quo magis videmus eum, qui idem ebiberat, non
modo nullum damnum sensisse, sed sic incolumen evasisse post exhaustam
potionem, ut honoribus, divitiis, et omnibus, quae illa, quam appellamus
venenatam orationem, pollicebatur, auctus videatur, adeo ut non modo minime
dolosum aut damnosum, sed fidum maxime et salutare consilium ||189v
proposuisse eventus ipse, quem omnes vident clarissime doceat, et hoc quidem
est, quod tertio loco inter insidiarum genera nominavimus, quas tuae pietati
instructas diximus, quod videlicet ab exemplo nectitur quod maxime in hac
causa timeo, quia nihil video, quod fallacibus verbis authoritatem maiorem
dare possit, quam exemplum, quod simul ut ostenditur, satis per se ad
persuadendum valere solet. Hic vero exemplum tale in omnium oculis apparet,
ut non modo non deceptum illum, cui perniciosum tale consilium, quale
proponit superior oratio, non videatur, ut reliquos omnes decepisse, et reliquis
perniciem attulisse, illum vero solum frui suis desideriis, et impune frui constet.
Hic ergo plus oculis credi, quam auribus, plus factis quam verbis est necesse...
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Is there any justification for the Crusades in the Old Testament
of the Holy Bible?
di Roberto Brunelli jr*
As we will see soon afterwards, there are some convergences, among historians,
in the terminology relating to the wars of Israel, narrated in the Old Testament,
and the preaching of the Crusades. Above all, the real question remains if both
the wars of Israel and the Crusades can be considered Holy Wars or not.
Some historians do not agree with a definition of the wars of Israel as Holy
Wars, because they were wars of conquest and defence to survive; at least until
the time of the Maccabees, Israel did not fight for faith, but for survival. The
rising of the Maccabees against Antiochus Epiphanes, ruler of the Seleucid
Empire, can be regarded as a religious war, fought in order to defend the
faith of Israel. Nevertheless, others observe, for the Hebrews the war had
always a sacred feature1.
On the other hand, scholars debate if the Crusades can be qualified as a
Holy War. According to the Italian historian Franco Cardini, the Crusades
never were a series of religious or Holy Wars, but an armed pilgrimage in
order to conquer, defend, or, after 1187, re-conquer the Holy Land. We could
define the Crusades as the new Exodus, i.e. the march of the Chosen People
towards the Promised Land2. Other historians point out that the expression
“Holy War” appears for the first time in book I of “Dei Gesta per Francos”, in
The author of this article is currently a second year student at Tufts University in Medford,
MA, USA. This article was originally written as an extended essay during his last year of IB and
edited with further research and knowledge acquired both through college courses and
individual research. Written using US English.
1 See E. Peretto, L a sfida aperta. Le strade della violenza e della nonviolenza dalla Bibbia a
Lattanzio, Roma 1993, pp. 20-33.
2 F. Cardini, Francesco d’Assisi, Milano 1989, pp. 165-166.
*
61
R. Brunelli, Is there any justification
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
which the author - Guibert de Nogent, a Benedictine chronicler of the First
Crusade - speaks of “Proelia Sancta”. In this way, the idea of a “righteous” war
gains a sacred peculiarity3.
In any case, it seems that the Crusades were not simply a kind of armed
pilgrimage; which would in part diminish the idea of the Crusades as a Holy or
religious war4. Crusades historian J. Riley-Smith emphasizes that the Crusades
can be considered both a pilgrimage to the Holy Sepulchre in Jerusalem, and a
war for its liberation from the infidels. Pope Urban II, who preached and
ordered the First Crusade at the Council of Clermont, in 1095, when describing
it, on one hand used the words iter, via, labor and, on the other hand, coined the
Latin military term: expeditio5, which is a direct link to the idea of “war”.
Moreover, French Medieval historian Jean Flori has remarked that the
Crusades were not only an armed pilgrimage, but also, perhaps as their
principal purpose, a Holy, or, more precisely, a sacralized war6, which aimed at
the liberation of Jerusalem and, in particular, of the Holy Sepulchre7. It is
interesting that Flori, when making a synthesis of the analogies and the
differences between the Islamic Jihad and the Holy War, points out that the first
preaches conquest, while the second preaches reconquest8. We can also recall that
the French historian Dérumaux remarked that the Holy War was not a
Christian institution like the Jihad for the Muslims, but it depended on
occasional necessities9.
The sources of the Old Testament
In the Old Testament the wars of Yahweh in order to defend his people are a
kind of sacred event, and God is depicted as a commander-in chief, who goes
into battle and leads the army10. In support of this point of view there are
See G. L. Potestà- G. Vian, Storia del Cristianesimo, Bologna 2010, p. 193.
Ibidem, p. 192.
5 J. Riley-Smith, “ The idea of Crusading in the Charters of early Crusaders, 1095-1102”, in
Le Concile de Clermont de 1095 et l’appel à la Croisade, Actes du Colloque Universitaire
International de Clermont-Ferrand (23-25 juin 1995), Roma 1997, p. 157.
6 J. Flori, La guerra santa. La formazione dell’idea di crociata nell’Occidente cristiano, Bologna
2003, pp. 11-12.
7 Ibidem, p. 385.
8 Ibidem, p. 383. P.-Y. Emery, in his edition of De laude novae militiae of Bernard of
Clairveaux, about whom we will speak later, says that the first motive of the crusades was,
at least in the beginning, the Christian ideal of the pilgrimage: see Sources Chrétiennes 367,
Paris 1990, p. 34; however, he also qualifies the crusade as a righteous, holy war, ibidem, p.
33.
9 P. Dérumaux, S. Bernard et les infidèles. Essai historique et doctrinal, Paris 1943, p. 74.
10 Cfr. Peretto, La sfida aperta, ci t., p. 20.
3
4
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Eurostudium3w aprile-giugno 2016
several very interesting passages in the Old Testament, such as the ones
reported below:
Exodus 15, 3-4: Yahweh is a warrior. The chariots and the army of Pharaoh he has hurled into
the sea, the pick of his horsemen lie drowned in the Sea of Reeds.
1 Samuel 15, 2-3 (The war against the Amalekites): Thus speaks Yahweh Sabaoth: I will repay
what Amalek did to Israel when they opposed them on the road by which they came up
out of Egypt. Now, go and strike down Amalek; put him under the ban with all that he
possesses. Do not spare him, but kill man and woman, babe and suckling, ox and sheep,
camel and donkey.
This passage is particularly expressive, especially if we take into
consideration the fact that, as the Catholic historian Joseph Lortz argues11, it is
undoubted that the Crusaders, when they conquered the Holy Sepulcher and
occupied Jerusalem, did not spare either women or children whom they
considered Infidels. Anyway, according to further passages:
1 Samuel 17, 37 (when David challenged Goliath): Saul said to David: Go, and Yahweh be with
you.
Psalm 89, 11: You (God)… scattered your enemies with your mighty arm.
Psalm 136, 17-18: He (God) struck down mighty kings. He slaughtered famous kings.
Isaiah 13, 3: I, For my part, issue orders to my sacred warriors, I summon my knights to serve
my anger, my proud champions.
Joel 4, 9-10. Proclaim this among the nations. Prepare for war! Muster the champions! Warriors,
advance, quick march! Hammer your ploughshares into swords, your sickles into spears, let the
weakling say, ‘I am a fighting man’.
We will find such words in the preaching of the Crusades, in which the
Christian soldiers were urged to prepare themselves for war and march in order
to free the Holy Land. The verb to march can also be found in a passage from
the book of Judges, where the people going into battle are proclaimed as God’s
people, God’s army12:
Judges 5, 13: Then Israel marched down to the gates; Yahweh’s people, like heroes,
marched down to fight for him.
Furthermore:
Zechariah 14, 2-3 (the eschatological battle): Yahweh will gather all the nations to Jerusalem for
battle. The city will be taken, the houses plundered, the women ravished… Then Yahweh will
take the field; he will fight against these nations as he fights in the day of battle.
11
12
J. Lortz, Storia della Chiesa, I, Milano 1987, p. 303.
See also Exodus 12, 41.
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R. Brunelli, Is there any justification
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Sources before the Crusades: Sergius IV and Gregory VII
In regard to the Crusades, there is a document, the so-called “Encyclical of
Pope Sergius IV”, in which Pope Sergius appeals to all of those with faith to
give armed assistance to the Holy Sepulcher, summoning Christians to take it
away from the Infidels13. According to the Polish historian Aleksander
Gieysztor, this document’s authenticity is debatable, because he considered the
“Encyclical” to be a production completely foreign to the Papal Chancery.
Nevertheless, this document includes many Biblical quotations, which played
an important role in the arguments advanced by many other appeals for
pilgrimages to the Holy Land.
In particular, in the document we find a quote from Isaiah 11, 10: “its
home will be glorious”14, which in the second half of the eleventh century
appears in writings dealing with the idea of a Crusade15. Moreover, the epithet
applied to the enemies of the Church, the so called gente Agarena, an idea which
originates from Psalm 82, 716 and alludes to Agar, the Egyptian slave, wife of
Abraham and mother of Ismael17. In the Encyclical there are also some
locutions, like “Domini est vindicare” (Ecclesiasticus 5, 3)18 and “prelium
Domini” (1 Samuel 25, 28). However, as Flori points out, even if this document
is not authentic, it contains the main subjects, which will be developed in the
preaching of the Crusades19.
Before Urban II, Pope Gregory VII, in an epistle sent to the emperor
Henry IV, which dates to 1074, had thought of leading an army toward the
Holy Land against the enemies of God in order to reach the Holy Sepulcher. It
is interesting that the Pope used the military terms expeditio and armata
manus to characterize this expedition to the Palestine20.
See A. Gieysztor, The Genesis of the Crusade: The Encyclical of Sergius IV (1009-1012),
«Medievalia et Humanistica», V (1948), pp. 3-4.
14 This is the passage of Isaiah quoted in the Encyclical: “Et erit sepulchrum eius
gloriosum“: cfr. the critical edition of H.M. Schaller, “Zur Kreuzzugsenzyklika Papst
Sergius’ IV”, in H. Mordek (ed.), Papsttum, Kirche und Recht im Mittelalter, Tübingen 1991,
p. 151. According to this scholar it is not demonstrated that the Encyclal is not authentic,
ibidem, p. 148; in his opinion, this document dates from 1010, ibidem, p. 150.
15 Cfr. Gieysztor, The Genesis…, «Medievalia et Humanistica», V (1948), p. 20; VI (1950), p. 10.
16 Ibidem, V (1948), p. 21 n. 77; VI (1950), p. 33. Ed. Schaller, p. 151.
17 Cfr. Genesis 16, 3. 15.
18 Ed. Schaller, p. 151.
19 J. Flori, La guerra santa…, cit., p. 327.
20 Registrum II, 31: "si me possunt in expeditione pro duce ac pontifice habere, armata manu
contra inimicos Dei volunt insurgere et usque ad sepulchrum Domini ipso ducente pervenire";
Monumenta Germaniae Historica, Epistolae selectae II, Berolini 1955, p. 166. See Flori, La guerra
santa…, cit., pp. 329-334.
13
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Urban II and the Preaching of the First Crusade
As we have said, Urban II preached the First Crusade during the Council of
Clermont, which sat from November 18 to November 28 1095. As the historianSteven Runciman points out, only four contemporary chroniclers have reported
the Pope’s words: Robert the Monk, Baudri of Dol, Fulcher of Chartres and
Guibert of Nogent. However, no one of these four chroniclers has professed
to give an accurate verbal account of Urban’s speech. Each of them wrote a
few years later the Council had taken place; that’s why we can only know
approximately and in a way, we must hypothesize, what Urban in fact said21.
According to J.A. Brundage, Robert the Monk was the only one to make
a definite claim that he was present at the Council; this historian, in regard
to Robert’s account, says: “An eyewitness reports his words (i.e. of the Pope)
as follows”22. It seems that Urban began his speech by telling his hearers of the
necessity of aiding their Christian brothers in the East, and described the
sufferings of the pilgrims that journeyed to the Holy Land23.
According to Robert the Monk, the Pope said, quoting Psalm 78, 8 and
alluding to Psalm 67, 22:
The people of the Persian kingdom, an alien people, a race completely foreign to God, a
generation of false aims, of a spirit that broke faith with God24, has invaded Christian territory and
has devastated this territory with pillage, fire and the sword25… You are the people upon
whom God has bestowed glory in arms, greatness of spirit, bodily agility, and the courage to
humble the proud lock26 of those who resist you. 27
Further in the speech, always according to Robert the Monk, the Pope
instituted a comparison with the story of Israel and referred to the land given
by God to his people:
Conquer that land which the wicked have seized, the land which was given by God to
the children of Israel and which, as the Scripture says, is all milk and honey. 28
This explicit reference made to the Old Testament of the Bible and to the
conquest of the Promised Land, appears as a clear argument to justify the
S. Runciman, A History of the Crusades, I, Cambridge 1951, p. 107.
J.A. Brundage, The Crusades. A documentary Survey, Milwaukee 1962, p. 23, n.7.
23 Runciman, A History…, c i t . , I, pp. 107-108.
24 Psalm 78, 8.
25 So also in the speech of the Pope reported by Fulcher: Historia Hierosolymitana I, 3; Recueil
des Historiens des Croisades. Historiens occidentaux, t. III, Paris MDCCCLXVI, p. 324.
26 See Psalm 67, 22.
27 Historia Hierosolymitana I, 1; Recueil, p. 728. Cfr. Brundage, The Crusades…, c i t . , p. 18.
28 Exodus 3, 8; Recueil, p. 728. See Brundage, The Crusades…, c i t . , p. 19.
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Crusades and the re-conquest of the Holy Land. Urban continued his speech
using the military terminology of the wars of Israel, led by Yahweh:
When you make an armed attack on the enemy, let all those on God’s side cry out together,
‘God wills it! God wills it’. 29
The following words of Pope Urban II also delineate the Crusades as a
pilgrimage:
Nor, indeed, should laymen begin the pilgrimage without their priest’s blessing. 30
According to Runciman, Urban made his great appeal particularly
effective by using the term “march”, which we have seen in Joel 4, 10 and Judges
5, 13, and by qualifying the Crusades as righteous wars led by God: “Let
western Christendom march to the rescue of the East… They should fight a
righteous war, doing the work of God, and God would lead them”31.
The response was immediate. Cries of ‘Deus le volt’, God wills it!,
interrupted the speech of the Pope32.
It is interesting that in Urban’s speech, as reported by Italian theologian
and historian G.D. Mansi33, the enemy of the Christians is called the “son of the
Egyptian slave”, and there is a supporting quotation from Genesis 21, 10: “Drive
away that slave girl and her son”, and from 1 Maccabees 2,8: “Her Temple (i.e.
of the Holy City) has become like a man of no repute, the vessels that were
her glory have been carried off as booty”. In this text the free (libera) wife of
Abraham, Sarah, and the Egyptian slave, Agar, are opposed; here we are
dealing with the gens Agarena, which we have seen in the so-called Encyclical of
Sergius IV, and this, supposedly justified the fight against a people, which
violently occupied the Holy Land.
Moreover, Mansi’s edition reports the speech of Urban II according to
William of Malmesbury, who wrote approximately thirty years after the
Council. In this account the Pope mentioned the history of Israel, when the
Jews, after their liberation from slavery in Egypt, crossed the Red Sea and
Recueil I, 2; p. 729.
Ibidem. Cfr. Brundage, The Crusades…, c i t . , p. 20.
31 Runciman, A History…, c i t . , I, p. 108.
32 Ibidem.
33 See J.D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, vol. 20, Graz 1960, 822:
“Haec igitur salutis nostrae cunabula, Domini patriam, religionis matrem, populus absque
Deo, ancillae filius Aegyptiae possidet violenter et captivitatis liberae filiis extremas
imponit conditiones, quibus versa vice merito servire tenebatur. Sed quid scriptum est?
Eiice ancillam et filium eius”.
29
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Eurostudium3w aprile-giugno 2016
took up arms to occupy Canaan and drive their enemies out of the country34. It
is important to point out the use of the verb prefigure, which is fundamental in
Biblical exegesis, and which highlights that the events of the Old Testament are
emblematic of the future events appertaining to the Christian age.
In this case the Israelite occupation of the Promised Land prefigured the
Christian liberation of the Holy Places. Urban added in his speech that he
retained righteous to brandish the sword against the Saracens, comparing them
to the people of Amalek35, as a further justification for the Crusades. As Flori
asserts, in regard to the connection between the Crusades and the Old
Testament, God, through the figure of the Pope, asked his Christian followers
to participate in the re-conquest of the Holy Places under His leadership, as
once the Israelites had re-taken possession of the Holy Land occupied by the
inhabitants of Canaan36.
The Preaching of the Second Crusade: Bernard of Clairvaux
Bernard of Clairvaux was the official preacher and the guiding spirit of the
Second Crusade. He wrote some epistles, which contain several quotations or
allusions from the Old Testament. In epistle 458, sent to Wladislas of Bohemia,
Bernard urged Christians to take part in the Second Crusade, mentioning the
Army of the Lord and alluding to 1 Maccabees 6, 39: “When the sun glinted on
the bronze and golden shields the mountains caught the glint”, and 41:
“Everyone trembled at the noise made by this vast multitude”37. By doing this,
the abbot of Clairveaux connected the religious war of the Maccabees, fought
with the purpose of defending the faith of Israel, to the Crusade, led by Godthe same God of both Israel and of the Christian Church.
Epistle 363, sent to many addressees, is called an encyclical, and was
written to support the Crusade. Bernard alludes to Isaiah 59, 1: “No, the hand of
Ed. Mansi, p. 825: “Filii Israel ab Aegyptiis educti, qui rubri maris transitu vos
praefiguraverunt, terram illam armis suis, Iesu duce (i. e. Joshua), sibi vendicaverunt,
Iebusaeos et alios convenas inde expulerunt” .
35 Cfr. Exodus 17, 8. Ed. Mansi, p. 826: "In Saracenos gladium vibrare, singulare bonum est quia
et caritas est pro fratribus animas deponere... Vestrum est contra Amalecitas pugnare".
36 See J. Flori, La guerra santa…, ci t., p. 384. See also A. Vauchez, “ Les composantes
eschatologiques de l’idée de croisade”, in Le Concile de Clermont, p. 235. Vauchez quotes in
particular Psalm 32, 12.
37 Ep. 458: “ut refulgeat sol in eis et terrore dissipetur gentium fortitudo”; see J. Leclercq,
L’encyclique de Saint Bernard en faveur de la croisade, i n « Revue Bénédictine», 81 (1971), p.
287; G.G. Coulton, “ Saint Bernard guerrier de Dieu”, in Saint Bernard et son temps,
Association bourguignonne des Sociétés Savantes, Congrès de 1927, t. I, Dijon 1928, pp. 121129.
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Yahweh is not too short to save”38, and emphasizes the defensive nature of the
military expedition (ad tuendam et restituendam… hereditatem). Moreover, he
makes a reference to 1 Maccabees 3, 58: “Stand to your arms… acquit yourselves
bravely, be ready to fight”, and, urging the Christians to be fearless, he qualifies
them as happy because of their decision to seize arms39. In this epistle there is
also a reference to 2 Chronicles 13, 3: “Abijah went into battle with an army of
brave fighters”, where Bernard, once again mentioning the Lord’s army, urges
to choose bellicose men40.
In epistles 457 and 247 there is the presence of the military term
expeditio: De expeditione in terram sanctam41 or Ierosolymitana expeditio42, used
by Urban II as formerly pointed out. That is why according to Bernard, the
Devil excited the pagans (the Muslims) who occupied the Holy Places43.
Consequently, Bernard urges the Christians to arm themselves against the
Muslims, whose arrogance will be humbled by God, so that the way to
Jerusalem will not be prevented44. In this passage it is possible to see not only
the idea of war in order to defend the Holy Land (armari), but also the
conceiving of the Crusade as a pilgrimage (via). In this context the abbot of
Clairveaux quotes the Holy Bible45, perhaps alluding to Isaiah 52, 9, a reference
that can also be found in the treatise- De laude novae militiae46.
It is also very interesting that in an epistle written by Bernard’s secretary,
Nicholas of Clairveaux, there is a quotation from Psalm 113, 2: “Where is their
God?”; the Crusade is seen as a defense of the Holy Places, in particular of the
Ep. 363: “Numquid abbreviata manus Domini, aut impotens facta est ad salvandum, quod ad
tuendam et restituendam sibi hereditatem suam (cfr. Psalm 32, 12) exiguos vermiculos
vocat?” ; Leclercq, L’encyclique…, c i t . , p.297.
39 Ep. 363: “Accingimini et vos viriliter et felicia arma corripite christiani nominis zelo”;
Leclercq, L’encyclique…, cit., p.297.
40 Ibidem: “Viros bellicosos et gnaros talium duces eligere est, et simul proficisci exercitum
Domini, ut ubique habeat robur”; Leclercq, L’encyclique…, c i t . , p. 299.
41 Ep. 457; Patrologia Latina 182, 651-652.
42 Ep. 247, 1; Patrologia Latina 182, 447.
43 Ep. 457; 651: “malignus… aliud damnum veretur longe amplius de conversione gentium,
cum audivit plenitudinem eorum introituram, et omnem quoque Israel fore salvandum. Hoc
ei nunc tempus imminere videtur… Suscitavit proinde semen nequam filios sceleratos
paganos quos... nimis diu sustinuit Christianorum fortitudo“.
44 Ibidem: “fiet ergo, Deo volente, ut eorum superbia citius humilietur, et non propter hoc
impediatur via Hierosolymitana… denuntiamus armari Christianorum robur adversus illos”.
45 Ibidem: “quia dicit Scriptura: Ante ruinam exaltabitur cor”.
46 See below.
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Holy Sepulcher; in this Biblical quotation we again find the mention of the
pagans (gentes), i.e. the Muslims47.
Bernard also wrote a treatise, De laude novae militiae, in which he
addressed the warrior monks, called the Knights Templar, whose role was to
defend the pilgrims visiting the Holy Places48. In this work there is an evident
connection between the mission of the Knights Templar and the Second
Crusade, because the new army, which took part in the defense of the Holy
Places, accomplished, in their historical significance, the prophecies of the Old
Testament concerning the re-establishment of Jerusalem49. The abbot of
Clairveaux points out that, after the overthrow of His enemies would have
taken place, God would have returned to His inheritance and His house;
then he alludes to Jeremiah 31, 11-12: “For Yahweh has ransomed Jacob,
rescued him from a hand stronger than his own. They will come and shout for
joy on the heights of Zion. They will throng towards the good things of
Yahweh”50, and quotes Isaiah 52, 9-10: “Break into shouts of joy together, you
ruins of Jerusalem; for Yahweh is consoling his people, redeeming Jerusalem.
Yahweh bares his holy arm in the sight of all the nations”51. The Templars
acted as a kind of police force which guaranteed access to the Holy Places52.
In this regard, Bernard quotes some passages in particular from the Book of
Psalms53, which stigmatized and condemned the unfaithful, who tried to take
away the riches of the Jewish people, which were placed in Jerusalem, and to
profane the Holy Things54. Moreover, Bernard touches upon the Theory of the
Ep. 467, 2; 672: “defendite loca mortis eius et redemptionis nostrae, ne quando dicant gentes.
Ubi est Deus eorum?”.
48 See the edition of De laude novae militiae by P.-Y. Emery; « Sources Chrétiennes» 367, p. 23.
49 Ibidem, p. 24. Cfr. De laude novae militiae III, 6; p. 66: "quidquid huic tempori significando ex
Prophetarum vocibus usurpamus, ne per id quod cernitur evanescat quod creditur, et spei
copias imminuat penuria rei, praesentium attestatio sit evacuatio futurorum".
50 So Bernard synthetizes the prophetic passage: “redemit Dominus populum suum et
liberavit eum, et venient et exsultabunt in monte Sion, et gaudebunt de bonis Domini”: De
laude novae militiae III, 6; pp. 62-64.
51 Ibidem; p. 64: “Gaudete et laudate simul, deserta Ierusalem, quia consolatus est Dominus
populum suum, redemit Ierusalem, paravit Dominus brachium sanctum suum in oculis
omnium gentium”.
52 See Emery, p. 23.
53 Psalm 67, 31: “dissipentur gentes quae bella volunt”; 100, 8: “disperdantur de civitate
Domini omnes operantes iniquitatem”; 82, 13. “hereditate possidere sanctuarium Dei”
(according to the text of the Septuaginta); 113, 2: “ne quando dicant gentes: Ubi est Deus
eorum?” (as we have seen, this passage is quoted by Nicholas of Clairveaux): De laude
novae militiae III, 5; p. 62.
54 De laude novae militiae, ibidem: “ …qui repositas in Hierosolymis Christiani populi
inaestimabiles divitias tollere gestiunt, sancta polluere”.
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Two Swords, according to which both the material sword and the spiritual
sword, must be turned against the enemies55; and he thinks of the material
sword as the Christian wars, like the Crusade56.
Conclusion
In conclusion, linguistic analogies definitely exist between the wars of Israel, as
they are narrated in the Old Testament, and the preaching of the Crusades.
Both the Israelite wars and the Crusades, appear to be a kind of Sacralized war
led by God to give protection to His people. Sometimes we find the same
military terminology. After all, the preachers of the Crusades quote or allude to
many passages of the Old Testament, in particular from the Psalms and the
Prophets, to justify the Re- conquest (not the conquest) and the defense of the
Holy Places and, above all, of the Holy Sepulcher. In this regard, the Crusades,
an armed pilgrimage or a series of Holy Wars, however that may be, were the
new Exodus, the march of the Chosen People towards the Promised Land, i.e.
the Crusades’ preachers drew more from certain messages of the Old Testament
rather than the prevailing message of love and forgiveness.
Ibidem: “ Exseratur gladius uterque fidelium in cervices inimicorum”.
See Emery, pp. 62-63 n. 2. The theory of two swords is based on the Pauline epistles to the
Romans 13, 4 (the material sword) and to the Ephesians 6, 17 (the spiritual sword).
55
56
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Bartolomé de Las Casas, defender of human rights
and universal brotherhood
The dispute of Valladolid versus Juan Ginés de Sepulveda
di Francesca Russo
The discovery of Americas implied a huge variety of political, social and
economic consequence1. I would like to introduce some considerations upon
one of the most interesting “cases” concerning the cultural debate about the
way the Spanish behaved towards the natives. The aim of this brief essay is to
introduce some considerations on the historical circumstances of the so called
“dispute of Valladolid” which took place between 1550 and 1551, under the
direction of Charles V and with the purpose of discussing the opposite theories
concerning the natural rights of the Americans, as asserted by Bartolomé de Las
Casas and Juan Ginés de Sepulveda2.
As the outstanding and well-known study of Cvetan Todorov La conquête
de l’Amérique. La question de l’autre underlines, the relationship between the
This text was given by me at the Annual Meeting of the Renaissance Society of America held in
Boston (April 1st 2016) in the session entitled Spain between Europe and the New World: Culture,
Politics and Power organized by Salvatore Bottari ( University of Messina), Linda Curcio-Nagy
(University of Nevada, Reno) and Gabriel Guarino ( University of Ulster), and sponsored by
Americas-RSA Discipline Group.
2 L.U. Hanke, Aristotle and the American Indians. A study in Race and Prejudice in the Modern World.
On the Debate at Valladolid in 1550-51 between Juan Ginés de Sepulveda and Bartolomé de Las Casas,
London, Hallis and Carter, 1959; Id., All mankind is one. A study in the disputation between
Bartolomé de Las Casas and Juan Ginés de Sepulveda in 1550 on the intellectual and religious capacity of
the American Indians, Dekalb, Northern Illinois University Press, 1974; D.R. Brusntetter,
Sepulveda and Las Casas, and the Other: exploring the tension between moral universalism and alterity,
in «Review of politics», LXXII (2010), pp. 409-439.
1
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F. Russo, Bartolomé de Las Casas
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conquerors and the natives is complicated to describe 3. It raises deep moral
doubts and re-opens wounds which are still alive in the critical consciousness of
the Europeans.
The Americans at the time of discovery were either considered as
“different” namely as “others” but “inferior beings”, and as a consequence they
were suitable to be spoiled and reduced into a state of slavery, or they were
considered as “different” but still possessing the same natural rights as the
Europeans, but were not respected for their peculiarities4. They were to be
assimilated into European and Christian culture but normally using constraint
or violence. In both cases, their original civilization had been wiped out, with
the exception of very few traces that still remain nowadays. Both choices
denounce an attitude of misunderstanding and of guiltiness on the side of the
discoverers of the American continent towards its inhabitants. They had the
presumption of coming from a more developed and a “superior” cultural
milieu.
On the contrary they proved to be unable to compare themselves with
different civilizations and even to try to improve by learning from other types
of cultures. This attitude seems to be, in my opinion, a demonstration of
weakness on the side of European culture in comparison with other systems of
social life and values5.
The case introduced by the “dispute of Valladolid” is a very interesting
one and, in this perspective, Bartolomé de Las Casas’ theories about the rights
of native Americans and the behavior of the conquerors towards them are
extremely significant. He, in fact, openly condemned slavery and stressed the
need of spreading Christianity peacefully6.
He was a good expert in the Americans’ different traditions that he had
learned while living there, in several places and in different conditions of life,
T. Todorov, La conqûete de l’Amerique et la question de l’autre, Paris, Éditions du Seuil, 1982, trad.
it.,Id., La conquista dell’America e il problema dell’altro, nota introduttiva a cura di P.L. Crovetto,
Torino, Einaudi, 1984.
4 AA. VV., Guerra giusta e schiavitù naturale. Juan Ginés de Sepulveda e il dibattito sulla Conquista, a
cura di Marco Geuna, Milano, Edizioni Biblioteca Francescana, 2014; D.R. Brusntetter, D.
Zartner, Just war against barbarians: Revisiting the Valladolid debates between Sepulveda and Las
Casas, in «Political Studies», LIX (2011), pp. 733-752.
5 For a correct approach to the contemporary “Just war debate” and to the discussion in
historiography about the theoretical and philosophical foundations of the conquest of Americas,
see L. Scuccimarra, A new Valladolid? Leggere Sepulveda nell’epoca globale, in AA. VV., Guerra
giusta e schiavitù naturale, cit., pp. 269-294.
6 M. Benzi, Bartolomé de Las Casas, il difensore degli Indios, Roma, La Piccola editrice, 1996; R.
Devesa Brown, Bartolomé de las Casas: el derecho a la libertad, Xalapa, Veracruz, Comisión Estatal
commemorativa del V Centenario del Encuentro de dos Mundos, Gobierno del Estado de
Veracruz, 1991.
3
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F. Russo, Bartolomé de Las Casas
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starting from the experience of the encomienda system7. He reached, thanks to
his personal growth in human living and faith, an intense belief that it was
necessary to respect the cultural diversity of the natives and, most of all, their
human rights. The Spanish should do their best to put the Americans into touch
with European culture and with Christian religion but doing it smoothly, while
condemning all forms of violence and of robbery on the side of the conquerors
and banishing all aggressive methods in the future8.
Las Casas was born in Sevilla in 14849. His father Pedro was a merchant
who, in September 1493, after the death of Bartolomé’s mother, had decided to
join Colombo’s second expedition towards the “new world”10. He found his
way to Hispaniola island, where he settled for a long period of time. He went
back to Spain in December 1499 but in September 1501 he decided to face the
ocean once more till he reached to the Hispaniola island where he settled11 once
more.
His son Bartolomé went with him12. The young Las Casas had received a
good education in Humanities, so he was already a very skilled writer, both in
Spanish and in Latin13. As soon as Bartolomé reached the “new world”, as
witnessed in his Historia de las Indias, being a sensible and god-natured young
man, he felt deeply struck by the behavior of his companions, willing even to
reduce men into the state of slavery in order to gain large amounts of money by
doing so14.
The young Las Casas gained a very long experience concerning the
conditions of native Americans during his life. He also lived in an encomienda
for a long while15. He succeeded in this way to have his own personal critical
ideas about the system of colonization of the encomiendas. Most of all he
strongly rejected the methods of many conquerors, who seemed only keen to
try to obtain some economic gain by taking advantage of the natives and of
their properties. It was very clear to him that the conquerors used the excuse of
B. Hernández, Bartolomé de Las Casas, Barcelona, Taurus, 2015.
M. Ponz De Leon, Un uomo di coscienza. Vita e pensiero di Bartolomé de Las Casas, Rimini, Il
Cerchio, 2009, pp. 148-151.
9 M. Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas ei diritti degli indiani, Milano, Jaca book, 1998, pp. 11-12.
10 Ivi, p. 13.
11 Ivi, pp. 14-16.
12 Ivi, p. 16.
13 Ibidem.
14 Ivi, p. 18; B. De Las Casas, Historia de las Indias, edited by J. Perez de Tudela and E. Lopez,
Madrid, 1947, vol. I., h. 122, p. 327a.
15 M. Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani,cit., pp. 21-23.
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the conversion of the Americans only to re-enforce their own power and to find
to get their own personal goals, namely that of obtaining more wealth16.
Most likely in 1506 Las Casas became a priest and after a short period of
time spent in Rome and in Spain, he moved once more to the Americas 17. In
1523, in San Domingo, he entered the Dominican order18. By that time he had
reached a very high level of knowledge in theological and juridical studies19. He
was completely familiar with the founding sources of the order, most of all with
the Summa Theologica by Saint Thomas Aquinas. He studied the neoscholasticism method of studying philosophy and theology too, encouraged by
Thomas de Vio Cajetan, and most of all by Francisco de Vitoria, Professor at the
University of Salamanca. Prof. Vitoria too, as Las Casas, was interested in the
theoretical issues, connected with the discovery of America 20. Vitoria tried to
find an answer to the main question, namely if the Pope had the right to give
the King of Spain the power of “patronage”, namely political power over the
new lands in order to convert the inhabitants to Catholicism. The positions of
Vitoria and Las Casas were different on this point21.
Later on Las Casas spent a long part of his life in the American lands
preaching the Catholic faith and defending the natives from the abuses of the
Spanish22. He had the occasion of presenting many cases for debate to the
Council of the Indies and to the Emperor himself. His efforts in defending the
Americans’ rights had as a positive result the decision, taken by the Emperor
Charles V on 20th November 1542, to issue the “the new laws” concerning the
Spanish rule in the new world, and their attitude towards the natives23. The
“new laws” consisted of 40 articles, plus several supplementary rules inserted
following Las Casas’s insistence. What Las Casas tried to do with energy was to
stop slavery. He didn’t get his goal completely but, nevertheless, he gained
some results. According to the “new laws” it was forbidden on the side of the
Spanish to get new slaves among the Indians24.
L. Mora Rodríguez, Bartolomé de Las Casas: conqûete, domination, souverainété, Paris, Presses
Universitaires de France, 2012.
17 M. Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani,cit., pp. 23-25.
18 Ivi, p. 79.
19 L.A. Clayton, Bartolomé de Las Casas: a biography, Cambridge University Press, 2012.
20 Ivi, pp. 79-81.
21 M. Martinelli, Il pensiero giuridico di Bartolomé de Las Casas e l’Evangelizzazione delle Indie, Roma,
Aracne, 2011, pp. 39- 48;
22 D.T. Orique, The life, labor and legacy of Batolomé de Las Casas, in «Peace review: a transnational
quarterly», XXVI (2014), pp. 325-333.
23 M. Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani, cit., pp. 130- 134.
24 Ibidem.
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The encomenderos were also compelled to set all the slaves, who were not
legally connected to them, free. After the death of the encomenderos, in any case,
the slaves should become free and as such they became directly subject to the
Emperor and to nobody else. Las Casas was partly satisfied with his success,
but he was at the same time worried since it was not easy to make everybody
respect the new laws. He would have by far preferred to obtain a clear
condemnation of the encomienda social structure, of slavery itself and of war.
Anyway Las Casas reached a huge popularity thanks to the “new laws”25. On
19 December 1943 he was nominated by Pope Paul III Bishop of Chiapas,
choosing to get no income for this new position 26. He wanted to live as near as
possible to the local people. He remained Bishop there until 154727. He
continued to defend the rights of the natives also writing a treatise, Memorial de
suplicas, imploring the Emperor to stop violence and put an end to the
robberies, made in the name of Christ, in the New World28. Of course Las Casas
gained in Spain, and among the encomenderos, many enemies. His theories were
rejected by those who had easily obtained huge profits after the discovery of
Americas29.
This new trend found an ideological supporter in Juan Gines de
Sepulveda30. He was a theologian and a philosopher who had studied for a long
while in Italy. He was known also as the translator of Aristotle31. In his
Democrates primus, published in Rome in 1531 and translated into Spanish in
1541, he had asserted, quoting also the great Greek philosopher, that the more
civilized nations had the right to rule upon the underdeveloped people
considered like minor human beings but to be brought up into a better
condition32.
In 1543 Sepulveda published in Rome another essay, under the protection
of the former General of the Dominican Order, and President of the Council of
Ibidem.
Ivi, pp. 135- 139.
27 M. Ponz De Leon, Un uomo di coscienza. Vita e pensiero di Bartolomé de Las Casas, cit., pp. 121135.
28 M. Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani, cit., p. 132; B. De Las Casas, Obras
escogidas: opuscolos, cartas, y memoriales, vol. V, edited by Juan Peréz de Tudela y Bueso, Madrid,
1958, pp. 181-213.
29 M. Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani, cit., pp. 170-172.
30 S. Muñoz Machado, Biografia de Juan Ginés de Sepulveda, Pozoblanco, Ayuntamiento de
Pozoblanco, 2012.
31 W. Ghia, Tra Spagna, Italia e nuovo mondo: il pensiero politico di Juan Ginés de Sepúlveda, Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 2008.
32 J. Ginés De Sepúlveda, Dialogo sull'accordo tra la professione delle armi e la fede cristiana, a cura e
con un saggio introduttivo di Vincenzo Lavenia, Macerata, Quodlibet, 2015.
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Eurostudium3w aprile-giugno 2016
the Indies, Garcia Loaysa, the Democrates alter, sive de justis belli causis33.
Democrates, the main character of the work, criticizing Erasmus, asserts that
war is an unavoidable relief, in case it is used to force the barbarians to live in
the civilized world34. Las Casas, knowing the content of Democrates alter, reacted
immediately35.
In September 1547 he coordinated an intellectual campaign against
Sepulveda and this was the first step of their controversy, before the Valladolid
debate36.
In April 1548 the Universities of Alcalà and Salamanca condemned
Sepulveda’s thesis ad the book didn’t get the imprimatur37. Las Casas addressed
himself also to Domingo the Soto, an important theologian and a pupil of
Vitoria, very near to Charles V, in order to clarify the situation of the Americans
and to explain why he suffered so much owing to the new cultural trends
represented by Sepulveda’s theories. He openly asked the Emperor to do
something in order to banish the use of violence in America. This would have
been, according to him, the main aim to pursue in order to diffuse and support
the “new laws”38. Unfortunately this appeal turned into a complete failure39.
On the other side Sepulveda reacted strongly: he was a powerful man, he
was the “Hofmeister” of Philip of Habsburgs and had the support of the
Archbishop of Sevilla, the General Inquisitor Hernando de Valdes. He asked the
Universities of Alcalà and Salamanca to examine his Democrates alter once more
but also to analyze carefully Las Casas’ Confessor’s Handbook, that he
vehemently considered a wicked and heretical text40. Las Casas obviously
answered with a new treatise, defending his ideas and showing the
correspondence of his ideas to Christian faith. He was still very popular in the
Council of Indies. Sepulveda obtained no results41. That’s why, on November
29th 1549, Sepulveda formally asked the Emperor Charles V to open a general
discussion on the situation in the Indies42. Finally, on July 7th 1550, Charles V
J. Ginés De Sepúlveda, Democrate Secondo, ovvero sulle giuste cause della guerra, a cura e con un
saggio introduttivo di Domenico Taranto, Macerata, Quodlibet, 2009.
34 Ibidem.
35 M. Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani, cit., p. 171.
36 Ivi, pp. 171-172.
37 Ibidem.
38 Ivi, pp. 172-174.
39 Ibidem.
40 S. Di Lisio, “Sepulveda, Las Casas e il dibattito di Valladolid”, in AA. VV., Guerra giusta e
schiavitù naturale, cit., pp.137-155.
41 S. Di Lisio, “Introduzione”, in B. De Las Casas - J. Ginés De Sepúlveda, La controversia sugli
Indios, Bari, Edizioni di Pagina, 2007.
42 M. Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani, cit., p. 175.
33
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F. Russo, Bartolomé de Las Casas
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
decided to convene a formal Assembly in Valladolid, of jurists and theologians
to discuss together the general issue of the Conquest43. The aim was to debate
the ways to spread Christian faith in the New World and in which way the
natives should be considered by the Emperor, if he was the ruler of the
Americas or not, following the papal bull Inter caetera issued by Pope Alexander
VI in 149344. In this document the Pope had granted to the Kings of Castilla and
Léon, and to their heirs, the possessions of the recently discovered lands,
provided he lands were not ruled by any Christian Sovereign, with the aim of
helping the natives to convert themselves to Catholicism 45. The theoretical
debate, that ended in April 1551, was mostly about the better way of
interpreting this document, even though the main issue was to agree upon the
way in which the Spanish nation perceived its role in the world46. As a matter of
fact, it was a sort of an attempt to an insight view of the nation itself, and thye
role of the intellectuals towards the prominent theme of human rights. Religion
and morality were deeply involved in this judgment.
Las Casas and Sepulveda should have theoretically similar views, being
both theologians and men of faith, but their positions upon natural rights, war,
slavery and international laws were extremely distant. The Valladolid debate
took place in the Collegio de San Gregorio47. There were 14 members gathered
there. Four among them were theologians (3 were members of the Dominican
Order). There were Domingo de Soto, who had left the role of confessor of the
Emperor, Melchior Cano, Bartolomé Carranza and the Franciscan friar
Bernardino de Arrevalo48. There were also the members of the Council of Indies,
who were mostly convinced of the value of Las Casas’ ideas and a member of
the Council of Castile, who had blamed Las Casas for his Confessor’s Handbook49.
The sources that we are using to get to know better details about the
debate that took place there are the summary, written by Domingo de Soto,
S. Di Lisio, “Sepulveda, Las Casas e il dibattito di Valladolid”, in AA. VV., Guerra giusta e
schiavitù naturale, cit., pp. 137- 138.
44 Ivi, pp. 142- 146. D. Taranto, “La ‘Bolla Alessandrina e la guerra giusta’. Note sul rapporto tra
l’ecclesiastico, il politico e il religioso in Sepúlveda”, in AA. VV., Guerra giusta e schiavitù
naturale, cit., pp. 31-52.
45 Alexander VI, “Inter caetera (die 3 maii 1493)”, in America Pontificia. Primi saeculi
evangelizationis 1493-1592. Documenta Pontificia ex registris et minutis praesertim in Archivio secreto
Vaticano existentibus, collegit, edidit J. Metzler, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana,
1991, I, pp. 71-75.
46 S. Di Lisio, “Sepulveda, Las Casas e il dibattito di Valladolid”, in AA. VV., Guerra giusta e
schiavitù naturale, cit., p. 138.
47 M. Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani, cit., p. 177.
48 Ibidem.
49 Ibidem.
43
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who was personally very close to Las Casas’ beliefs50. We can also take into
consideration the treatises written by Las Casas and Sepulveda in order to point
out their theories and imagine a possible victory in the debate, which was never
formally outlined51.
Sepulveda was the first one to try to expose his doctrines in front of the
Assembly, stating that it was correct to move war against the native Americans
in order to diffuse Catholic faith52. He explained that they were barbarians,
committing terrible sins, having a less civilized nature, and practicing even
cannibalism. So that, quoting Aristotle, he affirmed that they should be ruled by
the Spanish and to be Christianized using violence when necessary53.
Las Casas strongly rejected the legitimacy of the war and of the use of
force to diffuse the Catholic faith in the New World54. He asserted that
Sepulveda didn’t know at all the culture and the habits of the natives. They
could not be called “barbarians” in the Aristotelian sense55. In any case, even if
it were so, it was necessary for Catholics to follow the Gospel rather than Greek
philosophy56. Jesus Christ, as Las Casas explained, wanted the Christians to
spread His message by encouraging good examples with their lives, with the
practice of charity and of brotherhood. There is no possibility for a Christian,
following Las Casas’ ideas, to legitimate war in order to convert people in the
framework of Catholic faith57.
The aim of Pope Alexander VI, in his bull Inter caetera, had been to ask the
kings of Castile to send to the New World virtuous people to work for a correct
religious education of the natives. He didn’t want to send any thieves or tyrants
willing to reduce those men and women into slavery58. Quoting Thomas
Aquinas he stresses the idea that political power is created for the common
advantage of all the people living within the community.
One could ask the natives of America to recognize the ultimate power, in
the meaning of protection, of the King of Spain, only if he, in this case Emperor
Charles V, is willing to guarantee the full respect of their human rights 59. Las
Casas theorizes the consensus populi (also in his treatise De regia potestate) as the
Ivi, pp. 177-178; D. De Soto, “Sumario”, edited by J. Brufau Prats in Id., Relecciones y Opúscolos,
Salamanca, Editorial de San Esteban, 1995, pp. 199-227.
51 M. Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani, cit., pp. 178-179.
52 Ivi, p. 179.
53 Ibidem.
54 Ivi, p. 180.
55 Ibidem.
56 M. Ponz De Leon, Un uomo di coscienza. Vita e pensiero di Bartolomé de Las Casas, cit., p. 146.
57 Ibidem.
58 Ivi, pp. 146-147.
59 Ivi, p. 148; M. Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani, cit., pp. 182-185.
50
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foundation of all political power, even in the new lands, and not only in the
European States60.
There would have been many other aspects of the Valladolid controversy
to point out and to discuss: I will leave this to further essays.
As a matter of fact the Valladolid debate ended after a long year of
discussions, without a real winner or loser. Both contenders claimed victory 61.
Las Casas spent the rest of his life printing his papers about the thesis he had
presented during the controversy and trying to spread his ideas in order to
restrict, as he asserted, Sepulveda’s “wicked” theories62.
This controversy remains, in my opinion, a very interesting case in
historiography, for the different interpretations given by the main characters
involved in it, the content of the debate and all the ensuing results.
It is really remarkable, in all cases, that at least for a short while Europe
was obliged to reflect upon itself, upon its behavior towards the others,
showing in front of a sort of mirror its real qualities but, most of all, its terrible
mistakes.
Ivi, p. 186; S. Di Lisio, “Sepulveda, Las Casas e il dibattito di Valladolid”, in AA. VV., Guerra
giusta e schiavitù naturale, cit., pp. 154-155; B. De Las Casas, De regia potestate, a cura di G. Tosi,
prefazione di D. Zolo, Roma- Bari, Laterza, 2007.
61 M. Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani, cit., pp.187-188.
62 Ivi, pp. 189-191.
60
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«Fatti non foste a viver come bruti».
L'autobiografia di Altiero Spinelli
di Silvana Cirillo
1. Tra autobiografico e meditativo: la genesi dell’autobiografia
“Solo chi non si propone nulla non corre alcun rischio”. Così scriveva il
primogenito Altiero a Maria Ricci nel marzo del 19281. Lui, uno dei Padri
dell’Europa unita, aveva proposto molto, realizzato di più e non solo rischiato,
ma pagato di persona il suo impegno antifascista e il suo credo politico: ben
sedici anni e otto mesi tra carcere e confino 2, senza sconti di pena e senza mai
aver pensato di chiedere la grazia. Dall’adolescenza alla maturità: gli anni
raccontati nella autobiografia, Come ho tentato di diventare saggio, che si apre
sull’infanzia e l’adolescenza e si chiude sulla vecchiaia.
Autore – assieme a Ernesto Rossi – del famoso Manifesto di Ventotene per
un’Europa unita e libera (anni 1941-19443), punto di partenza e contributo
fondamentale per il progetto federalista europeo, che si sarebbe anni dopo
realizzato, Spinelli ne è riconosciuto come uno dei Padri fondatori. Scrisse
molto durante l’esilio (lettere, riflessioni filosofiche, diari), ma solo vari anni
dopo la Liberazione (1983-1986) si dedicò alla sua Autobiografia, che pure
costituiva da sempre “il” progetto della sua vita, intersecato col Diario che lo
accompagnò dal 1948 alla morte, in cui spesso evoca l’aspirazione a scrivere il
libro delle sue memorie come “una specie di confessione intellettuale”,
attraverso cui ricostruire il suo percorso verso la lotta per il popolo europeo.
P.S. Graglia, «Caro Altiero, cara mamma». Carteggio 1928-1931, in «Eurostudium3w», 8, 2008, p.
24.
2 Con l’imputazione di partecipazione a organizzazione segreta militare, finanziata dall’estero,
con forte propaganda, per fomentare la rivolta civile.
3 La dizione precisa del testo che è passato alla storia come Manifesto di Ventotene è Per un’Europa
libera e unita. Progetto di un Manifesto.
1
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S. Cirillo, Fatti non foste
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
”Forse mi converrebbe fare due mesi di eremitaggio” – scriveva l’11 ottobre
1956 – “e venir fuori con questo libretto. Chissà che allora al mio appello di
federalismo non risponda qualcuno”. Ritornerà sul progetto dopo tanti anni4 e
nel 1970 ancora scrive:
Se questi quattro anni saranno un successo, alla fine del mio mandato, nel luglio 1974, quando
avrò 67 anni, ci ritireremo Ursula ed io a Sabaudia e scriverò un libro tra autobiografico e
meditativo (sul tipo delle confessioni di Sant’Agostino) per il quale ho già due titoli: Come sono
diventato saggio, oppure Come mi preparo a morire. 5
Ne passeranno però altri, preso com’è da impegni politici e dalla malattia
della cara moglie, Ursula Hirschmann, che gli sottrarranno molto tempo. Ma
quando accadde che morirono insieme Giorgio Amendola, caro vecchio
compagno di strada da sempre, e la moglie Germaine (anche Spinelli,
sappiamo, avrebbe voluto non sopravvivere alla morte di Ursula!), per giunta
appena dopo l’uscita delle memorie dell’amico (Un’Isola) Spinelli reagì e il 21
giugno 1980 nel diario scriverà: “ho ripreso l’dea di scrivere la mia
autobiografia”6.
Dunque scrittura come confessione, auspicava, come chiarimento e
contributo al pensiero politico, nato già con l’adolescenza, e al progetto
europeo, in cui tenterà di dar voce al maturare di quella saggezza citata nel
titolo, ma che non raggiungerà mai, come non raggiungerà la agognata
atarassia buddista. Nell’ultima conferenza tenuta poco prima di morire su
invito di Ezio Raimondi, una sorta di testamento e riflessione pubblica sui
propri testi, con ampi richiami alla leggenda di Lao Tze, che va a morire solo
oltre la grande muraglia, concluderà: la saggezza? Un’illusione. ”La saggezza
non esiste”. E confesserà di aver comunque offerto alla lettura, completamente
denudato, “alcuni dei valori ora razionali ora irrazionali che sono stati punto di
riferimento, stelle polari o croci del sud durante la navigazione”7.
L’autobiografia assumerà via via vita propria e autonoma, guadagnando
uno stile e una penetrazione di sguardo sul mondo attorno e su quello lontano,
che da un lato ne faranno uno spaccato di storia (con profondi flashes
psico/antropologici e continui acutissimi confronti tra passato e presente, tra lo
Spinelli confinato e lo Spinelli protagonista del destino europeo, tra i suoi
A. Spinelli, Diario europeo, a cura di Edmondo Paolini, Bologna, il Mulino, 1989-1992, pp. 299300.
5 Cfr. A. Spinelli, Prefazione, in Id., Come ho tentato di diventare saggio, il Mulino, Bologna, 1999, p.
X.
6 A. Spinelli, Diario, cit., 3° vol., p. 483.
7 A. Spinelli, Relazione incompiuta scritta su richiesta de Il Mulino per una lettura da tenersi nel
settembre 1986( Spinelli morì il 23 maggio dello stesso anno), ora pubblicata nella Prefazione di Id.,
Come ho tentato…, cit., pp. II-XIII.
4
83
S. Cirillo, Fatti non foste
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
progetti e la successiva realizzazione, tra idealità e realtà) e dall’altro un testo
letterario di altissima qualità e spessore, che vinse tre premi nel 1984, Viareggio,
Acqui, Marotta, e di cui Arrigo Levi scrisse che era uno dei più bei libri di quella
generazione e insieme un importante documento storico da aggiungere
senz’altro al corpo della letteratura italiana del ’900. Nel complesso una sorta di
“romanzo di formazione” che parte dall’infanzia e prende tutta una vita (metà
vissuta in carcere – in nome della libertà!) e che trova un traguardo nel 1941,
quando la compagnia di Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, incontrati a
Ventotene, darà uno scossone alla monotonia della vita carceraria e nuovi
stimoli intellettuali da cui nascerà il Manifesto.
Dell’autobiografia egli riuscì a portare a termine solo la prima parte, con il
titolo Io, Ulisse, mentre una seconda, La goccia e la roccia, restò incompiuta;
l’insieme è stato poi raccolto in Come ho tentato di diventare saggio, per le edizioni
del Mulino (l’ultima ristampa è apparsa nell’aprile 2006).
Il titolo dell’insieme dei miei ricordi è Come ho tentato di diventare saggio, perché tutto quel che
son venuto facendo e patendo da tempo immemorabile è sotteso dal desiderio di avvicinarmi
con silenziosa modestia a questo ideale della filosofia ellenica, buddista, taoista. Questo primo
volume parla però solo di anni nei quali, percorrendo una mia personale odissea ho cercato,
perduto, scoperto e infine assunto quella che sarebbe diventata la vera e propria vita mia, reale
e piena8.
”La mia vera storia è però cominciata improvvisamente il 19 agosto 1943”,
afferma9. Quando, cioè, prima a Milano, poi in Svizzera, prese corpo l’agognato
Movimento federalista europeo.
I tre capitoli del secondo volume di memorie, che partono dal 1943,
dedicato idealmente a Don Chisciotte, dal titolo La goccia e la roccia,
testimoniano del nuovo lungo corso della sua vita e di come un’idea buona,
perseguita con costanza, possa vincere alla lunga e, proprio come la goccia,
riesca a bucare anche una roccia: ”In questo secondo libro parlo del mio
presente cominciato 42 anni fa, ma ancora aperto e che sta tuttavia per
concludersi con un libro, con un’azione o con tutte e due le cose”10. E continua:
Tuttavia, da quando mi sono accinto a pensare e scrivere La goccia e la roccia mi chiedo con
sgomento se ne verrò a capo. Non sto invecchiando a poco a poco, ma cado verso la senilità per
tonfi successivi e improvvisi, che provocano ciascuno, in modo netto e irrevocabile,
diminuzione di forze, accrescimento di acciacchi, accelerazione nel precipitare delle ore [...] E
poiché sospetto che se mi rincitrullissi nessuno me lo direbbe, non so, né saprò se le pagine che
scriverò diverranno man mano incoerenti e insipide. Vorrei ritirarmi? Ma l’ho promesso a me, a
tanti, a troppi e devo correre il rischio.
A. Spinelli, Premessa a Io,Ulisse, in Id., Come ho tentato…, cit., p. 55.
A. Spinelli, Premessa a La goccia, la roccia, in Id., Come ho tentato, cit., p. 347.
10 A. Spinelli, Diario europeo, Bologna, il Mulino 1989-1992, 3o vol., p. 1196.
8
9
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S. Cirillo, Fatti non foste
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
Marzo 198611
2. Influenze letterarie e impegno politico
Da quando ero entrato nella clandestinità mi ero dato lo pseudonimo di Ulisse, perché nel mio
animo risuonavano ancora, da quando li avevo letti per la prima volta sui banchi della scuola, i
versi: “Fatti non foste a viver come bruti…”. 12
Scoperta sorprendente, dunque, quella di Altiero Spinelli, non come
politico e intellettuale di grande statura – ché di questi suoi aspetti già molto si
sapeva – ma come vero e proprio maitre a penser e come scrittore “di classe”, che
meriterebbe un posto tra i classici della letteratura del Novecento tout court per
le splendide pagine dell’Autobiografia, ma anche per i Diari, gli scritti filosofici, le
lettere. Di qualunque argomento trattasse Ulisse si sentiva che dietro racconti,
proposte, ricordi c’era un mondo inquieto ricchissimo e riflessivo, nato in quelle
celle solitarie da letture onnivore, che si esprimeva con una capacità
ineguagliabile nell’argomentare, in una scrittura chiara, limpida, sfaccettata e
immaginifica: tipica ancor più della prosa narrativa che dell’autobiografia o del
saggio. Splendida prosa la sua, mai ridondante o retorica o compiaciuta; eppure
calda, viva di immagini e suggestioni così da lasciarsi leggere addirittura come
un romanzo.
Spinelli, il cui nome di battaglia era stato Giorgio Massari, si definì Ulisse
non appena entrò nella clandestinità, citando i noti versi danteschi ”Fatti non
foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza…”: ebbene per lui
virtute e conoscenza sono andati di pari passo fin dal primo giorno risultando
complementari e fondamentali per la sua formazione. Conoscenza come cultura
fortemente interdisciplinare, nata dalla lettura – spesso in lingua originale
(aveva imparato nel frattempo cinque lingue) – dei classici greci e latini, della
letteratura italiana e straniera, della filosofia, della politica, delle scienze, della
storia: letture che hanno avuto un gran peso nella costruzione della sua virtute
umana e etico-politica, quella per intenderci che sfocerà nel concetto di Europa
come pace e democrazia. E che a sua volta nelle letture troverà la conferma
della giustezza del percorso intrapreso e la forza di non demordere.
Ogni lettera che scambia con la famiglia, soprattutto nei primi anni, è una
richiesta di libri: dai vocabolari, alle grammatiche greche e latine, ai testi di
storia, economia, perfino quelli di entomologia di Jane-Henri Fabre: sua
passione da sempre lo studio degli insetti, che nell’autobiografia si costruirà
spazi narrativi splendidi. Un’intera biblioteca in una minuscola cella: ”Ti farò
avere fra giorni gli altri libri che tu desideri, ma vuoi trasformare in biblioteca la
11
12
A. Spinelli, Premessa a La goccia e la roccia, cit., p. 349.
A. Spinelli, Come ho tentato…, cit., p. 109.
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Eurostudium3w aprile-giugno 2016
cella?” gli chiede la madre. E ancora ”Occorre un limite, altrimenti la nostra
biblioteca si trasferisce lì. Dove li tieni costà i libri? Per terra? O hai un
tavolino?”13 rammentandogli anche che i figli sono sei e gli altri cinque fratelli
avranno bisogno degli stessi libri!
In cella, oltre ai libri della biblioteca del carcere, leggevo quelli che riuscivo a far venire da casa,
e che superavano il meschino spirito censorio del cappellano. Una volta andai da lui per
ottenere che rivedesse il veto che aveva posto ai miserabili di Victor Hugo, di cui proprio non
riuscivo a cogliere gli aspetti immorali o solo amorale. 14
Loro, gli scrittori, i pensatori, i fantasmi letterari, che gli terranno
compagnia nelle ore dure della prigionia prima e dell’esilio poi, Petrarca,
Machiavelli, Shakespeare, Cervantes, Sant’Agostino, Melville, Nietzsche, Babel,
Jack London, Carlyle saranno per Spinelli basi, fondamenta e muri portanti del
suo pensiero, i contenuti, cioè, ma anche capitelli e decori, ovvero le forme, il
linguaggio con cui essi contenuti verranno espressi. Alla propria prosa Spinelli
ha regalato il fascino di chi ha evitato con fermezza e da subito l’esclusività
omologante del linguaggio della politica e della ideologia pure, e ha fatto
proprie la docilità, la permeabilità, la liricità che derivano dal frequentare fonti
umanistiche. Così nei primi tempi della reclusione la gelosia che agita il
rapporto con la fidanzata Tina Pizzardo, anch’essa giovane militante comunista
(poi per certo tempo fidanzata di Cesare Pavese), suscita una diretta evocazione
di antiche poesie. Ad una sestina di Petrarca (A qualunque animale alberga in
terra) Spinelli affida il suo lamento:
Non era la gelosia che nasce dal sospetto, ma quella che nasce dal desiderio, inappagabile e
insopprimibile, di possedere tutta e sempre la persona amata, la gelosia che fa dire a Petrarca:
”Con lei foss’io da che si parte il sole, / E non ci vedess’altri che le stelle; / Solo una notte e mai
non fosse l’alba”.15
Così come le lettere che Spinelli le scriverà verranno da lui stesso
paragonate proprio ad un canzoniere d’amore “petrarchesco”: ”Come
espandendosi dopo una lunga attesa, le mie lettere per parecchio tempo sono
un canzoniere d’amore in prosa, di tipo – si magnis licet componere parva –
piuttosto petrarchesco, nel senso che le cose scritte son dirette ad una donna
irraggiungibile”16.
P.S. Graglia, «Caro Altiero, cara mamma», cit., p. 26.
A. Spinelli, Come ho tentato…, cit., p. 118.
15 Ivi, p. 153.
16 Ibidem.
13
14
86
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Eurostudium3w aprile-giugno 2016
Dunque Spinelli si rivela – e qui la modernità che lo apparenta a molti
classici del ’900 – uomo fatto di dicotomie, di sfumature, di dubbi e di desideri
oltre che di ragione e volontà; di sogni e di dimensioni notturne, oltre che di
quotidianità e di buonsenso. Tentò di diventare saggio, ma come Don
Chisciotte, aveva ancora tanti mulini a vento da combattere. È stata una
sorpresa anche scoprire che un politico del suo peso, curioso di matematica e
scienze, di storia, economia, filosofia e psicanalisi, illuminista per scelta e laico
per fede, che Spinelli nei lunghi sedici anni di carcere e di esilio, trovasse il vero
conforto spirituale nei ”fantasmi intimi e fedeli“ della letteratura. E che alla
poesia, che gli aveva ”sussurrato“, come lui stesso confessa, ”qualcosa di più
filosofico e di più elevato della storia“, avrebbe riconosciuto il primato non solo
nel suo cuore ma perfino nella sua mente: ”Non vogliono insegnarmi mai nulla,
non mi chiedono mai nulla, ma li sento attorno a me e faccio loro un cenno per
riascoltarli nei momenti in cui devo osare, o tener duro, o distruggere o
ricominciare o rinunciare, nei momenti di solitudine analoghi a quelli durante i
quali cominciai a sentire le loro voci”17.
Conosco la forza delle parole, il loro suono a stormo. Non di quelle che i palchi applaudiscono.
Parole per cui si smuovono le bare e si mettono a camminare sui loro piedi di legno[…] Conosco
la forza delle parole. Pare un’inezia, un petalo caduto sotto i tacchi di una donna, ma l’uomo
con l’anima, il corpo, l’ossatura… 18
È proprio attraverso l’autoanalisi vigile e impietosa e continue
interrogazioni sul mondo, ma anche proprio attraverso il recupero di Ariosto e
Omero, attraverso la lettura – anzi la rilettura – di Shakespeare e San Paolo, di
Machiavelli e Sant’Agostino, di Kant, Nietzsche, Hegel e Croce, di Majakovskij
e Dostojevskij, di Cartesio, Einstein, Planks, Jean Fabre, Stuart Mills etc., che
Spinelli arriverà a conquistarsi una sua solida e aperta coscienza politica del
mondo. La stessa che lo porterà a identificare nell’Europa l’unica prospettiva di
pace e democrazia possibile. Dice bene Giulio Ferroni:
Quello della “conversione” e della scoperta della vocazione di sé costituisce uno dei
modelli “classici” dell’autobiografia intellettuale, dalle Confessioni di Sant’Agostino alla Vita di
A. Spinelli, Come ho tentato…, cit., p. 142.
I versi di Vladimir Majakovskij, tratti da In ore come questa del 1913 (in Frammenti), furono
citati da Spinelli quando fondò il Movimento federalista europeo nell’agosto 1943 a Milano.
(Cfr. Come ho tentato…, cit., p. 371). Il frammento prosegue e finisce con dei versi solenni- non
riportati però da Spinelli nel testo- dedicati ad un momento importante della vita e della storia.
La stessa solennità con cui Spinelli suggellò, appunto, la fondazione del Movimento federalista
europeo: perciò si attagliavano perfettamente alla occasione. “Guarda che pace nel cosmo/La
notte ha imposto al cielo/ un tributo di stelle./In ore come questa/ ci si leva e si parla/ ai
secoli/alla storia/ e all’umanità”.
17
18
87
S. Cirillo, Fatti non foste
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
Alfieri: ma Spinelli non si è “convertito” da una dissipazione soggettiva, dato che fin dall’inizio,
fin da una giovinezza che prima dei vent’anni aveva già raggiunto una sorprendente maturità,
egli aveva dato tutto se stesso ad un integrale impegno politico, partecipando alla rete
clandestina del partito comunista. Non per folgorazione, ma attraverso una continua
interrogazione degli eventi visti da lontano nella reclusione, nei contatti con i vari compagni di
prigionia e in particolare con gli esponenti del partito, Spinelli è arrivato a staccarsi dal
dogmatismo del comunismo stalinista, con un coerente svolgimento teorico, con una precoce
critica del marxismo. Rilevando già all’inizio degli anni ’30 la distorsione creata dalla “volontà
di potere” del leninismo e delle sue varie incarnazioni e assimilandola addirittura a quella del
cattolicesimo gesuitico19.
Spinelli scrive: “Sono diventato comunista come si diventa prete, con la
consapevolezza di assumere un dovere e un diritto totali, di accettare la dura
scuola dell’obbedienza e dell’abnegazione, per ben apprendere l’arte ancor più
dura del comando”. 20
Ma man mano che gli anni passavano si allontanava sempre più dal credo
comunista e, in nome della libertà propria e altrui, si avvicinava a quel
socialismo paterno che da ragazzo tanto aveva contestato. “Cominciavo a
rendermi conto che Lenin non aveva dopo tutto inventato il partito dei
rivoluzionari professionali, ma solo riscoperto una formula di potere assai più
antica”. E ancora: “I comunisti più efficienti dei democratici nelle crisi
rivoluzionarie tengono isolate le classi proletarie nei momenti decisivi e col loro
settarismo indeboliscono il tutto”21.
3. La prigionia e il confino
La porta si chiuse alle mie spalle, la chiave girò più volte nella serratura, e una sorta di
tranquillità tinta di orrore dilagò nel silenzio del mio animo. 22
E fu così che nel 1935, durante il confino a Ponza, fu espulso ufficialmente
dal partito. Un padre tutto d’un pezzo, laico al punto da cercare per gli 8 figli
nomi senza santi in paradiso (Azalea, Veniero, Anemone, Cerilo, Asteria,
Gigliola, Fiorella e lo stesso Altiero), ferreo socialista, con cui si scontrerà spesso
lui, giovane ferreo comunista (ma che difenderà fino alle botte a soli tredici anni
da un compagno che ne irrideva il credo socialista). Studi liceali al Mamiani, una
laurea mai presa in giurisprudenza (fu iscritto alla Sapienza), la staffetta
Relazione o intervento di Giulio Ferroni. al Convegno inaugurale delle celebrazioni di Altiero
Spinelli (6 dicembre 2006, Aula Magna de LA SAPIENZA, Roma) ora in Omaggio a Spinelli. Atti
del Comitato Nazionale per le celebrazioni del centesimo anniversario della nascita di Altiero Spinelli, a
cura di F. Gui, Bulzoni, Roma 2006, pp. 40-44, qui p. 41.
20 A. Spinelli, Come ho tentato…, cit., p. 67.
21 Ivi, p. 253. Per la riflessione sul partito e le proprie scelte ideologiche cfr. ivi, pp. 244-258.
22 Ivi, p. 123.
19
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clandestina tra Roma e Milano, l’arresto nel ‘27 a soli 20 anni. Il tribunale
speciale nel 1928, tre carceri dopo San Vittore e Regina Coeli (Viterbo
Civitavecchia, Lucca), e due confini, Ponza e Ventotene. I primi due anni in
isolamento assoluto:
La porta si chiuse alle mie spalle, la chiave girò più volte nella serratura, e una sorta di
tranquillità tinta di orrore dilagò nel silenzio del mio animo.
Tranquillità, perché portavo con me la teoria, elaborata specialmente dai cospiratori russi
dell'epoca zarista, della prigione come periodo di approfondimento della coscienza
rivoluzionaria, che il potere borghese ci regalava involontariamente nell’atto stesso in cui
riusciva a interrompere la nostra attività pratica... Orrore, perché... di colpo mi resi conto che...
alla vita quotidiana del corpo, delle libidini, dei sentimenti, della fantasia, dei sogni avrei
dovuto imporre la forma del cubo bianco entro cui ero ormai chiuso23.
Formazione dell’esiliato Spinelli, che avviene lontano dal mondo concreto,
dunque, vissuto, globale, i cui riflessi arrivano e agiscono attraverso letture,
giornali e notizie che giungono da fuori e per mille strade diverse. Ventotene, la
piccola isola dell’arcipelago pontino, la ciabatta sul mare, come la definiva
un’altra confinata, Camilla Ravera, era sovraffollata di antifascisti, di detenuti
politici e comuni negli anni della seconda guerra mondiale. Tra essi i
personaggi più importanti della cultura antifascista: Sandro Pertini, Umberto
Terracini, Ernesto Rossi, Giorgio Braccialarghe, Eugenio Colorni, Pietro Secchia,
Camilla Ravera. Pochi lo seguirono nella stesura del Manifesto, ne capirono la
portata e la lungimiranza o lo firmarono (come notò con rammarico poi
Norberto Bobbio e come lo stesso Presidente Pertini dichiarò pubblicamente il 7
ottobre 1982 davanti ai deputati italiani del parlamento europeo).
L’isola diventa dunque una finestra sul mondo nel momento tragico della
dichiarazione di guerra della Germania di Hitler e poi, di seguito, per tutto il
corso della seconda guerra mondiale. Le notizie arrivavano in ritardo, ma
arrivavano anche grazie al ruolo significativo del prete dell’isola, che aiutava i
detenuti accendendo la sua radio a tutto volume, affinché coloro che passavano
sotto la sua finestra potessero ascoltare le notizie sull’andamento della guerra
provocavano forti reazioni di rabbia, sconforto, frustrazione, ma stimolavano
anche nuove intense riflessioni che al momento avevano un sapore di utopia e
che poi invece si sarebbero trasformate in un progetto concreto di Unione
Europea.
Sull’isola Spinelli non aveva però un ruolo solo da intellettuale, ma
intratteneva relazioni sociali con i pochi paesani, rapporti sentimentali con
qualche donna del luogo, si cimentava in tutti i mestieri (studiando
attentamente i manuali Hoepli che riusciva a procurarsi) improvvisandosi
23
Ibidem.
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orologiaio, allevatore di polli, coltivatore di patate: tutto per raggranellare un
po’ di soldi necessari a sopravvivere nella prigionia.
Gli incontri, talvolta gli scontri, sono importanti: sulla pagina si
trasformano in ritratti caldi, profondi, di compagni di strada o figure anonime,
osservati, penetrati e restituiti con mano sicura e schietta, e insieme con una
acuta pietas cristiana. Ti restano impressi i flashes su Pertini, Terracini, Sereni e
Colorni, come l’affresco dei cosiddetti emarginati Manciuriani, o il dramma
dell’albanese Llazar Fundo o la caricatura divertente dell’amante inflessibile di
una nipote del duce, Giuseppe Paganelli, o le pagine pietose sulla prostituta
isolana, tanto per citarne appena qualcuno. Quando sull’isola arrivò Ernesto
Rossi, detto l’empirico, corrispondente assiduo di Luigi Einaudi, oppositore
deciso delle sovranità nazionali e comunista convinto, ad interrompere lo stato
quasi sognante, il torpore intellettuale in cui era caduto Spinelli, facendogli
sentire che non poteva più ”continuare a meditare su Mosè Solone Gesù San
paolo e Marx”24 e doveva passare ad una vita attiva; comincia a discutere con
lui le basi per un Manifesto che potesse rappresentare l’impulso per arrivare a
quella “pace perpetua” tra i popoli, che tanti anni prima aveva preconizzato
Kant.
Per scrivere questo piccolo libro, le difficoltà furono enormi. Altrettanto
quelle per farlo uscire dal recinto e dall’isola. La milizia fascista sorvegliava
continuamente i detenuti, che, però, riuscirono a occultare tutti i documenti
riducendoli in piccoli rotoli che infilavano nelle canne attorno al pollaio. Per
non essere sorpresi, mentre li nascondevano, fingevano di dover urinare. La
paura che i soldati fascisti avevano di essere tacciati di omosessualità preservò i
cospiratori a lungo dalle loro occhiate indiscrete. Per le stesse ragioni i vari
documenti da trasportare da un luogo all’altro venivano nascosti nella patta dei
pantaloni.
Ursula Hirschman, allora moglie di Colorni (poi alla sua morte moglie
adoratissima e compagna intellettuale di Spinelli), era ebrea, e, per una
disposizione umanitaria del regime, non avendo parenti in Italia ed essendo
particolarmente pericolosa per lei la situazione dopo le leggi razziali, aveva il
diritto di seguire il marito al confino. Fu lei a portar fuori da Ventotene, nascosti
nella spallina della sua giacca, e poi a divulgare clandestinamente, gli scritti
relativi al Manifesto.
5. Descrizioni, riflessioni e visioni politiche
Il lento rito nuziale bagnato dalla luna ha qualcosa di ieratico. 25
24
25
Ivi, p. 304.
A. Spinelli, Come ho tentato…, cit., p. 130.
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Non solo, nella solitudine delle cella nelle varie carceri o anche
nell’isolamento del confino il minimo tratto di vita o guizzo di movimento
diventano per osmosi cambiamento e guizzo. La più piccola briciola della
natura (perfino le cimici, le mosche, o il vociare dei bambini, che Spinelli
immagina come “esseri irreali e delicati, come dovevano essere nella mente di
Shakespeare gli gnomi del Sogno di una notte di mezza estate”26) diventa pane con
cui placare la propria ansia e la propria attesa in giorni e giorni vuoti di mondo
e sempre uguali. Così sono vissuti da Spinelli anche gli animali, raccontati come
al microscopio, con immagini, dettagli, percezioni minime, vibrazioni. Un vero
e proprio bestiario, non simbolico però, vitale. Dal suo osservatorio Spinelli
scruta i ragni che si accoppiano e si divorano in piena fase amorosa, esempio
reale di “eros e thanatos”, ma che dalla sua penna acquista un taglio quasi
surreale:
Il lento rito nuziale bagnato dalla luna ha qualcosa di ieratico. Di colpo la femmina, che si
lasciava docilmente carezzare e fecondare, stacca la bocca dal lungo bacio, balza con le sue
lunghe zampe addosso al maschio che tenta di fuggire, sprizza fuori dall’addome una quantità
di fili viscosi che getta su di lui impacciandogli i movimenti, lo afferra, lo morde… 27
La passera, che ogni giorno sta con lui a fargli compagnia, finché muore
con suo forte rammarico soffocata dal suo stesso corpo per un’inavvertenza, lo
scarafaggio lucido che perde la pelle, in una sequenza di perfetto rallenty, le
gallinelle del pollaio curato insieme a Colorni a Ventotene che soprannomina
una ad una a seconda dei vezzi o dei colori, i galli che si contendono
crudamente il loro amore come gladiatori, la gallina pellegrina che si era
innamorata di lui, e gli faceva moine e corteggiamenti come fosse un gallo
livornese, tutto rappresentato con l’acutezza di chi anche nell’animale sa
riconoscere e rispettare una forma di psicologia e regole comportamentali, che
rappresenta con la precisione distaccata dell’osservatore, con la tenerezza del
complice e con una scrittura rigogliosa di immagini, colori, luci e ombre del
vero narratore.
Con la tecnica della sorpresa nel costruire il racconto e tenere desta
l’attenzione del lettore; con il procedere accrescitivo del climax nella struttura;
con il senso di scoperta, quando non di rivelazione, appassionata ma misurata e
mai enfatica nei toni; con una punteggiatura precisa, solo a volte
appropriatamente bypassata quando, per esempio, vuol dare il senso
dell’affanno o il senso cosmico delle cose, Spinelli ti tiene avvinto per pagine e
pagine alla sua pagina. Ma anche ricorrendo a una ricchezza strabiliante di
26
27
Ivi, p. 185.
Ivi, p. 131.
91
S. Cirillo, Fatti non foste
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
riferimenti culturali, tratti da tutto lo scibile che può aver assorbito un
intellettuale vero in sedici anni di esilio, evocati però con nonchalance: mai nella
pagina di Spinelli – Ulisse ti succede di sentire il peso dell’erudizione. Subisci
invece il fascino di chi ha conciliato la flessuosità delle letture umanistiche col
rigore e la puntigliosità che gli derivano, invece, dalle basi e da strumenti
analitici e scientifici.
Così quando rifletterà sul doppio binario che collega e insieme disgiunge
le grandi dicotomie dell’uomo, a partire – se vogliamo – da quella apocalittica e
primaria di vita/morte, per scendere più semplicemente al giorno e alla notte, al
sogno e alla veglia, al conscio e all’inconscio, Spinelli – sorprendendoci ancora
una volta! – non esiterà a prendere le parti della notte, del sogno, dell’inconscio,
di quel linguaggio notturno – cioè – su cui il secolo scorso fondò la propria
modernità. Non esiterà a scoprire un uomo fatto di mistero, di dubbio, di
desiderio, non solo di volontà e ragione o di assoluti e dogmi (per colpa dei
quali si dissociò dal comunismo abbracciato da giovane!) e una realtà carica di
aspetti sconosciuti, cui rivolgere l’attenzione intera, fatta di mente e di cuore, di
razionalità e immaginazione, di sapere e intuizione. E come Orfeo, che pagò di
persona la sua curiosità disinteressata e perse per sempre la moglie Euridice,
così Spinelli con orgoglio perse anni della propria vita e la libertà, per non
rinunciare alle proprie convinzioni e alla decisa presa di posizione antifascista:
Ma li visse, i sedici anni di carcere e confino, con rivalsa, quasi paradossalmente
come fossero il riconoscimento, dovuto, al suo essere e alla sua etica; la ragione
vera, laica del suo essere al mondo! Per conoscere, approfondire e contribuire
volterianamente alla felicità del mondo, della società.
Con Majakovskij, infatti, oltre all’amore per la poesia, aveva in comune
un’altra cosa. Costante, cocciuta quasi, inflessibile, faro che illuminò tutti i suoi
giorni e tutte le sue mosse politiche: la fede socialista. Poco importa qui che sia
stato prima comunista e poi – rinnegandone l’assolutismo fideistico e gesuita –
socialista: ma saranno la fede, l’ideologia, l’aspirazione socialitaria, che – unite
al senso preciso e profetico di federalismo – lo guideranno nelle scelte culturali
e politiche e lo porteranno a postulare il progetto di un’Europa aldilà di
tolemaici e prepotenti nazionalismi e individualismi; aldilà del mortifero
“particulare”, per dirla con Machiavelli, che fu uno dei suoi maestri:
Lavorare per la creazione della federazione europea sarebbe stata un’azione diretta alla
creazione di un potere reale e forte… che questa volta avrebbe servito a consolidare le libertà
umane e a dar loro nuovo slancio. Machiavelli e Kant si riconciliavano nel mio spirito. Decisi
dentro di me di fare il possibile per contribuire alla realizzazione di questo obiettivo, difficile a
raggiungere, ma degno di essere perseguito. 28
28
A. Spinelli, Come ho tentato…, cit., p. 310.
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S. Cirillo, Fatti non foste
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
Il progetto di Trattato di Unione europea firmato Spinelli fu promosso nel
1984, anticipando la costituzione europea recente. Lui, con modestia si definì
semplicemente ”l’ostetrica che ha aiutato il Parlamento a dar alla luce il
bambino” (conferenza tenuta dopo l’approvazione del Trattato, il 14 febbraio
1984)29:
È sera. Da una settimana leggo dei giornali solo i titoli e li metto da parte. Ho finito di leggere e
di dare una limata a tutto quel che ho scritto a Sabaudia.
Non saprei dire se ho scritto una noiosa pappolata di un vecchio che sbrodola le cose che non sa
dimenticare e che non interessano nessuno, o se ho scritto, come vorrei, un quid maius. Ho
cercato di raccontare la storia di uno che distrugge se stesso e rinasce dal nulla. Il tutto come in
un esperimento in vitro – press’a poco senza interventi esterni dell’attore.
Bene – staremo a vedere. Io sono contento di aver scritto questo libro.
24 agosto 198330
Finito il primo volume, Spinelli, commissario della CEE, si prende nel
marzo 1986 l’impegno del secondo cui affidare il racconto dell’avventura,
ovvero della nascita e sviluppo del Federalismo europeo, e il suo pensiero grato
va al ricordo della madre, che lo aveva sempre compreso e protetto.
29
30
Ivi, p. 310.
A. Spinelli, Diario europeo, cit., 3o vol., p. 918.
93
S. Cirillo, Fatti non foste
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
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S. Cirillo, Fatti non foste
La tutela dei beni culturali nell’attività del Consiglio
D’Europa
Evoluzioni concettuali e modelli di governo multilivello
di On. Flavio Rodeghiero
Former Member dell’Assemblea del Consiglio d’Europa
94
F. Rodeghiero, La tutela
Indice
CAPITOLO IErrore. Il segnalibro non è definito.
L’evoluzione storica del concetto di “beni culturali” nella normativa internazionale
1.1 La tutela dei beni culturali in caso di conflitto armato
1.2 La tutela dei beni culturali in tempo di pace
1.3 La ricerca di una definizione unitaria di bene culturale nel diritto internazionale
1.3.1 Elementi per la valutazione dell’oggetto
1.4 L’influenza del modello di conservazione integrata sulla nozione di tutela
CAPITOLO II
Il Consiglio d’Europa e la cooperazione culturale
2.1 Meccanismi e funzionamento del Consiglio d’Europa
2.1.1 I diritti e gli obblighi degli Stati membri
2.1.2 Il controllo sul rispetto degli obblighi assunti
2.2 La cooperazione culturale
2.3 Il patrimonio culturale ed i diritti culturali
2.4 Il patrimonio culturale e lo sviluppo sostenibile
2.4.1 La tutela del patrimonio culturale e lo sviluppo sostenibile nell’attività del
Consiglio d’Europa
2.4.2 Dalla Raccomandazione R (95) 9 del Comitato dei Ministri alla Convenzione di
Faro
CAPITOLO III
Tra modello intergovernativo e sopranazionale: un confronto tra i modelli di governo
multilivello nella tutela dei beni culturali
3.1 I rapporti del Consiglio d’Europa con le altre organizzazioni internazionali
3.1.1 Le organizzazioni intergovernative e i beni culturali
3.1.2. Le organizzazioni non-governative
3.2 La cooperazione intergovernativa relativa alla tutela dei beni culturali
CAPITOLO IV
Un caso concreto di governo multilivello: l’adattamento del sistema legislativo italiano
alla normativa internazionale ed europea relativa alla tutela dei beni culturali
4.1 L’azione di tutela in Italia
4.2 L’evoluzione della normativa italiana sui beni culturali
4.3 La ricerca di una definizione unitaria di “bene culturale” nel diritto interno
95
F. Rodeghiero, La tutela
4.4 Punti critici tra la normativa del Consiglio d’Europa ed il diritto interno : tra
interesse generale e sovranità statale
4.5 L’influenza della nozione di patrimonio culturale nel concepimento di un modello di
governo multilivello
96
F. Rodeghiero, La tutela
Abstract
Perché una ricerca sistematica sulla tutela dei beni culturali da parte del
Consiglio d’Europa? Il Consiglio d’Europa è la più vecchia organizzazione
politica europea, nata con l’obiettivo, all’indomani della seconda guerra
mondiale, di tutelare i diritti dell’uomo e sostenere la consapevolezza
dell’identità europea: l’attività del Consiglio, con l’approvazione della
Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo nel 1950, la più completa carta
regionale per la tutela dei diritti della persona umana, si è distinta
particolarmente nell’ambito della protezione dei diritti umani; ma nel
promuovere i valori condivisi ha ritenuto indispensabile intervenire anche nel
settore dei beni culturali, considerati fondamentali elementi storici attorno ai
quali si definisce l’identità dei popoli. Ed è stata proprio l’attività internazionale
del Consiglio d’Europa, e quella dell’UNESCO a livello geografico più ampio, a
promuovere l’adozione negli ordinamenti nazionali di norme specifiche intese a
tutelare i beni culturali, non più come cose, ma per il valore immateriale e
pubblico di cui sono portatori. È infatti il contesto internazionale quello che ha
fatto crescere una coscienza comune del valore dei beni culturali, contribuendo
sia a costruire un concetto giuridico del bene culturale, sia a delineare modelli
di tutela a carattere settoriale che individuano specifiche forme di intervento
ulteriori rispetto a quelle di carattere generale. Ha anche un valore simbolico
che sia proprio questa Istituzione internazionale europea, nata nell’immediato
dopoguerra e costituitasi nel territorio teatro delle due guerre mondiali, ad
esserne protagonista. Del resto, dal punto di vista storico, le prime forme di
interesse della Comunità Internazionale per i beni culturali nasce proprio con
riferimento ai conflitti armati, dalle Convenzioni dell’Aja elaborate in seno alla
prima e alla seconda Conferenza per la pace del 1899 e del 1907 relative alla
guerra terrestre e navale, al Trattato di Versailles del 1919 e ai Trattati di pace
successivi alla seconda guerra mondiale. Mentre tuttavia l’attività dell’Unesco è
ben conosciuta agli studiosi di diritto internazionale, ben poco lo è quella del
Consiglio d’Europa, pur avendo essa avuto un ruolo molto significativo nel
campo dei diritti culturali. Settore particolarmente vulnerabile oggi, in seguito a
gravi atti di distruzione di testimonianze storiche perpetrate dall’integralismo
islamico. È pur vero che non è mai stata messa in discussione la sovranità dei
singoli Stati nella gestione del rispettivo patrimonio nazionale, ma la
problematica relativa ai conflitti, a cui si aggiunge oggi quella della
liberalizzazione dei mercati e delle emergenze ambientali globali, ci inducono a
riflettere su quali possano essere i livelli che, con competenze diverse, possono
attuare una efficace azione di tutela delle testimonianze di civiltà rappresentate
dai beni culturali.
97
F. Rodeghiero, La tutela
In ragione quindi del fatto che importanti trasformazioni concettuali si sono
avute in seguito ad atti concepiti nell’ambito delle organizzazioni
internazionali, oltre che del Consiglio d’Europa anche dell’UNESCO, si sono
analizzate le più importanti Convenzioni che riguardano il nostro tema:
precisamente, la ricerca parte da una analisi critica dei più determinanti atti
internazionali concernenti la protezione dei beni culturali in caso di conflitto
armato ed in tempo di pace, per passare poi a focalizzare l’ attenzione sui criteri
e le condizioni qualificanti l’oggetto dello studio, e cioè i beni culturali, e quindi
sul concetto di tutela e di conservazione integrata. Quindi, dopo una sintetica
presentazione del Consiglio d’Europa, della sua struttura e della sua attività,
nonché dei diritti ed obblighi che sorgono in capo agli Stati membri in ragione
della loro appartenenza all’organizzazione, si è inteso presentare l’attività del
Consiglio d’Europa nel settore della tutela dei beni culturali. Il lavoro di ricerca
ha approfondito quindi il nesso tra la tutela dei beni culturali e la cooperazione
internazionale, analizzando le principali tappe che dal 1970 hanno
caratterizzato tale cooperazione, focalizzando lo studio attorno agli atti
internazionali che sempre più numerosi tendono a sottolineare la stretta
correlazione tra beni culturali e beni ambientali. Quindi, in un capitolo
successivo, nell’analisi dei modelli di governo multilivello nella tutela dei beni
culturali, è stato innanzitutto affrontato il particolare aspetto della cooperazione
intergovernativa relativa alla tutela dei beni culturali, e successivamente, quale
caso concreto di governo multilivello, l’adattamento del sistema legislativo
italiano alla normativa europea ed internazionale relativa alla tutela dei beni
culturali.
Quello che ne emerge è un quadro composito, costituito in prevalenza da
trattati multilaterali ma pure da documenti di indirizzo, alla cui elaborazione e
proposta ha grandemente influito il Consiglio d’Europa, il quale penetra
profondamente la sfera del dominio tradizionalmente riservato in questo
settore agli Stati, ma che tuttavia, attraverso la sua prassi applicativa, ha
contribuito alla formazione di principi di carattere generale che tendono ad
unificare la varietà degli strumenti convenzionali, promuovendo anche in
questo settore l’integrazione europea e l’interesse successivo per questo ambito
anche da parte dell’Unione Europea, in quello che si va definendo come un vero
e proprio sistema di norme, che oggi significativamente coinvolge
tendenzialmente anche Stati terzi.
98
F. Rodeghiero, La tutela
ABBREVIAZIONI
AFDI
Annuaire Français de Droit International
AJIL
American Journal of International Law
AS
Atto Senato della Repubblica Italiana
CDPAT
Steering Committee for Cultural Heritage
CECA
European Coal and Steel Community
EC
European Community
EdD
Enciclopedia del Diritto
EG
Enciclopedia Giuridica (Treccani)
EJIL
European Journal of International Law
ETS
European Treaty Series
Foro It
Foro Italiano
GU
Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana
ICCROM
International Centre for the Study of the
Preservation and Restoration of Cultural Property
ICOM
International Council of Museums
ICOMOS
International Council of Monuments and Sites
IL
The International Lawyer
ILM
International Legal Materials
ILR
International Law Report
INTERPOL
International Criminal Police Organization
IOPA
International Organization for the Protection of the
Works of Arts
99
F. Rodeghiero, La tutela
IYIL
Italian Yearbook of International Law
MGLJ
McGill Law Journal
NATO
North Atlantic Treaty Organization
OECD
Organization for
Development
OEEC
Organization for European Economic Co-operation
OSA
American States Organization
PS
Political Studies
RBDI
Revue Belge de droit international
RC
Recueil des Cours de
international de La Haye
RDI
Rivista di Diritto Internazionale
UE
European Union
UN
United Nations
UNEP
United Nations Environment Programme
UNESCO
UNIDROIT
Economic
Cooperation
l’Académie
de
and
droit
United Nations Educational Scientific and Cultural
Organization
International Institute for the Unification of Private
Law
UNTS
United Nations Treaty Series
WCDE
Word
Commission
Development
WHO
World Health Organization
on
Environment
and
100
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Eurostudium3w aprile-giugno 2016
English version
The Protection of Cultural Heritage in the Activity of the
Council of Europe
Conceptual Developments and Multilevel Governance Models
Flavio Rodeghiero
110
F. Rodeghiero, The Protection
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
Flavio Rodeghiero is a journalist and lecturer in the History of institutions.
He has a degree in Law, Political Science and Theology.
From 1984 to 1994 he was coordinator of the Veneto Region pilot project
“European Education in the school”, and led the regional TV program
“Welcome to Europe” '.
He was a member of the Italian Parliament from 1994 to 2006, and he has been a
member of the Committee on Culture and European Politics.
He has been a member of the Parliamentary Assembly of the Council of Europe
(now honorary member) and of the Western European Union, of the
Organization for Security and Co-operation in Europe, of the InterParliamentary Union and vice president of the European Council for Student
Affairs.
He published the book Europe, why not?, Mazza Editions, Verona 2014.
111
F. Rodeghiero, The Protection
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
Index
Chapter I
The historical evolution of the concept of ‘cultural heritage’ in international
law
1.1 The protection of the cultural heritage in the event of armed conflict p.9
1.2 The protection of the cultural heritage in peacetime
p.15
1.3 The search for a unified definition of cultural heritage in international law
p.38
1.3.1 Elements for the evaluation of the object
p.39
1.4 The influence of on integrated conservation model on the concept of
protection
p.48
Chapter II
The Council of Europe and cultural cooperation
2.1 Mechanisms and functioning of the Council of Europe
p.57
2.1.1 The rights and obligations of the member States
p.61
2.1.2 Control over fulfillments of obligations
p.66
2.2 Cultural cooperation
p.68
2.3 Cultural heritage and cultural rights
p.72
2.4 Cultural heritage and sustainable development
p.77
2.4.1 The protection of cultural heritage and sustainable development in
the activity of the Council of Europe
p.86
2.4.2 The Reccomendation R (95) 9 of the Committee of Ministers since
Convention of landscape and Faro Convention
p.89
Chapter III
Between intergovernmental and supranational model: a comparison of the
multilevel governance models in the protection of cultural heritage
3.1 Relationships of the Council of Europe with other international
organizations
p.99
3.1.1 Intergovernmental organizations and the cultural heritage
p.100
3.1.2 Non-governmental organizations
p.110
3.2 Intergovernmental cooperation on the protection of cultural heritage p.112
Chapter IV
A case of multi-level government: the adaptation of the Italian legislative
system to international and European law on the protection of cultural
heritage
4.1 The protection of cultural heritage in Italy
p.115
112
F. Rodeghiero, The Protection
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
4.2 The evolution of the Italian legislation on cultural heritage
p.119
4.3 The search for a unified definition of ‘cultural heritage’ in domestic law
p.145
4.4 Critical points between the legislation of the Council of Europe and
domestic law: general interest and state sovereignty
p.147
4.5 The influence of the notion of cultural heritage in the conception of a
multilevel model
p.156
113
F. Rodeghiero, The Protection
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
Abstract
Why do we need systematic research on the protection of cultural heritage by
the Council of Europe? The Council of Europe is the oldest European political
organization, founded with the aim, in the aftermath of World War II, to protect
human rights and support European identity awareness: the Council's work has
distinguished itself particularly, with the approval of the European Convention
on Human Rights in 1950, the most comprehensive regional map for the
protection of the rights of the individual, in the field of human rights
protection. But in promoting shared values considered essential for the
intervention in the cultural heritage sector, seen as crucial historic elements
around which the identity of people defines itself. It was precisely the
international activities of the Council of Europe, and that of UNESCO on a
wider geographical level, to promote the adoption of specific rules into national
law for the protection of cultural heritage, not as things, but for the intangible
and public value they bring.
In short, it is in the international context where a common awareness of
the value of cultural heritage raises, helping both to build a legal concept of
cultural heritage, and helping to shape sector protection models, which identify
specific forms of intervention in addition to those of a general nature.
It also has a symbolic value that the protagonist is a European institution, born
after the war and set up in the territory of two world wars territory. Moreover,
from the historical point of view, the first forms of the international
community's interest in the cultural heritage are born with reference to armed
conflict, from the Hague Conventions elaborated within the first and second
peace conference of 1899 and 1907 related to land and naval war, to the
Versailles Treaty of 1919 and the subsequent peace treaties after World War II.
However, while the UNESCO’s activity is well known to scholars in
international law, the activities of the Council of Europe is little known, despite
that activity having a very significant role in the field of cultural rights. It’s true
that the sovereignty of individual states in the management of their national
heritage has never been called into question, but the problems relating to the
conflicts, which now adds that of market liberalization, lead us to reflect on
what the levels are, with different skills, they can implement an effective action
for the protection of the testimonies of civilizations represented by the cultural
heritage. Then, because these major conceptual changes have occurred as a
result of acts conceived in international organizations, as well as in the Council
of Europe, including in the UNESCO, we analyzed the most important
Conventions concerning our theme: specifically, the search starts from a critical
analysis of the most crucial international acts concerning the protection of
cultural property during armed conflict and in peacetime, then move on to
114
F. Rodeghiero, The Protection
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
focus on the criteria and conditions for qualifying the object of the study,
namely cultural heritage, and then on the concept of protection and integrated
conservation.
Then, after a brief presentation of the Council of Europe, of its structure
and its activities, and the rights and obligations which arise for Member States
on account of their membership of the organization, it was intended to present
the activities of the Council of Europe in the field of the protection of cultural
heritage.
Then the research work has deepened between the protection of cultural
heritage and international cooperation, analyzing the main stages which, since
1970, have featured such cooperation, focusing the study around the
international acts that tend to emphasize the close relationship between cultural
and environmental heritage .
Then, in a later chapter, the analysis of multilevel governance models in
the protection of cultural heritage, the particular aspect of intergovernmental
cooperation on the protection of cultural heritage was first addressed, and later,
as a concrete case of multi-level governance, the adaptation of the Italian legal
system to the European and international legislation on the protection of
cultural heritage.
What emerges is a mixed picture, composed mainly of multilateral treaties
but also from policy documents, in which the formulation and proposal has
been greatly influenced by the Council of Europe, which deeply penetrates the
domain sphere traditionally reserved in this area to States, but which today,
through its practical application, contributes to the formation of general
principles that tend to unify the variety of conventional instruments in a real
system of international standards, which today significantly involves also third
countries, contributing to a significant global attention to the theme of cultural
heritage and its protection.
115
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Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana
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M
ICOM
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S
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The International Lawyer
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International Law Report
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OL
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L'Anti-americanismo in Europa
Aspetti politici, sociali e funzionali
di Giuseppe De Lauri*
La globalizzazione, se da un lato ha unito i popoli e le culture (cosa non sempre
giudicata positiva) dall’altro ha acuito contrapposizioni d’interessi e
ideologiche: per un verso, avvicina, propone, amalgama; dall’altro confonde e
divide. Il XX secolo e gli inizi del XXI sono stati contrassegnati dal potere che gli
Stati Uniti sono stati capaci di conquistare ed esprimere.
Allo stesso tempo, mentre l’astro a stelle e strisce avanzava entrando nella
Storia, un tema polemico e polimorfo procedeva di pari passo: l’antiamericanismo. Con la parola anti-americanismo s’intende tout court un
sentimento diretto contro gli Stati Uniti d’America e che, almeno in Europa, non
riguarda minimamente gli altri Stati del continente americano. All’interno del
continente stesso i Paesi sud-americani, come anche il Canada, tendono sempre
ad evidenziare che l’America non deve essere intesa come i soli Stati Uniti, ma
che, specialmente in riferimento a Paesi come Cile, Colombia, Venezuela, la
vera America è esattamente ciò che gli USA non sono. In questo senso utilizzare
il termine “America” rappresenta solo una sineddoche giornalistica.
I Paesi latini, ormai lontani dai progetti bolivariani della Gran Colombia,
hanno iniziato una marcia anti-USA concretizzatasi prima di tutto sul lato
economico. Nel 1991 Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay, ai quali si sono
aggiunti Bolivia, Cile, Perù e ultimo il Venezuela nel 2012, tutti hanno istituito il
Mercosur; in altre parole il mercato unico sud-americano, a netto discapito
dell'Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) voluta dagli Stati Uniti.
Dal lato opposto dell’Oceano Atlantico, i dati dimostrano un’Europa sempre
più insofferente ai comportamenti degli alleati americani.
E allora, cosa vuol dire essere contro il proprio potente alleato? Che cosa
vuol dire essere “anti”, considerando che la società occidentale è proprio il
Laureato in Storia Moderna e Contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Roma “La Sapienza”. Ha svolto la sua ricerca di tesi presso l'Università La
Sorbonne di Parigi, dove si è interessato alle Relazioni Internazionali. Giornalista pubblicista, ha
collaborato con diverse testate dedicate agli italiani all'estero, come il Focus.In di Parigi, il Mitte
di Berlino e ha fondato un suo proprio giornale online durante il suo soggiorno a Los Angeles
(www.illosangeles.com). Attualmente lavora nella comunicazione presso un startup di Berlino,
in attesa di tornare negli USA e iniziare il Phd.
*
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G. De Lauri, L’Anti-americanismo
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
frutto di quell’alleanza strategica, militare e politica formata da Europa e Stati
Uniti? Il tema è stato dibattuto in passato e si è sempre ripresentato ciclicamente
in base alle esigenze e agli eventi. In realtà è certo che esistono vari tipi di antiamericanismo.
Sia dal punto di vista ideologico che pragmatico per molti esistono “buoni
motivi” per essere anti-americani. Dal punto di vista politico è innegabile che
durante tutta la Guerra Fredda, l’Europa si sia vista sfilare il ruolo secolare che
aveva da un lungo periodo, a vantaggio di due grandi blocchi, Usa e Urss
caratterizzati da visioni politiche distinte se non diametralmente opposte. Ad
un tratto i Paesi europei non erano più i giocatori della metaforica scacchiera
geopolitica e geo-economica, ma (continuando nell’analogia) essi erano
diventati la scacchiera stessa sulla quale re e regine, alfieri e pedoni, talora neri
talora bianchi, muovevano i propri interessi. L’Europa non costituiva più una
pietra di paragone con cui oltre Atlantico si riteneva di dover fare i conti.
Una tale presa di coscienza è rilevabile in numerosi saggi apparsi sulle
riviste «Foreign Affairs» e «Atlantic Monthly» dove studiosi come A.J. Blinken,
attualmente vice Segretario di Stato, e W.R. Mead hanno preconizzato anche di
recente (il primo peraltro dissentendo) due strade distinte per l’Europa e gli
Stati Uniti1. L’idea si è così radicata che ha trovato oppositori tra gli stessi autori
statunitensi. Il politologo S. P. Huntington su «Foreign Affairs» invitava gli Stati
Uniti a non ergersi a “sceriffo solitario” del mondo perché la fine della Guerra
Fredda aveva portato a una realtà “uni-multi-polare” in cui gli USA erano
divenuti l’unica potenza a poter agire da protagonista in tutte le realtà regionali,
ma in ognuna di esse vi erano potenze capaci di opporsi nettamente alla
volontà americana2. In realtà durante gli anni Novanta era cresciuta negli Stati
Uniti il timore di una crescita politica dell’Unione Europea che avrebbe portato
alla nascita di un terzo blocco di potere, la fortress Europe, ma l’inesistenza di
una politica estera comune, evidente nelle crisi dei Balcani, ha rassicurato gli
animi. Già negli anni Settanta, il Segretario di Stato Kissinger aveva ironizzato
sulla questione chiedendo quale fosse il numero telefonico del ministro degli
Esteri europeo.
L’idea stessa che l’America aveva di sé si fonda in effetti per molti aspetti
su una sorta di anti-europeismo, vale a dire una contrapposizione che s’innescava
sin dall’inizio del “secolo americano”. Già sui libri di storia degli Stati Uniti,
come ad esempio quello di H.B. Parkes, erano presenti una serie di polarità
contrapposte che caratterizzavano l’Europa (immobilismo, gerarchia,
W.R. Mead, “The Case against Europe”, in «Atlantic Monthly», aprile 2002; A.J. Blinken, “The
false crisis over the Atlantic”, «Foreign Affairs», maggio-giugno 2001, pp. 35-48.
2 S.P. Huntington, The Loney Superpower, in «Foreign Affairs», vol. 78, marzo – aprile 1999, pp.
35-49.
1
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G. De Lauri, L’Anti-americanismo
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
intellettualismo) e gli Stati Uniti (movimento, uguaglianza e ottimismo) 3. Nel
corso degli anni la volontà americana di creare un’identità “altra” si è fondata
su alcuni pilastri teorici a carattere culturale: uno di questi furono certamente
gli American Studies, che vedevano la nuova cultura americana nel rapporto
privilegiato dei suoi cittadini con la natura di frontiera e gli immensi spazi del
continente. Tratti essenziali di questa idea erano la libertà americana, il forte
spirito di autonomia, la religione tollerante che aveva permesso il melting pot
degli immigrati e rifugiati in Nord America.
Se la teoria degli American Studies pareva portare, quantomeno
ideologicamente, all’isolazionismo continentale del sogno americano, ciò non
avvenne per l’aggravarsi della Guerra Fredda. In questa situazione risultava più
conveniente parlare di Western Civilization, ovvero di civiltà occidentale avente
un sostrato di valori comuni. Secondo questa logica lo sviluppo della civiltà
partì dal Mediterraneo, passando per il Nord Europa, giunse al fertile terreno
anglo-americano. Un filo conduttore che univa l’America all’Europa,
parificando quest’ultima al proprio interno. La visione degli Stati Uniti mutava
con la necessità di avere saldi alleati a fronte del blocco sovietico.
Uno spostamento che tramutò le tendenze all’anti-europeismo isolazionista
in un appeasement atlantico, confermato dalla dichiarazione del diplomatico
statunitense P.H. Gordon:
Americani ed europei in qualche modo condividono aspirazioni democratiche e liberali uguali
sia per le loro Nazioni che per il resto del mondo. Essi hanno un comune interesse ad avere
sistemi internazionali del commercio e delle comunicazioni aperti … [la volontà di] bloccare la
proliferazione delle armi di distruzione di massa, prevenire tragedie umanitarie e contenere un
piccolo gruppo di stati pericolosi che non rispettano i diritti umani e sono ostili ai comuni valori
e interessi occidentali. 4
Man mano che l’anti-europeismo andava scemando per le volontà
“occidentalistiche” degli Stati Uniti, sorgevano al di qua dell’Atlantico forti
sentimenti anti-americani che si basavano, come per contrappasso, in
particolare sull’idea di rifiuto della mescolanza culturale tra Europa e USA.
Lo studio di questo fenomeno può essere condotto soltanto prendendo in
considerazione uno specifico punto di vista, considerando che l’ambiente in cui
si esamina il fenomeno ne influenza la sua spiegazione. Alcuni intellettuali
analizzano l’anti-americanismo attraverso il filtro di un presunto “sentimento
di superiorità” che l’Europa e gli europei avrebbero nei confronti degli
H.B. Parkes, The American Experience. An Interpretation of the history and Civilization of the
American People, New York 1947.
4 Ph.H. Gordon, Bridging the Atlantic Divide, «Foreign Affairs», gennaio–febbraio, 2003, pp. 70–
74.
3
130
G. De Lauri, L’Anti-americanismo
Eurostudium3w aprile-giugno 2016
americani. Lo studioso e giornalista europeo J. Joffe raggruppa
l’antiamericanismo in cinque “anti-ismi”5 che, a suo parere, rispondono ai
seguenti requisiti: la stereotipizzazione, la denigrazione, l’onnipotenza, la
cospirazione e l’ossessione.
Per ognuno di questi cinque termini si ha come prodotto la
generalizzazione dell’americano tipo, l’attribuzione allo stesso di un’inferiorità
morale; l’impressione di un delirio monopolistico che gli USA avrebbero in tutti
i campi, dall’informazione all’economia; l’intenzione, neanche troppo
mascherata, addossata alla parte americana di corrompere i costumi europei; e
infine la preoccupazione verso un potere percepito come malvagio.
Presumibilmente questa schematizzazione corrispondeva a quella che la
maggior parte degli europei tende ad attribuire al modo di pensare americano,
vale a dire pieno di cliché intramontabili, propalati del resto con ostinata ragione
e pervicacia attraverso il cinema e il soft power: una concezione endemica
sempre in cerca di “normalizzare” ogni realtà a essa estranea tramite appunto i
cliché. Tant’è che nella comunicazione di marca Usa si riconoscerebbe, come in
una commedia dell’arte, cosa gli americani pensano dei francesi, degli italiani o
degli spagnoli, come intendono la società capitalista e la globalizzazione; si
conosce quali sono i simboli del potere americano e le sue eccellenze, la loro
idea di ordine mondiale e i modi per raggiungerla. Il tutto sotto il segno della
stereotipizzazione, della denigrazione (presente anche nei più innocui cartoons),
dell’impotenza che gli USA attribuiscono agli altri popoli e dell’ossessione di
ciò che è diverso dall’idea occidentale di mondo libero.
Un anti-americanismo piuttosto diffuso, in sintesi, la cui percezione
Oltreatlantico
venne
efficacemente
quanto
rudemente
descritta
dall’ambasciatore americano Price, a Londra, nel 1987:
L’antiamericanismo è un modo di sentire amorfo, totalmente soggettivo. Dunque è difficile che
si trovi un accordo sul darne una definizione accettabile. Per quanto mi riguarda, io mi pongo
nei suoi confronti nello stesso modo in cui uno dei giudici della nostra Corte Suprema di
Giustizia si pone rispetto alla pornografia. Non posso darne una definizione, ma sono sicuro di
poterlo riconoscere quando lo vedo. E, oggi come oggi, ne vedo moltissimo, in Inghilterra e in
Europa. 6
La definizione di Price è paradigmatica: negli USA l’antiamericanismo si
percepisce come una sorta di pregiudizio non fondato, che suscita in ogni caso
profonde riserve sul piano etico e morale. Un atteggiamento peraltro registrato
di frequente nella stessa intellighenzia europea, incline ad accusare l’America di
essere reazionaria a più livelli, ad esempio nell’umanità (in America esiste
5
6
A.S. Markovits, La nazione più odiata, Einaudi Editore, 2007, pp. 22.
Ch. Price, The risks for Europe in anti- American sentiment, in «The Guardian», 22 marzo 1987.
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G. De Lauri, L’Anti-americanismo
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ancora la pena di morte), oppure in campo sociale (gli Stati Uniti sono visti
come patria del capitalismo rapace) o culturale (l’America è fortemente
commercializzata e l’arte si confonde con l’industria).
Intellettuali come Thomas Meyer hanno descritto l’America come una
“democrazia imperfetta”, paragonabile solo alla Gran Bretagna, che egli
considera profondamente guasta e una minaccia per l’unione europea. La
visione di Meyer dell’identità europea risulta infatti fondarsi sul chiaro rifiuto
di tutto ciò che è americano7. Allo stesso modo, il ministro degli Esteri francese
nel governo Jospin, Hubert Védrine, si è reso autore di un’invettiva contro gli
Stati Uniti quale hyperpuissance meritevole di essere combattuta da un’Europa
“non americana” (ovviamente guidata dalla Francia). Secondo il ministro
francese tale avversione sarebbe motivata dai caratteri maligni rappresentati da
“economia unilaterale di mercato, rifiuto dello Stato, individualismo non
repubblicano, rafforzamento del suo (degli Stati Uniti) ruolo indispensabile e
universale, anglofonia” ed altro8. Un complesso di accuse che il professor A. S.
Markovits, della University of Michigan, ha tradotto in una differenziazione tra
americanismo contro ciò che l’America è e ciò che l’America fa.
Gli intellettuali europei hanno ripetutamente criticato (e criticano) gli Stati
Uniti per screditarne la visione del mondo, la American way of Life che avrebbe
oltraggiato la fisionomia delle società europee. In effetti molti Stati, tra cui
l’Italia, hanno avuto anche buoni motivi per criticare proprio ciò che l’America
fa. Sia pure fra alti e bassi, malgrado i forti legami dovuti all’emigrazione verso
gli Usa e tenendo peraltro conto della presenza di un grande partito comunista,
l’Italia ha visto negli anni un sentimento elitario divenire sovente una realtà
diffusa nell’opinione pubblica. Ciò è accaduto quantomeno per i riverberi
adducibili a talune scelte d’approccio degli Stati Uniti con la società italiana.
Le ingerenze più o meno scoperte nelle elezioni nazionali, casi irrisolti
come Ustica dove, nonostante non ci sia ancora una realtà processuale, è un
dato di fatto la poca collaborazione dei governi americani durante le indagini;
oppure la vicenda di Amanda Knox, in cui l’intera opinione pubblica americana
indignata ha finito per esercitare evidenti pressioni presumibilmente non solo
psicologiche, la guerra in Iraq o i recentissimi casi del M.U.O.S. in Sicilia e del
“Datagate”, per citarne alcuni. Questi eventi colpiscono direttamente l’opinione
più sensibile e hanno poco d’ideale.
In effetti, è possibile rilevare nella vicenda storica Europa-Usa una prima
ondata di antiamericanismo, di tipo “intellettuale”, che esprimeva discorsi e
motivazioni tendenzialmente aprioristiche. Ad esempio, Martin Heidegger
T. Meyer, Die Identität Europas, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, pp. 114, 145.
H. Védrine, Les cartes de la France à l’heure de la mondialisation, cit. in Joffe, Who’s afraid of Mister
Big?, cit., p. 46.
7
8
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spesso menzionava ”l’americanismo” come una forza cieca e avida che
indeboliva l’Europa. Tra gli ambienti tedeschi di fine Ottocento già si parlava
d’imperialismo americano e molte voci stigmatizzavano gli Stati Uniti come
potenza imperiale fin da subito dopo la guerra con la Spagna nel 1898.
Tuttavia furono la presenza di truppe americane in Europa e il significato
che l’America assunse nella politica post-bellica (l’influenza di Wilson sui
negoziati della Conferenza di Pace di Parigi nel 1919) nonché nello sviluppo
economico europeo (il coinvolgimento del governo americano mediante il Piano
Dawes promosse l’afflusso di capitali americani sul continente), furono appunto
tali fattori ad incentivare nell’establishment e nella società europea la diffusa
percezione dell’America come stato egemonico.
Pur tenendo conto di quanto l’europeismo liberal-democratico a tendenza
federale risultasse debitore nei confronti dell’impulso statunitense, il sospetto di
un asservimento delle individualità all’irreggimentazione di massa portava
direttamente a coltivare l’idea di una “particolarità” irriducibile del “modello
europeo” alternativo al capitalismo statunitense, esattamente come di
peculiarità si parlava negli American Studies prima citati. La critica più forte e
longeva – al di là della “parentesi” nazifascista - che l’Europa colta muove agli
USA è sicuramente al suo stile di vita, quello che tecnicamente è chiamato
l’American way of life.
Da non dimenticare naturalmente il concorso antagonistico
dell’internazionalismo comunista. A riprova, nel secondo dopoguerra, complice
una politica culturale dell’Urss o più generalmente della sinistra, si
organizzarono vari congressi dal potente valore simbolico. È il caso del
congresso di Berlino del 1947, dove si riunirono moltissimi scrittori e
intellettuali europei, e in seguito a Wroclaw in Polonia, dove parteciparono
anche alcuni intellettuali americani. In questi congressi si analizzarono le forme
d’infiltrazione della cultura americana in Europa e il modo per contrastarle.
Di rimando, una volta piegata la Germania di Hitler salvando Francia e
Inghilterra, innescatisi ben presto i fuochi della Guerra Fredda nei primi anni
del dopoguerra, gli Stati Uniti si fecero sentire in Europa con non poca
invadenza. Gli USA utilizzarono mezzi di penetrazione “non convenzionali”, a
cominciare dalla cultura e dai consumi: si pensi alla cultura di massa (incarnata
ancora oggi dalla Pop culture), al cinema hollywoodiano - sul quale molto è stato
scritto per l’influenza che esso esercitò a partire già dagli anni Trenta9 - e ancora
alla televisione, la pubblicità, la musica e i fenomeni di costume.
V. De Grazia, “La sfida allo star system: l’antiamericanismo nella formazione della cultura di
massa in Europa, 1920-1965”, in P. Craveri e G. Quagliariello (a cura di), L’antiamericanismo in
Italia e in Europa nel secondo dopoguerra, Rubettino editore, Soveria Mannelli 2004, p. 334.
9
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L’American way of life finiva per occupare progressivamente il posto delle
culture nazionali “vecchie” e “reazionarie” essenzialmente per due motivi: il
primo collegato all’idea romantica dell’americanizzazione, a ideali di libertà e
democrazia, principalmente connessi alla promessa di uno stile di vita migliore;
il secondo, forse meno evidente, riconducibile allo strapotere con cui gli Stati
Uniti potevano trattare con gli sfiniti Paesi europei. Gli aiuti economici del
Piano Marshall erano indirizzati a coloro i quali avessero voluto cambiare
radicalmente le società e le economie, aprendosi al libero mercato, in primis
quello americano, assicurando un’Europa prospera, lontana dall’URSS e sotto la
leadership degli Stati Uniti.
Maurice Duverger, nel suo articolo Pas d’Europe sans d’Allemagne («Le
Monde», 9/9/1947) s’affrettò a mettere in guardia gli europei dal pericolo. Egli
sosteneva che erano gli europei in vero ad aiutare l’economia americana, la
quale di certo ne traeva un gran vantaggio. Ma questo, al netto dell’immutabile
corso della storia, riconduce a smisurate opzioni alternative. Infatti, se gli USA
non avessero donato i loro dollari, sarebbero stati di certo accusati di un
egoismo incommensurabile, di scordare la solidarietà occidentale, il sangue
versato durante la guerra. E giustamente loro lo elargirono. Al tempo stesso, il
Piano Marshall fu certo una maniera indiretta per gli Stati Uniti di sostenere
opzioni sul piano politico in Europa, mentre sovvenzionavano le loro
esportazioni.
Per parte sua, Jean Baby, uno degli intellettuali più in vista, e tuttavia alla
lunga filo-maoista dissidente, del Partito comunista francese, l’avrebbe messa
giù, neanche a dirlo, parecchio dura:
mettere i paesi dell’Europa occidentale sotto il controllo diretto del capitalismo americano,
dirigere la produzione, organizzare gli scambi al fine di permettere ai capitali americani di
trovare gli sbocchi sufficienti. In seguito, è chiaro, asservire i vecchi paesi imperialisti europei,
costringerli a cedere gli imperi coloniali dove convogliare le ricchezze del nuovo imperialismo
americano. Infine predisporre l’Europa come una piazzaforte in vista di un ulteriore attacco
all’URSS. 10
Parole piuttosto lucide (con qualche inconfessata nostalgia per gli imperi
coloniali?) che avrebbero trovare alquante conferme negli anni successivi, fino
ai nostri giorni. Le paure, vere o presunte tali, degli intellettuali e degli uomini
di sinistra e non solo - De Gaulle assenziente - non furono certo disattese.
Poco da fare, l’americanizzazione della cultura procedeva di pari passo
con l’affermazione del Piano Marshall: come ebbe a dire, ad esempio, Enzo
10
«Les Cahier du communisme», n. 1, gennaio 1948, p. 34.
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G. De Lauri, L’Anti-americanismo
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Forcella - “i miti americani hanno mantenuto le promesse e vinto!”11 riferendosi specificatamente alle immagini trasmesse dai documentari diffusi
assieme al Piano Marshall dello stile di vita americano.
In particolare le immagini mostravano i lavoratori che arrivavano nelle
fabbriche al volante delle loro proprie auto, un concetto impensabile in Italia del
1949. L’apertura dei primi supermercati imponeva una diversa distribuzione
commerciale, ma anche un differente rapporto con la merce. I prodotti esposti e
facilmente reperibili contrastavano con le offerte e gli scenari del mercato al
dettaglio che fino allora era stato prerogativa di negozi e botteghe.
A tal proposito commentava con suggestiva efficacia un giornalista sul
«Messaggero»:
Tepore del pane esalante dai forni alla mattina nella mia nebbiosa città natale, aroma del pane
croccante e brunito, immerso come un rito nel caffellatte preparato da mia madre, che terrore di
perderti, di smarrirti per sempre nella sterilizzata eleganza di un emporio senza odori, senza
sapori, in una aria dosata e rarefatta come d’alta montagna […] Tutto in scatola, tutto
incorruttibile, tutto refrigerato, tutto vivo e morto per sempre, finanche le patate fritte, il latte, i
fegatini di pollo, i tacchini, i tuorli d’ovo avvolti nel cellophane e rigidi come sassi: ogni cosa il
monumento e la memoria di se stessa”. 12
Siffatte varietà merceologiche, tagliate e inscatolate, cambiarono le
abitudini di spesa e l’idea stessa di consumo. Interessante è, per chiudere il
quadro d’interscambio sociale, riportare anche le impressioni di alcuni dirigenti
del primo supermercato italiano, nato a Milano nel 1957 per mano
dell’imprenditore statunitense Nelson A. Rockfeller, ovvero “Supermarket
Italiani”, oggi conosciuto come “Esselunga”. Registravano per esempio le
reazioni dei nuovi clienti:
“Un uomo e sua moglie su Viale Zara”: non è fantastico questo vasto assortimento a prezzi così
bassi e basti pensare, gli americani lo hanno avuto per anni ", dice la moglie a suo marito [...]
Rispose il marito, "Bisogna solo essere grati agli americani che hanno vinto la guerra, altrimenti
avremmo mai potuto averlo”. […] Da una normale cliente donna: "Tutto questo è così
meraviglioso per noi, noi non possiamo che ringraziarvi abbastanza. Ho scritto a mia sorella a
New York e le ho detto di votare Rockefeller se lui concorre per il nuovo governatore". […] Un
uomo a un altro: "Basta ricordarsene la prossima volta che si vota, che non hanno nessuno di
questi in Russia”. […] Ha detto a me personalmente una vecchia signora nei suoi anni ottanta:
"Giovanotto, io sono sicura che Dio ha mandato voi americani qui a fare questa cosa
meravigliosa per noi in Italia. I miei parenti in America mi hanno per anni detto di questi
Intervento di Forcella alla conferenza di Bologna nel 1990 sul Sogno americano e mito sovietico
nell’Italia contemporanea, Bologna. Tale intervento può essere udito in un audio conservato
all’Istituto Gramsci di Bologna.
12 F. Antonioni, Anche il nostro pane quotidiano in scatola, in «Il Messaggero», 22 aprile 1956.
11
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G. De Lauri, L’Anti-americanismo
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meravigliosi negozi... Ho pregato nel corso degli anni di poter vederne uno e farvi acquisti
prima di andarmene... Credetemi, questa è la risposta a tutte le mie preghiere”. 13
Questi stralci suggeriscono due conclusioni. La prima è che dal punto di
vista americano il primo contatto con l’Europa deve essere sembrato, più o
meno, come l’approdo dei conquistadores in terra americana, nel senso che a
fronte di questi discorsi tutti gli americani si saranno sentiti “superiori” almeno
dal punto di vista dello sviluppo tecnologico e sociale, cosa in molti casi vera.
Questa considerazione porta a implicazioni non secondarie sul senso di ciò che
era percepito come “americano”, cioè migliore e d’avanguardia in ogni suo
aspetto.
La seconda considerazione è che se da una parte c’era il popolo (quello
europeo) davvero sorpreso e per certi aspetti estasiato dalla presenza
dell’America sulla propria terra, dall’altra c’era anche un metodo diremmo
politico che l’America applicava sistematicamente: l’attenzione alle reazioni di
fronte a questo influsso di modernità, lo studio degli umori dei popoli
“occupati” nei confronti degli “occupanti”. Possiamo dire che fu condotta una
seduzione quasi antropologica nei confronti delle genti europee, probabilmente
mirata a un effettivo controllo sociale.
Questa seduzione, se da un lato allietava buona parte delle masse,
dall’altro provocava la risposta contraria in ambienti intellettuali di pur diverso
orientamento. I critici del sistema da “guerra psico-economica” cercarono, con
sempre maggior successo, di rappresentare questo benessere e questa
modernità come un dono malefico (un leitmotiv che del resto lega autori diversi
e non coevi come Duhamel, Pound e Michael Moore).
Sugli effetti generali di tutte le proiezioni del potere culturale americano
nell’Italia del dopoguerra, Umberto Eco ha scritto:
L’America come modello, come universo e sistema produttivo, come influenza politica, come
immagine canalizzata dai mass media, invase l'Italia. Dapprima era stato qualcosa che potevi
leggere nei libri o vedere al cinema. Adesso era una presenza nella vita della media degli
italiani, dalla gomma da masticare ai documentari, fino allo sviluppo di auto di proprietà e
della televisione”. 14
Rockfeller Archive Center, Wayne G. Broehl, IV 3°, box 12, folder “Italiani III”, Comments
pertaining to Supermarkets Italiani, R.H. a W.D. Bradford, Milano, 9 novembre 1959. In E.
Scarpellini, Shopping American-Style: The arrival of the supermarket in Postwar Italy. Pubblicato nel
volume “Enterprise & Society, Volume 5, Issue 4” Cambridge University Press, Dicembre 2004, pp.
625-668.
14 U. Eco, “La rinascita culturale all’insegna dell’America”, in O. Calabrese (a cura di), L’Italia
moderna: immagini e storia di un’identità nazionale, Electa, Milano 1983.
13
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Peraltro, dagli Stati Uniti, di cui non va dimenticato il maccartismo,
sarebbe giunto l’incentivo ad una risposta speculare all’interno della “guerra
fredda culturale”. Parallelamente all’attacco che veniva dalle organizzazioni
intellettuali largamente sostenute dall’URSS, gli intellettuali “filo-americani”
tendevano a polarizzarsi in due tipologie: da una parte i conservatori di origine
religiosa (cattolica o protestante), la cui cultura era in taluni casi impregnata di
venature passatiste e antidemocratiche; dall’altra le componenti di
orientamento diciamo occidentale, ivi compresi i “pentiti” ex-comunisti che
avevano sperimentato direttamente la repressione sovietica.
Questa seconda tipologia prese forma anche per impulso di
organizzazioni militanti Usa come la Union of Democratic Americans (UDA) e
l’American Committee for Cultural Freedom (ACCF). Parallelamente ai congressi di
Polonia degli intellettuali antiamericani, nel 1950 si tenne a Berlino una
manifestazione che coinvolgeva uomini come Karl Jaspers, Benedetto Croce e
Bertrand Russell, e durante la quale fu approvato il “Manifesto agli Uomini
Liberi”. Nel 1951 venne fondato a Parigi il Congress of Cultural Freedom (CCF), di
area culturale democratica progressista.
Il modello “atlantico” di democrazia e sviluppo avrebbe provocato
reazioni complesse nell’intellighenzia di quei paesi di confine, come l’Italia,
sottoposti a pressioni sia degli Stati Uniti che dell’Unione Sovietica. Se da una
parte l’opposizione all’imperialismo americano trovava terreno fertile non solo
nella sinistra italiana, alcuni intellettuali come Ignazio Silone e Nicola
Chiaromonte, che pure avevano appartenuto alla sinistra militante antifascista,
si schierarono su posizioni decisamente “atlantiche”. Proprio quest’ultimo
pubblicò nel 1952 un saggio intitolato Il tempo della malafede, dedicato agli
intellettuali indipendenti che seguivano le direttive delle organizzazioni
comuniste, classificandoli come i più pericolosi nello scontro tra totalitarismo
comunista e le libertà:
C’è il comunista militante, persona seria benché intollerabile. C’è poi il comunista dilettante […]
il Partito comunista si giova anche, nei paesi un cui non è padrone dello Stato, dell’esistenza di
un’indisciplinata coorte di zelatori volenterosi, credenti a mezzo, a un quarto o a un decimo,
filocomunisti “fino a un certo punto” […] l’ortodossia comunista non può trovare migliore
ambiente che la testa di un intellettuale moderno. Mentre nel comunista militante, infatti, la
malafede essenziale dell’epoca nostra si presenta già duramente forgiata in un’arma di difesa e
di offesa, nel comunista dilettante, invece, essa si trova allo stato libero, e, per così dire, liquido
in una miscela umanamente torbida. 15
N. Chiaromonte, Il tempo della malafede, AILC (Associazione Italiana per la Libertà della
Cultura), n. 12, 1951.
15
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Lo sgretolamento dell’area della sinistra in precedenza raggruppata nel
Partito di Azione e l’appiattimento del PSI su posizioni subordinate rispetto il
PCI lasciavano poco spazio all’anticomunismo di sinistra. Dopo il 1956, tuttavia,
l’impressione di una polarizzazione fra due blocchi rappresentati dal modello
liberaldemocratico e da quello comunista sovietico sarebbe divenuta più
distinta. La repressione sovietica in Ungheria mostrava il volto dell’URSS poststalinista e la strategia del Congress for Cultural Freedom iniziava a riscuotere i
primi successi. Ciononostante si perpetuava l’impossibilità anche da parte Usa
di far prevalere la propria ideologia soltanto attraverso la sponsorizzazione e il
consenso.
Da lì a poco, ovvero durante tutti gli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta,
vari eventi fecero ripiombare le certezze ideologiche e gli allineamenti in forte
crisi. La Baia dei Porci, la morte di Kennedy, la fine del disgelo krusceviano e la
ripresa della tensione militare (e nucleare), l’intervento americano in Vietnam e
le ingerenze sul governo cileno, l’appoggio allo Stato di Israele nella guerra del
Kippur, sono tappe che rinfocolarono i movimenti di contestazione sia in
America che in Europa, come forse non si era mai visto.
Sostanzialmente si possono dunque individuare tre aspetti concreti
dell’antiamericanismo. Infatti, se a un primo sguardo l'antiamericanismo è
prettamente legato all’ideologia e a ciò che gli Stati Uniti rappresentano, alla
loro irruzione nella cultura europea e al contrasto delle élite del Vecchio Mondo
alla loro leadership totale, è altresì possibile fare una disamina
dell'antiamericanismo come stimolo al processo dell'integrazione europea,
contrapponendo la creazione di una società occidentale altra rispetto a quella
degli Stati Uniti.
Per la verità molto europeismo è stato alimentato dagli Usa stessi, specie
durante la Guerra Fredda, ma anche oltre. Tuttavia, un qualche blocco europeo
compatto avrebbe potuto essere l'unica via per contendere nuovamente le
redini della politica internazionale ai blocchi sovietici e a quelli d’oltreoceano.
Per questo è lecito avviarci a concludere questa prima introduzione al problema
supponendo che l’antiamericanismo abbia esercitato in passato ma che possa
anche tuttora esercitare una sua utile funzione “mobilizzatrice” per la
fondazione della nuova identità continentale.
Esso potrebbe servire, tra l’altro, anche per colmare quelle discrepanze di
legittimazione, facendo ricorso a riflessi ideologici che valgano sia per l’élite che
per altri importanti segmenti della popolazione, grazie ai quali certi problemi
strutturali evidenti, contraddizioni economiche e quel deficit di democrazia
nell’Unione Europea, potrebbero essere sospinti in secondo piano. In via
subordinata, una forma di aggregazione europea istituzionalmente stabile e
motivata sarebbe comunque in grado di temperare gli eccessi dirigistici che gli
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Usa, eventualmente sotto certe presidenze, o magari in momenti di crisi,
potrebbero essere tentati di imporre.
Sfortunatamente però, anche a livello sociale, l’idea di un’Europa in
qualche modo virtuosa e attenta agli interessi tanto suoi che della società
globale non fa i conti con l’altra Europa, cioè quella della ferrea e spesso
ipernazionalistica difesa degli interessi nazionali. O meglio, li ha anche fatti fin
troppo. Basti pensare alle esperienze europeistiche o di politica estera di un
Paese come la Francia, ma ormai anche come la Germania, che tentano di
garantirsi un posto di potere sostanzialmente nazionale nel panorama
paneuropeo.
Per non dire della politica britannica nell’arena euro-internazionale,
fondamentalmente guidata da interessi nazionali, come reso palese dai recenti
sviluppi referendari del governo conservatore. Tra l’altro, Markovits rileva che
se la Francia e la Gran Bretagna volessero qualcosa in più “di uno slogan
dimostrativo contro gli Stati Uniti”16, sicuramente avrebbero già ceduto il seggio
permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in cambio di un
seggio unitario per l’Europa.
Effettivamente il post-nazionalismo europeo così contrapposto all’ipernombrilisme degli Stati Uniti non rappresenta un progetto identitario effettivo e
reale. Un’ammissione fattuale arriva dal filosofo Jürgen Habermas, che nel suo
saggio Sulla Costituzione d’Europa, parla di una riscoperta dello stato-nazione in
Germania e analizza il percorso storico che ha portato Adenauer a lasciare:
alla Germania l’allineamento all’Occidente, Brandt la Ostpolitik, Schmidt l’apertura
all’economia mondiale e Kohl la riunificazione tedesca. Ma dal 2005 in poi i contorni
dell’europeismo tedesco si sono completamente liquefatti. 17
In linea di massima sembrerebbe che l’anti-americanismo resti comunque
ancorato ad alcune ideologie di destra o sinistra e a talune componenti delle
classi intellettuali. Quanto all’Italia, a differenza di altri Paesi europei,
l’antiamericanismo non ha attecchito fortemente nell’opinione pubblica. Per
contro, in tutti gli aspetti quotidiani delle società europee è ancora presente
un’America-dipendenza palpabile. L’attore americano, ad esempio, è ad ogni
modo osannato e sempre più presente nei media e nelle pubblicità, nonché
ospite immancabile sui red carpet nostrani. Anche il cinema, volendolo
considerare come una sorta di cartina di tornasole sociale, si serve spessissimo
di Hollywood quando vuole parlare in termini di perfezione.
Ibidem.
Tratto dall'articolo La Germania post-europeista di M. Faggioli, «Europa online», 6 Dicembre
2011.
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Singolarmente poi, stante la situazione politico-economica, ogni Paese
europeo, per quanto eccellente, ha difficoltà a trattare alla pari con gli Stati
Uniti: ogni paragone risulta insignificante. L’American way of life, dopo
l’unificazione dell’Occidente, si è evoluta in sorta di American Style, con cui si
dettano le mode e il trend. Un softpower che non vacilla, grazie soprattutto a
politiche lungimiranti governative, oltre che a un’effettiva mobilità intellettuale
e sociale che inietta nel mondo globalizzato le proprie idee culturali: il Pop e il
Rap, com’erano stati il Blues e il Jazz; il politically correct e il proprio concetto di
ordine politico globale, la spettacolarizzazione dell’esistenza e l’individualismo
competitivo, ma anche le politiche del lavoro innovative, le trasformazioni
dell’industria, le avanguardie informatiche, l’alimentazione fast (dal MacDonald
allo Starbucks).
A fronte di questi modelli non è possibile proporre un giudizio
assiologico. È inverosimile, oggi come in passato, relegare queste prospettive a
un discorso bene/male. Molto più saggio sarebbe semmai progettare, creare,
proporre, modificare e interpretare. L’opinione ulteriore secondo la quale gli
Stati Uniti sarebbero una nazione imperialista e divoratrice non ha mai avuto se
non parziale fondamento. Questo non solo perché proprio i Paesi europei
hanno dato il via all’imperialismo militare, ma anche perché il loro
comportamento nazionalistico e borioso ha portato, e porta tuttora, il malessere
esistenziale nel vecchio continente.
Un’Europa depauperata dalle sue stesse politiche di crescita
sproporzionata, sconfitta nelle sue brame espansionistiche e di controllo oggi
imputate agli Stati Uniti, dilaniata dalle sue rivalità intestine, questa è stata e
per certi aspetti resta la Storia europea. Eppure la presunta inferiorità culturale
americana è stata riproposta anche ultimamente da Horace Engdahl, segretario
permanente della giuria di Stoccolma per il Nobel, che nel 2008 ha dichiarato:
Tutti gli scrittori americani dovrebbero restare fuori dalla rosa dei candidati. Non sono
questi gli autori al centro del mondo letterario. Sono chiusi come un’isola e cedono alla
pressione della cultura di massa nei loro lavori. 18
L’élite sussiegosa non sembra considerare che, ancora oggi, la giovane
massa europea si raccoglie nelle sale dove è proiettato Tarantino esattamente
come si ammassava ai concerti dei Velvet Underground o alle mostre di Andy
Warhol, molto più che a quelle di Raffaello. Non sembra anche considerare che
l’American Style è divenuto simbolo di modernità e innovazione, che attrae le
nuove generazioni perché simbolo di una continua mutazione protesa al futuro.
http://www.cafebabel.it/cultura/articolo/nobel-della-letteratura-engdahl-critica-gli-usa-emagris-tra-i-favoriti.html.
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Nonostante certi sintomi presidenziali recentemente affacciatisi al di là
dell’Atlantico possano creare, diciamo così, qualche frizione, il discorso di
“mito” generazionale per l'America è ancora valido, e per ora questa Europa
non ne è un'alternativa.
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