Ricordo del Presidente di Bruno Corà Corà Negli anni del

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Ricordo del Presidente di Bruno Corà Corà Negli anni del
Ricordo del Presidente
di Bruno Corà
Corà Negli anni del dopoguerra e fino ad oggi, quali sono stati gli
strumenti interpretativi che hanno guidato la tua azione critica.
Battolini devo necessariamente darti qualche ragguaglio autobiografico
affinché tu possa renderti conto del come e del perché nel dopoguerra
ho scelto la critica d’arte come travail mentale (così venne definita al
“Rencontre internazionale de Génève” del 1954 cui ho partecipato
come spettatore e simpatizzante esterno dal movimento olivettiano di
Comunità). Nel 1941 e 1942, come studente della Facoltà di Lettere
dell’Università di Torino, ho assistito a tutte le lezioni della storica
dell’arte Anna Maria Brizio, cultrice in particolare dell’Ottocento. Malgrado si sia messa di traverso la
guerra nei due anni finali più tragici, (in particolare per me figlio di un fuoriuscito politico del 1925 in
Belgio e poi in Francia, a Parigi e Nizza), nel 1945 ho ripreso i contatti con l’Università. Come Assessore
con delega alla Cultura del Comune della Spezia nella prima amministrazione eletta a suffragio universale
nella storia d’Italia vengo incaricato dal Sindaco Dr. Osvaldo P. Prosperi e dal Vice Sindaco Avv. Agostino
Bronzi di partecipare alle riunioni del Premio Nazionale di Pittura “Golfo della Spezia” presso l’allora
E.P.T. Tale delega mi porta a conoscere in particolare Corrado Cagli, Carlo L. Ragghianti e Mario Valsecchi
(membri della Giuria nel 1949), i pittori Gian Carozzi, Armando Pizzinato, Ennio Morlotti, Giulio Turcato,
oltre a molti pittori liguri e toscani. Sono affascinato dalle tesi – pluraliste e non dogmatiche – del “Gruppo
dei Sette” capitanato da Vincenzo Frunzo e composto da Giacomo Porzano, Carlo Giovannoni, Bruno
Guaschino, Gino Bellani, dal già citato Gian Carozzi e da Guglielmo Carro. Il primo minicatalogo (27
dicembre 1948) porta la firma, come presentatore, di Furio Bonessio di Terzet, giornalista de “La
Gazzetta”, cui debbo l’incarico, come giornalista iscritto all’Ordine nell’”elenco speciale”, di occuparmi
d’arte per la testata livornese.
Mi chiedi quali strumenti interpretativi ho adottato: ebbene, tra gli ultimi anni quaranta ed i primi anni
cinquanta, quando inizia quella che Balmas chiama la mia militanza, non potevano non suscitare in me
interesse e passione frasi come quella che Bonessio scriveva nella prefazione alla mostra del “Gruppo dei
Sette”: “soprattutto è in noi potente lo stimolo intellettuale e fisico di superare gli slogans dell’arte per
l’arte, della torre d’avorio, dell’arte come forma, dell’arte come sostanza”. Altre frasi vanno sottolineate di
quell’infuocata prefazione: “la nostra arte non è documento ma è testo”; “ci incanta l’avvenimento”; il
problema “per noi è raggiungere quello stato di felicità espressiva che fa della sostanza una forma e
viceversa”.
Ricordo di aver seguito – e da ognuno aver assunto elementi di libera valutazione- la rivista “Numero”
(con il manifesto “oltre Guernica”), di aver letto – direi in uno stato d’animo fra preoccupazione ed
entusiasmo – il “Manifesto bianco” (quello redatto da Arias, Cazeneuve e Fridman), di aver avuto il
primo contatto con Renato Birolli allora uno dei fondatori della Nuova Secessione Artistica italiana.
Per la prima volta in vita mia posso vedere da vicino, a Milano nel 1947, a Palazzo Reale, alla “Mostra
Internazionale d’arte astratta e concreta” opere di Kandinskij, Klee, Arp, Radice, Veronesi, Dorfles,
Vantongerloo. E sempre per la prima volta vedo opere, nel ’48 ( a Roma, nell’ambito della mostra
“Arte astratta in Italia”) di Magnelli, Reggiani e Atanasio Soldati: una mostra indimenticabile, come
indimenticabile è stata per me la visita alla Collezione Peggy Guggenheim alla XXIV Biennale di
Venezia. Tramite gli amici Enrico Paulucci e Sandro Cerchi conosco Giulio Carlo Argan; rimango
affascinato – se non ricordo male nel ’49 – dalla visione della “cartella d’arte concreta” di Afro,
presentata alla Libreria Salto di Milano.
Mi scuso per queste citazioni-ricordo ma vi sono stato costretto per rispondere meglio alla tua
domanda. Gli strumenti interpretativi non erano ancora chiari in me, non ho difficoltà a confessarlo: mi
sentivo un viandante in arte, per di più “disincantato”. Non a caso sono stati, in quegli anni convulsi e
pur affascinanti, per me punti di riferimento Marcello Venturoli – la nostra si può ben definire
un’amicizia – e Giuliano Briganti: di quest’ultimo ricordo di aver letto più volte i suoi succosi saggi su
Magritte, Cornell, Pollock, Nicolas de Stael, Kounellis (con Paolini a confronto) e Calder. Per
concludere, ti dirò che guardavo, ad ogni approccio verso opere per me inedite, sempre più avanti verso
le problematiche e verso gli esiti compositivi degli astrattisti, sia lirici che geometrici. In seguito vi
sono stati approfondimenti, rivisitazioni, nuovi rapporti a vari gradi d’intensità, sicuramente ho
acquistato maggiore sicurezza e ho imparato a fare più oculate scelte; insomma mi sono conquistato sul
campo quelli che tu definisci “strumenti interpretativi” ma è rimasta l’impronta prima, diciamo quel
nucleo fondante, fatto d’intuizioni primarie, di esegesi limpida e costruttiva, di letture sempre più
idonee a rivelare il progetto dell’artista, e anche – perché no – di ansia di nuove scoperte. È proprio
quel nucleo fondante dei miei strumenti interpretativi che mi ha consentito di non farmi imbrigliare in
schemi preconfezionati; davanti ad ogni opera “scatta” un’interpretazione ad hoc che va ben oltre i
moduli convenzionali che possono valere per quel che sono, cioè strumenti. E poi, di fronte a nuovi
linguaggi, anche gli strumenti necessariamente si evolvono e si ristrutturano di continuo.
Corà Ben oltre il dibattito astrazione-figurazione quale problematica tenevi in considerazione per
orientarti in quegli anni difficili per la ricostruzione culturale del Paese?
Battolini la problematica fondante per orientarmi in quegli anni difficili era l’importanza – dico ancor
meglio la superiorità – dell’etica in ogni manifestazione creativa ed espressiva, sulla scia di un dialogo
diuturno e viscerale con la società in evoluzione. Tale atteggiamento era la conseguenza logica – ancor
oggi per me ineludibile – dell’assimilazione del pensiero di Augusto Monti, di Piero Gobetti e dei
fratelli Rosselli (le riviste che ho letto con grande convinzione sono state “Rivoluzione Liberale” e
“Giustizia e Libertà” ove non mancavano saggi culturali ch’io ritengo di estrema attualità). Quando non
rilevavo la presenza di valori morali “attivi” (non intendo moralismi aprioristici o “inattivi”) non mi
cimentavo in giudizi critici d’ordine estetico. Posizione, la mia allora, forse estrema, ma in linea con la
voluttà di dare concretezza a grandi ideali, a nobili aspirazioni.
Corà Vi sono stati degli artisti che in un orizzonte nazionale e internazionale hanno costituito per te
punti di riferimento formativo per la tua formazione estetica negli anni Cinquanta?
Battolini Qualche nome l’ho fatto già in risposta alla tua prima domanda: comunque i miei entusiasmi
giovanili erano orientati verso Matisse, Afro, Birolli, Kandinskij, Mondrian, Klee, i Fauves e verso gli
espressionisti europei (per quest’ultimi entrava in forze anche la mia avversione verso tutti i
totalitarismi e in particolare verso il nazismo). Fra i critici e storici dell’arte ho letto più volte i saggi di
Ranuccio Bianchi Bandinelli e di Cesare Brandi. Ricordo in particolare i loro corposi, illuminati
volumi, del 1956, intitolati “Organicità e astrazione” e “Arcadio o della Scultura”.
Corà Ve n’è stato qualcuno che, presente sul territorio, abbia costituito un eguale stimolo e un pungolo
da non potersi ignorare?
Battolini Sinceramente no. Fra gli artisti delle generazioni precedenti la mia, gli unici con cui è
risultato possibile fare discussioni d’ordine estetico sono stati Amilcare Bia (pittore che aveva studiato
a Firenze e Parma e aveva assimilato, giovanissimo, i dettami del paesaggista sanpietroburghese Klever
e aveva visto molte sale dell’Hermitage) e Giacomo Linari (pittore dai silenzi spirituali, di mari “ultimo
Monet” e di eccezionali volti del Cristo). Fra i coetanei ho seguito e ammirato l’opera di Gian Carozzi
che opererà poi – dopo l’esperienza del “Gruppo dei Sette” – a Milano e quindi a Parigi.
Corà Nel dibattito tra arte e impegno degli anni di “Forma1” (1947) come orientavi i tuoi strumenti in
relazione alle incomprensioni oggettive che le organizzazioni politiche delle sinistra mostravano verso
nuovi pronunciamenti linguistici lontani da realismo e neocubismo?
Battolini Nel dibattito fra arte e impegno degli anni di “Forma1” sono sempre intervenuto respingendo
l’appiattimento dell’impulso artistico sulle direttive partitiche. Già sposavo più di una tesi esposta, per
esempio, a Milano da Max Bill e da Max Huber (1947), come ero attratto dal coraggio e dalla nitidezza
del Primo Manifesto dello Spazialismo. Più di una critica negativa e/o discriminatoria ho subìto quando
ho esposto, in un circolo culturale cittadino, sempre nel ’47 (nell’àmbito di uno dei tanti dibattiti fra
politica e cultura) la mia non totale ma significativa approvazione dei messaggi provenienti dalla
mostra del gruppo “Forma1” all’Art Club di Roma, nonché il mio entusiasmo per la personale, sempre
a Roma, alla Galleria La Palma, di Corrado Cagli presentato da Massimo Bontempelli e Antonello
Trombadori. Per dirla in linguaggio calcistico sono sempre stato un battitore libero, estraneo
istintivamente e consapevolmente a schemi e direttive. Diciamo pure che sono sempre stato – e lo sono
tuttora – un libertario curioso e tollerante.
Corà Quali erano sul territorio le ripercussioni di quelle antinomie e di quei contrasti?
Battolini Direi che le polemiche nazionali sul rapporto tra arte e impegno hanno avuto ripercussioni,
sul territorio, non sul momento. I nuovi talenti avevano come data di nascita gli inizi degli anni
Quaranta per cui i loro nuovi linguaggi si appalesano negli anni Sessanta. Mostrano di essere al
corrente delle diverse dispute ma le caratterizzazioni dei confronti e le determinazioni ideologicoestetiche (“le dichiarazioni di poetica”) sono già diverse e diversamente impostate. Molti giovani artisti
– alcuni anche militanti della sinistra – contestano i tentativi più rozzi di dare alla parola “impegno” un
senso disciplinare e/o conformistico. Percorrono le loro strade autonomamente pur dando vita a gruppi,
a luoghi d’incontro, a gallerie, insomma a momenti solidali (ne sono prova le molte cartelle litografiche
e serigrafiche ove affrontano – ognuno con il proprio modulo compositivo – temi importanti e
cogenti.La storia di quegli anni, sia per gli artisti già sulla breccia nell’immediato dopoguerra sia per i
ventenni della prima metà degli anni Sessanta, andrebbe fatta. Le documentazioni esistono. Si
capirebbe meglio perché La Spezia è una città atta proprio ad avere – come finalmente ha – un
importante Centro d’arte moderna e contemporanea. Voglio dire che era già allora una città
artisticamente “aperta”.
Corà Che peso ha avuto nella tua esperienza critica “l’informel”?
Battolini L’informale, come l’astrattismo (sia quello lirico che quello geometrico, diciamo tra Afro e
Reggiani) sono sempre stati i movimenti che mi hanno appassionato e che hanno influito, debbo dirlo,
anche sulle modificazioni evolutive (agli altri il giudizio) del mio linguaggio critico. Ricordo d’aver
digerito d’emblai il “Manifesto dell’astrattismo classico” redatto da Ermanno Migliorini (1950), di
essermi schierato con Birolli e gli altri quando viene allo scoperto il “grande scontro” all’interno del
Fronte Nuovo delle Arti: è l’anno quello in cui, alla Biennale di Venezia, vengono esposte le prime
“Amalassunte”di Licini. Nel ’51 corro a vedere, alla G.A.M. romana, la mostra “Arte concreta e
astratta in Italia” (e qui scopro meglio i valori ideativi di Dorazio, Scroppo, Galvano, Nativi, Vedova,
di alcuni artisti di Forma 1, di Cagli e Dova). Come ben tu sai, prima di arrivare all’informale di casa
nostra, altre esperienze si sono manifestate: la “pittura nucleare”, il “movimento spaziale” (tra i
firmatari l’amico Gian Carozzi), la mostra del ’54 a Milano “Il segno e la parola” (e lì mi
entusiasmarono Appel, Jorn e Corneille), la mostra “Il gesto” del ’55, il manifesto “Per la scoperta di
una zona d’immagine”firmato tra gli altri da Manzoni e Giuseppe Zecca, il manifesto”Contro lo stile”
con mostre in cui espongono, tra gli altri, artisti che avrei voluto – condizioni finanziarie personali
permettendo – nella mia Collezione, come Hundertwasser, Klein, i due Pomodoro e Saura. Prima di
arrivare a quello che io definisco “informale vero” non posso non ricordare il “Manifeste de Naples”
(polemica fra astrattisti e nucleari del Gruppo ’58) firmato peraltro da due poeti autentici quali
Balestrini ed Edoardo Sanguineti. E soprattutto come non ricordare la scomparsa di un amico con cui
ho affettuosamente “litigato”, incontrandoci poi sulla maggior parte dei valori di fondo: intendo
riferirmi a Renato Birolli. Di quel periodo già sono storicizzati la seconda edizione di “Documenta” di
Kassel, la mostra “Vitalità nell’arte” a Palazzo Grassi di Venezia (ove, oltre a quelli del gruppo CoBra
scopro da vicino le opere di Pollock, Dubuffet e Tàpies), la nascita del “Gruppo N”, l’azione propulsiva
della Galleria Azimut e della Galleria Pater (“Miriorama” e il “Gruppo T”), la rassegna “BewogenBeweging” di Amsterdam (comprendente anche i gruppi italiani di arte cinetica e visuale), la rassegna
“Arte programmata” curata da Munari e Giorgio Soavi. Ho voluto dirti quanto ho “ricercato” prima di
giungere all’assimilazione del nucleo teoretico-compositivo dell’Informale: quando vi sono giunto ho
anche osato. Un esempio soltanto, documentato: ho presentato, nel ’63, a Palazzo Strozzi in Firenze, il
partenopeo Domenico Spinosa con pezzi tutti informali; ti assicuro che sono stati giorni duri, sofferti.
Un merito però Domenico ed io ce lo riserviamo: verso la fine della mostra uscirono dai loro ateliers un
bel gruppo di artisti fiorentini portando con sé un bel pubblico: fu una mostra, infine, di positiva
rottura.
Tra gli informali ho sempre particolarmente ammirato – oltre a Dubuffet, Fautrier e al grande Wols (su
quest’ultimo ho anche scritto una critica in versi), Hartung, Mathieu e ovviamente un certo Burri.
Infine mi piace ricordare un altro grande amico, Guido Ballo, cui devo una spiegazione chiara ed
importante dell’Informale: “non è una corrente precisa, è un clima , in cui rientrano diverse correnti,
quasi sempre non figurative”. Ho dissentito, per carità con tutta umiltà e tanto rispetto, da Argan
quando affermava che con l’Informale si insedia una “poetica dell’incomunicabilità”. Per me (e il
giudizio qui non può che essere ultrarelativo) l’Informale non soltanto comunica e coinvolge ma è
anche una delle tante prove della necessità imprescindibile che in arte hanno diritto di cittadinanza,
onoraria e quotidiana, le più libere immaginazioni ed i più spregiudicati pluralismi.
Corà Balla – se si esclude l’attenzione riservatagli da pochi artisti come Colla e Burri e Dorazio –
muore a Roma nel ’56 nell’indifferenza pressoché generale della cultura provinciale italiana; De
Chirico già vi soggiornava abbastanza ignorato. Quali erano in quegli anni le tue valutazioni del
fenomeno futurista o di metafisica? (Morandi)
Battolini Intanto desidero ricordare che nel 1933 Marinetti e Fillia danno vita alla prima edizione del
Premio Nazionale di Pittura “Golfo della Spezia” targato futurismo in cui si rende omaggio, tra gli altri,
soprattutto a Balla e Boccioni. Posso poi testimoniare che nel 1949, a Lerici, alla riedizione del
“Premio del Golfo” si riparla pubblicamente dei futuristi, particolarmente di Balla (in quell’anno
emerge Gerardo Dottori con un’”Aurora sul Golfo”).
In quegli anni alla Spezia non si sono mai dimenticati – se pur da una minoranza di cui mi onoro di
aver fatto parte – artisti come Balla e De Chirico: di quest’ultimo nell’88 sarà organizzata una
splendida personale. Per quanto riguarda Morandi è catalogato, nell’Archivio di “Arteelibertà”, un
estratto della rivista svizzera “Cenobio” (di cui sono stato corrispondente per l’Italia insieme al
notissimo scrittore Piero Chiara) in cui considero l’artista felsineo non soltanto un maestro indiscusso
ma ne metto in rilievo – segnatamente nelle nature morte – il concetto di “umanità”. Ho anche la
fortuna di avere, nell’epistolario depositato alla “Biblioteca Civica Beghi” della Spezia due lettere di
Morandi e una minuta “tormentata”, sempre a me indirizzata, ritrovata da Marilena Pasquali e citata nel
catalogo delle mostra morandiana da lei organizzata ad Ischia. Colgo l’occasione, siccome citi Burri a
proposito di Balla, per dirti che qualche tentativo di ingerenza politica negativa l’ho subìto (per la
verità subito rientrato e comunque da me rintuzzato) quando ho scritto positivamente, sulla rivista “Il
Ponte” di Firenze – diretto allora da Enzo Enriquez Agnoletti -della mostra “Alternative attuali”
dell’Aquila progettata da Enrico Crispolti, mostra in cui si rendeva un omaggio a Burri con
un’importante personale. Dimenticavo di dirti che sulla citata rivista luganese “Cenobio” (nn.11-12
novembre-dicembre 1959) c’è una mia recensione del volume “Carrà-Modigliani e l’arte dopo il 1945”
(vedi pagina 19 del volume bibliografico “Tra memoria e progetto”).
Corà Come reagisci negli anni ’60 alle ondate pop, optical, all’arte cinetica e programmata, insomma
al sovvertimento della pittura come esercizio filosofico, per un’arte intrisa invece di pubblicità, di
tecnologia, di pattern visivi inediti?
Battolini Intanto – malgrado la nostra amicizia sia recente – avrai compreso che non sono né un
conformista e tanto meno un conservatore. Domanda la tua, comunque (come si usa dire oggi) da un
milione di dollari, o di euro. Tuttavia una risposta te la devo, in modo semplice e chiaro. Mi permetto
qui di sottolineare la mia disponibilità al dialogo in arte, che è – per quanto mi riguarda almeno – un
autodogma, una forma di autocoscienza, una parte fondamentale della mia etica di critico d’arte ancora
in progress. E poi ho sempre fermato la mia attenzione sui movimenti d’opinione: sul “Manifesto
realista”, ad esempio, di Gabo e Pesner nel 1920, quando veniva associata l’arte cinetica al problema
del “dinamismo”. E come non ricordare di aver provato un grande interesse per il “Manifesto giallo” in
cui si dava conto, a Parigi, nella metà degli anni Cinquanta, di una definizione inedita e tutt’altro che
facile come “plastica cinetica”. E ancora: ancor oggi sono affascinato dalle parole di Munari ed Eco
sull’arte cinetica: “un genere di arte plastica in cui il movimento delle forme, dei colori e dei piani è il
mezzo per ottenere un insieme notevole”. Lo scopo dell’arte cinetica – concludono Munari ed Eco –
non è quello di “ottenere una composizione fissa e definita” (cioè vogliono affermare, anche qui,
l’intento estetico dell’opera “aperta”). Ho scritto a suo tempo brevi note giornalistiche – mi piace
rimarcarlo – su Vasarely e Maestrovic, in anni in cui questi due artisti erano dai più ignorati. Circa
l’”arte povera” (definizione usata non correttamente da molti mobilieri) non posso non concordare con
Celant soprattutto quando parla di “strutture primarie”, che però, a mio modesto avviso, non devono
puntare a forme di “deculturazione” ma fermarsi semmai a sollecitazioni di natura prelogica e/o ad una
maggiore attrazione a comportamenti elementari e spontanei. Comunque, per concludere su questa tua
domanda, la mia reazione alle varie “ondate” che puntavano al sovvertimento della pittura intesa “come
esercizio filosofico”, è stata, ed è tuttora, improntata ad atteggiamenti di disponibilità solidale,
controllata eticamente e ad un tempo culturalmente molto “liberal”.
Corà Quale, delle nuove avanguardie dal ’60 in poi, hanno raccolto il tuo particolare interesse? Dal
Nouveau Realisme all’Arte povera, dall’arte concettuale al minimalismo, dalla Body Art al Fluxus, in
quale di queste tendenze hai fatto riconvergere i tuoi strumenti di lettura con più intensità.
Battolini Fra le nuove avanguardie dal ’60 in poi hanno raccolto il mio particolare interesse il
“Nouveau Realisme” e Fluxus e una parte di Arte Concettuale nelle sue prime apparizioni (oggi mi
pare ripetitiva e un po’ senza fiato). Il “Nouveau Realisme” mi ha “preso” grazie alle autorevoli
considerazioni estetiche di Pierre Restany (ricordo il suo manifesto del ’60) e di Gillo Dorfles.
Soprattutto mi hanno convinto le considerazioni di Restany quando afferma che il suo proposito è
quello di traguardare meglio “l’appassionante avventura del reale, percepito in sé e non attraverso il
prisma della trascrizione concettuale o immaginativa”. Gli artisti che più mi interessano sono Arman,
César, Rotella, Klein (di cui ho visto e apprezzato la mostra al “Pecci”) e ovviamente Tinguely, il
primo Tinguely per essere preciso e onesto.
Corà Rispetto agli episodi linguistici di maggior rilievo quale lente critica hai usato per fare la tua
“professione”?
Battolini Rispetto agli episodi linguistici (la parola “episodi” è tua) di maggior rilievo, la lente critica
per esercitare la mia militanza critica (non la chiamerei proprio professione) devo necessariamente
ripetermi: sono un pluralista tollerante e curioso, entusiasta cum iudicio.
Corà Se dovessi stilare un ideale elenco di gruppi e di singole personalità che – a tuo avviso –
costituiscono i riferimenti ineludibili della vicenda artistica relativa al territorio da te indagato e
percorso, chi vi figurerebbe e perché?
Battolini Mi chiedi di stilare un elenco di gruppi e singole personalità che hanno contribuito a dare alla
mia attività di “critico in provincia” un significato ed una caratterizzazione, e lo faccio volentieri anche
se non posso e non voglio stabilire una graduatoria, sempre per essere fedele al principio del pluralismo
che mi sta veramente a cuore. Il “Gruppo dei Sette” è stato il mio primo punto di riferimento (se
Sauvage lo ha inserito nel volume “Pittura italiana del dopoguerra” in Edizioni Schwarz ci sarà pure un
motivo). Successivamente mi hanno interessato, chi direttamente (frequentando gli studi e vedendoli
operare) e chi indirettamente, i pittori Amilcare Bia (parmigiano di nascita) e Agostino Fossati (sta
trascorrendo colpevolmente, senza alcun ricordo concreto, il centenario della morte, 1904), lo scultore
carrarino-sarzanese Carlo Fontana, Gio Batta Valle, il felsineo-bonassolese Antonio Discovolo, Renato
Birolli (che considero rivierasco “honoris causa” anche per i suoi “Incendi nelle Cinque Terre”); Pietro
Livolsi, Giancarlo Calcagno e Mauro Fabiani, Giuseppe U. Caselli (espressionista mediterraneo, per il
suo ciclo di lavori realizzati nel campo di concentramento di Mauthausen durante la “prima” guerra
mondiale, accanto a Egon Schiele), gli scultori Enrico Carmassi (morto a Castellamonte direttore di
quell’importante Istituto d’Arte), Sandro Cherchi (spezzino “honoris causa” e grande amico), Angiolo
Del Santo (collaboratore di Leonardo Bistolfi). Vengono poi gli xilografi de “L’Eroica” Emilio
Mantelli e Francesco Gamba, Giovanni Governato (le sue opere sono depositate a Villa Croce in
Genova), l’astrattista ante litteram Mario Hunter Podenzana, Pino Saturno, Maria Questa, Pietro Rosa.
Potrei continuare, poiché questa città ha davvero un patrimonio creativo, nelle arti visive, da
valorizzare comm’il faut. Penso che il CAMeC potrebbe trovare in questo parziale elenco materiali per
un rapporto ravvicinato, storico-culturale ed umano, con la città. Molti dei nomi che ho fatto sono –
non è soltanto un mio parere – da esportare, da far uscire dalla ristretta “cinta daziaria”.
Corà Vi sono stati autentici compagni di strada non solo artistica ma anche letterati, poeti, ideologi con
cui ti identifichi e/o identifichi la tua generazione culturale?
Battolini Senz’altro vi sono stati “compagni di strada” che non hanno mai tradito il patto di amicizia
culturale e di comunanza etica. Ne cito alcuni, senza fare anche in questo caso graduatorie: i critici e/o
storici dell’arte Carlo L. Raggianti, Marco Valsecchi, Enrico Crispolti, Marcello Venturoli con i quali
sono stato a lungo in corrispondenza epistolare, il giornalista Furio Bonessio di Terzet che mi ha
letteralmente “spinto” nell’agone della militanza artistica; i pittori Renato Birolli, Enrico Paulucci,
Emilio Scanavino, Domenico Spinosa, Carlo Montarsolo con i quali ho avuto un lungo sodalizio
amicale così com’è stato, ancor più fondante, con lo scultore Sandro Cherchi. E poi ancora i letterati
Stefano Verdino, Luciano Cherchi, gli italianisti dell’University College di Cardiff Rhys e Frederic
Jones. E non dimentico certamente personaggi della cultura, e della politica con la P maiuscola, come
Tristano Codignola, Alessandro Galante Garrone (tramite l’Istituto di Storia Contemporanea di cui
sono stato Direttore e Presidente per vari lustri), Franco Antonicelli. Molti altri importanti personaggi
potrei ricordare ( ideologi, pensatori, poeti) ma non posso considerarli veri e propri compagni di strada;
mi vengono in mente i nomi di molti scrittori che negli anni Settanta-Ottanta erano stati chiamati (in
largo anticipo su analoghe, posteriori, iniziative similari) per gli “Incontri con l’Autore” al Centro
Allende della Spezia: Alberto Bevilacqua, Folco Quilici, Nanni Loy, Gianni Brera, Oreste Del Buono e
Lietta Tornabuoni, Davide Lajolo, per ricordarne alcuni.
Corà La tua attività artistica ha traguardato continuamente le esperienze di diretto accesso ad autori
viventi sul territorio e personalità di respiro nazionale ed internazionale. Dove e come hai cercato di
congiungere le due riflessioni?
Battolini Non ho trovato alcuna difficoltà a congiungere le due riflessioni sia perché alcuni autori
operanti nel territorio meritavano, a mio avviso, una place nazionale (alcuni anche internazionale) e poi
perché, partecipando a molte giurie di premi importanti soprattutto negli anni Sessanta-Settanta, ho
avuto occasione di trovare artisti locali vicini ad altri collocati dalla critica in dimensione nazionale ed
europea. Molte sono – come puoi constatare consultando l’Archivio di “Arteelibertà” – le personali o
collettive di artisti di altre regioni (ed anche stranieri) alla Galleria Adel e soprattutto al Centro
Allende, inaugurato quest’ultimo come sala espositiva nell’anno 1975. Come responsabile dei Servizi
culturali del Comune della Spezia, con la consulenza di una Commissione Arti Visive molto
rappresentativa, ho organizzato molte mostre importanti; te ne cito soltanto alcune: la “Cooperarte”,
Carlo Ramous, Matta (con l’Autoapocalipse), Coop 77 Arti Visive, Edo Murtic, Renato Birolli, (Le
Cinque Terre. I disegni della Resistenza), Armando Pizzinato, Mirko Basaldella (Antologica dal 1936
al 1969), Orfeo Tamburi (“Il mio Teatro”), Antonio Discovolo (Antologica), Mauro Reggiani, Gian
Carozzi, Gualtiero Nativi. Ti posso assicurare che il mio approccio alle opere degli uni e degli altri è
sempre stato guidato dalla mia etica professionale, senza mai cadere nella trappola delle predilezioni
aprioristiche o delle amplificazioni di marca provinciale.
Corà Il problema del tuo Archivio riflette il coinvolgimento diretto nelle vicende degli ultimi 50 anni
in Liguria e soprattutto oltre la regione di riferimento anagrafico. Quali pensi che dovrebbero essere i
modi corretti per farne uso?
Battolini Circa il mio epistolario e l’Archivio ad esso collegato è ovvia – avendoli legati alla
Donazione – la mia disponibilità a farli usare, purché si tratti di ricerche svolte da colleghi studiosi o da
responsabili di dipartimenti universitari di storia dell’arte moderna o contemporanea. E’ anche ovvio,
mi pare, ch’io auspichi una pubblicazione ove abbia posto possibilmente anche una mia testimonianza.
Corà E’ stato ricordato il valore dell’emozionalità nella tua attività critica. Quale valore ammetti
all’emozione considerando che Cocteau ha scritto “amo la regola che corregge l’emozione”?
Battolini Ti ringrazio per aver sottolineato il valore dell’emozionalità nella mia attività
critica.Certamente l’emozione ha un valore primario, ma non può essere l’unico, cioè non è soltanto
quello status psicologico-mentale derivante dal “pathos” e/o quello dall’”affectus”. Mi sovvengono le
affermazioni del futurista Boccioni ove afferma che “è l’emozione che dà la misura, frena l’analisi,
legittima l’arbitrio e crea dinamismo.” Tuttavia io oso differenziarmi in parte dal pensiero di Boccioni:
l’emozione, a mio parere, (ed è il titolo di un mio libro di saggi, ahimè esaurito), non può fare ameno
della conoscenza, intesa quest’ultima come “analisi delle condizioni e dei limiti di validità dei
procedimenti d’indagine e degli strumenti linguistici (Abbagnano docet). Peraltro sono convinto che
ogni attività conoscitiva porta con sé, sempre, un’esigenza d’ordine emozionale.
Corà Dove finisce – a tuo parere – la militanza critica e dove inizia la riflessione storica?
Battolini Mi ha ben compreso Paolo Balmas quando dice che le due esperienze – quella del critico
militante e quella della riflessione storica – non sono così separabili. Ho sempre parlato, e continuo a
parlare molto con gli artisti, esigendo di visitare – prima ch’io rediga una presentazione – i loro studi,
cercando con pignoleria di scandagliare nelle loro intuizioni iniziali, di discutere di fronte ad ogni
singola opera concordando con l’autore – ove occorra, ovviamente (e comunque quando ne ho capito
scopi e tensioni) – il titolo più appropriato inaugurando talvolta persino delle “serie”. Quando poi passo
a trasformare gli appunti in presentazioni o saggi o articoli, ciò che scrivo attiene inevitabilmente al
“lavoro” del militante e all’analisi della storia dell’uomo-artista e delle sue opere nel loro farsi ed
evolversi. Operando con questo metodo, riferimenti ad artisti o a movimenti del passato, più o meno
recente, avvengono spontaneamente: così la mia è una militanza nel presente ed è insieme una
riflessione storica.
Corà Come coniughi l’interpretazione delle tensioni con l’analisi dell’invenzione linguistica?
Battolini Se un linguaggio viene analizzato con serietà e scrupolo etico-estetico, ascoltando l’artista ed
entrando con lui in empatia, le tensioni si esplicano immediatamente e con chiarezza. A quel punto sta
a me dare sistemazione al tutto, chiarendo il percorso e le caratterizzazioni formali espressive delle
opere, cioè quella che tu hai chiamato intelligentemente “invenzione linguistica”, sempre, sia chiaro,
nel rispetto della libertà dell’artista o, se preferisci, del rapporto fondante arte-libertà.
Corà Se dovessi infine definire le ragioni profonde dell’attività di critico d’arte si può davvero
presumere che l’artista non sia in grado da solo di collegare il proprio lavoro con la storia?
Battolini Non credo che gli artisti – ovviamente quelli preparati ed autentici – non siano in grado da
soli di collegare il proprio lavoro con la storia. Ci mancherebbe altro! Però l’esperienza mi suggerisce
che anche i più autopropositivi hanno sempre accettato suggerimenti e sollecitazioni a confrontarsi con
la storia dell’arte presente e passata, oltre che con la storia dell’uomo a più dimensioni. Quindi
considero l’opera di un critico militante un contributo – modesto senz’altro ma necessario se offerto
con onestà intellettuale e senso morale – all’evolversi del linguaggio, spesso dei linguaggi, dell’artista.
Corà Qual è stata la metodologia critica da te adottata durante tutti gli anni della tua attività
professionale?
Battolini In parte a questa domanda ho già risposto. Comunque mi permetto di risottolineare che non si
tratta di una metodologia critica condizionata da schemi e da sovrastrutture pseudo-estetiche. Mi
accosto ad ogni forma d’arte visiva (pittura, scultura, grafica, fotografia e oltre) con libertaria
disponibilità, considerando ogni “espressione”un contributo all’evoluzione dei linguaggi, a quelle che
Dorfles chiamò anche le “oscillazioni del gusto”. Quindi cerco di trasformare i dialoghi che ne
conseguono in “comunicazioni” chiare ed oneste, senza nascondimenti e ruffianerie. Solitamente
indico, nelle presentazioni, le strade che l’artista ha percorso per arrivare al linguaggio più recente
ch’io mi sforzo di analizzare, non all’esterno di concezioni preconfezionate ma all’interno del processo
stesso dell’ideazione. Sino ad oggi mi pare d’essere riuscito ad entrare in diversi nuclei e strutture della
visualità, forse anche grazie alla mia profonda convinzione che l’arte è in incessante evoluzione. Mi
vedo ben collocato ancora da Paolo Balmas (in “Diario di un critico”) ove parla del mio “lavoro” e
della mia metodologia, lavoro e metodologia che si esplicano coniugando “individuo e sistema” e ad un
tempo collegando le intuizioni primarie alle variazioni linguistiche inevitabili. Vorrei concludere
richiamando alcuni pensieri del grande Kandinskij, pensieri che condivido pienamente e che ho a suo
tempo (nel periodo della rivista “Nuove Dimensioni” da me diretta dal 1961 al 1964) espresso in
parallelo. L’arte cioè non è esaltazione o indagine scientifica dell’immagine che si ha del reale, ma
svolgimento libero dell’esperienza visiva. La funzione poi della critica d’arte è di difendere il perdurare
della qualità nel mondo della quantità. Ma c’è una frase di Kandinskij con cui mi piace concludere: il
colore è un mezzo per influenzare direttamente l’anima. Il colore è il tasto, l’occhio è il martelletto.
L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa
vibrare l’anima. Sono parole importanti, certamente fra le più significative del secolo XX. Sono ad un
tempo consolatorie e orientative e portano con sé, nel segno dell’armonizzazione, il culto dell’estro e
della più spericolata quanto responsabile immaginazione.