Rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un agente della forza

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Rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un agente della forza
Rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un agente della forza pubblica
Vi rientra anche l'appartenente alla polizia municipale
di Vincenzo Strippoli (*)
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Ipotesi di lavoro:
1. Il Comandante la Polizia Municipale dispone con ordine di servizio che i viabilisti operanti nel centro cittadino
debbano svolgere singolarmente il loro servizio, ognuno nella zona assegnata. Due vigili, senza darne
comunicazione ai superiori, svolgono servizio in coppia in due zone contigue.
2. Una pattuglia è incaricata di eseguire un trattamento sanitario obbligatorio a carico di un soggetto malato di
mente, disposto con ordinanza del Sindaco. Ritrovatolo in un bar, gli agenti si avvedono che si tratta di un
energumeno e, per evitare di affrontarlo, si mettono d’accordo di riferire che le ricerche non hanno dato esito.
3. Il Sindaco di un Comune emana una direttiva rivolta al Responsabile del Servizio di Polizia Municipale,
secondo la quale, nei confronti dei veicoli rinvenuti in sosta vietata, si prenda nota della targa e si lasci un
avviso di cortesia che invita a non ripetere l’infrazione, per non incorrere nella sanzione di legge. Il
Responsabile del Servizio rifiuta di dare istruzioni in tal senso ai propri subalterni.
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Sentenza Cass. Sez VI n. 5393 del 13 ottobre 2005, dep. 13 febbraio 2006:
“Tra i soggetti attivi nel reato di cui all'articolo 329 c. p.(rifiuto o ritardo di obbedienza commesso
da un militare o da un agente della forza pubblica) sono da ricomprendere, quali agenti della forza
pubblica, anche gli appartenenti alla polizia municipale.”
A norma dell’art. 329 c. p., “il militare o l’agente della forza pubblica, il quale rifiuta o ritarda
indebitamente di eseguire una richiesta fattagli dall'Autorità competente nelle forme stabilite dalla
legge, è punito con la reclusione fino a due anni”.
Il reato è collocato nel codice penale al titolo secondo, tra i delitti, e più specificamente tra i delitti
contro la pubblica amministrazione. È pertanto un reato c. d. proprio, ossia commissibile soltanto
per opera di un soggetto qualificato, indicato dalla stessa norma: in questo caso, un militare o un
agente della forza pubblica. In quest'ultima categoria sono da ricomprendere tutti quegli organismi
pubblici non militarizzati i cui dipendenti sono investiti di potestà di coercizione diretta su persone
e cose ai fini della tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica (Cass. Penale, Sez. VI, sent. n. 4259
del 07-04-1987).
Scendendo più nello specifico, sono da considerare soggetti attivi del reato, da un lato, i militari,
dall'altro lato, gli agenti della forza pubblica, comprendendo in tale categoria gli agenti di pubblica
sicurezza, i carabinieri, le guardie di finanza, i vigili del fuoco, gli agenti di custodia e le persone ad
essi equiparate, nonché tutti quegli organismi pubblici non militarizzati i cui dipendenti sono
investiti di potestà di coercizione diretta sulle persone e sulle cose ai fini dell'ordine e della
sicurezza pubblica (Cass. Penale, Sez. VI, 5 dicembre 1986, D'Ascoli).
L'inserimento degli appartenenti alla polizia municipale nella categoria degli agenti della forza
pubblica (meglio, nella categoria degli agenti di polizia giudiziaria) è stato affermato dalla
giurisprudenza, sia pure a fini diversi dall'applicazione dell'art. 329 c.p. Più precisamente la Corte di
Cassazione ha ritenuto che tali soggetti rivestono la qualità di ufficiali o agenti di polizia giudiziaria
(l'ipotesi di specie riguardava, peraltro, il Comandante della Polizia Municipale ) in relazione al
potere ad essi conferito di procedere a sequestro ex art. 354 c.p.p.. Secondo tale linea interpretativa,
l’art. 5 della L. 7 marzo 1986, n. 65 attrib uisce la qualità di agente di polizia giudiziaria al personale
che svolge servizio di polizia municipale nell'ambito del territorio dell'ente d’appartenenza e nei
limiti delle proprie attribuzioni; esercitano funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria il Responsabile
del Servizio o del Corpo e gli addetti al coordinamento ed al controllo (Cass. Penale, Sez. I, 30
ottobre 1992, Pignatiello).
(*) Comandante della Polizia Municipale di Massa
In seguito, la nozione di agenti della forza pubblica è stata ritenuta non coincidere con quella di
agenti della polizia giudiziaria, perchè la qualità di agente della forza pubblica impone che il
soggetto sia investito di un potere di coercizione diretta su persone o cose ai fini di tutela dell'ordine
o della sicurezza pubblica; coerentemente, dunque, anche alla luce dei profili teleologici a base
della norma in esame, assume rilievo il potere coercitivo, così da escludere la sussistenza del reato
tutte le volte che la condotta omissiva riguardi l'espletamento di un’attività meramente
amministrativa (Cass. Penale, Sez. VI, 19 giugno 2000, Grech).
La qualità soggettiva di agente della forza pubblica assume, allora, ai fini della qualificazione del
fatto nell'ambito dell'ipotesi di reato in esame, un duplice significato:
• da un lato sta a designare una soggettività più ampia rispetto a quella propria dell'agente di
polizia giudiziaria;
• dall'altro lato, acquistando rilevanza esclusiva il profilo funzionale, si richiede quale condizione
ineludibile che l'atto oggetto del rifiuto di obbedienza s’incentri sul mancato esercizio di poteri
coercitivi.
L’appartenente alla polizia municipale è quindi certamente un agente della forza pubblica, sotto
qualunque profilo con cui si definisca tale qualità.
----o---Trattandosi di un reato di azione e non di evento, la sua consumazione coincide con l’atto del
rifiuto o con l’omissione che genera il ritardo, a prescindere dalle conseguenze che ne possano
derivare o dall’intervento di fattori esterni (p. e. l’esecuzione della richiesta ad opera di altro agente
della forza pubblica) che ne impediscano l’avverarsi.
È un reato di pericolo, a consumazione istantanea, non essendo necessario che il funzionamento
dell'Autorità richiedente abbia subito un danno dal rifiuto o dal ritardo di obbedienza.
Il reato è perseguibile d'ufficio, ed essendo punito con la reclusione, la pena non può essere estinta
con l’oblazione.
La fattispecie in esame realizza inoltre un reato c. d. “composto”. Essa infatti presenta comunanza
di elementi sia con il delitto di omissione o rifiuto di atti d'ufficio (art. 328 c. p.) che con la
contravvenzione di inosservanza dei provvedimenti dell'autorità (art. 650 c. p.). Con il primo
reato condivide gli elementi oggettivi del rifiuto e del ritardo, con il secondo condivide la violazione
del dovere di obbedienza (inosservanza).
Perciò il reato in esame non può concorrere con i reati sopra citati, poiché si pone con essi in
rapporto di specialità, ai sensi dell’art. 15 c. p., ai sensi del quale la disposizione di legge speciale
deroga alla disposizione di legge generale.
In realtà, sia l’art. 329 c. p. che le altre norme prima citate, confrontate tra loro, presentano aspetti
reciproci di specificità e di genericità.
Secondo la comune interpretazione, il criterio distintivo riguarda tanto il soggetto attivo del reato
(che, nella fattispecie dell’art. 329 c. p. deve essere un militare o un agente della forza pubblica,
mentre la fattispecie di cui all'art. 328 c.p. può essere realizzata dal pubblico ufficiale o
dall'incaricato di un pubblico servizio e quella di cui all’art. 650 può avere per autore “chiunque”),
tanto l'oggetto della richiesta da eseguire (che nel reato che interessa non contempla i limiti delle
ragioni di giustizia, sicurezza pubblica ed ordine pubblico, e igiene richiesti dalle altre norme
incriminatrici). Ne deriva, dunque, che, dal punto di vista dell'art. 329 c. p., alla genericità
dell’oggetto della richiesta cui obbedire si abbina l’elemento di stretta interpretazione riferito
all’individuazione dei soggetti obbligati (un militare o un agente della forza pubblica).
----o---Veniamo agli elementi materiali del reato: il rifiuto e il ritardo.
È rifiuto non solo la risposta negativa ad una richiesta, ma anche l’omissione che ignora la richiesta
medesima.
La fattispecie del rifiuto di obbedienza è integrata, quando vi sia stata una sollecitazione soggettiva
concretatasi in una richiesta o in un ordine, e il comportamento del soggetto attivo si ponga come
risposta "negativa" ad essi, esplicita o implicita.
La disposizione non sanziona penalmente la generica negligenza o la scarsa sensibilità istituzionale
del pubblico ufficiale, ma il rifiuto consapevole di atti da adottarsi senza ritardo (Cass. Penale, Sez.
VI, sent. n. 39572 del 22-11-2002).
Il reato non richiede che il rifiuto sia espresso in modo solenne o formale, ma può essere espresso
anche dalla silente inerzia del pubblico ufficiale, protratta senza giustificazione oltre i termini di
legge (Cass. Penale, Sez. VI, sent. n. 2339 del 23-02-1998).
Tuttavia, una mera inerzia, un semplice "non facere", senza qualcosa che esprima la volontà
negativa del soggetto agente non possono essere qualificati come rifiuto implicito (Cass. Penale,
Sez. VI, sent. n. 1120 del 06-02-1997).
È ritardo il superamento di un termine o di un limite temporale entro il quale un atto deve essere
eseguito, decorso il quale l'agente non è più in grado di tenere utilmente la condotta imposta.
Nel codice penale il ritardo è punito anche dall’art. 328 nel caso di superamento del termine di
trenta giorni dalla ricezione della richiesta di eseguire l’atto, mentre è genericamente punito dagli
artt. 361, 362 e 365, riferiti al ritardo della denuncia di un reato da parte di un pubblico ufficiale e di
un incaricato di pubblico servizio e al ritardo del referto da parte di un esercente la professione
sanitaria.
Poiché il ritardo ha identico significato nell’art. 329 come nelle norme penali anzidette, la
giurisprudenza formatasi per queste ultime agevola la definizione di questo concetto anche con
riferimento alla ritardata obbedienza.
Qualora per l’esecuzione della richiesta sia prescritto un termine, decorso il quale essa non può più
produrre i suoi effetti tipici (c. d. termine perentorio), il suo compimento tardivo non esclude
l'omissio ne già realizzata; qualora, invece, nonostante il decorso del termine, l'esecuzione possa
essere ugualmente compiuta e produrre i suoi effetti tipici (c. d. termine ordinatorio), ricorre
comunque l'ipotesi del ritardo, atteso che il pubblico ufficiale ha anche l'obbligo di adempiere
tempestivamente ai doveri del suo ufficio (Cass. Pen. Sez. VI, sent. n. 11940 del 29-08-1990 ).
Se il rifiuto è un atto sicuramente intenzionale, il ritardo deve essere anch’esso caratterizzato dal
dolo, che costituisce elemento soggettivo essenziale del delitto, caratterizzato da coscienza e
volontà di ritardare, e pertanto non costituisce reato il ritardo dovuto a colpa per negligenza,
imprudenza, imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti o discipline.
L’art. 43 c. p. prevede però l’ inosservanza di ordini quale possibile causa degli eventi che
costituiscono i reati colposi. Pertanto, il delitto in esame può concorrere con reati colposi commessi
da militari o da agenti della forza pubblica. Per esempio, l’agente di polizia cui sia stato ordinato di
attivare gli avvisatori acustici e luminosi del veicolo di servizio durante gli interventi di emergenza,
che non osservi tale ordine causando così un sinistro stradale nel quale rimanga ferito un collega
trasportato, risponde per i reati di rifiuto di obbedienza e di lesioni personali colpose (art. 590 c. p.),
in concorso tra loro.
Quanto al dolo, poi, occorre nell'agente non solo la consapevolezza e la volontà di omettere,
rifiutare o ritardare un atto del proprio ufficio, ma anche la consapevole volontà che, così operando,
agisce indebitamente e cioè in violazione dei doveri impostigli (Cass. Penale, Sez. V, sent. n. 14719
del 14-11-1990; Sez. VI, sent. n. 8117 del 12-07-2000).
La legge non riconnette invece alcuna conseguenza giuridica all’eventuale desistenza volontaria,
essendosi ormai verificati gli effetti (omissione o ritardo) necessari e sufficienti per la
consumazione.
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Presupposto del rifiuto o del ritardo non è un ordine, ma una richiesta. Il termine ha certamente una
portata più estesa rispetto al genere degli atti di comando, che vi sono comunque compresi, ed è
difficile circoscriverne i limiti. Tre aspetti emergono dalla lettera della norma:
• la richiesta è un atto recettizio, che per essere efficace necessita di essere direttamente rivolto al
destinatario, che deve essere un militare o un agente della forza pubblica, e da questi ricevuto
nelle forme di legge.
• la necessaria rilevanza esterna della richiesta, trattandosi di un delitto contro la pubblica
amministrazione, che mira a salvaguardare l'agire della stessa, attraverso i propri dipendenti, per
il conseguimento dei suoi compiti istituzionali. Essa quindi non deve concernere adempimenti
meramente burocratici.
• la forma della richiesta, che deve essere stabilita da un atto avente valore di legge. Ne derivano
la necessità della forma scritta (già imposta dal precedente art. 328, rispetto al quale, come si è
visto, la norma in esame si pone in rapporto di specialità), ma anche il rispetto delle regole in
materia di comunicazione e/o di notificazione e dei termini e contenuti normativamente
prescritti.
• il soggetto da cui proviene, che deve essere un’autorità competente. Quindi non semplicemente
chi vi abbia interesse, come nell’omissione di atti d’ufficio di cui all’art. 328 c. 2 c. p., e neppure
un organo o un ufficio di pari livello, ma un soggetto dotato dell’autorità e della competenza ad
esprimere la specifica richiesta.
La richiesta deve provenire da un’autorità competente. L'art. 329 c. p., per quel che attiene
all'elemento materiale del reato, considera come fatto punibile il rifiuto di obbedienza agli ordini
emanati dalle "competenti autorità"; quindi, si riferisce, riguardo agli agenti della forza pubblica
non militarizzata, sia agli ordini impartiti da autorità civili non sovraordinate, sia ai superiori
gerarchici ai quali il relativo potere è riconosciuto dai singoli ordinamenti interni (Cass. Penale,
Sez. VI, sent. n. 4259 del 07-04-1987).
Tra le autorità civili alle quali è dovuta obbedie nza da parte degli agenti della forza pubblica,
figurano i giudici, il Prefetto, il Questore quale autorità locale di pubblica sicurezza, il Sindaco
quando agisce come ufficiale di governo, ufficiale di polizia giudiziaria (nei comuni dove non esiste
una stazione carabinieri), autorità sanitaria locale o autorità locale di pubblica sicurezza o di
protezione civile.
Nel caso della polizia municipale, la gerarchia interna è definita dall’art. 7 c. 3 della legge quadro
7 marzo 1986 n. 65 e dalle collegate leggi regionali, le quali definiscono tre livelli:
1. Responsabile del Corpo (Comandante);
2. Addetti al coordinamento e al controllo;
3. Operatori (vigili).
Il successivo art. 9 c. 2 precisa che “gli addetti alle attività di polizia municipale sono tenuti ad
eseguire le direttive impartite dai superiori gerarchici e dalle autorità competenti per i singoli
settori operativi, nei limiti del loro stato giuridico e delle leggi”. Tali direttive, quando emanate dai
superiori gerarchici, sono più comunemente chiamate ordini o disposizioni di servizio.
L’ordinamento sopraelencato combacia quasi specularmente con la classificazione definita dal
Contratto Collettivo Nazionale del comparto Regioni- Enti locali, che prevede, per la Polizia
Municipale, due categorie C e D oltre alla Dirigenza. Ciò che definisce il rapporto gerarchico è il
profilo professionale d’appartenenza, corrispondente alla categoria d’inquadramento.
Giova ricordare che il Comandante della Polizia Municipale, secondo il prevalente orientamento
del Consiglio di Stato e dei Tribunali Amministrativi (a partire da Cons. Stato, Sez. V, 4 settembre
2000, n. 4663), è collocato in posizione apicale al Corpo e si rapporta direttamente con il Sindaco o
l’Assessore preposto, non potendosi interporre in tale rapporto un altro funzionario o dirigente.
Né si può ipotizzare un rapporto gerarchico tra il Sindaco e il Comandante. Seppure è vero che l’art.
50 del T.u.e.l. definisce il Sindaco come il “capo dell’amministrazione comunale”, ai sensi dell’art.
1 della legge quadro egli può impartire al Comandante solo direttive e non ordini specifici.
Si tratta allora di capire se tali direttive si qualifichino come richieste provenienti da un’autorità
competente e se possano così concretizzare un presupposto del reato di rifiuto o ritardo di
obbedienza.
La risposta non può che essere positiva, essendo la direttiva sicuramente un atto recettizio, di
competenza del Sindaco, emanato in forma scritta ed avente rilevanza verso l’esterno. Tuttavia, le
direttive del Sindaco hanno necessariamente un contenuto più generico delle direttive dei superiori
gerarchici. Infatti, il Comandante, secondo l’art. 9 della legge quadro, è responsabile verso il
Sindaco dell’addestramento, della disciplina e dell’impiego tecnico operativo degli appartenenti al
Corpo di Polizia Municipale, e in quanto funzionario apicale della struttura, gli sono attribuite le
competenze sue proprie sulle attività di gestione previste dall’art. 107 del T.u.e.l.
Questo significa che, essendogli attribuita un’ampia discrezionalità nelle materie di sua
competenza, potrebbe essergli contestato un rifiuto o un ritardo nell’esecuzione delle direttive solo
se queste venissero totalmente disattese.
Diversamente, il Comandante e singoli appartenenti al Corpo di Polizia Municipale incorrerebbero
nel reato se mancassero o tardassero di eseguire i provvedimenti del Sindaco, quali ad esempio le
ordinanze contingibili ed urgenti o i provvedimenti di necessità, che questi emana nel ruolo di
autorità civile dotata di specifici poteri in determinate materie.
----o---Il rifiuto e il ritardo di obbedienza, per essere punibili, devono essere dati indebitamente.
Ai fini della formazione dell'elemento materiale del delitto, occorre che il rifiuto, il ritardo o
l'omissione si siano verificati senza alcuna valida ragione di legittimazione e cioè quando tali fatti
non trovino giustificazione nella legge o in un atto dell’autorità competente o nell’assoluta
impossibilità (Cass. Pen. sent. n. 14719 del 14-11-1990).
Non è però consentito ad un dipendente di un ente pubblico, sottoposto al vincolo gerarchico, di
determinare in via autonoma quali disposizioni vadano eseguite e quali non, sulla base di soggettivi
criteri d’interpretazione (Cass. Pen. Sez. VI, sent. n. 10844 del 16-10-1987).
Il destinatario è comunque garantito da ogni responsabilità attraverso l’art. 51 c. p., a norma del
quale l’adempimento di un ordine legittimo della pubblica autorità costituisce elemento
scriminante del reato che eventualmente ne deriva, e quindi ne esclude la punibilità.
Se, quindi, un fatto costituente reato è commesso per ordine dell'autorità, del reato risponde sempre
il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine.
Risponde del reato anche chi ha eseguito l'ordine, a meno che, per errore di fatto, abbia ritenuto di
obbedire ad un ordine legittimo. Tuttavia, non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la
legge non gli consente alcun sindacato sulla sua legittimità.
Allo stesso modo, l’art. 18 c. 2 del DPR 10 gennaio 1957 n. 3 (Testo unico delle disposizioni
concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) dispone che “se l'impiegato ha agito per un
ordine che era obbligato ad eseguire va esente da responsabilità, salva la responsabilità del
superiore che ha impartito l'ordine”.
Se però è consentito al dipendente di sindacare la legittimità dell’ordine, l’art. 8 c. 2 del Codice di
comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (approvato con decreto del Ministro
per la Funzione Pubblica del 31 marzo 1994), obbliga i dipendenti a respingere le pressioni
illegittime, ancorché provenienti dai suoi superiori, indicando le corrette modalità di partecipazione
all'attività amministrativa.
Vale inoltre, per il comparto Regioni- Enti locali, quanto disposto dal Contratto Collettivo Nazionale
di Lavoro sottoscritto il 6 luglio 1995, il quale non inserisce il citato art. 18 del d.p.r. n. 3/1957 tra
le norme da disapplicare, ma anzi, all’art. 23 stabilisce che “il dipendente deve in particolare
eseguire le disposizioni inerenti l'espletamento delle proprie funzioni o mansioni che gli siano
impartiti dai superiori. Se ritiene che l'ordine sia palesemente illegittimo, il dipendente deve farne
rimostranza a che l'ha impartito, dichiarandone le ragioni; se l'ordine è rinnovato per iscritto ha il
dovere di darvi esecuzione. Il dipendente non deve, comunque, eseguire l'ordine quando l'atto sia
vietato dalla legge penale o costituisca illecito amministrativo”.
La citata esimente di cui all'art. 18 del D.P.R. n. 3/1957 deve essere perciò intesa nel contesto delle
altre disposizioni che - nello spirito di un rapporto di collaborazione tra dipendente e superiore
gerarchico - impongono, in presenza di un ordine ritenuto illegittimo, una dialettica che culmina
nella reiterazione dell'ordine scritto al subordinato; e, pertanto, non si configura tale esimente se il
dipendente non ha seguito tale "iter" poiché l'unico ordine che era obbligato ad eseguire era quello
scritto (così la Corte dei Conti, Sez. Riunite, sent. n. 542 del 01-06-1987).
----o---Passiamo ora alla risoluzione delle ipotesi di lavoro descritte all’inizio della presente opera.
Nelle ipotesi 1 e 2 il reato sussiste.
Nella prima, i due agenti viabilisti hanno disatteso con coscienza e volontà l’ordine di servizio del
Comandante, così concretando un rifiuto di obbedienza, anche se non espresso ai superiori.
Nella seconda i due operatori incaricati dell’esecuzione del trattamento sanitario obbligatorio non
solo hanno intenzionalmente omesso di applicare le disposizioni di un’ordinanza del Sindaco
caratterizzata dalla contingibilità ed urgenza, ma hanno anche giustificato la loro omissione
mediante false dichiarazioni, punibili ai sensi dell’art. 479 c. p.
Vale la pena di evidenziare che contestualmente all’azione penale deve essere iniziato anche il
procedimento disciplinare, per la valutazione dello stesso fatto quale violazione di doveri d’ufficio.
Nell’ipotesi 3 il Responsabile del Servizio non risponde del reato.
Manca infatti il requisito dell’avere rifiutato di obbedire “indebitamente”.
La richiesta del Sindaco è contraria a legge, sia perché esprime un ordine e non una direttiva, sia
perché quanto richiesto costituisce il reato di omissione in atti di ufficio (art. 328 c. p.), non essendo
consentito di omettere la redazione del verbale di accertamento di violazione, neanche apponendo
avvisi di cortesia.