PELLIZZI, Federico. `La lettura del mondo

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PELLIZZI, Federico. `La lettura del mondo
PELLIZZI, Federico. ‘La lettura del mondo umano. L’antropologia rovesciata di Primo Levi’. Ricercare le radici. Primo Levi lettore-­‐‑Lettori di Primo Levi. Nuovi studi su Primo Levi, a cura di Raniero Speelman, Elisabetta Tonello & Silvia Gaiga. ITALIANISTICA
ULTRAIECTINA 8. Utrecht: Igitur Publishing, 2014. ISBN 978-­‐‑90-­‐‑6701-­‐‑038-­‐‑2 RIASSUNTO Levi lettore è avido, erratico e multiforme, ma anche metodico e indagatore. È un forte interprete di ciò che legge, e anche dei testi che appartengono alla sua cultura di base. Se occorre insistere sulla forza della scrittura di Levi, sulla sua qualità letteraria in tutte le sue manifestazioni, è anche necessario soffermarsi sulla forza di pensiero, sulla forza esegetica della sua attività di lettore, nel tentativo di riflettere sulla natura umana e di mettere in luce i “rapporti fondamentali dell’uomo con il mondo”. Fin dall’intertesto biblico e dantesco della sua prima opera Levi rovescia completamente il senso di quei testi, introducendo una dimensione di umanesimo radicale che rappresenta una sorta di penetrazione nella materia prima, nell’Urstoff delle nostre condizioni di esistenza. Si tratta di un’antropologia rovesciata perché Levi non parte da ciò che è riconosciuto positivamente come ‘umano’, ma dalla perdita e dall’assenza dell’umano, dalla sua negazione e dal suo occultamento. La lettura è quindi spesso per lui un viaggio a ritroso, verso la materia stessa, per definire, in un dialogo sempre non convenzionale, uno spazio possibile dell’umano, e per accertarne i limiti. In questa mappa, che attende ancora una ricognizione esauriente, occupano una posizione di rilievo La ricerca delle radici e altre raccolte ponderate e maggiori, e tutte le prove di lettura minuta e quotidiana come le recensioni giornalistiche e altri scritti occasionali, ma anche le traduzioni dei volumi di Mary Douglas e Lévi-­‐‑Strauss che si collocano in un momento di svolta fondamentale nella vita e nell’opera di Primo Levi. PAROLE CHIAVE Primo Levi, antropologia rovesciata, Mary Douglas, Claude Lévi-­‐‑Strauss © Gli autori Gli atti del convegno Ricercare le radici. Primo Levi lettore-­‐‑Lettori di Primo Levi. Nuovi studi su Primo Levi (Ferrara 4-­‐‑5 aprile 2013), sono il volume 8 della collana ITALIANISTICA ULTRAIECTINA. STUDIES IN ITALIAN LANGUAGE AND CULTURE, pubblicata da Igitur Publishing, ISSN 1874-­‐‑9577 (http://www.italianisticaultraiectina.org). 125 LA LETTURA DEL MONDO UMANO. L’ANTROPOLOGIA ROVESCIATA DI PRIMO LEVI Federico Pellizzi IL FONDO DI UN ESSERE UMANO L’interesse antropologico di Levi è sempre stato esplicito in tutta la sua opera, a cominciare dal titolo del suo primo libro, che mette in esame, con tutta la sua radicalità, e in forma dubitativa, l’essere uomini. È qui evidente la voltura antropologica della testimonianza stessa: non è testimonianza di una condizione individuale, ma nemmeno soltanto testimonianza di un fatto, spaventoso e assoluto, di “un evento capitale della storia”, come è stato detto.1 È testimonianza anche e soprattutto di come può essere, o non-­‐‑essere, l’uomo, non in un tempo astratto, ma oggi. Come dice Levi, Auschwitz è stata la sua vera università, dove gli pare di “avere imparato a conoscere i fatti degli uomini”,2 ma l’ipotesi che qui si avanza è che dopo aver scritto in funzione terapeutica, Levi abbia scoperto e praticato una funzione euristica della scrittura, non fissata sull’evento e nemmeno generalizzata o stemperata in una prospettiva esistenziale, bensì radicata nel presente storico e nel futuro. Levi è sempre stato antropologo, ma in modo differenziato, evolutivo. C’è un momento della vita di Levi in cui questa vocazione antropologica si fa più consapevole e sistematica. E credo che l’inizio conclamato di questa nuova fase, in cui l’interesse antropologico assume forme nuove, più articolate, diversificate e fameliche, coincida con la pubblicazione di La chiave a stella (1978). È un periodo cruciale, in cui Levi decide di affrancarsi definitivamente da uno dei suoi mestieri, quello di chimico, e di dedicarsi completamente alla letteratura. Non siamo più a ridosso dell’esperienza di Auschwitz, e l’attività di Levi si dispiega in molte direzioni. È un periodo assai produttivo che, volendo delimitare con più precisione, si può far partire dal 1975, anno in cui Levi lascia la direzione della Siva. Comincia una fase dialogica, si potrebbe dire, in cui Levi intensifica gli incontri con i mestieri e con i testi altrui, lavorando a traduzioni, interviste, recensioni, riletture, conferenze. Se due testi fondamentali che delimitano in qualche modo questa fase sono La chiave a stella (1978) a I sommersi e i salvati (1986), nello stesso periodo compaiono decine di testi altrettanto cruciali non solo per la comprensione dell’opera di Levi, attraverso una rilettura intertestuale − vale a dire ad ostacoli − in cui si cerchi di ricostruire per così dire la riflessione di secondo grado di Levi a ridosso del suo ascolto degli altri, ma anche per mettere a fuoco il problema che abbiamo messo al centro di questo intervento, ossia la qualità, l’ampiezza, le modalità della sua interrogazione sul senso, sulle potenzialità, e sulle impossibilità del mondo umano.Il punto di 126 applicazione privilegiato del lavoro di Levi non è più il racconto, l’autoracconto o il racconto altrui, sullo sfondo del lager, ma i libri degli altri, o anche i suoi, che Levi commenta o è chiamato a commentare sempre più con un taglio diverso, spesso schiettamente letterario. Levi non diminuisce anzi rinforza la sua produzione creativa, ma al tempo stesso traduce, recensisce, commenta, fa prefazioni, intensifica la sua produzione giornalistica,3 rilascia interviste in cui compaiono, sì, l’olocausto, la testimonianza, ma anche e soprattutto la parola scritta da altri. Levi definisce la propria frequentazione dei testi altrui vagabondaggio, invasione di campo, incursione, bracconaggio, scorribanda, “pulsioni di voyeur e di ficcanaso”.4 È un lettore avido, erratico e multiforme,5 ma anche metodico e indagatore. È un forte interprete di ciò che legge, nel senso che è riflessivo e personale, analitico senza perdere di vista l’insieme. Anche il suo impegno di traduttore è rispettoso ma intenso, sottilmente interpretativo. Proprio nel 1975 intraprende la traduzione del libro di un’antropologa, Mary Douglas, I simboli naturali. Esplorazioni in cosmologia, che esce nel 1979. Nel 1981 esce un libro fondamentale, La ricerca delle radici. Poi ci sono Lilit e altri racconti (1981) e Se non ora quando (1982). E poi ancora le traduzioni del Processo di Kafka (1983), di Lo sguardo da lontano (1984) e di La via delle maschere (1985) di Lévi-­‐‑Strauss. E in seguito la sua raccolta delle poesie, A ora incerta, nel 1984. Infine due altre opere importantissime, L’altrui mestiere (1985) e i Racconti e saggi, pubblicati nella collana ‘Terza pagina’ dell’editrice La stampa (1986), divenuti poi, nell’edizione ampliata del 1997, secondo il volere dell’autore, Il fabbricante di specchi. Racconti e saggi. Si tratta dell’ultimo libro curato da Levi prima della morte.6 LO SPARTIACQUE Torniamo per un attimo su La chiave a stella. Già Raniero Speelman, proponendo una nuova rilettura delle relazioni interne di tutti i testi leviani sulla base del loro processo di stesura e non seguendo il principio dell’ordine di pubblicazione, aveva mostrato, in un precedente convegno, come La chiave a stella sia un libro anomalo e centrale: “si può dire che il libro costituisce una specie di perno nell’opera leviana”.7 È lo spartiacque tra due fasi della vita e dell’opera di Primo Levi. È stato detto giustamente che è il libro più ottimista di Levi, e Philip Roth, nell’intervista del 1986, afferma che La chiave a stella “si sarebbe potuta benissimo intitolare Questo è un uomo”.8 Lo stesso Levi dichiara, rispondendo a Roth, che rinunciando al mestiere di chimico si è sentito “nato una seconda volta”.9 Certamente La chiave a stella si può considerare essa stessa un documento di taglio etnografico, tanto che Claude Lévi-­‐‑Strauss, come noto, ne commenta la traduzione francese (1980) definendo Primo Levi “una sorta di grande etnografo”.10 È un’affermazione che in realtà può sviarci. Levi, rispondendo a una domanda di Barbara Kleiner sull’argomento, ricorda: Sì, ho mandato una copia dell’edizione francese a Claude Lévi-­‐‑Strauss di cui ho tradotto alcuni libri. Mi ha risposto con una lettera gentile e molto spiritosa nella quale mi accoglieva nelle file 127 degli antropologi. Egli riteneva che, senza saperlo né volerlo, avessi scritto un libro antropologico. La ragione di ciò sarebbe che descrivo un determinato tipo di persona, il nomade, il montatore che oggi si sposta non più a piedi come un tempo ma in aereo da un capo all’altro del mondo. Dunque ho descritto la tribù nomade dei montatori. Il modello me lo ha fornito un montatore torinese, ma avrebbe potuto essere benissimo un giapponese. (Levi 1997c, 79) È singolare questa risposta, che a ben guardare prende le distanze ironicamente, delicatamente dall’affermazione spiritosa di Lévi-­‐‑Strauss. Se c’è una cosa certa è che Faussone ‘non’ poteva essere un giapponese. Lo sguardo di Levi non prescinde mai dal viso, dal corpo, dalla materia delle cose. È uno sguardo che conquista la sua lontananza riflessiva nel contatto e nell’osservazione minuta, nella partecipazione. La pacatezza razionale di Levi, certamente costitutiva, è anche autoimposta come contraltare di una penetrazione profonda, individuale, corporea nei fatti di cui è testimone. Osservare e pensare vanno di pari passo. Levi non è un etnografo, semmai è un antropologo nel senso che preciseremo tra poco. Lo stesso Levi, e questo è un indizio, usa il vecchio termine filosofico e umanista ‘antropologi’: non a caso, e non solo per retaggio nazionale. Certamente è rilevante che Levi si dedichi in questo periodo alla traduzione di libri di antropologia, e di quei particolari antropologi, o etnografi che dir si voglia: Mary Douglas e Lévi-­‐‑Strauss. Sono indubbiamente etnografi razionalisti, ante-­‐‑
postmoderni, che possiedono il grande fascino di riuscire a ordinare il mondo, le sue relazioni e le sue costruzioni simboliche. Mary Douglas, allieva di Evans-­‐‑Pritchard e sulla scia di Émile Durkheim, è l’autrice di un un libro, Purezza e pericolo, in cui cerca di mostrare come le definizioni di purezza e impurità − tema caro a Levi − siano costruzioni simboliche che svolgono il ruolo di dare un ordine a ogni società costituita. Lévi-­‐‑Strauss è il padre dell’antropologia strutturale: nei due libri tradotti da Levi sono importanti la definizione della posizione dell’antropologo, che deve spogliarsi dei suoi pregiudizi e al tempo stesso mantenere una sua distanza scientifica dall’oggetto di studio, e la riconduzione delle maschere rituali, nella loro disparità e insensatezza, a un sistema complesso di relazioni di tipo oppositivo. Entrambi, Douglas e Lévi-­‐‑Strauss, scrivono in modo ampio, chiaro, esaustivo e posseggono un’estrema fiducia nel linguaggio. Levi si misura certo con piacere con questi tentativi di “fare ordine” di livello altissimo. Ma non li include certo in La ricerca delle radici, perché non di radici si tratta, ma di un punto d’arrivo: la mediazione con i due autori sembra più letteraria e intellettuale, sembra far parte di una nuova fase esplorativa di Levi, di un momento di ampliamento degli orizzonti e di incontro con l’altro. Il rapporto entusiasta con i libri tradotti, soprattutto con quelli di Lévi-­‐‑Strauss,11 parte, sì, da una profonda affinità comune (quella ricerca di regole in un universo caotico, quella “sceptical, enquiring intelligence” tipica dello stesso Levi − Thomson 2003, 451), ma approda a un legame meno viscerale e più razionale rispetto a quello che Levi intrattiene con gli autori inclusi nella sua antologia personale, ai quali lo lega quel quid in più di inquietudine, poiesi fantastica e 128 umorismo che comunque Levi non abbandonerà, e anzi intensificherà nelle opere successive. LE DUE PROSPETTIVE La vocazione antropologica di Levi, come dicevo, è visibile in tutta la sua opera. Ma subisce delle mutazioni. Oserei dire che nella prima parte della sua carriera di scrittore si manifesti nella veste del naturalista o dell’etologo. Nella seconda parte, da La chiave a stella in poi, nella veste dell’antropologo vero e proprio, e chiarisco. Faccio due citazioni per cominciare a misurare questa differenza. I brani appartengono entrambi all’ultima fase di Levi, ma il primo è uno sguardo retrospettivo, autobiografico, che può essere considerato emblematico per illustrare l’atteggiamento del primo tipo, quello del naturalista e dell’etologo obtorto collo. È un passo tratto dalla già citata intervista a Philip Roth, il quale gli chiede se ci sia una relazione tra la sua professione di scienziato e la capacità di sopravvivenza ad Auschwitz: Non ho mai smesso di registrare il mondo e gli uomini intorno a me, tanto da serbarne ancora oggi un’immagine incredibilmente dettagliata. Avevo un desiderio intenso di capire, ero costantemente invaso da una curiosità che ad alcuni è parsa addirittura cinica, quella del naturalista che si trova trasportato in un ambiente mostruoso ma nuovo, mostruosamente nuovo. (Levi 1997c, 87) Significativo per il secondo atteggiamento mi sembra invece questo altro passo, tratto da un racconto del 1984, ‘Auschwitz, città tranquilla’, incluso nella raccolta de La Stampa del 1986: Può stupire che in lager uno degli stati d’animo più frequenti fosse la curiosità. […]. Sono usciti centinaia di libri sulla psicologia di Hitler, Stalin, Himmler, Goebbels, e ne ho letti decine senza che mi soddisfacessero: ma è probabile che si tratti qui di una insufficienza essenziale della pagina documentaria; essa non possiede quasi mai il potere di restituirci il fondo di un essere umano: a questo scopo, più dello storico o dello psicologo sono idonei il drammaturgo o il poeta. (Levi 1997b, 50) Entrambi i passi riguardano lo stesso tema: la curiosità per capire − all’interno del lager. Ma diversissima è la prospettiva da cui si guarda, e l’esito dell’osservazione. Nel primo caso scrivere, testimoniare, è la terapia, l’atto di liberazione che sorge dopo l’esercizio di quella “condizione di spirito eccezionalmente viva”, come dice Levi, che gli ha permesso, o lo ha aiutato, a sopravvivere. Nel secondo caso la letteratura diviene il prisma consapevole per cercare di comprendere. Se è vero che la letteratura nasce in Levi dal trauma, come “cauterio della memoria offesa”, come è stato detto, è anche vero che si sviluppa, cresce, diviene altra cosa. Diventa lavoro di costruzione, forma simbolica. Non è più solo, ex negativo, “elaborazione dell’esperienza traumatica”,12 ma anche metalinguaggio che si costruisce su se stesso, allargamento dello sguardo ed esperienza essa stessa. È significativo che nel secondo 129 passo compaia anche uno Stalin, che ad Auschwitz non c’era: il campo di osservazione si è ampliato, è sempre più l’umanità nel suo complesso e nei suoi casi multipli ad essere studiata. Ma quali sono gli strumenti antropologici che Levi affina attraverso l’esercizio della letteratura? Sicuramente ci sono gli elementi di sospensione, direi temporali e spaziali, che appartengono all’antropologia più avvertita: Lorenzo Mondo nella prefazione a Il fabbricante di specchi insiste sul fatto che Levi “non ama scrivere articoli a caldo”. L’emozione per un incontro, una lettura, una notizia, il verificarsi di un evento “deve essere lasciata decantare”.13 È un atteggiamento che rende l’idea dello scarto riflessivo di Levi, della sospensione del giudizio che non significa mai assenza del giudizio. E poi l’extralocalità, lo “sguardo da lontano”, con tutte le correzioni del caso: come ho detto Levi non assume mai l’atteggiamento asettico dello scienziato classico: è sempre coivolto nell’esperienza, è coinvolto nell’esperimento, si potrebbe dire. C’è sempre di mezzo un rapporto io-­‐‑tu, io-­‐‑altro nel ‘distacco’ leviano. Non solo, ma la letteratura lo ha educato a fare uso delle cornici: usa sé come personaggio o come alter ego per moltiplicare i punti di vista e creare distanza narrativa. Poi certamente, come Levi-Strauss, Levi punta a comprendere le relazioni, più che i singoli elementi, con però alcune fondamentali differenze: il metodo di Levi è più libero, perché basato sul pensiero analogico, che permette di fare salti di scala, ibridazioni, contaminazioni. Non è sistematizzante, non è rassicurante, anzi spesso inquietante. Levi è un grande scrittore: inventa mondi. Ma sono mondi in cui il vizio di forma si insinua spesso dove meno ce lo si aspetta. L’induzione non funziona mai banalmente dal particolare all’universale, dal singolo caso alla regola, bensì dal ruolo, dalla funzione di un elemento in una certa situazione a un ruolo o a una funzione in un contesto di scala superiore, o in un contesto analogo. Anche qui il pensiero analogico diventa abduttivo, penetra nelle fondamenta delle cose. Ecco un esempio, tratto dalla memoria ‘Il comandante di Auschwitz’: Di Richard Baer, fino a oggi, non molto si sapeva. È citato brevemente nelle memorie di Höss, suo predecessore, che ce lo descrive, nelle terribili settimane del gennaio 1945, perplesso e incerto sul da farsi: è a Gross-­‐‑Rosen, un lager di dieci-­‐‑dodicimila prigionieri, e si sta diligentemente occupando di trasferirvi i centoquarantamila di Auschwitz, che è indispensabile ‘recuperare’ davanti all’improvvisa avanzata russa. Si pensi a che cosa significa il rapporto fra queste due cifre: si pensi a quell’altra soluzione, che buon senso e umanità e prudenza insieme suggerivano, e cioè di prendere atto dell’inevitabile, lasciare lo stuolo di semivivi al loro destino, aprire le porte e andarsene; si pensi a tutto questo, e la figura dell’uomo vi risulterà sufficientemente definita. Appartiene al tipo umano più pericoloso di questo secolo, a chi ben guardi, senza di lui, senza gli Höss, gli Eichman, i Kesserling, senza i mille altri fedeli e ciechi esecutori di ordini, le grandi belve, Hitler, Himmler, Goering, sarebbero stati impotenti e disarmati. (Levi 1997b, 125-­‐‑126) Come si vede la riflessione di Levi parte dal singolo caso di Baer, per arrivare al ruolo di un certo tipo umano nell’avvento e nello sviluppo del nazismo, ma anche − va sottolineato − parlando di ‘tipo umano’ Levi lo estende a ogni tempo, e soprattutto, come dicevo all’inizio, all’oggi. L’analogia è tra ruoli, non tra singolo e 130 moltitudine: richiede comprensione fine, direi letteraria dell’individuo (terribile è quell’aggettivo ‘diligentemente’, come anche quei ‘perplesso’ e ‘incerto’). L’antropologia leviana è ispirata a l’ésprit de finesse più che a l’ésprit de géometrie. Il che non toglie che a voler fare un esercizio di ricognizione degli aspetti direi filosofici che accomunano l’impostazione dello sguardo di Levi sul mondo e quello dei due autori da lui tradotti, si potrebbero trovare molteplici esempi assai congruenti. Mi limiterò, per concludere, a segnalarne qualcuno. Il primo può essere la comprensione della centralità e della pervasività della dimensione simbolica dell’uomo. Si può parlare del mondo con l’esattezza e con la ricchezza descrittiva della chimica, ma si ha sempre a che fare con simboli. E tanto più esatta e ricca è la descrizione, quanto più esatta e ricca è la proliferazione connotativa e analogica che Levi ne ricava. La ricchezza della materia è ricchezza di senso, creazione di rapporti simbolici complessi. Di grande fascino per lui quindi gli studi di Douglas e Lévi-­‐‑Strauss, che si muovono criticamente proprio su quest’asse del rapporto tra il naturale e il simbolico, delle relazioni di senso che si innestano su evidenze materiche, corporee e concrete. I simboli naturali della Douglas partono da qui, da questo ossimoro apparente, nella convinzione che il campo dell’antropologia si costituisca proprio in questo spazio, nell’osservazione dei diversi modi di simbolizzare il mondo a partire dalla concretezza del mondo stesso. Anche Purezza e pericolo aveva come oggetto la costruzione di sistemi simbolici, a partire però non dalle relazioni sociali, ma dal corpo umano: “il corpo umano può fornire un sistema naturale di simboli”,14 ma tutto sta nell’osservare come vengono interpretati e traslati in una dimensione interumana e di senso. E così avviene anche ne La via delle maschere di Lévi-­‐‑Strauss, libro che Levi traduce prima de Lo sguardo da lontano, anche se esce dopo: le maschere si collocano in questo spazio, a mediare “tra il codice cosmico e il codice sociologico”,15 terreno su cui l’immaginazione e il pensero di Levi si sono sempre esercitate alquanto. Come afferma Lévi-­‐‑Strauss nella sua lezione inaugurale al Collège de France, ‘Elogio dell’antropologia’, inclusa nel volume Razza e storia che Levi conosceva, l’antropologia fa parte delle “scienze semiologiche”.16 Si potrebbe dire altresì che per Levi anche la chimica è una scienza semiologica. Possiamo ricavare altri aspetti filosoficamente affini continuando a leggere la lezione inaugurale di Lévi-­‐‑Strauss. Innanzitutto la convinzione che questo osservare abbia costitutivamente una sottostante matrice filosofica: […] la ricerca sul terreno, da cui ha inizio ogni carriera etnologica, è madre e nutrice del dubbio, atteggiamento filosofico per eccellenza. (Lévi-­‐‑Strauss 1967, 75) L’esercizio del ‘dubbio antropologico’ poggia sulla distanza, sull’alterità, sulla ridefinizione del contesto, ma anche sulla continua riflessione sulla propria posizione e sull’introspezione. È un dubbio che porta in sé la consapevolezza inquieta del mutamento, dell’evolversi della vita e dell’impossibilità di oggettivizzarla (è un’espressione di Lévi-­‐‑Strauss) in modo rigido. Anche l’introspezione, su questo piano, è una prerogativa filosofica che a Levi può essere ben riconosciuta: 131 L’uomo […] sa guardarsi con una chiarezza sorprendente -­‐‑ il gnothi seautòn è programmatico -­‐‑ ma sa anche riconoscere la mutazione avvenuta nel se stesso che osserva. (Calcagno 1992, 6) Dunque è una ricerca sul campo attenta alle costanti ma anche aperta alla diversità e alla storia, affascinata cautamente dagli universali ma curiosa degli individui, attratta da alcune costanti naturali, ma perfettamente in grado di percepire l’irradiarsi e il proliferare delle diversità culturali. E qui veniamo a un’altra affinità filosofica che ci sembra riscontrabile. Consiste nel credere che la cultura e la tecnologia possano essere uno strumento, impervio e contraddittorio quanto si vuole, per andare verso il superamento del dominio dell’uomo sull’uomo. Dice Lévi-­‐‑Strauss: […] essendosi la cultura [a scapito della ‘società’] integralmente assunto il compito di fabbricare il progresso, la società sarebbe liberata da una maledizione millenaria, che la costringe ad asservire gli uomini perché progresso ci sia. (Lévi-­‐‑Strauss 1967, 79) In Levi questo aspetto emerge ad esempio nella conferenza pronunciata a Torino nel novembre 1979 su ‘L’intolleranza razziale’.17 In quell’occasione Levi distingue innanzitutto tra intolleranze dovute a diversità culturali (i pregiudizi religiosi o linguistici), e intolleranze riconducibili a fattori pre-­‐‑culturali, ossia alla natura di animale sociale dell’uomo. Il razzismo e il bisogno di gerarchia si collocano a questo livello. Le prime sono superabili, le seconde, che Levi definisce poco umane, preumane, preistoriche, riconducibili al comportamento sociale, riecheggiando Lévi-­‐‑
Strauss, e addirittura ferine e animalesche, sono sradicabili con più difficoltà, e solo abbracciando pienamente la nostra vocazione culturale, storica, propriamente umana: se siamo uomini è perché abbiamo imparato a metterci al riparo, a contravvenire, a ostacolare certi istinti che sono la nostra eredità animale. (Levi 1997, 1299) Non è un aspetto da considerarsi utopistico. Levi non è mai utopico, semmai è distopico come Swift. È piuttosto un’impostazione intellettuale da considerarsi affine a quelle ‘linee di resistenza’ tipiche dell’“illuminismo critico”18 di Levi, in parte consonante con il pensiero antropologico di Douglas e Lévi-­‐‑Strauss, che compaiono così ben enunciate nelle Radici. 19 È anche una manifestazione dell’antinaturalismo e dell’antideterminismo di fondo dell’antropologia leviana. Levi non è mai stato determinista nemmeno da ‘etologo’, ma indubbiamente in questa fase, come ha scritto Enrico Mattioda, si avvicina a una “teoria dei sistemi complessi applicabile all’uomo e alla storia umana”:20 “la storia del genere umano è favolosamente complicata”.21 Il dubbio antropologico si applica innanzitutto all’idea di progresso, come nel saggio di Lévi-­‐‑Strauss Razza e storia: non si mira a negarne l’esistenza, ma a considerarlo “con maggiore prudenza”.22 Prudenza che apre e chiude la conferenza di Levi,23 ma che non gli impedisce di compiere due operazioni tipiche del suo abito mentale: il rovesciamento degli assunti dati per scontati e la ricerca di argomentazioni scientifiche per penetrare una materia 132 complessa e difficile. La stessa idea di progresso è rovesciata. La cultura acquisita dall’umanità non copre o supera il passato, non impedisce di risalire fino al punto zero, di valutare con molta lucidità la persistenza del pre-­‐‑culturale, il riaffiorare anche in tempi moderni della volontà “di demolire l’umano nell’uomo”.24 Lo sguardo antropologico di Levi, che compie un percorso e un’evoluzione, può definirsi quindi un’antropologia rovesciata, perché il suo punto di partenza è la perdita e l’assenza dell’umano, la sua negazione e il suo occultamento, e non ciò che è riconosciuto positivamente come ‘umano’. E pur nell’evoluzione, questa consapevolezza, questa necessità di partire da “una buona stoffa umana” negata, lacerata e distrutta ha sempre contraddistinto il suo modo di osservare l’uomo e la storia. Così come anche la pratica del rovesciamento, che riguarda nel profondo una modalità di lettura e di interpretazione, prima di essere capacità di introdurre punti di vista inusitati ed efficaci. In effetti il rovesciamento ‘serio’, cioè come visione del mondo, come abisso ironico, ha sempre caratterizzato la lettura leviana dei testi canonici. Levi stravolge la Divina commedia, che perde la sua verticalità, collassa nell’inferno, un inferno dove l’ascesa, la trascendenza passano solo per il buco del camino. Sospende e mondanizza la Bibbia, e parla di una Nuova Bibbia, o, come nella conferenza sull’intolleranza razziale, la considera materia di studio antropologico. Le sefirot laiche de La ricerca delle radici hanno dei vettori, come mi è già capitato di dire,25 che vanno verso il basso, verso la terra, e parodiano alcuni millenni di rappresentazioni cosmologiche. Ma se gli alieni siamo noi, se è viziata anche la terra, anche la materia di cui è fatta, possiamo però godere delle linee di resistenza che Primo Levi ha creato, con un esercizio straordinario di letteratura e di invenzione. NOTE Baldasso 2007, 10. Camon 1997, 64.
3 Su Levi giornalista, sulla sua ‘presenza pubblica’ e sulla ricezione di Levi nel giornalismo italiano si veda A. Rondini. Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo. Macerata: Quodlibet 2012. 4 Premessa a Levi 1975, V; ora in Levi 1997, vol. II, 631. 5 Carasso 2009, 6. 6 Levi 1997b. L’edizione contiene in più, rispetto all’edizione del 1986, un’aggiunta alla prefazione di Lorenzo Mondo, le ‘Cinque interviste naturali’ e i disegni di Emanuele Luzzati. La seconda edizione è del 1988. Benché Lorenzo Mondo nella prefazione del 1986 presenti la raccolta come il frutto di “oltre vent’anni di collaborazione”, e lo stesso Levi affermi che “i ‘pezzi’ si situano in un arco di tempo che sfiora il quarto di secolo”, tutti i racconti e tutti i saggi, tranne due, sono oltre lo spartiacque 1
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133 dell’autopensionamento, e la maggior parte degli anni Ottanta a ridosso dell’uscita del libro (Mondo 1997b, XI e XVII). 7 Speelman 2009, 223. 8 Levi 1997c, 87. 9 Levi 1997c, 89. 10 Cit. in Belpoliti 1998, 104. Ian Thomson cita una lettera di Lévi-­‐‑Stauss a Primo Levi del gennaio 1984 dello stesso tenore: Thomson 2003, 451.
11 Ne dà testimonianza anche Ian Thomson (Thomson 2003, 451). 12 Lollini 2008, 255. 13 Mondo 1997b, XI.
14 Douglas 1979, 4. 15 Lévi-­‐‑Strauss 1979, 159. 16 Lévi-­‐‑Strauss 1967, 66.
17 ‘L’intolleranza razziale’, raccolta in ‘Pagine sparse 1946-­‐‑1980’ Opere, a cura di M. Belpoliti. Torino: Einaudi 1997, vol. I, 1293-­‐‑1317. 18 Belpoliti 1998, 104. 19 Pellizzi 2009, 13. 20 Mattioda 2007, 130. 21 Levi 1997, 1294. 22 Lévi-­‐‑Strauss 1967, 115. 23 La conferenza si apre infatti con una professione di umiltà di fronte alla complessità del problema, e si chiude con questa affermazione: “essere del tutto ottimisti sarebbe perlomeno imprudente” (Levi 1997, 1311). 24 Levi 1997, 1309.
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