Capitolo 4 - Goodreads

Transcript

Capitolo 4 - Goodreads
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A Silvia, Sabina e Manu
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Sommario
Prologo ........................................................................................ 4
Capitolo 1 .................................................................................... 7
Capitolo 2 ................................................................................. 15
Capitolo 3 ................................................................................. 24
Capitolo 4 ................................................................................. 33
Capitolo 5 ................................................................................. 44
Capitolo 6 ................................................................................. 57
Capitolo 7 ................................................................................. 65
Capitolo 8 ................................................................................. 69
Capitolo 9 ................................................................................. 80
Capitolo 10 ............................................................................... 92
Capitolo 11 .............................................................................. 103
Capitolo 12 ............................................................................. 110
Capitolo 13 ............................................................................. 120
Capitolo 14 ............................................................................. 127
Epilogo .................................................................................... 137
Note dell’autore ................................................................... 144
Ringraziamenti .................................................................... 148
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Prologo
So close no matter how far
couldn't be much more from the heart
forever trusting who we are
and nothing else matters.
Nothing Else Matters - Metallica
Anno 2002
I fiori colorati profumavano di maggio, d’amore e spensieratezza. Nel cielo di novembre, però, un tuono cupo rimbombò
tra le nubi basse.
Ryker Mancini toccò con la punta delle dita l’immagine
della madre, una foto di cinque anni prima, quando lei era
ancora una persona sana e il suo sorriso non nascondeva
l’irrequietezza di una malattia che non voleva andarsene.
Il ragazzo scostò i capelli color cenere dalla fronte e sollevò
il viso a guardare le statue di alcuni bambini davanti a una
cappella di famiglia che si sollevava proprio dietro la tomba
di sua madre. Una statua era più grande delle altre, rappresentava un angelo con le mani congiunte in una preghiera
che sorrideva con dolcezza verso di lui.
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Il cimitero del Verano, nel cuore di Roma, aveva delle sculture talmente belle che lui sarebbe rimasto a guardarle per
ore, così, sospeso a metà in quel posto astratto dal tempo e la
realtà, tra le foto antiche e ingiallite, e il profumo dei cipressi.
Ma un’ombra dietro una seconda cappella catturò la sua attenzione, facendogli respirare la fragranza di rose selvagge.
Deglutì e si trovò a fissare gli occhi profondi di una ragazzina, mezza nascosta da una colonna in marmo bianco. Occhi
neri come la notte, come un tuono, come un ultimo respiro.
Neri come la morte. Ryker scosse il capo, incredulo a quei
pensieri, e la bambina distolse lo sguardo da lui posandolo
sulla sorellina del ragazzo.
Non lo faceva spesso, eppure si trovò a deglutire di nuovo,
a disagio: non esiste il nero come l’ultimo respiro. Cosa aveva
quella bambina? La pelle liscia troppo scura; i capelli a caschetto troppo chiari; la mano destra che si muoveva come
brezza spostando una rosa nera; le ali troppo grandi.
Il ragazzo sbatté le palpebre, e riprese aria quando si accorse di fissare la statua dell’angelo e le sue immense ali piumate, leggere e morbide, intagliate nella pietra dura. Si voltò a
guardare la sorella che, inginocchiata a terra, stringeva gli
occhi e le dita – incrociate tra loro – mormorando l’Ave Maria. Come era giusto che fosse, non si era accorta di nulla.
Le accarezzò la testa bionda con dolcezza, come se stesse
toccando qualcosa di troppo fragile. Lei aprì gli occhi e gli
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sorrise con espressione mesta; dopo il funerale, lui non
l’aveva più vista piangere. Né ridere.
«Andiamo a casa, Lulù», le disse con voce sicura.
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Capitolo 1
Journey on to the eternal reward
It's a long way to go
A black angel at your side
Black Angel - The Cult
Anno 2006
Nel cielo di Roma non c’erano nubi, neanche la più piccola
velatura.
Vanth Kriera Nefthari, figlia di Ananke, però, non riusciva
a scorgere più di qualche stella nel blu ovattato della notte.
Fece una smorfia e mosse l’aria davanti a sé con la mano,
come a scacciare l’inquinamento della Città Eterna. Chiuse
gli occhi e abbassò il viso concentrandosi sulle percezioni
non umane del suo corpo.
Di colpo aprì le palpebre, iniziò a correre in uno dei vicoli
di Trastevere e con il passo felpato di un gatto poggiò i piedi
su una panchina, un muro sporco, un lampione spento e di
nuovo il muro fino a superare il cornicione di un palazzo. Si
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fermò sul corrimano di una scala di ferro che portava sulla
terrazza di un privato, accucciandosi sulle gambe; quindi voltò il viso verso il Vittoriano e sorrise.
Dietro i cavalli al galoppo, bloccati per l’eternità in cima al
monumento, un essere bianco come neve osservava le macchine sotto di sé. La ragazza fece forza sui talloni, infilati contro ogni buongusto negli anfibi, e si librò nell’aria, spalancando lunghe ali grigie dietro le spalle. Tre, forse quattro battiti e le suole di gomma si adagiarono sul lato opposto di dove si trovava l’altra creatura che, vedendola arrivare, inclinò
il capo e le sorrise con affettazione.
Anch’egli spalancò le ali bianche, tuttavia si limitò a un volo radente al bordo frontale del Vittoriano, quasi lo stesse accarezzando con i sandali dorati. Invisibile a occhi umani, aggirò la Vittoria alata sulla biga di bronzo e si fermò. «Thari»,
esordì con una voce mielata. «Quell’uomo deve vivere.»
«Akel», replicò lei senza il minimo tentennamento,
«quell’uomo deve morire. Stanotte.»
Lui spostò il peso del corpo su un lato, sfiorando con la
mano una delle ruote della scultura e guardando la ragazza,
immobile due gradoni più sotto rispetto a lui. «Io non vi
comprendo: trovo ridicola la testardaggine di voi Moire.»
Thari sorrise a quell’appellativo. «Non lo devi comprendere
e non capisco neppure perché tu stia tentando di farlo da così
tanto tempo. Ucciderò quell’uomo, Akel, Figlio della Luce, e
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ucciderò anche te se tenterai di impedirmelo; sai che lo farò.»
Lui fece scorrere lo sguardo su di lei, indugiando sulla sua
pelle più nera della pece; indossava due distinti pezzi di stoffa: il primo le copriva il bacino come una gonna corta e leggera; il secondo era un lungo tessuto incrociato avanti e dietro,
drappeggiato in modo da coprirle il seno e stretto da una
cordicella sulla vita. Era una delle poche figlie di Ananke a
vestire in quel modo. Akel era convinto che fosse ridicolo:
troppo corta la gonna, troppo strano l’incrocio delle vesti e
troppo fuori posto gli anfibi; ma ammetteva che, ora che il
corpo di lei aveva assunto quella forma, la rendeva appieno
donna. Una donna sensuale, tuttavia imperfetta.
«Sai, per me è piuttosto frustrante dover combattere con
te, insomma, eri una bambina fino a pochissimi anni fa e lo
sei stata così a lungo che nessuno pensava più a un cambiamento. Un caso che spero di non dover ritrovare in futuro.
Non so come tu ti sia guadagnata un posto, nonostante il tuo
sangue, io non te lo avrei concesso», aggiunse con voce tagliente.
«Non fare l’angioletto sprovveduto, sai benissimo che non
ero una bambina, se non nella forma. O stai ragionando in
termini umani?» lo stuzzicò.
Akel strinse appena le palpebre. «Tesoro, non è la forma
che ti rendeva una bambina, era la tua incapacità di essere
demone. Deve essere dura combattere con il lato umano.»
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«Continui a fare lo sprovveduto o, forse, speri solo di farmi
perdere la pazienza. Gli umani possono chiamarvi angeli, tuttavia siete dei demoni quanto noi, e come tali siete a metà tra
l’essere umano e la divinità; vuoi negarlo, Akel?»
Senza preavviso, lui scoppiò a ridere, scuotendo i capelli
biondi e lucidi anche nel buio della notte. «Thari, sei molto
gentile a farmi queste lezioni di demonologia, un ripasso fa
sempre bene. Tu, però, sei nata perché tua madre aveva deciso di farsi una sana scopata con un umano.» Fece una pausa.
«Vuoi forse negarlo?», le fece il verso.
«Non nego mai ciò che sono, Figlio della Luce», replicò gelida, spostandosi sul gradone più alto senza smettere di
guardarlo. «Al contrario di voi altri, mi sono guadagnata il
mio posto e il mio lavoro.»
«Uccidere umani innocenti?»
«Esattamente.»
Una folata di vento scompigliò a entrambi i capelli chiari.
«Non credi che sia crudele?»
Thari abbassò un poco il mento, sollevò con calma la mano
destra, che portò dietro le scapole piumate, e impugnò l’elsa
della sua spada; la lama emise un sibilo uscendo dalla fodera
che la sosteneva. «Voi angioletti avete la noiosissima capacità
di farmi sempre le stesse identiche domande. Non capisco se
sia un modo per farmi perdere tempo o se siete davvero così
interessati alla mia natura, all’etica del mio sangue e al tentativo di farmi cambiare idea. Purtroppo ho un uomo da far ri10
nascere e un equilibrio da mantenere: se vuoi tentare di fermarmi, fallo; ma chiudi la bocca.»
L’aria calda dell’estate mosse la toga di Akel, che estrasse la
sua spada, aggrottando la fronte. «Sei ingiusta. Lo siete tutte
voi, porterete dolore e lacrime e odio nei confronti di Dio.»
«Porterò Patrizio Esposito nelle mani di Dio; dovresti essere contento», ribatté lei asciutta.
«Non puoi sapere dove andrà.»
Lei alzò gli occhi al cielo, puntò i piedi a terra e sollevò la
spada; in un batter di ciglia si avvicinò all’avversario con un
affondo. Akel parò con la proprio arma, senza scansarsi, e lei
gli fissò gli occhi grigi a pochissimi centimetri di distanza.
«Hai ragione, non so dove andrà, ma so che rinascerà tra poco. E anche tu.»
Lui balzò indietro, flessuoso ed elegante, e con un salto si
posò sul sedere di uno dei cavalli, posando i sandali con la
morbidezza di una piuma. «Quanti angeli hai ucciso? Uno,
due?»
Lei lo raggiunse poggiandosi con grazia sulla testa del quadrupede. «Hai paura di me, Akel?»
«Sai che il Bene prima o poi trionfa sul Male?», le rispose
lui volteggiando intorno a lei.
Thari sfiorò la lama di lui con la propria, quasi volesse saggiarlo con delicatezza. «Chi ti racconta queste favolette, tua
madre? E scrivi anche a Babbo Natale, magari.» La punta
della sua spada disegnò un cerchio perfetto attorno a quella
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di Akel, la scontrò, la sospinse indietro e l’allontano dal proprio torace.
Lui la spostò senza demordere, fluttuò sulla cima del monumento e affondò su di lei, mirando al cuore. «Certo che gli
scrivo», rispose parlando più forte dello stridere acuto delle
lame a contatto. «Io non vado in giro a far morire le persone.
Sono un bambino buono.»
La ragazza volò insieme a lui, le ali appena aperte per non
farle scontrare con quelle di Akel. La bellezza di un perfetto
passo di valzer, ma le armi scesero a incastrarsi sulle impugnature, bloccandoli a vicenda. Entrambi posarono i piedi sul
pavimento della terrazza, tenendosi stretti in un abbraccio.
Lei alzò il viso verso di lui, avrebbe quasi potuto baciarlo.
«Però i tuoi occhi bramano la mia morte», commentò caustica.
Lui sorrise, con una dolcezza che sembrava sincera. «Perché tu sei il Male, tesoro.»
E prima che potesse rendersene conto, la lama di un pugnale le perforò il fianco sinistro.
Gemette.
Liberò la propria spada e fece due passi indietro, guardandosi la ferita, da cui usciva sangue rosso. Sangue umano. Lo
stesso che era rimasto sulla lama che l’aveva colpita. Guardò
Akel e la soddisfazione sul suo volto. «Non puoi uccidermi
con quello», disse senza riuscire a dissimulare la sorpresa di
tale mossa.
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«Lo so», replicò lui, atono. «Ma posso farti molto male. E
quando sarai debole ti finirò con la spada. È questo il bello di
essere del tutto demoni: tu non puoi ferirmi, se non con la
tua spada.»
Thari poggiò il palmo della mano sulla ferita, avvertendo il
calore della propria energia. Akel aveva ragione, era svantaggiata. Poteva evitare lo scontro, curarsi e tornare all’attacco,
ma non aveva tempo a sufficienza: l’umano doveva rinascere
e non avrebbe potuto farlo senza di lei. Continuando a tenere
la mano sulla ferita, alzò di nuovo l’arma contro il suo nemico. Lui sorrise compiaciuto, parando tutti i suoi colpi.
Lei serrò le mascelle e isolò il mondo attorno a sé. Le mille
luci di Roma sparirono, e così il Vittoriano, la brezza tesa sui
tetti, il suono borbottante delle automobili e gli autobus notturni, il fondo scuro dei Fori Imperiali, il cielo, la terra.
C’erano solo lui e lei. I fendenti precisi che scivolavano come
pennellate; i corpi che si muovevano agili roteando con i muscoli tesi.
E il dolore. Il dolore che divampava subito sotto le costole.
Thari chiuse gli occhi e si concentrò sulla percezione mentale
del corpo e l’essenza di lui. E le sue lame.
Vanth Kriera Nefthari era veloce; lo sapevano tutti.
Gli scatti, i volteggi, i balzi felini di Akel non servirono a
molto: quando lei riaprì le palpebre di un nero corvino, lui
era a terra e le stava puntando contro solo il pugnale. Con la
coda dell’occhio poteva scorgere la spada di lui troppo lonta13
na dalla sua mano, non si voltò a guardarla: il volto del nemico ora non riusciva a nascondere la paura. La morte, la vita,
la rinascita; tutti temono ciò che non conoscono.
Lei imprecò in silenzio perché quella paura era nettare
troppo dolce; e troppo crudele anche per lei.
«Uccidimi pure, demone dell’inferno, sarà il Bene a vincere.» La voce di Akel era bassa, tagliente e non tradiva il terrore dipinto nei lineamenti.
Thari spostò la toga di lui con la punta della sua arma, scoprendo il petto del colore dell’alabastro. Prese l’impugnatura
con entrambe le mani e il suo corpo perfetto mostrò tutta la
sicurezza di ciò in cui credeva. «Che Dio ti benedica, Figlio
della Luce», sussurrò.
E la lama rifletté il disco rossiccio della luna che sorgeva a
est, prima di affondare nel cuore azzurro di Akel.
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Capitolo 2
You're my angel,
Come and save me tonight.
You're my angel,
Come and make it all right.
Angel – Aerosmith
Anno 2009
Ryker lasciò la matita sulla scrivania, tra i mille libri aperti,
tutti sottolineati con la penna nera. Poggiò le mani sul viso e
dopo poco si strofinò gli occhi arrossati.
Sospirò osservando le poche righe che aveva scritto sul portatile e lo spense. A breve sarebbe stata ora di cena e non aveva pensato a fare nulla. Dopo essersi lavato le mani, raggiunse la cucina barcollando per la stanchezza.
Lucrezia Mancini gli lanciò un’occhiata e sorrise eccitata.
«Ta-dan!» Con le presine afferrò una teglia fumante e gliela
mostrò.
«Che roba è?», le domandò lui sbigottito.
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Lei gonfiò il petto. «Lasagna. Sei arrivato giusto in tempo,
volevo farti una sorpresa. Forse l’avrei dovuta lasciare un paio di minuti in più, ma quando sei uscito dalla camera l’ho tirata subito fuori.»
Lui parve imbarazzato. «Non ti ho neanche sentita.»
«Lo so, sei troppo preso dalla tesi. Avanti, siediti, fratello.
Mangia al mio regale banchetto.»
Lui si sedette. «Matteo…»
«Matteo l’ho già chiamato. Arriverà; sai com’è, no?»
Lo sapeva. Sapeva che suo fratello viveva in un mondo tutto
suo, fatto di computer, manga e Play Station e sapeva che era
in una fase di rifiuto totale del mondo e delle imposizioni. A
diciannove anni, sembrava un quindicenne scontroso a metà
tra il nerd e il poeta maledetto.
Lucrezia invece sembrava una bambola di porcellana: pelle
liscia e chiara, occhi celesti e capelli biondi; sembrava che
potesse rompersi da un momento all’altro. A sedici anni passava da momenti di euforia a momenti di silenzio e nostalgia
con troppa facilità.
Mangiarono chiacchierando dei compagni di classe della
ragazzina, fino a che il telefono non squillò.
«Questo è papà.» Lucrezia strusciò la sedia sul pavimento e
prese il cordless sul ripiano accanto ai fornelli. «Pronto?
…sì» Fece una smorfia, piegando il lato del labbro inferiore
in un broncio. «Sì, glielo passo.» Allungò il telefono al fratello maggiore. «Vogliono te.»
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Lui osservò il prefisso della Libia e si allontanò dalla cucina.
Lucrezia tese le orecchie ascoltando la voce profonda e sommessa del fratello maggiore e cercando di non farsi assalire
dal martellio del cuore nel petto: suo padre era in Libia per
lavoro e se non era stato lui a chiamare, doveva essergli successo qualcosa.
Matteo entrò nella stanza, anche lui con il sospetto sul viso,
i muscoli facciali tesi sotto la pelle diafana. Fiutavano il peggio, senza avere il coraggio di condividerlo.
Dopo qualche minuto Ryker tornò e fece un sorriso tirato.
«Tra quattro giorni torna papà.» Nonostante lo sforzo, nella
voce non c’era nessuna nota di allegria.
«E?», azzardò Matteo.
Gli occhi azzurri di Ryker, che aveva preso dalla madre danese - come il nome - tremarono di un dolore che tutti loro
conoscevano. «Sta bene. Deve solo essere operato ai piedi,
lui...» La smorfia infantile e innaturale sul visino paffuto della sorella gli colpì il cuore come una frustrata su una ferita
aperta. «Starà bene, Lulù. Non preoccuparti. È solo…»
Lei si alzò in piedi, urtando la sedia alla cassettiera. «Non
voglio sapere niente. Niente!» L’urlo che aveva pensato di
gridare si frammentò in un suono querulo pieno di lacrime
invisibili e violente. Corse in camera chiudendo la porta a
chiave con un cigolio ferruginoso, un secondo prima che
Ryker riuscisse ad afferrare la maniglia.
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Lui la chiamò tentando di spiegarle che non era nulla di
grave, tuttavia gli risposero lo stereo a tutto volume e il rumore sordo della porta della camera di Matteo che si chiudeva con veemenza.
Imprecò a bassa voce. Prese le chiavi di casa, il guinzaglio e
guidò Mars, il loro cane, fuori l’appartamento. Uscì sulla
piazzetta davanti il loro portone e l’aria calda delle ottobrate
romane lo investì.
«Ehi, Mars, decidi tu dove andare.» Il cane dal pelo color
sabbia scodinzolò e lo strattonò verso il Lungotevere. Camminarono per diverso tempo, senza una vera meta, sotto i
platani ondeggianti. Ryker era assorto nei suoi mille pensieri,
nel fiume di emozioni, di odio e rabbia per quella vita ingiusta: suo padre lavorava duro, aveva dato la vita per loro, da
quando la madre era morta, e null’altro poteva capitargli. Ma
al telefono erano stati piuttosto chiari: avrebbe potuto perdere l’uso delle gambe.
Strinse i pugni e si accorse di essere tornato indietro, verso
casa, tre vicoli prima. Nello stesso momento Mars puntò le
zampe sui sampietrini, ringhiando; Ryker strinse le dita intorno al guinzaglio e guardò nella direzione in cui guardava il
proprio cane.
L’ombra troppo nera di una ragazza lo fissò immobile alcuni istanti, quindi con uno scatto si voltò e corse via. Il ragazzo
strattonò Mars e le corse dietro con tutta la forza che aveva
nelle gambe, ripercorrendo i vicoli da cui era venuto. Giunto
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sul Lungotevere Cenci, pensò di averla persa; poi, però,
un’ombra si infilò tra due macchine e con la grazia di un gatto saltò oltre il muretto che delimitava i muri di contenimento del Tevere. Ryker dovette aspettare che passassero due
macchine, infine attraversò la strada e si affacciò dove la ragazza era saltata.
Al di sotto, lungo la banchina, non vi era nulla, a parte un
grosso ratto che, ignaro di qualsiasi altro essere vivente,
sbocconcellava qualcosa di molliccio. Il ragazzo batté il palmo sul marmo del parapetto, chiedendosi come si potesse fare un salto di oltre dieci metri e riuscire a scappare illesi. Si
voltò a guardare il cane con l’intento di rassicurarlo, ma quello gli rispose con uno sguardo incuriosito piegando il capo e
sbattendo la coda allegramente. «Oh, Mars, l’hai vista anche
tu. Ora non puoi dirmi che l’ho sognata, vero?» Ma nella sua
voce c’era incertezza.
***
Il sole tingeva di rosso le punte dei platani nelle strade. Le
foglie secche scendevano dagli alberi con una danza cremisi e
volteggiavano di nuovo beige fino a poggiarsi leggere sul fiume, che, in un attimo, le divorava con la sua foga.
Gli infiniti riflessi color cannella degli alberi e dei tetti di
Roma riempivano la vista scontrandosi con il cielo limpido di
quel giorno. Thari socchiuse gli occhi e assaporò il gusto
morbido degli ultimi raggi sulla pelle.
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«Per mille pergamene, non me ne importa un accidenti di
niente: anelo con ardore tali stivali di magna beltà e saranno
miei, che le tue sorelle proferissero critiche nei miei confronti.»
La ragazza aprì le palpebre evitando di fare una smorfia e
guardò la donna accanto a sé puntare un tallone su una delle
tegole dell’ospedale Fatebenefratelli, sull’Isola Tiberina. «Le
mie sorelle, Iside, sono anche le tue», replicò. «E non mancheranno di criticarti per il resto della tua lunghissima vita;
ne so qualcosa.»
L’altra sollevò le spalle e le fece una linguaccia. I suoi occhi
brillarono come fiamme vive riflettendo il sole. «Mi impossesserò di cotali scarpe, ranocchietta.» Indicò un'antenna poco distante da sé. «Che quell’immondo pentacolo mi sia testimone, saranno mie.»
Thari sorrise. «Non avevo dubbi.»
«Fai bene, graziosa infante, le mie membra ti amano per
questo e… ooohm, la tua voce dovrebbe delucidarmi sui recenti avvenimenti. Codeste orecchie hanno udito losche faccende sulla tua persona.»
Thari aprì la bocca e la richiuse. Benché fosse abituata ai
repentini cambiamenti di argomento di Iside, impiegava
sempre qualche secondo per comprenderla, inoltre, in quel
caso, non era certa di voler affrontare quell’argomento.
«Corpo di mille balene, non fare il pesciolino, ranocchietta.»
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«Scusami. Non credevo che la notizia si fosse già sparsa»,
rispose Thari, senza osservarla.
Iside si sedette di peso accanto a lei. «Perdinci Bacco! Dalle
tue labbra non dovrebbero uscire tali scuse, piuttosto il tuo
cuore dovrebbe orsù domandarsi perché mai non ha proferito parola al mio, tenera infante.»
La ragazza si morse un labbro. Iside era per lei un’amica,
una persona che per anni le aveva fatto da madre e l’unica
che non avesse mai avuto da ridire riguardo al suo essere
mezza umana, tuttavia, proprio per questo legame che aveva
con lei, aveva paura di deluderla. Ora, però, non poteva evitare quell’argomento. «Mi spiace, Iside. Speravo che nessuno
se ne fosse accorto e quindi pensavo che la faccenda sarebbe
finita nel nulla.»
La donna ondeggiò il capo. «Ranocchietta, le tue ali volano
sulla città dell’Impero Romano, come pretendi che nessuno
ne venga al corrente? Illuminami su come l’umano ha potuto
importunarti.»
«Non è stata colpa sua. Ero io che lo seguivo, beh, non lui,
la sorella a dire il vero, ma vedi, io…» Thari sospirò osservando la cupola fulva della Sinagoga trattenere gli ultimi bagliori del sole. «Lo sai, Iside: se mi rendo visibile, riesco a
percepire meglio gli umani, il loro corpo, le loro emozioni.»
«Lo appresi notevole tempo fa e non ti biasimavo per codesta abitudine, quando ti tenevo meco.»
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Thari annuì. «Ora le cose sono diverse. Al mio corpo è stato
concesso di crescere e così al mio ruolo.»
«E sei mirabile nel tuo dovere. Anche se domandi troppo
spesso talune sensazioni.» Le lanciò un’occhiata significativa.
La ragazza sapeva a cosa si riferisse, perché spesso chiedeva
come fosse far rinascere i bambini e, non solo le Figlie di Ananke non avrebbero dovuto provare nulla, ma non avrebbero neanche dovuto chiederselo: non era nella loro natura.
«Se il capo delle milizie verrà a sapere, un grande trambusto
colpirà questo lato dell’orbe.»
«Prima, però, lo sapranno i demoni e mi ostacoleranno in
tutti i modi, chiunque di loro ne venga a conoscenza, vero?»
Thari aveva abbassato la voce fino a farla diventare un sussurro. Il racconto di ciò che aveva fatto non si sarebbe sparso
subito perché nessuno di loro voleva conoscere l’ira di chi era
più potente, tuttavia chi ne fosse stato a conoscenza avrebbe
tentato di eliminare Vanth Kriera Nefthari per aver disobbedito alle regole. «Ho rovinato tutto», sussurrò.
«Oh, ranocchietta.» Iside aprì le ali piumate e con una sfiorò le spalle della ragazza e la strinse in un abbraccio. «Dacché
verranno a bramare la tua carne, io consiglierei, qualsivoglia
loco ove ti trovi, di correr sulle gambe e dissolverti lontano.»
L’altra le posò la testa sulla spalla. «Non posso fuggire, dovrò combattere contro chi mi attaccherà. Non sono colpevole
di come mia madre mi ha messa al mondo, ma se ora la si-
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tuazione è questa, è solo per colpa mia e devo tirarmene fuori
in qualche modo.»
Iside la strinse più forte, sapendo quanto quelle parole fossero vere.
Il sole scivolò oltre l’orizzonte e il cielo si tinse di un rosso
vermiglio, come il sangue di Thari.
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Capitolo 3
Thank you for making me
feel like I am guilty,
making it easy to
murder your sweet memory.
The Undertaker (Renholder Mix) -Puscifer
Anno 2009
«Signore, questa zucca gialla è buonissima.» Gracchiò
un’anziana pulendo un carciofo con un coltello e mostrando
la bocca sdentata ad un uomo pelato.
Thari aggirò la bancarella di frutta e verdura, notando
quanto fossero agili le dita rugose di lei, e si spostò per far
passare una donna che, altrimenti, l’avrebbe attraversata percependo un brivido - due secondi più tardi. Sorrise osservandola tenere per mano una bambina, che a sua volta teneva per mano una piccola Befana su una scopa di paglia. Un
uomo gridò le bontà della carne del suo banchetto e un altro
si lamentò di dover portare un piccolo albero di Natale da solo.
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La ragazza si inebriò del profumo intenso degli aghi
dell’abete, quindi alzò gli occhi verso la statua scura di Giordano Bruno, che la fissava severo da sotto il cappuccio, e decise che vi fossero troppi piccioni; aprì le ali e si appollaiò
sulla ringhiera in ferro battuto di uno dei balconcini di piazza
Campo de’ Fiori. Fin da quando avevano smesso di compiere
le esecuzioni capitali, andava spesso in quel luogo, sia di
giorno che di notte, a respirarne l’aria rilassata, dal sapore
sincero di paese; tuttavia ora era là a seguire Ryker e Lucrezia Mancini fare la spesa.
La ragazzina, il viso incorniciato dai morbidi capelli biondi
che uscivano dal cappello di lana, teneva tra le dita bianche
un pezzo di torrone al miele che le aveva regalato il ragazzo
del bar, e le sue sottili labbra rosate erano macchiate di cioccolato, mentre sorrideva al fratello. Lui le stava dicendo
qualcosa che Thari non riusciva a distinguere in mezzo ai
mille rumori del mercato.
Con le braccia poggiate sulle gambe si beava del frastuono
armonioso degli essere umani, quello presente nei loro corpi
e nelle loro menti. Sapeva che c’erano dei demoni nelle vicinanze, eppure non si aspettava di trovarne proprio nella
piazza in quel momento. Due occhi neri si sollevarono a
guardarla e subito dopo misero a fuoco Ryker dalla parte opposta della piazza. La ragazza quasi planò a terra con un balzo leggero, attutito dalle suole di gomma e rallentato dalle ali
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appena aperte. Estrasse la propria spada cristallina, aggrottando la fronte.
L’altro demone, una donna, le lanciò un’occhiata astiosa,
che non riusciva a dissimulare una vaga paura, e imboccò via
dei Giubbonari. Thari la bloccò prima che potesse prendere il
volo e la spinse in un vicolo più stretto. «Lascia in pace quel
ragazzo», sibilò.
«Ero solo venuta a controllare», farfugliò in risposta l’altra
cercando di liberare il polso dalla presa ferrea di Thari.
Mormorò qualcosa e si spostò guardinga lungo la strada, trascinandosi la ragazza dietro di sé.
Thari la strattonò e studiò i suoi lineamenti contratti, trattenendola su un lato del vicolo. Stessa madre, padri diversi;
era così per la maggior parte delle figlie di Ananke. Quella
che aveva di fronte era molto più giovane di lei, nonostante
avesse un corpo di donna da molto più tempo; non era molto
forte,
ma
soprattutto
non
era
così
coraggiosa.
In
quell’istante, percependo la presenza di un altro demone,
Thari comprese. «Merda!»
«Thari…» Gli occhi dell’altra si spalancarono per lo stupore, mentre si rendeva conto della lama che la trapassava. «Io
non…», provò a dire, tuttavia le parole si affievolirono sulle
sue labbra nere. Una luce azzurrognola filtrò dal suo petto,
divenne sempre più scura e divampò in bagliori quasi tangibili, come i riflessi di un'ossidiana.
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Thari estrasse l’arma dal corpo del demone e batté un pugno sul muro, assaporando il piacere intenso di ciò che aveva
fatto e imprecando per lo stesso motivo. Era conscia di come
le sue mani si muovessero, irrazionali, prima del pensiero;
chiuse gli occhi e dopo un momento li riaprì. «Che Dio ti benedica», lo disse con sincerità, come faceva sempre, ma la
rabbia la divorò di nuovo un istante dopo e si fiondò nella
piazza affollata, con in mano la spada ancora grondante di
sangue azzurro.
L’altro demone, sul bordo più alto dell'unica fontana, situata nel lato nordovest, si preparò all’attacco.
Le loro lame si scontrarono con un fragore acuto; i loro
muscoli si tesero carichi di adrenalina. I piedi erano a qualche centimetro sul pelo dell’acqua, che borbottava ignara nel
freddo dell’inverno.
Thari dovette torcere il corpo in un movimento fulmineo e
fare uno spostamento indietro. «Tua sorella è rinata, Sekhmet Nesert», disse con vago tono accusatorio.
«Tua sorella mi serviva solo a distrarti», replicò parando
con facilità un affondo di Tahri, che sollevò le gambe, evitando un colpo dell’avversaria, la quale, però, le prese di striscio
l'estremità di un’ala. Fingendo incuranza, voltò su se stessa
per dare più forza all’arma. L’altra demone, tuttavia, si allontanò e si fermò sul tetto dell’edicola accanto. «L’avresti già
perso, se quella mocciosetta della sorella non lo avesse fatto
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entrare dentro a quell'affollatissimo forno», disse Sekhmet
con voce tagliente.
«Non puoi farlo, senza permesso», la redarguì, atona.
«No, ma è divertente, quasi come te. E poi lo dovresti sapere: posso ferirlo quanto voglio, basta non farlo rinascere. Lui
sa e non dovrebbe: se qualcuno lo scoprisse, e non è tuo interesse, non avrà da ridire.» Le campane di una chiesa poco
lontana rintoccarono le ore. «Quanto a te, posso farti rinascere quando mi pare.»
Thari alzò il mento. «Fallo», la sfidò.
Sekhmet sorrise beffarda, i lineamenti felini e i capelli voluminosi immobili sotto i raggi del sole abbagliante di mezzogiorno. «Voglio prima giocare con l’umano, e oggi non posso. Il nostro lavoro non aspetta, lo sai.»
Lo sapeva. Puntò l’arma verso di lei. «Quando vuoi.»
«Con piacere.»
***
Due ragazze gemelle dalla chioma riccia e rossa entrarono ridendo nel locale. Avevano il naso piccolo, le lentiggini e gli
occhi verdi come il prato dopo un temporale.
«Ci sono un italiano, un’etiope, un mezzo danese e due irlandesi. Mi sembra un buon inizio per una barzelletta.» I
denti chiari di Helina risaltarono sulla sua carnagione bruna.
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Andrea le fece un gesto di disapprovazione con la mano e
seguì lo sguardo di Ryker. «Quelle sì che sono due fighe. Facciamo una per uno?»
Helina gli assestò un pugno nello stomaco, e Andrea finse
di provare un piacere masochista.
Ryker li guardò e sorrise. «Ringrazia il cielo che in questa
terra ci sia almeno Helina a sopportati.»
Il ragazzo fece una boccaccia e strinse Helina schioccandole un bacio sulle labbra; lei si dimenò ridacchiando. «Va bene, Ryker. Mi accontento della moretta e ti lascio la prima e
la seconda roscia.»
«Come sei gentile, grazie», rispose sarcastico.
«Cos’è questo tono? Non ti accontenti di due strafighe,
buongustaio?» Gli lanciò un’occhiata maliziosa. «Dai, avanti,
sfodera le tue doti di perfetto corteggiatore. Non cascano certo dal pero! Io e Helina ci possiamo benissimo consolare da
soli; pago io, tu vai.»
Ryker osservò la birra nel boccale e la fece girare nel fondo.
Il liquido luccicò riflettendo le luci soffuse del pub. «Tra poco
devo andare via.»
Andrea fece un gesto infastidito con la mano. «A te, Cenerentola te fa ‘n baffo», commentò in romano. «Nemmeno mi’
nonna va a letto così presto.»
Sul vetro, dietro la testa di Ryker, c’era disegnato un Colosseo stilizzato, che proiettava la propria ombra sul tavolo di
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legno. Lui ne seguì il contorno con le dita affusolate. «Devo
andare a prendere Lucrezia.»
«Mandaci Matteo.»
Scosse il capo. «Stasera sta a casa con papà. E poi è mio
dovere…»
«Oh, per favore», lo interruppe l’amico, più aspro di quanto avesse desiderato. «Ma perché è sempre tuo dovere?»,
domandò con più dolcezza. «Tua sorella ha sedici anni, non è
una bambina, o pensi di starle dietro anche quando avrà quarant’anni? Ryker, tutte le tue ragazze ti hanno mollato per
questo. Io capisco la situazione di tuo padre e tutti gli impicci
che hai, ma tua sorella… Alessandra, quando ti ha lasciato,
ha detto che dedicavi più tempo a Lucrezia che a voi due.»
Ryker si strinse nelle spalle. «Non siamo stati insieme»,
replicò laconico.
«Non è questo il punto e tu lo sai. Lei ti ha lasciato perché...»
«So benissimo perché mi ha lasciato. Ma non credo che tu
possa capire.» C’era una nota di accusa, per nulla velata, nella sua voce: Andrea non faceva che parlare male della propria
sorella.
Ryker lo guardò negli occhi. Non era così ingenuo da credere che in tutte le famiglie si vivesse d’amore e d’accordo o per
pensare che tutti si dedicassero al prossimo, tuttavia riteneva
che gli altri non avessero a che fare con Lucrezia.
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Poche persone sapevano cosa volesse dire vivere i primi
dieci anni della propria vita con una madre malata, magrissima, priva di capelli e la pelle perennemente sudata, e poche
di quelle persone avevano il carattere introverso e sensibile
di sua sorella. Era adesso che lei stava rinascendo; adesso
che riusciva a parlare con gli estranei senza trasformare le
sue guance lattiginose in due pomodori maturi. Nell’ultimo
anno, Lucrezia Mancini era migliorata a scuola, aveva iniziato a suonare il pianoforte davanti a qualche amica e aveva iniziato ad andare a qualche festa senza di lui.
A patto che lui fosse vicino, reperibile in ogni momento e
pronto ad andarla a prendere. Lei ricambiava aiutando il padre con le stampelle e facendosi sentire mentre chiacchierava
allegramente al telefono con le amiche, come tutte le sue coetanee.
Ryker sapeva che prima o poi avrebbe volato da sola, ed era
quello che si augurava, quello che pregava tutti i santi giorni
da quando erano bambini. Ora, però, sua sorella iniziava a
mettere per la prima volta il suo visino all’esterno, a toccare
la vita, ad annusarla e sbuffarci addosso come fanno i cavalli
prima di leccare una mano tesa. E lui, per niente al mondo,
avrebbe tradito proprio adesso la sua fiducia.
Andrea stava borbottando qualcosa, qualcosa che Ryker
non aveva ascoltato. Helina diede una leggere botta alla
gamba di lui, poi allungò un braccio e poggiò le dita del colore del cioccolato fondente su quelle ben più chiare di Ryker.
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Gli occhi neri e liquidi di lei lo guardarono con
un’espressione carica di tenerezza da dietro la cascata di riccioli crespi, su cui si stemperava la luce bianca di una candela
dietro il suo capo. Lei e Ryker si conoscevano dal liceo, e mai
in tutti quegli anni Helina gli aveva fatto pesare le abitudini
della sua famiglia o fatto pressione. «Non ascoltare questo
scemo», disse con voce bassa, smorzando la tensione. «Noi
ragazze siamo molto più comprensive: se le tue ex hanno avuto da ridire, si vede che non ne valeva la pena.»
Ryker le sorrise, grato. Come sempre.
32
Capitolo 4
The worst is over now and we can breathe again
I wanna hold you high, you steal my pain away
There's so much left to learn, and no one left to fight
I wanna hold you high and steal your pain.
Broken -Amy Lee feat Seether
Anno 2010
Ryker uscì sulla strada e tirò su la cerniera lampo del giacchetto fino al collo. Le luci giallognole dei lampioni distorcevano le ombre su palazzi, sampietrini e angoli di asfalto. Una
coppia gli passò accanto chiacchierando di un film e poi sparì
verso il ghetto.
Strofinò i palmi delle mani tra loro e si incamminò verso
casa. Al centro di Roma, in tutte le strade sembra esserci
sempre qualcuno: svoltò più di una volta e incontrò un uomo
che camminava di corsa, tre ragazzi che fumavano e una signora con un cane.
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Arrivò davanti il portone di casa sua e tirò fuori le chiavi
dalla tasca, nell’inserirle notò che qualcosa di molto scuro si
rifletteva sulla placca d’ottone. Qualcosa che era al posto della fontana di marmo della piazzetta.
Si voltò di scatto. Qualsiasi cosa fosse, quella sussultò e subito dopo sgusciò dietro a una macchina. Ryker non perse
tempo, attraversò lo slargo e raggiunse le macchine parcheggiate. La figura, più nera del nero, si spostò e con un balzo lo
oltrepassò e corse in un vicolo buio.
Il ragazzo la seguì, ma nell’ombra quell’essere spiccò il volo
e saltò con i piedi da una parete all’altra dei palazzi, fino a
raggiungere i tetti, oltre i cornicioni intagliati.
Ryker fissò il cielo e strinse i pugni. «Maledizione», sussurrò a denti stretti. «Io non ti sto immaginando, io ti ho visto.
Che roba sei?» Domandò a due piccole stelle sbiadite. Fece
un passo indietro e abbassò il mento. «Le chiavi!» Le aveva
lasciate attaccate al portone.
Si voltò.
Con un tonfo sordo, qualcosa piombò davanti a lui rotolando: un latrato di cani e un fruscio di ali frementi. Ali. Piume.
Si immobilizzò terrorizzato dalla paura. Le due o forse tre
creature a terra erano talmente nere da distinguersi
nell’oscurità della strada.
Nel gelo della notte Ryker provò un’ondata di caldo seguito
da un brivido di freddo, come se lava e ghiaccio si stessero
abbattendo sul suo corpo. Non era in grado neppure di ri34
chiudere la bocca, mentre le bestie, i mostri o quello che erano combattevano a meno di due metri da lui.
Poi una delle tre si staccò, si sollevò in piedi e lo guardò. Il
nero della sua figura delineava le forme di una donna, tuttavia due grosse ali grigie si spalancarono dietro di lei, lo raggiunsero e, con una forza che lui non avrebbe mai potuto sospettare sulla punta piumata di alcun uccello, lo attirarono al
viso femminile.
L’essere aprì la bocca mostrando un ghigno di pura crudeltà.
Un altro rumore sordo. Uno scricchiolio. Un urlo.
Nell’aria una tensione fatta di elettricità, di suoni non udibili a orecchio umano e di un dolore bestiale, si liberò come
un’esplosione. Lui, però, non l’avvertì.
«Lascialo andare.» Una voce quasi cristallina provenne da
dietro le spalle del mostro, che liberò il ragazzo con un ringhio stridulo e, prima che lui se ne potesse rendere conto,
mosse una delle due ali verso il fianco del giovane e lo squarciò.
Lo lasciò e con uno scatto fulmineo saltò, prese la creatura
a terra e sparì librandosi nell’aria. Ryker, incredulo, boccheggiò e crollò sulle ginocchia. «Aiuto», pensò di aver gridato. «Aiuto…» ripeté, ma la voce si spense sulle sue labbra.
Uno spostamento d’aria, un giramento di testa; credeva di
essere caduto sul selciato, invece cadeva verso il cielo e le due
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uniche scialbe stelle nella notte romana. La terra… dov’è la
terra? La creatura lo fece sdraiare su un piano sconnesso.
Tegole.
«Ti prego, non…» rantolò.
«Shh.» Dita veloci gli aprirono il giacchetto, sollevarono il
maglione e la camicia e infine lo tastarono. «Credevo peggio.»
Un tepore rassicurante gli accarezzò il fianco, come il sole
sulla pelle in pieno inverno, solo più denso. Poi, la ragazza perché lui aveva sempre pensato che fosse una ragazza - posò
una mano dove era stato colpito e lo guardò.
Occhi neri come il petrolio, come gli abissi più profondi
della terra. Come la notte. Neri come l’ultimo respiro. Come
l’ultimo respiro? Non può essere. Ma erano proprio così.
Dannatamente umani per via della sclera bianca che faceva
risaltare l’iride.
«Cosa sei?», chiese Ryker con voce flebile.
«Mi chiamo Thari.» I suoi capelli argentati scivolarono serici sul volto di lui, mentre lei avvicinava le labbra alla sua
fronte, senza toccarla. «Sai di vita», disse, e il ragazzo respirò
il suo profumo di rose selvatiche. «Potevi morire, ma ora stai
bene.» Allontanò il viso da lui, ma non spostò la mano.
«Cosa sei?», domandò di nuovo Ryker.
Thari aprì e richiuse le ali dietro le spalle. «Secondo te cosa
sono?»
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«Un… angelo. La morte. Un angelo della morte!», farfugliò.
«Oh, be’, non lo so.»
Lei ridacchiò come una bambina. «A volte gli umani ci
hanno chiamati così. Ma siamo demoni. Io sono un demone
della rinascita.»
«Per questo mi hai salvato la vita?»
Lei scosse il capo e la sua capigliatura scintillò in un susseguirsi di fili di raso azzurrino. Spostò la mano e analizzò lo
strato di pelle trafitto che ora aveva solo una leggera macchia
rossa. «Non puoi capire, perché sei umano.»
«Cosa non posso capire?»
La ragazza si sedette sui talloni e guardò i tetti della Città
Eterna seguire pigri la linea ondulata dei colli capitolini. Da
quel punto, attraverso terrazze, antenne e paraboliche, poteva scorgere la cupola di San Pietro, silenziosa in un giallo penetrante. Le illuminazioni, che dal basso salivano verso la
cima dell’enorme basilica, incontravano, oltre agli uccelli
notturni, due figure in lotta tra loro: una figlia di Ananke e
un Figlio della Luce. «Un demone della rinascita», ripeté e si
voltò a scrutarlo. «Non della vita; la vita come la intendete
voi.»
Lui si sollevò sui gomiti, sbattendo le palpebre. Confusione
e incredulità non lo lasciavano pensare in maniera logica; un
susseguirsi di domande affollavano la sua mente. «Tu…» non
era certo di quello che stesse per dire. «Tu eri al funerale di
mia madre. E al cimitero. Ti ho sognata?»
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«No.»
Scorse l’estremità di un'elsa spuntare dietro di lei. «Hai
portato tu via mia madre? Tu sei la morte.»
Si limitò a fissarlo.
Lui provò una morsa allo stomaco, un peso insostenibile.
«Oh, no, sei qui per me, tu… io… mio Dio.»
«Non pronunciare il nome di Dio invano», bisbigliò lei.
«E… non sono qui per te. Non proprio.»
Il ragazzo si sollevò a sedere e studiò la ferita rimarginata
nella luce fioca. «Cosa vuoi da me?» La voce si incrinò.
«Ryker…»
«Come sai il mio nome?» la interruppe brusco.
Lei allungò una mano verso la sua, ma lui la spostò. «Non
sono qui per te. Non nel senso che hai capito: mi incuriosivi e
ti seguivo, nonostante sia contro gli ordini. So che mi hai visto un paio di volte, per sbaglio. Io ti ho seguito molte volte
in più. Ma tu non devi ancora rinascere. Vedi, gli umani morirebbero per cause naturali, sempre; noi ristabiliamo
l’equilibrio. Quando le persone nascono, abbiamo più o meno
idea dell’anima che si troverà in quel corpo e sappiamo
quando la dovremo prendere e portare a nuova vita. Gli antichi per tanto tempo ci hanno definite Moire, il fato, il destino. Sbagliando. Noi decidiamo il momento della rinascita,
non il destino.»
Lui la guardò perplesso. «Eri solo una bambina quando hai
ucciso mia madre.»
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«Quando ho fatto rinascere tua madre», replicò con un
suono che vibrò come un diamante, «non ero una bambina,
sebbene avessi quell’aspetto. E sebbene ora abbia questo.
Non abbiamo un’età, non in termini umani.»
Lui piegò le gambe e le incrociò, abbracciandosi per non
sentire freddo e facendo attenzione a non guardare verso il
basso. «Siete eterni?»
«Solo Dio e Satana sono eterni.»
«Allora esistono davvero? E cosa dice Dio di quello che fate? Di noi?»
«Ryker, non sono interessati alla vostra vita, non come
pensate voi: avete il libero arbitrio, è tutto quello che importa
loro. È quando rinascerete che avrete importanza per loro; le
conseguenze delle vostre libere scelte hanno importanza,
nient’altro. Sono il Bene e il Male, lo saranno sempre e non è
comprensibile per voi.»
«E com’è questa vita dopo la morte?»
Lei si strinse nelle spalle. «Non lo so.»
Ryker rise, per nulla felice. «Questo è un incubo. Non può
essere reale, non posso trovarmi quassù con te, con una cosa
come te, tu…»
«Io sono reale e non sono una ‘cosa’. E…» si fermò stringendo le palpebre. Con un unico movimento fluido e silenzioso si mise in piedi. «Devo portarti a casa. Non puoi stare
qui.»
«Certo che no, sono su un tetto», ironizzò.
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Thari lo fulminò con lo sguardo e lui pensò che fulminare
fosse un eufemismo; una scossa lo percorse in tutto il corpo.
«Ne va della tua vita», disse alzandolo di peso, senza il minimo sforzo.
«Quella di ora o quella che sarà?»
«Quella di ora», rispose lei senza scomporsi. «Ti ho raccontato troppe cose. E non dovevo.» Scivolò dietro di lui e lo
afferrò alla vita, poco sopra la ferita. Prima che lui potesse
anche solo pensare di protestare, lo strinse e si alzò in volo
veloce, ma con un battito d’ali lento e aggraziato.
Ryker chiuse gli occhi aggrappandosi alle sue braccia sottili
e forti e li riaprì lentamente poco dopo. Roma si disegnò sotto i suoi piedi, con le sue mille luci notturne, i suoi monumenti magici e il suo fiume scuro, mentre volteggiavano
nell’aria; possibile che nessuno li avrebbe visti?
«In questo momento non siamo visibili a occhi umani»,
spiegò lei come se gli avesse letto nel pensiero. Virò e puntò
verso il suo palazzo, il suo piano, la sua finestra.
«Ci schianteremo!» gracchiò impaurito, ma la sua finestra
si aprì come se qualcuno li stesse invitando ad entrare, e loro
piombarono dentro.
Ryker dovette respirare a bocca aperta e ritrovare
l’equilibro appena Thari lo lasciò libero. «Morirò lo stesso.
Per cause naturali: infarto.»
«L’infarto non rientra nelle cause naturali», lo informò lei
pragmatica.
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«Ah, no?», chiese, poggiandosi al muro della sua camera e
saggiando la resistenza delle sue gambe.
Lei fece un gesto con la mano. «Lascia perdere. Troppo
complicato per uno come te.»
Ryker spostò le dita sulla parete e, senza staccare gli occhi
da lei, accese la luce. Entrambi sbatterono le palpebre e Thari
chiuse le ali dietro di sé meccanicamente. Indossava un velo
nero come il suo corpo, che le copriva il bacino e il seno; non
aveva nient’altro, a parte gli anfibi.
Lui fece un passo verso di lei, che ne fece uno indietro.
«Hai paura di me, signora Morte?» la apostrofò con una nota
dolce che non aveva previsto.
Lei si morse un labbro color pece, con i denti bianchi come
neve immacolata. «Nessun umano mi ha mai vista.»
«Io sì», ribatté lui fermandosi a venti centimetri da lei.
Thari sollevò il viso verso di lui, con aria sicura. «Ma non
così», precisò perdendosi nei suoi occhi azzurri, che le ricordavano i cieli limpidi delle steppe del nord Europa.
«Non così», convenne, e le poggiò una mano sulla guancia,
in un tocco di seta, ma come se stesse studiando un oggetto,
invece che una persona. «Di cosa sei fatta?»
Lei lo fissò come se non avesse udito la domanda. Inchiodata dallo sguardo di lui, si sforzò di celare un’ondata di panico, che non sapeva giustificare. Il suo cuore vermiglio pulsava fremente e rimbombava con mille eco in ogni singola
parte del corpo. Spostò l’attenzione oltre le spalle di lui, dove
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si trovava una foto della famiglia Mancini di molti anni prima: due adulti e tre bambini dai capelli biondo oro e morbidi
riflessi di sole. «Sono un demone», rispose quasi in un sussurro «e i demoni sono in parte umani e in parte no. Quello
che vedi è un corpo umano con poteri non umani.»
Ryker osservò i suoi lineamenti perfetti, le labbra piene e
socchiuse, il naso delicato; sollevò l’altra mano. «E le tue ali?» domandò toccandole.
«Sono fatte di muscoli, tendini, pelle e piume. Ossa e sangue.»
Se il profumo di rose selvatiche che emanava da quel corpo
così scuro fosse stato nettare da bere, lui non ne sarebbe mai
stato sazio. Le sfiorò la spalla scoperta. «E la tua carnagione?
Troppo sole?» Sorrise.
«È la mia essenza.»
Il ragazzo scostò le dita con uno scatto e lei strinse le labbra, pentendosi di avergli risposto la pura verità. Thari chiuse gli occhi. «Devo andare. Metti sulla tua ferita una pomata
per le scottature», aggiunse.
«Mi scorderò di tutto questo, vero?»
Tornò a guardarlo e con tre passi lenti, all’indietro, raggiunse la finestra e spalancò i battenti con mani invisibili. Il
vento metallico e sferzante di gennaio colpì Ryker, che ancora una volta si strinse nella giacca. «Se avessi tale potere, risparmierei ad entrambi i guai che sicuramente seguiranno a
causa di questa notte.»
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Con uno slancio saltò fuori, spalancando le ali color cenere.
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Capitolo 5
I wonder every day
as I look upon your face, aw huh...
everything you gave,
and nothing you would take, aw huh...
nothing you would take
everything you gave.
Did I say that I need you?
Just Breathe - Pearl Jam
Anno 2010
Il ticchettio monotono dell’orologio tamburellava implacabile
nella sua mente. Ryker mugolò schiacciando il cuscino con
un pugno. La sveglia segnava le dieci del mattino; era mercoledì e suo padre era a una visita medica con Matteo, mentre
Lucrezia era a scuola; e lui sarebbe dovuto essere già fuori
casa, al ricevimento del suo relatore.
Non era da lui dormire a lungo la mattina, eppure in quel
periodo passava le notti tra incubi e insonnia e l’alba tardiva
dell’inverno giungeva fin troppo rapida e luminosa.
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Si preparò in fretta e raggiunse l’università con la metro,
maledicendo il sudiciume della linea B, che sembrava volergli
restare sulle dita per giorni interi. Il suo professore gli disse
che le vacanze natalizie lo avevano distratto troppo e che avrebbe dovuto fare qualcosa, magari scendere dalle nuvole e
tornare in mezzo ai mortali. Ryker pensava che la richiesta
fosse quantomeno plausibile.
Rimase in biblioteca, cercando di concentrarsi; un tentativo vano che gli costava una forte emicrania. Gli occhi neri di
Thari lo perseguitavano da quando era stato sul tetto assieme
a lei. Per non parlare del fatto che non fosse per niente certo
di aver vissuto quel momento e tutti quelli a seguire in cui
avvertiva fruscii e risatine.
Si era svegliato nella sua camera, il mattino dopo quel primo incontro, certo di aver fatto un brutto sogno. Poco dopo,
però, il portiere aveva portato le loro chiavi, raccontando di
averle trovate attaccate al portone. La famiglia gli aveva chiesto come fosse riuscito ad entrare in casa senza, e il padre,
Massimo, lo aveva accusato di essere tornato a casa ubriaco.
Ryker avrebbe voluto rispondere loro qualcosa di sensato,
ma dalle sue labbra uscivano solo parole sconnesse.
Non era ubriaco, non aveva neppure bevuto tanto quella
sera e, anche fosse stato, non avrebbe potuto aprire la porta
di casa con il solo potere dell’alcool. Ma cosa doveva dire, che
aveva visto la Morte? Che era volato su un tetto e aveva fatto
quattro chiacchiere sul Bene e il Male? Ryker non sapeva a
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cosa credere: se le sue chiavi non fossero rimaste alla portata
di tutti, forse il resto avrebbe avuto un senso. Forse qualcuno
lo aveva aggredito per strada, lacerandogli i vestiti e bruciandogli un fianco, ma le sue chiavi erano rimaste là.
Se solo suo padre non avesse avuto una marea di problemi
di cui occuparsi, lui avrebbe potuto parlargliene. Non era così, e non gli avrebbe regalato un ulteriore impiccio: un figlio
pazzo.
Poco dopo le diciannove uscì dalla biblioteca e inviò un
messaggio alla sorella, avvisandola del ritardo. Decise di percorrere l’ultimo tratto di strada a piedi per non dover aspettare l’autobus.
Durante il giorno aveva piovuto e ora l’aria fredda era umida e sembrava intenzionata a voler raggiungere le ossa di
qualsiasi essere vivente. Un sospiro gli uscì vaporoso dalla
bocca congelata.
Accelerò il passo, poi qualcosa lo bloccò, come se qualcuno
lo avesse trattenuto per la giacca. Si voltò a guardare dietro
di sé, ma vide solo una ragazzina imbacuccata e del tutto vestita di viola portare a spasso il cane, che aveva un guinzaglio
dello stesso colore. Ryker sorrise, la osservò imboccare un altro vicolo, e tornò sui suoi passi.
Un fruscio veloce raggiunse le sue orecchie e lui si fermò.
Uno spostamento d’aria, un altro fruscio. Lui aggrottò la
fronte e tese le orecchie. Qualcosa gli sfiorò una guancia, simile a una carezza.
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«Thari?» mormorò.
Gli rispose il gocciolare d’acqua di una grondaia.
Poi un brivido, una frazione di secondo in cui tutto divenne
buio - un solo istante - come se la luce si fosse spenta e riaccesa per un abbassamento di tensione. Ryker sbatté le palpebre, pensando che l’impressione fosse quella che lo spostamento d’aria fosse dentro di lui. «Thari, sei tu?» ripeté, e si
sentì uno sciocco.
Stava impazzendo. Aveva le traveggole, sentiva rumori, vedeva la Morte, si sentiva pedinato. Stava diventando matto,
come le persone che si vedono nei thriller o negli horror. Sarebbe finito da uno psichiatra; lui… l’unico che aveva superato indenne la morte della madre. Forse non era andata proprio così. Forse adesso manifestava ciò che per anni aveva taciuto, il suo squilibrio era rimasto latente e ora veniva a galla.
In fondo i suoi fratelli non erano normali.
Provò una fitta di dolore a quel pensiero. Il cuore gli salì in
gola. Paura e rabbia, come infinite punture di spilli nel petto.
Si obbligò a correre verso casa, ma, non appena allungò un
passo, qualcosa lo fece cadere.
I palmi delle mani strusciarono a terra e bruciarono, lui le
girò e le guardò con il respiro corto. Irrigidita dal freddo, la
pelle si era subito spaccata, sanguinando. I guanti, la crema,
non usava mai nulla. Ma a cosa sto pensando? Ryker si
guardò intorno, il fruscio insistete, la sensazione che avrebbe
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potuto piangere come un moccioso. Cercò di fare un respiro
profondo.
«Lasciami in pace...» La voce carica del panico che lo stava
divorando.
Una folata di vento, un battito d’ali e di nuovo tornò ad ascoltare il gocciolare secco dell’acqua piovana.
***
Il termometro segnava 36,6 gradi. Ryker sbuffò.
Era a letto e sentì che suo padre stava lavando i piatti,
compito che avrebbe dovuto svolgere lui. Incubi e traveggole
lo perseguitavano e la sua famiglia lo guardava preoccupata
pur non sapendo cosa stesse vivendo. Lanciò un pugno al cuscino, come faceva spesso, e rimase a sentire i rumori della
casa,
fino
a
che
Massimo
Mancini
non
uscì
dall’appartamento con passo claudicante.
Non aveva la febbre, quindi si alzò per fare una doccia calda. In camera si vestì con insofferenza e poi cercò di sistemare la stanza; stava rimettendo dei libri su uno scaffale quando
un brivido di freddo lo colpì alla schiena.
Si voltò e trasalì. «Thari!»
«Ciao. Non volevo spaventarti.» La finestra si richiuse senza emettere suoni.
Lui strabuzzò gli occhi; il battito ancora accelerato. «Non
volevi… Porca miseria, che stai combinando? Non potevi
bussare al vetro?»
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«Prima che tu potessi vedermi e aprire, mi avrebbe vista
tutto il tuo quartiere.»
Indicò la porta. «La prossima volta bussi da là.»
Thari pencolò sulle gambe. «Ti va di uscire? Non mi trovo a
mio agio qui. Devo parlarti.»
Ryker poggiò le spalle alla parete e premette tra gli occhi
con le dita. Era mattina e già aveva l’emicrania. «Ancora non
capisco se sto sognando. Portami dove vuoi.» La finestra si
riaprì. «Oh, no; dimmi che non dobbiamo volare.»
Volarono.
Il corpo di Ryker rigido tra le braccia di Thari, l’aria frizzantina che pizzicava la pelle, il cielo terso che brillava infinito sulla città. Roma sembrava un animale in collera, una districata distesa di vene pulsanti, dal respiro spezzato; giaceva
turbolenta nel prato verde e tutt’intorno la neve. La neve dei
monti laziali, silenzioso guanto a cingere la rabbia.
Prima di poter osservare il mare a ovest, i piedi del ragazzo
toccarono una superficie dura. Thari non lo lasciò e lo poggiò
con straordinaria delicatezza sulla parte più alta del Colosseo.
«Devi sempre scegliere posti così alti?» Si lamentò Ryker.
Lei gli mostrò un sorriso; la dolcezza che illuminava il suo
viso scuro. «Soffri di vertigini?»
«No», rispose troppo velocemente. Guardò un gruppo di
turisti adolescenti ai piedi dell’anfiteatro. «Ecco, non vorrei
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finire spiaccicato in mezzo a quella bolgia di ragazzini urlanti. Le nuove generazioni sono insopportabili.»
Lei si sedette, obbligandolo a fare lo stesso. «Non finirai
spiaccicato da nessuna parte.»
Ryker sospirò, tentando di liberare il polso dalla stretta di
lei, la quale, però, non lo lasciò. «Starò anche diventando
matto, ma posso farcela.»
«Ne sono certa. Tuttavia se perdi il contatto con me, risulterai visibile a tutti, allora sì, che tutti penseranno che sia
matto a startene tutto solo in cima all’anfiteatro Flavio.» Fece penzolare i piedi oltre il bordo esterno del monumento e
guardò Ryker incrociare le gambe e poggiare il palmo sul travertino. Lei liberò il suo polso e poggiò la propria mano su
quella di lui.
«Quindi dobbiamo toccarci sempre?», domandò Ryker osservando la loro differenza di colore. Lei parve in imbarazzo,
allora lui proseguì cambiando discorso. «Che cosa volevi
dirmi? Che sono pazzo perché parlo con la Morte?»
«Non sei pazzo. Sei solo venuto a conoscenza di un mondo
che gli umani non dovrebbero conoscere», rispose con semplicità. «Anzi, direi che l’hai presa piuttosto bene.»
«Così bene che farei il bis.» Le lanciò un’occhiataccia.
Lei piegò il capo, e rimase in silenzio. I capelli scivolavano
nell’aria, scomposti; le coprivano parte del volto, avevano il
candore della neve e come neve brillavano di azzurro e
d’argento sotto il cielo. La pelle nera, alla luce del giorno, as50
sumeva dei riflessi più chiari come fosse ossidiana. Ryker notò che a differenza di Helina, la pelle di Thari non era una tonalità scura del marrone, bensì del grigio.
«Mi piace quello che provi per la tua famiglia», disse lei osservando un gabbiano volteggiare nell’aria. «Tu sei un umano strano: ti dedichi a loro senza volere nulla in cambio, mai.
Non ami la tua famiglia perché è perfetta, perché ti fa ridere
e ti permette un dialogo; non la ami perché ti lascia libero o
perché devi. La ami perché non puoi fare diversamente, nutri
un sentimento che trovo difficile assaporare su questa terra.
Non è l’amore che alcune madri provano per i figli, è qualcosa di diverso. Ed è intenso, riempie il tuo essere.»
Ryker aveva aggrottato la fronte, nel tentativo di comprendere cosa il demone stesse dicendo. «Beh, sai, la morte di
mia madre…»
«Lo eri anche prima», lo interruppe con dolcezza. «Lo sei
sempre stato, hai sempre avuto questo amore puro per loro;
il desiderio implacabile di dare il tuo meglio per essere
d’aiuto.» Thari strinse le labbra. «È per questo che ti seguivo.
La percezione di ciò che provi, di quello che vivi, mi affascina, mi invade. Io sono figlia di un umano e rendermi visibile
mi permette di avvertire meglio alcune sensazioni.»
«Perché?»
Si strinse nelle spalle. «Non lo so. Da quando sono nata
non ho mai conosciuto nessuno come me. Sono figlia di un
uomo di questa epoca.»
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«Quale epoca?»
Lei mosse una mano a disegnare un semicerchio intorno a
loro. «Questa. Quella che conoscete voi. In altre epoche, epoche che voi neppure immaginate, ci sono stati figli come me,
che nascevano dall’incontro di esseri umani e demoni. Ma i
demoni hanno compiti precisi, incomprensibili agli umani e
gli umani impazziscono facilmente, così è stato vietato ogni
legame. Quando mia madre ha infranto questa regola, non
erano ancora previste conseguenze. Ora sono stata io a infrangerla e ci sono conseguenze ben precise. Se nessuno avesse saputo, avresti potuto continuare a vivere la tua vita e
io la mia. Se il capo delle milizie dovesse venirne a conoscenza, tu potresti salvarti con una perdita di memoria di ciò che
sai, tuttavia in quel caso io non avrei più la possibilità di agire su questo piano dell’esistenza; sul piano umano. Perderei
l’essenza di ciò che sono, come figlia di Ananke, come demone della rinascita. Di fatto, perderei la parte più importante d
me.» Thari fece una pausa. Scrutò l’espressione concentrata
di lui, le ombre della confusione. Osservò i riflessi biondi tra i
capelli color cenere e sperò che lui potesse comprendere almeno in parte. «Al momento, il capo delle milizie non ne è a
conoscenza, ma alcuni demoni lo hanno saputo. Questo vuol
dire che si sentono liberi di poterti dare fastidio.»
«Sono loro a perseguitarmi quando sono solo?», chiese lui
a voce bassissima.
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«Sì. Ed è il minimo: quello che potrebbero fare può andare
molto oltre. Non abbiamo molto tempo a nostra disposizione: passiamo l’esistenza a far rinascere umani, e a seguire coloro per i quali è stata stabilita una morte non naturale, per
studiare i loro comportamenti, la loro anima, per studiare il
modo più giusto di farli rinascere.»
«Ci meritiamo il modo migliore per morire?», domandò
sorpreso Ryker.
«No. Il modo migliore per noi.»
«E per te il modo migliore per far morire mia madre era un
cancro all’utero? Una malattia durata più di cinque anni?»
Thari fu investita dalla collera di lui, dal dolore e l’odio. Era
l’odio, in una persona che non lo aveva mai provato, a farla
fremere. Premette la mano su quella agitata del ragazzo per
non lasciarla andare.
«Perché? Dimmi almeno perché?» Lo sguardo mesto negli
occhi blu aveva un sapore amaro.
«Ryker», mormorò, «non farmi domande di cui non vuoi
conoscere la risposta. Non sei in grado di comprenderle, non
puoi farlo. Posso dirti solo che le sofferenze che vivete, alcune di esse, non sono frutto delle vostre azioni. Non sono io a
decidere quando una persona deve rinascere, né il modo in
cui avviene. Noi riportiamo quello che vediamo e altri decidono come e quando dobbiamo agire.»
«E tu non puoi smettere di farlo? Non sai il dolore che provochi?» C’era ancora rabbia nella sua voce.
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C’erano figlie di Ananke che sul momento di far rinascere
alcune persone, non trovavano la forza. Erano là, accanto a
loro, ma poi se ne andavano lasciando la loro fragranza di rose selvatiche, senza terminare il lavoro per cui erano nate e
subendone tutte le conseguenze. Lei non sapeva cosa volesse
dire. «Smetteresti di respirare, se sapessi che fa male a qualcuno?»
Ryker rimase in silenzio, lo sconcerto sul viso, il battito accelerato. «Perché mi fanno questo? Perché lo trovano divertente?»
Thari abbassò il mento. «Per alcuni di noi è divertente e…»
Si morse un labbro. «È un modo per prendersela anche con
me?»
«Con te?»
«Mio padre era un umano: è come se mi mancasse qualcosa, come se non fossi una di loro. Ho un compito che, per alcuni, non mi spetta. Ho commesso un errore, e non avrei mai
dovuto farlo, lo pagherò caro.» Posò di nuovo lo sguardo su
di lui. «Mi dispiace, Ryker, non volevo farti questo. Loro non
si comporteranno bene con te e non so a cosa dovrai andare
incontro.» Negli occhi tremò una luce di dispiacere e disprezzo. Disprezzo per se stessa.
Lui la fissò, tentando di districarsi in quel groviglio di emozioni: rabbia e frustrazione, la paura che si arrampicava nel
suo corpo come edera opprimente e ondate di vertigini che si
abbattevano su di lui graffiando e ruggendo. Non ultimo un
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senso di tenerezza. Tenerezza per quel demone dalla pelle
corvina, che avrebbe potuto essere una qualsiasi ragazza sincera e bellissima sotto i raggi del sole. Tuttavia non lo era:
era un demone della rinascita, della morte, che aveva portato
via sua madre, lo aveva seguito per anni e ora aveva rovinato
la sua vita e la sua sanità mentale. E gli altri demoni, ora, Dio
solo sapeva cosa gli avrebbero fatto. «Non serve a nulla pregare?», chiese in fine.
Lei strinse le palpebre, senza capire se fosse un tentativo di
cambiare argomento. «Dipende.»
«Oh, fantastico!» Il ragazzo guardò accigliato i giardini del
Monte Oppio sollevarsi fin quasi alla loro altezza.
«Pregare per chiedere qualcosa non serve a molto, non c’è
nessuno ad ascoltarti. Ma pregare con il cuore serve alla costruzione della vita che sarà. Se preghi con sincerità, sarà la
tua anima a beneficiarne, non il tuo corpo.»
Ryker fece un gesto brusco con la mano libera, come a dire
di lasciar perdere.
«E sono ascoltate le preghiere contro la possessione degli
umani», continuò lei. «Per evitare di essere posseduti o per
far andare via chi possiede un corpo umano», spiegò.
«Ah, sì? E cosa hanno di particolare queste preghiere?»
Chiese in tono scettico.
«Non si possono possedere gli umani: viola il libero arbitrio.»
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Lui scosse il capo. Come se non volesse accettare o non volesse più capire altro. «Ora che mi hai detto queste cose, cosa
vuoi che faccia? Cosa vuoi da me?»
Un fruscio sordo. «Perdinci Bacco, le mie ali giungono al
momento appropriato.»
Ryker trasalì, mentre due occhi spaventosi lo fissarono,
all’improvviso, da molto vicino.
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Capitolo 6
Now that I know what I'm without
you can't just leave me.
Breathe into me and make me real
Bring me to life.
Bring me to life - Evanescence
Anno 2010
Il volo più alto che aveva fatto a terra, era stato a dieci anni,
da un muretto alto un metro e mezzo, mentre rincorreva un
compagno di scuola nel giardino delle elementari, arrampicandosi - a detta della maestra - come un selvaggio. Il mondo
si era rivoltato per la frazione di un secondo, le ginocchia avevano iniziato a bruciargli in maniera insopportabile, così
come le mani e il gomito che aveva strusciato la parete, spellandolo. Si era fatto male, ma era rimasto a casa due giorni,
lo avevano sgridato e poi coccolato e i suoi compagni gli avevano fatto un sacco di domande; era stato divertente.
Cadere dal punto più alto del Colosseo non gli parve altrettanto divertente. Ryker ringraziò di essere perfettamente al
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centro del muro di travertino. Dal basso non sembrava neppure così largo, come, in effetti, era nella realtà.
Il demone davanti a lui scostò il viso e ciondolò il capo.
«Codesto figliolo ha lo faccino di un cherubino», disse a Thari. «Ma la sua beltà ha il mio rispettabile, totale, consenso.
Oh, perdona il riprovevole ritardo, ranocchietta: il dottore
non permetteva alle mie abili mani di far rinascere il suo insulso paziente.»
Ryker, immobile, studiava la donna alata. Era simile a Thari, ma più formosa, poco più bassa, con le vesti lunghe e i capelli, chiarissimi, raccolti sopra la nuca; tuttavia a renderla
davvero diversa erano gli occhi: privi di pupilla, iride o sclera, erano del tutto neri e, liquidi, sembravano osservalo come
animali in agguato.
Thari, a sua volta, rimase a studiare il ragazzo, i suoi sentimenti e le espressioni del volto. Di nuovo strinse le dita sul
polso di lui e avvertì le pulsazioni veloci. «Lei è Iside», disse.
L’altra staccò i piedi dal monumento, aprì le ali allontanandosi di circa un metro, nell’aria, davanti al ragazzo.
«Hskateltre Mpteri Iside, figlia di Ananke.» Fece un elegante
e profondo inchino.
Ryker non nascose la sua confusione; incerto, allungò una
mano. «Ryker Mancini, figlio… di Massimo.»
Si diede dell’imbecille, ma Iside mostrò un sorriso sfolgorante, gli afferrò la mano con entrambe le sue e gliela baciò
sul dorso chiaro. «Ah, ranocchietta, questo biondo fanciullo
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lubrifica gli occhi miei.» Lo lasciò e volteggiò nell’aria. «Da
quanto lo conosci?», domandò alla ragazza.
«Da qualche giorno.»
«A dire il vero», intervenne Ryker con una nota di rimprovero, «ci conosciamo da otto anni.»
Thari aggrottò la fronte, voltandosi a guardarlo. «A dire il
vero, ti conosco da quando sei nato», precisò scontrosa.
Iside sbatté le ali. «Oh, bene, bene, c’è un’astiosa confusione tra voi due. Mi sono impossessata degli stivali che tanto
bramavo proprio ieri.»
«Cosa?», chiese Ryker incredulo a quel repentino cambio
di argomento.
«Oh, sì, umano fanciullo, proprio ieri. Dove desiderano
andare le tue virili gambe? Io un luogo in tale borbottante
orbe lo posseggo.» Gli occhi lucenti di Iside lo fissarono.
«Cosa?», ripeté Ryker.
Lei guardò Thari. «Le sue corde vocali non esprimevano il
dissenso nel rimanere in codesta urbe?»
L’altra scosse il capo. «No, quando sei arrivata mi stava
chiedendo cosa volessi da lui.»
«Oh, i miei pensieri hanno viaggiato di puerile fantasia. Bisogna, dunque, ristabilire l’ordine di tale favella.»
Il ragazzo fece un gesto spazientito con la mano. «Non c’è
nulla da riordinare: voglio solo sapere come posso liberarmi
da chi mi perseguita. E di tutta questa storia.»
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«Per mille pargoli! Raffredda il core palpitante e lo spirito
bollente», lo rimbeccò Iside. «Or dunque, spalanca i padiglioni, e odi quanto ho da dire, misero umano fanciullo: mia
sorella, Vanth Kriera Nefthari, demone della rinascita, figlia
di Ananke e di un disperso, rinato et strabiliante umano, parlò meco e mi illustrò la raccapricciante situazione.» Poggiò
una mano su un fianco e con l’altra lo indicò. «Tu venisti a
conoscenza del mondo superiore, a causa della sua inosservanza delle leggi della milizia celeste.» Indicò Thari e poi di
nuovo lui. «Tu attirasti l’attenzione dei demoni venuti a conoscenza dell’orrido misfatto e subisti le loro perfide angherie. Sekhmet Nesert in particolar modo, amante della bieca
violenza, della vendetta e dell’umana paura, trova in te un
degno divertimento. Non temendo l’ira del capo delle da me
citate milizie, in quanto nessun demone è, orsù, interessato a
riferire il verbo a chi comanda e possiede reazioni imprevedibili, continuerà a infliggere su te la sua efferata goduria.»
Iside tamburellò le dita sul capo. «È corretto, ranocchietta?»
Thari esitò un istante e poi annuì.
«Poiché Sekhmet, figlia di Ananke, nell’odierna epoca riporta a vita nuova gli abitanti della Città Eterna e dell’italica
penisola, le mie labbra coraggiose consigliano di raggiungere
lidi ben lontani, per qualche ellissi di luna.»
«Che cosa vuol dire?», domandò il ragazzo.
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«Vuol dire», gli rispose Thari «che devi lasciare l’Italia per
un po’ di tempo, e che dovresti vivere in un luogo isolato: dove non vi sono altri umani, non vi sono altri demoni.»
Ryker emise un suono basso, una risata disarticolata. «Stai
scherzando?»
«Giammai», tuonò Iside. «Dalla mia elegante bocca non
puoi udire uscir menzogne, pargolo umano.»
«Voi… voi non sapete di cosa state parlando. Ho una tesi
da dare, mia sorella va a scuola, mio fratello lavora e mio padre…»
«Loro rimarranno qui», lo interruppe con dolcezza la ragazza.
«Oh, certo, che sciocco che sono a pensare di poter andare
con qualcuno. E poi dove dovrei mai andare?»
Le ali di Iside sbatterono con palese allegria. «Oh, nella
mia… nella mia… domus... domus, come si dice, per mille tegole rotte?»
«Casa», suggerì Thari.
«Andrai nella mia immensa et sicurissima casa che sorge
occultata nell’ambrato deserto del Sahara.» La donna parve
felice e dondolò il capo.
Ryker guardò perplesso Thari e di nuovo Iside. Non poteva
credere a quanto stesse accadendo, a quello che stava vivendo in quell’ultimo periodo, era davvero troppo; e ciò che Iside gli stava proponendo era così assurdo che quasi gli veniva
da ridere. «No. Io non vado da nessuna parte.»
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«Soave fanciullo, ardisci replicare?»
«Io non ardisco niente, questa è la mia vita, e la mia famiglia ha bisogno di me, qui.» Le scoccò un’occhiataccia, che
non produsse nessun effetto.
«Orbene, allora attenderai che le acque si calmeranno da sé
o che il capo delle milizie venga a sapere del fatto e ti strappi
un po’ di memoria.» Iside volteggiò, incurante, intorno a loro
e infine posò i piedi, stretti in luminosi sandali argentati, sul
travertino. Le sue vesti svolazzarono sopra l’anfiteatro, disegnando morbide figure circolari che parevano danzare una
musica che il ragazzo non era in grado di udire; tutto ciò che
sentiva era il borbottio delle automobili, degli autobus e dei
motorini che dal rione Monti, da San Giovanni o dal vicino
Circo Massimo si riversavano sotto di loro. E udiva il battito
appena un po’ accelerato del proprio cuore. «Posso scendere?»
La donna piegò il viso versò di lui; il sole penetrò i suoi occhi demoniaci che, nel guardarlo, scivolarono come anguille
bagnate. Ryker strinse le labbra e spostò lo sguardo su Thari,
costringendosi a non spostarlo più, neppure quando l’altra
parlò.
«Le tue braccia si apprestano a fare le valige?», domandò.
Lui scosse la testa. «Torno a casa e, se possibile, vorrei non
vedere più nessuno di voi. È possibile?», chiese con un tono
di voce troppo basso.
Questa volta fu la ragazza e distogliere lo sguardo.
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«Oh, vi è una tale penuria di delicatezza negli umani»,
commentò Iside, rimanendo immobile quanto il Colosseo.
«Ranocchietta, non lasciarti avviluppare dallo scoramento,
lascia stare: siffatte creature non posseggono il dono
dell’empatia. Ah, se fossi stata il Creatore di tutti noi, io avrei
lasciato loro una buona dose di inumana comprensione. Ma
per l’appunto…» Si accucciò sulle gambe e osservò distrattamente verso la strada. «Il fatto è terribilmente increscioso,
biondo infante, tuttavia possiamo lasciarti condurre la tua
vita senza di noi, ma nulla possiamo fare per altri demoni che
ti perseguiteranno, potrai solo attendere che si dimentichino
della tua nuova conoscenza e del loro rapporto con Thari, la
qualcosa richiede tempore inimmaginato, poiché a tutto ciò
io non posso rispondere. Questo tipo di veggenza non ci appartiene.» La donna farfugliò qualcosa in una lingua che
Ryker non conosceva, né avrebbe potuto conoscere.
Quando rimase in silenzio fu Thari ad annuire. Si voltò in
maniera tanto brusca che la punta della sua spada grattò sul
travertino. «Allora sei certo di non volere il tipo di aiuto che
ti offriamo e di non volere più avere a che fare con noi due, al
costo di combattere da solo con chi verrà a disturbarti?»
Ryker aprì la bocca e la richiuse. Vista in quel modo, la situazione non era affatto rosea, tuttavia ora che sapeva che
dei demoni avevano l’intenzione di giocare con lui e spaventarlo, sapeva di poter resistere. Non desiderava uscire dalla
sua camera passando per la finestra, né finire su qualche alto
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monumento della Capitale; e sicuramente non aveva nessuna
intenzione di andare nel Sahara. Tuttavia, quando rispose,
non la guardò. «Sì.»
Thari, invece, lo guardò a lungo prima di parlare con un
tono privo di qualsiasi emozione. «Ti porto a casa.»
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Capitolo 7
Waking up I see that everything is ok
The first time in my life and now it's so great
Slowing down I look around and I am so amazed
I think about the little things that make life great
I wouldn't change a thing about it
This is the best feeling
Innocence - Avril Lavigne
Anno 2010
C’era un silenzio insolito, quasi fastidioso.
Ryker iniziava ad odiare la mattina: si svegliava sempre
troppo presto, la notte dormiva male e quando scendeva dal
letto si sentiva come se avesse un macigno addosso; la tesi, i
documenti e la stampa lo stavano facendo impazzire e, come
se questo in una perfetta vita normale non fosse già abbastanza, due o tre volte a settimana veniva qualche demone,
che lui neppure vedeva, a strattonarlo, a frusciare le ali nelle
sue orecchie e Dio solo sa cos’altro combinassero.
Lui faceva finta di nulla, come se vi fossero delle mosche
fastidiose intorno a lui, dalle quali non voleva essere distratto
per nessun motivo. Sperava che si stancassero quanto prima,
ma temeva che le cose stessero solo peggiorando perché chi65
unque fosse a compiere quei dispetti, prendeva la sua indifferenza come una sfida e talvolta era andato a importunarlo in
pieno giorno, tra la gente. Se non divento pazzo, saranno gli
altri a credere che lo sia. Si ripeteva ogni volta.
Sospirò rigirandosi nelle coperte. Tese le orecchie per capire come mai vi fosse tutto quel silenzio, poi un rumore sordo
lo fece sobbalzare. La porta di Lucrezia, dall’altra parte della
casa, aveva sbattuto con violenza; poi i passi concitati nel
corridoio.
Ryker si mise a sedere nel momento esatto in cui la sorella
entrava in camera. Il sorriso infantile che riempiva il volto di
lei lo stupì. «Ehi, pigrone di un fratello», gridò eccitata, «nevica!» Lo afferrò per un braccio e lo tirò fuori dal letto. «Vieni. Vieni a vedere. Nevica, ma una cifra!»
Lui, ancora rintronato, la seguì, senza riuscire a mettersi le
pantofole. Anche Matteo li seguì e in sala trovarono il padre,
già davanti alla finestra.
Massimo Mancini si voltò e sorrise ai figli. «Ce l’ha fatta a
nevicare, quest’anno.»
I ragazzi si affacciarono insieme a lui e guardarono fuori.
Una neve fitta e bianchissima scendeva dal cielo, copiosa e
senza sosta, ricoprendo tutto ciò che poteva: le auto, i motorini, la piccola fontana della piazza, i lampioni, i secchioni.
L’asfalto non era più visibile.
Stava nevicando, a Roma, e Lucrezia e Matteo Mancini non
avevano mai visto la neve a Roma. A dire il vero, neppure
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Ryker aveva visto tutta quella neve nella capitale, ma era attratto, oltre che dalla neve, dal leggero riflesso della sua sorridente famiglia sul vetro della finestra.
Quella mattina lo riempì di una gioia soffusa. Lucrezia entrò a scuola alla seconda ora e lui giocò con lei e Matteo per
strada come fossero dei bambini, poiché i romani, quando
vedono la neve nella propria città, diventano tutti un po’
bambini. Ne era convinto.
Matteo era particolarmente gentile e divertente, lasciava
che la neve gli cadesse ovattata sul viso e i capelli biondo cenere e, quando i fiocchi scendevano più veloci, si lanciava
verso i fratelli cercando di farli finire a terra. Lucrezia aveva
tirato palle di neve a dei ragazzi che non conosceva, aveva
mostrato il suo roseo sorriso tutto il tempo e i suoi profondi
occhi azzurri -così simili a quelli della madre- avevano brillato di una luce che Ryker le aveva visto pochissime volte e mai
fuori casa.
Il pomeriggio uscì il sole e gran parte della neve si sciolse,
sotto il cielo ora limpido di febbraio. Pensava che quella mattinata sarebbe rimasta a lungo nella sua mente, come una
perfetta foto della sua amata famiglia.
Andò a cena da Helina, quella sera, e risero così tanto che
alla fine gli faceva male la pancia. Una fantastica giornata invernale, un bianco venerdì tra famiglia, amici e bellissime risate.
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Quando si salutarono sul portone di casa, stavano ancora
facendo battute. Infine si decise a raggiungere la macchina
parcheggiata su via Salaria. Fu un attimo. Il secco suono di
un battito d’ali, il fruscio graffiante nelle orecchie, la terra
che si staccava dai piedi, come se fosse il mondo a muoversi
senza di lui.
Ryker tentò di urlare, tuttavia il grido si bloccò nella sua
gola e si ruppe in un singulto quando, pochi attimi dopo,
qualsiasi cosa lo avesse afferrato lo lasciò rotolare nel prato
umido di Vill’Ada. Si voltò cercando di recuperare aria; due
immense ali si stagliarono davanti a lui, coprendo la luna
piena, e due occhi scuri, su un volto che non poteva distinguere, fremettero di un rosso vermiglio
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Capitolo 8
(Pray) Cause nobody ever survives
Prayin' to stay in your arms just
Until I can die a little longer
Saviors and saints,
Devils and heathens alike
She'll eat you alive
Puscifer - Rev 22:20
Anno 2010
Ryker sbatté le palpebre più volte, ma la notte restava notte
e la paura rimaneva paura.
Il demone donna davanti a lui si schiarì la voce con fare teatrale. «Ryker Mancini, l’amichetto di Thari», esordì con voce soave. «Sekhmet sosteneva che fossi un bel ragazzo e non
posso darle torto. Sostiene anche che tu sia molto divertente,
tuttavia devo ancora valutare la situazione.» Fece un passo
indietro e indicò lo spazio accanto a loro. «Conosci l’uscita
più vicina del parco?»
Lui non era neppure in grado di risponderle. Rimase immobile con i gomiti conficcati nel terreno fangoso.
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«Mmm», commentò l’altra. «Non era la risposta che mi
aspettavo.» Mosse la testa e i capelli chiarissimi rifletterono i
raggi lunari. «Facciamo così, io ti dico dove andare e tu ti alzi
e te ne vai. Ti do tre minuti, se arrivi all’uscita prima dei tre
minuti, non ti darò più fastidio.» Lo prese con entrambe le
mani e lo mise in piedi come avrebbe potuto fare con un
bambino piccolo. «Vai, bimbo biondo, l’uscita è di là.» Indicò
con un dito verso destra e gli diede una leggera spinta. «Corri», sussurrò.
Ryker corse. Corse veloce verso il pendio che la donna gli
aveva indicato. Corse perché a spingerlo era stata l’ultima parola di lei, non il significato, bensì la carezza gelida che lo aveva accarezzato fin sotto i vestiti, mentre la pronunciava.
Non sapeva se le sue gambe stessero andando veloci, non
sapeva se stesse ancora respirando, ma sapeva che i tre minuti che il demone gli aveva dato non erano passati quando
inciampò e si ritrovò di nuovo a terra. Qualcosa lo spinse e
lui rotolò lungo la collina; quando solo poco dopo riuscì a ordinare alle mani di fermarlo, pensò che il suo istinto di sopravvivenza doveva essere andato in tilt.
Nell’aria si udì un fruscio e subito dopo lui fu sollevato e lasciato di nuovo.
Il demone comparse davanti a lui e rise con fare innocente,
facendo ballare i boccoli che le incorniciavano il viso. «Ebbene, devo ammettere che ora sei anche divertente.»
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Il ragazzo rispose con un lamento sommesso che fece ridere ancora di più la creatura alata. Con un movimento troppo
veloce per lui, lei lo spinse e lo bloccò a terra con un piede.
«La mezza umana ogni tanto fa qualcosa di buono per noi
sorelline. Sai, le regole sono così ferree che tutto diventa di
una noia infinita.» Lo lasciò, staccandosi dal terreno e svolazzando su di lui con la spensieratezza di una farfalla.
Ryker, però, non aveva in mente né farfalle, né momenti
spensierati; pur stando a terra, ebbe la sensazione di una vertigine. La mente si annebbiò e subito dopo si schiarì nella
percezione inconfondibile del dolore.
L’estremità di un’ala del demone gli perforava la coscia destra. Boccheggiò incredulo e, quando lei estrasse l’ala, senza
neppure pensarci, lui si girò su se stesso e tentò una fuga
carponi; non si rendeva neppure conto di quanto il tentativo
fosse vano.
La donna lo afferrò per le gambe, strattonandolo così velocemente che Ryker perse l’aria nei polmoni e, quando la ritrovò, il gelo sembrò penetrargli fino allo stomaco. Scalciò
con tutta la forza che aveva nel corpo e per alcuni, brevissimi,
istanti pensò di essere riuscito nell’intento di liberarsi. Tuttavia il demone lo tirò in piedi con un unico movimento e lo
scosse a una velocità non umana.
Se ne avesse avuto la capacità, avrebbe urlato, ma ancora
una volta, si sentiva come ovattato; come se galleggiasse dentro un incubo. E si sarebbe abbandonato presto a quella sen71
sazione, se lei non lo avesse liberato all’improvviso, lasciandolo accasciare a terra.
Ryker aprì la bocca in cerca di ossigeno e i suoi occhi pieni
di lacrime brucianti intravidero la figura nera di un altro demone, che planava verso di loro con una spada in mano.
La creatura che fino ad ora lo aveva torturato estrasse la
propria arma dal fodero dietro la schiena e la piegò un poco
davanti a sé, pronta a parare l’attacco. Le ali spalancate, il
corpo teso, fu ciò che riuscì a cogliere Ryker prima che le lame stridessero tra loro.
Ciò che venne dopo fu un movimento di corpi neri, ali grigie e spade bianche. Rapido, troppo rapido per lui.
Non riusciva a distinguere le due figure: solo prima che
l’altro demone colpisse l'aguzzina, ne aveva intravisto la sclera chiara, ora non poteva sapere chi fosse chi. Strinse i denti,
per non farsi distrarre dal dolore alla coscia e si concentrò sul
suono cadenzato delle armi che si scontravano.
Una danza frenetica, uno spazio quasi illimitato tra cielo e
terra.
Thari deviò un colpo scartando su un lato, saltò agile, contrattaccò e di nuovo parò. L’altra prese l’elsa della spada con
due mani e innalzandola la scagliò sulla ragazza, che bloccò il
movimento con la propria arma.
Ignare del vento gelido di febbraio, continuarono il duello,
fino a che le loro armi non si incastrarono insieme. Un silenzio irreale scese sotto gli alti pini della villa. Thari guardò
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l’altra negli occhi liquidi. «Se te ne vai e prometti di lasciarlo
in pace, farò lo stesso con te.»
L’altro demone alzò il mento e digrignò i denti lampeggianti nell’oscurità. Con un colpo delle ali si spostò indietro, liberando le armi, e con una sola ala mirò alle gambe della ragazza, che le piegò verso l’alto e di nuovo tornò all’attacco. Schivarono e sferrarono colpi fluidi e precisi, e troppo veloci per
gli occhi di Ryker. Il tempo in cui si muovevano era qualcosa
di non calcolabile in termini umani.
La donna che aveva rapito il ragazzo indietreggiò e attaccò.
In quel momento la punta della spada di Thari compì un cerchio perfetto nell’aria, scintillando sotto i raggi della luna e,
subito, dopo inserendosi nello spazio creatosi tra l’arma
dell’avversaria e il torace della stessa; poi l'arma colpì l’altro
demone su un fianco e di nuovo uscì da quel corpo nero. Infine, con un’unica velocissima mossa, si conficcò nel petto del
demone, all’altezza del cuore, schizzando sangue ceruleo.
Ci fu un attimo di immobilità, poi dallo squarcio uscì una
luce densa, che divenne sempre più scura. Ryker non riusciva
a capire cosa fosse: ai suoi occhi sembrava nebbia nera che
brillava di luce propria, contro ogni legge fisica; guardò Thari
leccarsi lentamente le labbra e alzare il mento. Lei chiuse gli
occhi e deglutì, il piacere disegnato sul volto nitido nella notte lattiginosa. Quando estrasse l’arma, il corpo dell’altra sparì
in onde acquose, come un miraggio.
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La ragazza respirò a fondo, riprendendo il controllo di sé e
del suo corpo.
Ryker, con i gomiti ancora a terra, indietreggiò vedendola
arrivare.
Senza una parola, lei si chinò su di lui, lasciò sull’erba la
spada e gli prese la gamba ferita. La studiò per qualche secondo e poi vi poggiò sopra il palmo della mano per diversi
minuti. Quando la lasciò, cercò di riavvicinare i lembi laceri
dei vestiti. «Mi dispiace per tutto questo, Ryker.»
Lui la scrutò in volto per alcuni istanti, incerto su cosa dire.
«Grazie per avermi salvato», disse con voce roca per non aver parlato fino a quel momento.
Thari fece per rispondere, ma si voltò di scatto e afferrò la
spada. Si allontanò con due passi volanti e Ryker udì lo stridore di due lame; si mise a sedere, senza riuscire a capire: la
ragazza sembrava combattere da sola con l’aria, girando su se
stessa, torcendosi, scartando e attaccando; e continuò a farlo
per cinque lunghissimi minuti, fino a che il nulla con cui stava combattendo la spinse verso un albero dal tronco largo e
le radici nodose, bloccandole i polsi sopra il capo.
Ryker si alzò. Stava per avvicinarsi, ma davanti alla ragazza
si materializzò una luce intensa che disegnò un corpo candido, di circa due metri, dalle ali diafane. La figura - dai capelli
di un biondo splendente e la pelle accesa come avesse una
fonte di luce dentro di sé - teneva un pugnale conficcato
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nell’addome di Thari; senza lasciarla, si voltò a guardare il
ragazzo.
«Ehi, piccolo umano, vuoi vedere come sanguina di rosso
la tua amica?»
Estrasse l’arma e la spinse di nuovo dentro il ventre di lei,
che ansimò. Anche Ryker ansimò.
Il cuore gli rimbombava ovunque potesse, la rabbia e la paura sembravano soffocarlo. Gli occhi azzurri come il cielo
d’estate della creatura gli sorrisero, quasi con compassione;
forse fu quello che gli diede la forza per slanciarsi verso di loro e saltare contro l’uomo alato.
«Ryker, no!»
Il grido di Thari lo raggiunse quando lui stava già volando
indietro. Niente attutì il colpo sulla schiena, ma non ebbe il
tempo di pensarci: il demone angelico lo afferrò e, sollevatolo
da terra, lo fissò. La sua algida bellezza fece rabbrividire il
ragazzo. «Sei troppo lento per potermi saltare addosso, umano», commentò con tono pacato. «Non hai demoni della rinascita alle calcagna, credo che la tua vita debba essere ancora lunga, salvo errori di Sekhmet.» Aveva le sopracciglia così
chiare che sembrava non ne avesse, tuttavia ne alzò una,
quando Ryker cercò di liberarsi dalla sua presa. «Stai calmo,
non desidero te. Voglio la piccola demone, figlia di Ananke.»
«Se lei muore», riuscì a rispondere l’altro cercando di vedere dove fosse Thari, «muoio anche io. Sono io che ne so
troppo, prenditela con me.»
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Il demone sorrise con dolcezza. «Non sai neppure di cosa
parli. Le leggi che regolano tutto ciò non ti sono note -ed è
bene che non lo siano- ma sappi che un demone della rinascita in meno equivale ad almeno una ventina di vite umane in
più.»
Mentre diceva quelle parole, l’aria frusciò di piume e di
freddo.
Sekhmet Neseret si materializzò accanto a loro. «Ehi, angioletto, non è con lui che dovresti stare a chiacchierare.»
La creatura bianca poggiò Ryker e la guardò. «Ricordati
che non puoi farlo rinascere.»
«So benissimo cosa posso o non posso fare», replicò Sekhmet e strattonò il ragazzo. «Non ti ho fatto venire qui per
questo.» Con un’ala sfiorò la guancia della sua preda, che si
accigliò al morbido tocco delle piume. «So che gli umani ti
piacciono...» Con la stessa ala incise la pelle del giovane lungo il collo che, poco prima, fuori la villa, era coperto dai vestiti ben chiusi.
«Lascialo.»
Sekhmet sorrise soddisfatta nell’udire quel sussurro leggero dietro di loro. Inclinò appena il capo verso Thari. «Ma sei
qui per lei, vero?» Non attese la risposta del luminoso demone, scagliò Ryker a una decina di metri da loro e subito dopo
gli fu sopra.
Era magra e longilinea, aveva lunghissimi capelli voluminosi, e gli occhi neri parevano avere una tempesta elettrica
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dentro le orbite; lampi cremisi riempivano il suo sguardo,
che si posò sicuro sul corpo ansimante di Ryker.
Lì dove Thari lo aveva guarito, lei affondò una serie di colpi, lacerando stoffa e carne. Lui lanciò urla spezzate, che non
riusciva a trattenere e, quando lei gli strappò i vestiti con le
mani, il freddo che sbatté con veemenza contro la sua pelle
sanguinante fu un piacevole anestetico.
Le immagini si confusero, il buio lo assalì e la paura lo divorò. Poi volò; in una frazione di secondo. Non sapeva da dove a dove stesse volando - in vero, troppe erano le cose che
non riusciva a comprendere da quando si era ritrovato nel
parco - tuttavia avvertì l’urto con la terra bagnata, la stessa su
cui quel giorno era caduta la neve immacolata.
Un grido si sprigionò dai suoi polmoni, mentre una fitta di
dolore dal suo braccio si espandeva su tutto il corpo. Fu
l’ultima cosa che udì.
***
Thari rantolò nel sentire le prime urla di Ryker. «Dovresti
salvare gli umani: è questo il tuo compito», disse rivolta
all’essere bianco con un filo di voce. Si sedette sui talloni, con
l’intenzione di alzarsi, ma l’uomo la bloccò.
«Non ha intenzione di farlo rinascere. E non potrebbe farlo, senza infrangere le leggi». Si chinò su di lei e subito dopo
l’aiutò ad alzarsi.
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La ragazza lo guardò negli occhi. «Se riuscisse a farlo apparire come un incidente, potrebbe anche farlo. Vattene e permettimi di salvarlo.»
Lui abbassò il mento verso di lei e lasciò che il silenzio fosse riempito da urla e lamenti di Ryker. «Perché ti interessa
così tanto? È solo un umano e prima o poi rinascerà. Non
puoi essere interessata a lui e io non me ne andrò.»
Thari serrò i pugni. Aveva il torace pieno di ferite, ma nessuno dei due aveva una spada in mano: nella frazione di un
secondo, valutò la possibilità di attaccare. Le sue braccia si
mossero prima di avere il permesso, si scagliarono contro
l’uomo con raffiche veloci, colpendolo ovunque potesse.
L’altro, dopo un attimo di incertezza, parò e rispose
all’attacco. Di nuovo i movimenti furono troppo veloci, i muscoli tesi al massimo, le ali frementi. Un corpo a corpo tra un
essere del tutto bianco e uno del tutto nero, egualmente forti.
Ma Thari era stanca, perdeva sangue dalle troppe ferite che
aveva nel corpo e le grida e la paura di Ryker riempivano la
sua mente annebbiata. L’altro la bloccò e con forza la costrinse a inginocchiarsi a terra, facendole perdere il respiro. In
piedi dietro di lei, le afferrò i capelli e le strattonò il capo
all’indietro; si piegò appena in avanti, in modo da guardarla
in viso. «È davvero sciocco da parte tua esserti ritrovata in
questa situazione per un misero umano.»
Lei sollevò le mani per afferrare i polsi di lui, ma non riuscì
a liberarsi e il demone la trascinò lungo il prato in direzione
78
della spada bianca, che brillava di luna sull’erba scura. Poi
l’uomo si fermò bruscamente e la lasciò. Thari sorrise afflosciandosi sul terreno sconnesso.
Con una velocità inaudita, un’altra spada tagliò l’aria della
notte, emettendo un leggerissimo sibilo. L’uomo tentò di correre verso la propria arma, ma dare le spalle all’avversaria gli
fu fatale: la lama penetrò nella schiena, poco sotto le ali, e lui
si ritrovò a terra.
«Tergerai il tuo copioso sangue, angioletto. E non mi rincresce affatto!»
In un unico movimento, il corpo di Iside si sollevò, liberò la
sua spada insanguinata e la inserì tra le scapole diafane, seguendo una linea precisa e obliqua. Con entrambe le mani
spinse dentro il corpo del demone, che mormorò qualcosa di
incomprensibile. «Che Dio ti benedica, fedifrago Figlio della
Luce.»
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Capitolo 9
I feel so light
This is all I want to feel tonight
I feel so light
Tonight and the rest of my life
Nina Gordon - Tonight And The Rest Of My Life
Anno 2010
Un soffio leggero e caldo scivolava morbido nell’aria, carezze disperse che si rincorrevano tra loro srotolandosi allegre e
accarezzando la pelle con delicatezza.
Una sensazione di beatitudine avvolgeva la mente rilassata
di Ryker nelle giornate tiepide dell’estate. L’estate. Il ragazzo
spalancò gli occhi e fissò un soffitto beige con piccoli intagli
floreali. Si mise a sedere e si guardò intorno confuso: era in
un grosso letto a baldacchino e intorno vi erano tende color
pesca che svolazzavano appena. C’era un'unica porta, con
doppie ante, e nessuna finestra. La stanza era molto ampia e
lui si trovava al centro di essa.
Aveva semplici lenzuola di cotone eppure non sentiva freddo. Scese dal letto e si accorse di non indossare nulla, a parte
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una stoffa colorata intorno alla vita, che dovette legare meglio per non farla cadere. Traballò sulle gambe, ma, appena si
rese conto di poter camminare, uscì dalla porta.
Non aveva pensato a cosa si sarebbe trovato fuori, tuttavia
non si era aspettato di vedere una fontana con acqua cristallina in una grande stanza ottagonale. Rimase fermo qualche
secondo, notando che su ogni lato c’era una porta. «Ehi, c’è
nessuno?» Gli risposero i giochi gorgoglianti dell’acqua.
Preso da isterismo, all’improvviso iniziò a percorrere lo
spazio esterno di quella sorta di sala e aprì tutte le porte. In
ognuna di esse si trovava un letto matrimoniale, tutti molto
diversi tra loro e dalle forme insolite.
Quando le ebbe aperte tutte, fissò la scala in marmo che
partiva da un lato della fontana e saliva verso il soffitto a cupola. Esitò un solo istante, poi salì i gradini di corsa e ben
presto si ritrovò al centro di un’altra sala, questa volta esagonale. Su tre lati vi erano l’inizio di altre scale. Negli altri angoli colonne dorate, sulle pareti bassorilievi bianchi contornate da tende in broccato e sul pavimento un complicato mosaico. «Dove diavolo sono?» gridò.
Era indeciso sulla direzione da prendere, ma quando si decise udì un battito d’ali. «Ryker, non dovevi essere già sveglio.»
Lui fissò la ragazza accigliata davanti a sé. Si era fermata a
qualche metro da lui e lo stava fissando a sua volta. «Dove
diamine sono?» domandò con voce dura.
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Lei si morse un labbro. «Ryker, tu non…»
«Thari! Dimmi dove siamo.»
Il demone spostò lo sguardo. «Nel deserto.»
Lui emise un suono molto simile a una risata, benché fosse
lontana dall’essere felice. «Ti prego, dimmi che non è quello
penso. Dimmi che non è il Sahara.»
«Ti trovi a casa di Iside. Deserto del Sahara, Libia.» Fece
un passo verso di lui. «Torna a letto, hai…»
«Perché? Dimmi solo perché.»
«Dissanguamento, trauma cranico e frattura dell’omero,
dell’ulna e del radio. I motivi principali. Ferite ovunque, perdita di coscienza, trauma psicologico. Necessità di metterti al
sicuro.»
«E non potevi portarmi in un ospedale? Un ospedale di
Roma.»
Lei scosse il capo. «Avevo bisogno di cure anche io.»
«Da quanto sono qui?»
Le ali di Thari, chiuse dietro la schiena, spostarono un poco
l’aria attorno a lei. «Quarantadue giorni.»
«Che cosa?»
«Ryker, mi dispiace.» La ragazza gli si avvicinò e gli toccò
un braccio. «Avevi bisogno di essere curato, curato da noi.
Avevi bisogno di stare qui. Ricordi? Pochi umani, pochi demoni.» Lui si spostò, guardandola male. «Non so cosa ricordi
della sera in cui sei stato ferito, hai perso conoscenza più di
una volta. Non potevi rimanere in Italia; non potevi stare in
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nessun posto che non fosse come questo, al riparo da altri attacchi. E vale anche per me. Iside ci ha portati qui subito dopo perché non avrebbe potuto fare altro; ti ha curato come
curiamo noi gli esseri umani e… ha fatto la cosa migliore.»
«Forse avrei dovuto scegliere io quale fosse la cosa migliore
per me.» Ryker strinse le palpebre. «Portami a casa.»
«Non posso. Tu non puoi.»
«Mi stai tenendo prigioniero qui?»
Lei esitò. «No. Non mi è permesso. Ma faresti la scelta sbagliata, hai bisogno di rimetterti in sesto, hai bisogno di essere
protetto e io… ho bisogno che tu rimanga qui. Temo che molto presto qualcuno verrà a sapere, anzi forse già sanno, e non
so cosa succederà allora.»
Ryker si voltò e si passò una mano sulla fronte. «La mia
famiglia ha bisogno di me.»
«La tua famiglia sarà in pericolo se torni a casa.»
Sospirò. «Mi avranno dato per morto.»
«Rapito. Per avere un riscatto.»
Lui aggrottò la fronte girandosi a guardarla. «Che vuol dire?»
«È ciò che sanno. La polizia ti sta cercando e sa che alcuni
rapitori ti tengono segregato da qualche parte; hanno già
chiesto i soldi.»
«E chi lo avrebbe fatto?»
«Iside. Ovviamente non vuole i soldi, ma la polizia non
gliene darà. La cosa importante è che fino a che rimarrà a83
perta questa pista, in pochi ti daranno per morto; e immagino sia quello che volevi.»
«Io non volevo niente di tutto ciò!» sbottò. «Dimmi la verità, Thari, che succederà alla fine di questa storia?»
Lei sospirò. «Non lo so. Non lo so più. Con ogni probabilità, tu avrai dei vuoti di memoria e io… beh, lo sai.»
Lo sapeva; lei glielo aveva rivelato quel giorno sopra al Colosseo.
«Mi dispiace, davvero. Spero che il giorno in cui succederà
arrivi presto, così tornerai a vivere la tua vita. Al sicuro.»
«Tu però perderai la tua essenza come figlia di Ananke.»
Annuì.
«Perché speri che succeda presto, allora?»
«Non mi credi, quando dico che mi dispiace? Che mi dispiace per te, che vorrei solo che la tua vita tornasse quella di
prima?»
Ryker chiuse gli occhi. «Credo che impazzirò. Questo credo.»
***
«Vuoi dire che in queste stanze ci sono tutti letti, nonostante
voi non abbiate bisogno di dormire?»
«Iside li colleziona.»
«Lo trovo ridicolo.»
Thari si strinse nelle spalle, salendo le scale davanti a lui.
«Anche voi umani collezionate cose ridicole», replicò ada84
mantina e cambiò argomento. «Ho preso della frutta, perché
sapevo che ti saresti svegliato. Ma non ho nient’altro. Andrò
a prendere qualcosa.»
«Dove?»
«In qualche villaggio degli umani», rispose con ovvietà.
«Sono lontani da qui, ma non ci mettiamo molto a spostarci
noi demoni.»
Ryker annuì.«Questo è davvero un posto strano per una
che parla come Dante Alighieri», commentò osservando una
composizione tipica dell’arte contemporanea che percorreva
tutta la parete. «Poi spiegami perché dovrebbe avere una casa come questa, anzi spiegami come fa ad avere una casa
come questa? Con tanto di scale in marmo, luci, bocche
d’aria e acqua corrente in pieno deserto.»
«Non puoi capire.»
«Provaci.»
«Avete mai capito come hanno fatto le piramidi e a che periodo risalgono?» Si voltò e lo guardò negli occhi. «Te lo dico
io: no. Quindi non puoi capire; non me lo chiedere.» In silenzio ripresero a salire, fino a che la scala non si fece ampia e
molto luminosa.
Luce naturale.
Ryker sgranò gli occhi osservando lo spazio che si apriva
intorno a lui e che presentava sul pavimento erba verde e
mattonelle da giardino. Il soffitto, non molto alto, era un intreccio di fiori e stelle disegnati con colori pastello. E sui due
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lati più corti vi erano due balconate gemelle che si affacciavano sul deserto sabbioso.
«Questo è quello che Iside chiama il terrazzo. Bello, vero?»
Il ragazzo chiuse la bocca e osservò l’acqua uscire dalle anfore di due putti, le torce bruciare nella semioscurità dei lati
più lunghi, i divani bianchi e i tavolini in vimini accanto alla
piccola fontana. Nell’aria si respirava un profumo di vaniglia
appena dolciastro, equilibrato da un leggero odore di menta.
«Direi che “bello” è riduttivo. È meraviglioso.»
Lei sorrise e aprì le ali muovendole lentamente avanti e indietro. «Sono cresciuta qui, con lei.»
Ryker ebbe l’impulso di abbracciarla, per via del tono malinconico con cui lo aveva detto e l’espressione da bambina
che si era disegnata sul volto scuro. Invece, spostò lo sguardo
verso le dune sabbiose e il cielo intenso del Sahara. «Provi
piacere a uccidere?» domandò continuando a fissare il celeste contro il deserto.
Lei richiuse le ali. «Cosa vuoi sapere?»
«Proprio quello che ti ho chiesto.»
«Allora, forse, la risposta già la conosci.»
Nelle note della voce vibrò il senso di colpa e lui si voltò
verso di lei. «Ti dispiace?»
Thari fece una smorfia. «Fa parte del gioco. Del dovere. Fa
parte di ciò che sono: far rinascere gli umani, come del resto
altri demoni, è una cosa naturale. Serve a mantenere
l’equilibrio.»
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«Ma perché provare piacere?» insistette lui.
«Iside sostiene che sia come la riproduzione: una sorta di
dovere di ogni specie, aiutata dal puro piacere dell’atto sessuale.»
Ryker aggrottò la fronte, poi scoppiò a ridere. «Iside dice
questo? Forse la devo rivalutare», osservò.
Rimase, ma i giorni erano troppo lenti, il deserto oltremodo silenzioso, e Ryker credeva che avrebbe finito per contare
i secondi, soprattutto quando Thari andava via. Gli aveva
detto che andava a prendere da mangiare per lui e lui non
pensava che potesse non essere così. Quello che lei riteneva il
suo lavoro, a suo dire, lo stava svolgendo Iside, caricandosi
del dovere di entrambe, e lui era certo che lei non stesse
mentendo.
Le faceva moltissime domande, tuttavia lei non rispondeva
o rimaneva vaga sulle risposte che secondo lei lo avrebbero
solo scosso. ‘Era un umano e non poteva capire’ era la risposta più frequente.
Thari lo osservava spesso da sotto la frangia candida dei
capelli, ma quando lui la sorprendeva, spostava lo sguardo,
imbarazzata, fingendo di analizzare qualsiasi cosa avesse in
mano o davanti a sé. Seguire i suoi discorsi era difficile, poiché lei parlava di Iside e della sua vita di frequente, ma nei
racconti lasciava lacune che non sarebbero mai state colmate.
Ryker ascoltava quella voce cristallina, perplesso e affascinato.
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A volte si svegliava di soprassalto senza ricordare dove fosse, aveva gli incubi e una costante agitazione. Stringeva in vita l’unico vestito di cui disponeva e faceva la doccia nei bagni
ultra moderni di quella casa due volte al giorno. Ne erano
passati solo cinque da quando si era svegliato nel letto a baldacchino, eppure gli sembrava un tempo senza fine. Pensava
che la sua seduta di tesi era saltata e che la sua famiglia con
ogni probabilità si stesse disperando. Non era giusto.
Rimosse quel pensiero scrollando il corpo.
Sul terrazzo coperto, Thari puliva la sua spada con attenzione maniacale. Lui si accucciò davanti a lei e con delicatezza gliela tolse dalle mani, prendendo l’elsa. «Puoi uccidermi
con questa?»
Lei spalancò gli occhi. «No.»
«Lo immaginavo. Nessuno l’ha mai usata su di me, neppure per farmi un graffietto.» Si mise in piedi e lei lo imitò. «Mi
piacerebbe imparare a usare una spada, dovrebbe essere eccitante.» La mosse nell’aria e poi la inclinò piano, osservando
il riflesso cinabro del fuoco delle torce muoversi sulla lama.
«Quando hai ucciso quel demone, il primo, dal suo corpo è
uscito un sangue chiaro, come se fosse latte.»
«Non era latte, era l’effetto della luna sul sangue azzurro.
Tutte le creature superiori hanno il sangue azzurro.» Ridacchiò. «Ora sai perché i nobili affermavano di avere il sangue
blu.»
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Lui si riempì della risata delicata di lei, infine posò l’arma
sul tavolino. «Non ti ho mai ringraziata per quella sera a
Vill’Ada. Per me è successo così tutto in fretta, ancora non so
se sia reale. Però, grazie.»
«Prego», replicò lei troppo velocemente. Si spostò per accentuare la distanza tra di loro, poi trasse un lungo respiro.
«Anche io devo ringraziarti per quella sera: se tu non fossi
saltato addosso al mio amico angioletto, forse a quest’ora dovrei fare i conti con Ade.»
Ryker le mostrò i denti bianchi e perfetti. «Sei divertente.
Te l’ho mai detto?»
Lei gli lanciò un’occhiata. «Oh, ben inteso, Ade non esiste,
non quello che vi siete inventato voi, almeno.»
Il ragazzo inclinò il capo. «Dicevi che non esistono neppure
gli angeli.»
«A dire il vero, è una sorta di presa in giro nei confronti dei
Figli della Luce. Non so bene il motivo, ma è sempre stato così e loro non amano farsi chiamare da noi in questo modo,
mentre lo apprezzano se sono gli umani a farlo. Ma gli umani
non possono capire.»
«Ovviamente», replicò lui sarcastico, poi tornò serio. «Perché ce l’hanno con te, Thari? Perché ce l’hanno con te così
tanto e trovano divertente farti soffrire?»
Non era molto più bassa di lui, sicuramente superava il metro e settanta, tuttavia, all’improvviso, sembrò farsi minuta e
con l’espressione mesta di una bambina. Fece un altro passo
89
indietro. «Lo sai perché. Non mi ritengono all’altezza e, visto
questo pasticcio che ho combinato, forse hanno ragione. Per
loro sono quello che voi chiamate mezzosangue: il mio corpo
ha sangue umano, sangue rosso. È un corpo a metà, un corpo
difettoso.»
«Il tuo corpo è bellissimo così com’è.» Ryker riempì la distanza che lei aveva creato e con una mano le sfiorò i capelli.
«Perché mi hai seguito per tutti questi anni?» domandò in
un sussurro, osservando le piume vibrare appena.
«Io non… non… Io…» Thari sapeva che stava balbettando e
si sforzò di mantenere la voce ferma. «Per una serie di motivi
che non posso dirti», riuscì a dire.
«Perché sono un essere umano?» scherzò con voce calda, e
le tirò una ciocca.
La ragazza non rispose.
Lui l’aveva vista combattere, uccidere e godere del piacere
di quell’atto. L’aveva vista difendere lei stessa e lui, e aveva
perso il ritmo dei suoi colpi perché lei era troppo veloce. Non
l’aveva mai vista tirasi indietro.
Eppure il proprio sguardo la faceva tremare.
Le labbra di lei, piene e soffici, avevano assaporato il gusto
della morte e ora lui desiderava solo farle sue. Contemplò i
lineamenti delicati di lei, il naso proporzionato, gli occhi neri
che mettevano i brividi e che adesso si muovevano frenetici
cercando in lui qualcosa che lei non osava chiedere.
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Con il battito appena un po’ accelerato e la mente persa in
un senso di irrazionalità, Ryker piegò il viso e sfiorò le labbra
di Thari. Se lei era la Morte, quella era una Morte morbidissima; e lui ne assaporò il gusto fresco, la pelle liscia come petali di fiore.
Il cuore di lei, invece, le rimbombava nelle orecchie, mentre schiudeva la bocca sotto la leggera pressione di lui. Chiuse
gli occhi seguendo la danza lenta e calda delle loro lingue; ricambiando quel bacio che mai avrebbe sperato.
Ryker indugiò con le labbra sulle sue e poi allontanò il viso.
Scosse il capo, con un movimento leggero, un poco sconsolato. «Quando tutto questo finirà, io sarò un uomo fuori di
senno», bisbigliò. «Dimmi che non è vero. Dimmi che sto solo sognando.»
Lei avrebbe voluto chiedere l’esatto contrario. Dimmi che è
vero, dimmi che non è solo un sogno. Si limitò a fissarlo in
silenzio, fino a che lui non tornò a baciarla.
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Capitolo 10
I can't handle this confusion
I'm unable come and take me away
I feel like I'm all alone
All by myself I need to get around this
my words are cold
I don't want them to hurt you
If I show you
I don't think you'd understand
'Cause no one understands
I'm going nowhere on and on and
Take me away - Avril Lavigne
«Torno presto.» Questo gli aveva detto Thari andandosene.
Ma erano passati tre giorni e lui non poteva più resistere. Si
era coperto con i lenzuoli del proprio letto e con uno aveva
creato una sacca in cui mettere le bottiglie d’acqua e i biscotti. Non era certo di quello che stesse per fare, ma la frustrazione e la sensazione che tutto ciò che stava vivendo fosse oltre le capacità umane, gli diede la spinta per avventurarsi.
Nord est. Quella era la direzione in cui, a detta di Thari, si
trovava il primo villaggio; doveva solo seguire quella direzione e con tre, forse quattro giorni di marcia sarebbe arrivato.
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Là avrebbe chiesto aiuto e in qualche modo sarebbe tornato a
casa, a Roma.
Lei non glielo aveva detto, ma il ragazzo aveva capito dalle
poche informazioni che aveva fornito che Thari era nella capitale italiana per far rinascere una persona. A quanto pareva
i demoni della rinascita erano così occupati nell’espletare i
loro doveri che Iside non riusciva a coprire sempre il lavoro
di entrambe. E c’erano rinascite che non potevano aspettare.
Sotto il sole africano Ryker sospirò.
Come poteva essere finito in quel guaio? Voltandosi indietro si accorse di non avere più idea di dove fosse la casa di Iside. Decise di non voltarsi più e di proseguire il più velocemente possibile.
Tuttavia, quando il sole si fece alto nel cielo, l’aria divenne
secca e respirare significava raschiare dentro naso e bocca.
Dovette rallentare il passo e bere più volte a piccoli sorsi. Fu
solo
dopo
il
tramonto,
però,
che
si
rese
conto
dell’insensatezza di quella decisione; eppure lo sapeva che il
deserto era infame, lo sapeva che la notte poteva essere gelida e che la sabbia poteva nascondere bestie velenose.
Lui che tutta la vita aveva calcolato i pro e i contro di ogni
azione, che non aveva fatto scelte senza prevederne le conseguenze, ora si trovava, come un qualsiasi sprovveduto, da solo nel deserto con qualche lenzuolo di cotone e pochissimi viveri.
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La sua vita era cambiata. Lui era cambiato. Questo era il
punto a cui non riusciva a dare voce: Thari lo aveva trasformato per sempre, con il suo mondo, le sue battaglie, i suoi
stupidi complessi da ragazzina emarginata.
Thari e la sua forza. Thari e la sua dolcezza. Thari e il suo
bellissimo viso. Come aveva fatto a cedere a qualcosa di così
irreale? Per quello si trovava nel bel mezzo del Sahara.
O forse non era andata così: Thari si era innamorata di lui
prima che lui potesse anche solo sapere di quel mondo di
demoni che regolava la vita degli umani. Ryker emise una risata disarticolata, priva di felicità: qualsiasi ragazza che avesse frequentato era stata allontanata da lui prima che potesse
diventare qualcosa di serio, perché non poteva permettersi di
abbandonare la famiglia, di allontanarsi, non ancora.
E mai lontananza da casa fu più reale di quella.
Avrebbe aspettato anche questa volta, ma Thari si era innamorata prima.
Si addormentò, tremando di freddo e chiedendosi se avrebbe mai rivisto il padre, Matteo e Lucrezia. Lucrezia, la
sua piccola Lucrezia.
L’alba nel cielo infinito lo svegliò quando a ovest si vedevano ancora le stelle. Non si rese neppure conto di aver di nuovo iniziato a camminare e si riscosse sorpreso quando le dune sabbiose lasciarono il posto a un deserto piatto, dalla terra
brulla e polverosa.
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A sud est, in lontananza, delle montagne si alzavano isolate
e inquietanti. Ryker sospirò e continuò a camminare sotto il
sole mischiando il viso candido di Lulù a quello onice di Thari; le immagini, del tutto diverse tra loro, apparivano confuse
nella sua mente stanca.
In quello stato passò due giorni, fino a quando nel tardo
pomeriggio non scorse una macchina venirgli in contro.
Il ragazzo strinse le palpebre, tentando di mettere a fuoco,
e, nel comprendere che fosse una jeep, alzò le braccia
d’istinto e urlò: «Sono qui.»
La vettura lo raggiunse e ne scesero due uomini dalla carnagione olivastra che indossavano abiti europei. Uno dei due
puntò un’arma corta verso di lui, mentre l’altro si avvicinava.
«Ehi, sono italiano.» Provò a dire Ryker facendo un passo
indietro. Ma l’altro gli rispose in una lingua sconosciuta, con
un tono alto e frettoloso. Lo afferrò per un braccio e gli chiese
qualcosa.
«Sono italiano», ripeté Ryker, questa volta in inglese. «Mi
sono perso e devo raggiungere l’ambasciata italiana.» La sua
voce tremò di una paura atavica nell’osservare l’arma contro
di lui.
«Aş-Şmt!» Fu tutto quello che gli risposero gli uomini e
senza neppure tentare di comprenderlo. Quello più vicino lo
tirò, allora Ryker fece resistenza e tentò di divincolarsi;
l’altro non ci pensò neppure un attimo: sferrò un pugno con
la destra e lo colpì in volto.
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Ryker ansimò per la sorpresa più che per il dolore e il sangue gli colò lungo la guancia. Insieme i due uomini lo trascinarono dentro la macchina, dove lo ammanettarono e lo
bendarono.
Nel buio completo Ryker li sentì parlare e si sentì ripetere
sottovoce. «Sono italiano.»
***
Doveva essersi addormentato, perché quando la macchina si
fermò fece uno scatto in avanti e da sotto la benda che gli copriva gli occhi vide filtrare luce solare.
Qualcuno lo prese e lo fece scendere fuori dal veicolo, poi lo
spinse parlottando in quella che il ragazzo pensava fosse lingua araba. Lo condusse lungo un cammino rettilineo poi
svoltarono un paio di volte fino a fermarsi davanti a una porta. L’altro l’aprì e lo spinse dentro, senza una parola.
Rimase immobile per diversi minuti, chiedendosi se ci fosse almeno un muscolo del suo corpo che non dolesse. E pensò che no, non c’era. Infine la porta fu aperta di nuovo e un
paio di mani, dalle dita ruvide e callose, gli sciolse la benda; il
possessore di quelle dita lo studiò qualche secondo e, aggrottando la fronte, gli domandò qualcosa.
«Non capisco», replicò il ragazzo senza riuscire a nascondere la frustrazione e la rabbia.
L’uomo si grattò la barba brizzolata e urlò verso fuori. Poco
dopo lo raggiunse un altro uomo, armato, che tirò fuori da
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una delle sue tasche un foglio logoro e ripiegato più volte su
se stesso; lo aprì e lo stese per bene, mostrandolo a Ryker.
Lui lo guardò perplesso. L’uomo che era entrato per primo
batté l’indice sul suo petto e poi sul foglio che rappresentava
la cartina dell’Europa. Ryker allora indicò l’Italia.
Il secondo uomo agitò la pistola e borbottò qualcosa, manifestando palese dissenso. L’altro non vi badò, ripiegò la cartina girando sui tacchi e uscendo dalla stanza.
«Ehi, slegatemi le mani.»
L’uomo armato, che doveva avere una trentina di anni,
sogghignò, guardandolo sollevare i polsi legati, e rise ancora
di più quando lo stomaco del ragazzo brontolò. Uscì chiudendo di nuovo a chiave la porta.
Ryker poggiò le spalle al muro e strinse le labbra, osservando la stanza piccola, buia e dalle pareti senza intonaco.
Scivolò a terra e batté il capo al muro meccanicamente: non
poteva credere a quella situazione. Imprecò sottovoce e poi
rise, una risata disperata che si spense gradualmente, mentre
davanti a lui si materializzava un corpo nero.
Si irrigidì e poi si rilassò mettendo a fuoco la sclera bianca
delle orbite. «Thari», mormorò.
Lei inclinò il viso, con un’espressione molto seria. «Almeno
te la ridi», commentò, inchinandosi sulle gambe.
«Mio Dio», replicò lui. «Questa volta spero che tu sia reale,
dimmi che sei reale, che sei qui e mi porterai via.»
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Lei osservò il taglio che il ragazzo aveva sotto l’occhio, provocato dal pugno che gli avevano dato. Aprì la bocca per dire
qualcosa, ma la richiuse; quindi allungò una mano e la poggiò sulla sua guancia.
Lui rimase immobile avvertendo il calore che emanava dal
palmo di lei. «Mi dispiace», disse a bassa voce. «Thari, mi dispiace davvero. Non stavo scappando… da te. Io non lo so
perché l’ho fatto.»
Lei gli fece cenno di fare silenzio. «Vuoi rimanere qui o
tornare a casa di Iside?» chiese atona, alzandosi e senza
guardarlo.
«Tornare con te.»
Lo fissò per un minuto interminabile, infine lo sollevò da
terra con la solita facilità e aggrottò la fronte. «Sei sicuro?»
Lui scosse il capo. «Pensi davvero…»
«Allora chiudi gli occhi», lo interruppe, gelida.
«Perché?»
«Chiudi gli occhi e basta, Ryker. Chiudi gli occhi e fai silenzio; entrambe le cose fino a che non dico il contrario.»
***
Il gorgogliare di una delle fontane della casa riempiva l’eco di
un’allegria sommessa, tra le pareti senza tempo che silenziose raccoglievano i movimenti calcolati del demone e
dell’umano. Ryker aveva mangiato e fatto una doccia, infine
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aveva dormito a lungo nel letto a baldacchino in cui aveva
sempre dormito quei giorni.
Doveva essere primo pomeriggio e le tende frusciavano
leggere. Spostò la mano sul cuscino setoso ed emise un sospiro appena percepibile. Cinque dita vellutate si poggiarono
lentamente sulle sue; il tocco di una farfalla che si posa su un
fiore; il calore di un raggio di sole.
«Ryker?»
La sua voce era troppo dolce, una dolcezza che stordiva,
perché lei lo stordiva. Con il dolore graffiante; la rabbia millenaria; l’amore serico, tenero e sensuale. Quel sentimento
puro penetrava nella pelle, un veleno troppo buono. Il tuo
amore mi ucciderà.
«Ryker?»
Ripetilo mille e mille volte; e non mi basterà. Il proprio
nome che risuonava cristallino sulle labbra di lei; breve. Così
breve. E nient’altro sarebbe stato concesso loro.
«Ryker. Perché non mi rispondi?» La nota di paura;
l’infrangersi del cuore su scogli taglienti privi di pietà.
Quando mai si era sentito così? Quando mai una donna aveva dipinto immagini reali solo con le parole, con i sentimenti che lui assorbiva per osmosi o pronunciando il nome
di lui? Mai.
«Thari?» Poteva chiamarla senza guastare quei fragili lembi di perfezione?
Lei spostò la mano e lui aprì gli occhi. Non poteva.
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Thari voltò il viso, nascondendo emozioni e paure. Sedeva
sul bordo del letto, le mani sul grembo, le ali congiunte quasi
in una preghiera. «Come stai?» domandò fissando l’arco della porta.
Lui si mosse lentamente e si mise a sedere. «Tu come
stai?»
Il modo in cui lei voltò il viso verso di lui, il modo in cui i
suoi occhi tremarono appena, gli fecero pensare che, pochissime persone nella sua lunga vita le avessero posto quella
domanda.
Thari passò le dita sottili sulle pieghe del lenzuolo, un rosso
ramato che si perdeva nell’oscurità della sua pelle. «Perché
sei andato via?»
Che gioco era quello di porsi solo domande? Che gioco è
quello in cui una donna chiede solo per farsi del male? Vanth
Kriera Nefthari era troppo umana e lo era troppo poco.
Ryker si piegò in avanti, le prese un polso con delicatezza e
l’attrasse a sé, tenendola stretta in un abbraccio di piume e
respiri. Se lei non avesse chiesto, se lei non si fosse innamorata, se lei non fosse stata un demone. «Credo che quegli
uomini stessero pensando a un riscatto. Forse speravano fossi di qualche altra nazionalità.»
Lei esitò e poi sciolse l’abbraccio. «Perché? Perché sei andato via? Perché adesso? Perché così?» Solo un rivolo di disperazione avvinghiato a quel timbro scevro da qualsiasi tipo
di collera.
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«Non dovresti chiedermelo. Lo sai perché l’ho fatto. Tu non
c’eri e io» qualsiasi parola avrebbe fatto male «Thari, io impazzisco qui. Ho bisogno di tornare a casa.»
Lei annuì e si alzò. Lui fece lo stesso, tenendo stretto addosso alla vita quell’unica stoffa che da giorni era il suo vestito. Voleva dirle che gli dispiaceva, che per lui era doloroso.
Tuttavia lei si fermò e puntò gli occhi in quelli di lui. «Non
posso tenerti qui contro la tua volontà, come Figlia di Ananke
non posso in nessun modo intaccare il tuo libero arbitrio. Ma
non condivido questa scelta: la trovo avventata, egoistica, illogica. La trovo stupida.»
La sofferenza che stillava ora da quella rabbia non fu abbastanza. «Te la dico io una cosa che non puoi capire, questo:
l’amore per la famiglia, la normalità della vita; il bisogno di
logica e concretezza.»
Lei alzò il viso. «Non è questo il punto, Ryker. Non dobbiamo per forza capirci, non te l’ho neppure mai chiesto; il
punto è che se sei qui è perché ne va della tua vita, oltre che
della mia. È perché se non è la vita a essere in pericolo è la
tua sanità mentale, e lo hai visto da solo cosa vuol dire. Aspettare che la situazione si calmi è un compito duro per te,
lo so, ma non attendere qui è da sciocchi.»
«Io devo tornare. La mia famiglia ha bisogno di me», replicò lui laconico.
Le estremità delle ali di lei si mossero in un movimento
piccolissimo, fendendo l’aria dietro di sé. «La tua famiglia
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non ti avrà più, se torni adesso. Qualche demone vorrà farti
rinascere; non lo capisci?»
Ryker fece uno scatto con la mano. «Oh, basta con questa
storia del rinascere: uccidere! Uccidere! Voi uccidete le persone, voi vi uccidete a vicenda. Tu uccidi. E mi hai coinvolto
in questo casino.»
Thari fece per rispondere, ma le parole le vennero meno e
richiuse la bocca distogliendo lo sguardo. Si morse l’interno
della guancia fino a sentire il sapore metallico del suo sangue
umano; il tentativo di non manifestare nessuna emozione
che falliva miseramente sugli angoli piegati delle sopracciglia, gli angoli della bocca, sotto le palpebre semisocchiuse.
Il tuo amore mi ucciderà.
«Lasciami solo, per favore.»
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Capitolo 11
Baby you're all that I want
When you're lyin' here in my arms
I'm findin' it hard to believe
We're in heaven
And love is all that I need
And I found it here in your heart
It isn't too hard to see
We're in heaven
Heaven - Bryan Adams
Il sole tremolava incerto sull’orizzonte, come se combattesse il caldo che proveniva dalla sabbia del deserto. Thari lo
guardava assorta nei suoi mille pensieri e nel suo senso di
colpa, che la schiacciava come una cascata che non la lasciava
respirare.
Non era in grado di gestire quel momento, non era in grado
di dare un senso alle azioni che aveva compiuto, senza darsi
della stupida. Le leggi che da tempi remoti regolavano il sistema le parvero all’improvviso insindacabili; e lei le aveva
infrante.
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Le aveva infrante due volte: quando si era resa visibile a un
umano e quando si era innamorata di un umano. E quella era
una legge che avrebbe dovuto tenere presente fin da subito;
invece non lo aveva fatto. Con la scusa di praticare una parte
del suo lavoro, aveva imparato a conoscere Ryker fin dentro
l’anima. Quel luogo inaccessibile anche agli stessi umani.
In quel modo lo aveva amato; in quel modo lo aveva tradito.
Tradito perché ora sapeva, tradito perché non sapeva. Tradito perché lo amava.
Le leggi non servono a nulla, se esiste il libero arbitrio. Le
leggi non servono a nulla, se il cuore non è in grado di seguirle. Aveva infranto le leggi e presto avrebbe infranto ben altre
cose.
Con la coda dell’occhio vide Ryker giungere sulla terrazza,
con il suo passo virile e la dolcezza dei movimenti; Thari
strinse le braccia attorno alle ginocchia. Lui si sedette accanto a lei, guardando il Sahara. «Scusami per prima», disse,
senza alcuna esitazione.
«Oh, non importa. Hai ragione: sono un demone e quello
che faccio è togliere vite umane; ed è colpa mia se sei bloccato qui», mormorò.
Lui si voltò e le diede una leggera botta con la spalla. «Questo è poco ma sicuro», commentò in tono canzonatorio.
Lei abbassò il mento e lui la cinse con le braccia, lasciando
che Thari poggiasse la testa su di lui, il quale si riempì il naso
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di rose selvatiche, mentre la cullava con delicatezza. «Per me
non è facile. Non è facile stare qui, stare lontano da casa, accettare tutto ciò che è successo nell’ultimo tempo», disse lentamente, dosando ogni singola parola. «Tuttavia non sono
così sciocco da pensare che per te sia una questione semplice
o un capriccio: so che lo stai facendo per me, per riparare a
qualcosa che tu hai fatto, ma in cui io ormai sono coinvolto.
Perdonami se a volte non riesco a sopportare questa situazione; non sono arrabbiato con te o forse sì, non ha importanza, ormai.» Le accarezzò la testa. «Grazie per quello che
stai facendo adesso. Va bene così.» Il tono era basso e deciso,
un timbro rassicurante. «Davvero, Thari.»
Lei chiuse gli occhi per un momento, ascoltando l’eco morbida del proprio nome sulle labbra di lui. Un tomento delizioso e troppo breve. Così breve. Il cielo sfolgorò i mille colori del tramonto quando il sole scivolò oltre la linea della terra. «Faccio un sacco di guai.» La voce cristallina incrinata
nella consapevolezza delle proprie azioni.
L’errore, il tradimento, la colpa.
«Per essere un demone sei fin troppo umana.»
«Non so se prenderlo come un complimento.» Alzò il viso
verso di lui. «Mi odi per tutto questo?» domandò con voce
querula.
Ryker sorrise. Il sorriso dolce di chi era abituato a farlo, il
sorriso generoso di chi ci mette amore e comprensione. «Un
po’.» Con il pollice le sfiorò la guancia, subito sotto l’occhio,
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chiedendosi se dei demoni potessero mai piangere, e trovò il
fatto talmente ironico che si dovette sforzare per non ridere;
non desiderava in nessun modo farle credere che stesse ridendo di lei, né desiderava farla sentire a disagio. Invero, desiderava che gli angoli delle sue labbra si piegassero verso
l’alto.
Ma Thari le teneva piegate in un vago broncio infantile; lo
sguardo perso negli occhi azzurri di lui; la pelle avida del respiro soffice di Ryker. Lui piegò il viso e la baciò con gentilezza.
Thari chiuse gli occhi, sciogliendo i muscoli tesi, e gli prese
il viso con entrambe le mani. Avrebbe voluto essere
un’essenza sola con lui, avrebbe voluto che lui non smettesse
di baciarla per tutta la breve vita che le rimaneva. «È possibile desiderare il tuo corpo e la tua mente più di quanto io abbia mai immaginato?» mormorò sulle sue labbra; le ali che si
muovevano appena, placide, dietro di lei.
Ryker continuò a baciarla crogiolandosi nel suono delle parole di lei, sul significato delicato e nello stesso tempo invitante; infine sorrise. «Io non avevo mai immaginato nulla di
tutto questo.» Con la lingua seguì la linea dritta della mandibola, quindi fece una leggera pressione su di lei con la mano,
facendola sdraiare sul pavimento di prato, morbido letto dai
riflessi smeraldini. Il denso calore del sangue, che percorreva
il suo corpo, che colmava la sua brama, era un fiume di seta
privo di dighe. «Se vuoi farmi impazzire in questa storia,
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fammi impazzire come si deve», bisbigliò al suo orecchio,
prima di baciarle il collo.
Lei respirò a fondo; lo stomaco stretto in una morsa di dolce tensione. Le ali del tutto spalancate sull’erba, rilassate,
mentre il corpo di lui scivolava sul suo. Ryker le sciolse la
cordicella che le teneva fermi i vestiti e quelli si aprirono silenziosi, scoprendole il seno sodo. Le labbra bagnate di lui
scesero a baciarli e Thari ansimò inarcando la schiena.
Le infinite tonalità del blu invasero il cielo del Sahara, fuori
la terrazza coperta, e, dentro, il fuoco delle torce si dipingeva
danzante su di loro. La ragazza chiuse gli occhi, mentre il desiderio stillava umido da lei alla ricerca di un sentimento vivo
e passionale. La bocca di lui disegnava percorsi invisibili sul
corpo nero, che fremette sotto le sue mani candide e sicure,
quando le sciolsero la gonna; le piume grigie carezzarono i
fili d’erba in un breve sussulto. Thari prese il viso del ragazzo
e lo attrasse al proprio; lo guardò negli occhi, senza esitazioni. «Se nella mia vita il mio cuore ha mai desiderato qualcosa
più dell’aria, quel qualcosa sei tu; adesso.»
L’errore, il tradimento, la colpa.
L’amore. L’amore fulgido; l’eternità di un sentimento senza
luogo, senza spazio, senza misura. Luce e ombra di un estremo volere; impalpabile egoismo.
Non posso.
La menzogna, l’omissione, la colpa.
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Ryker le sfiorò i capelli dai riflessi argentei e la baciò a lungo. Poi si staccò da lei e le baciò il naso. «Thari, non so se rivivrò questo momento solo nei miei attimi più onirici, né
come finirà questa storia; ma so che, qualsiasi cosa tu sia, sei
la cosa più bella che potessi avere e il demone più dolce che
io potessi conoscere.»
L’amore. Lucida follia; lacrima di gioia, attraente delirio di
anime sognanti. La mente, il corpo: il risucchio dei sensi, oltre la logica delle leggi universali.
Non posso.
L’omissione.
Il tradimento.
La colpa.
L’amore. Thari gli rivolse un sorriso disarmante, carico di
tutto ciò che provava per lui. Con la punta delle dita percorse
la colonna vertebrale di lui in tutta la sua lunghezza, fino alle
natiche; lo liberò della stoffa drappeggiata dalla vita e fece
risalire le mani. Gliele poggiò sul petto e osservò il diamante
corvino sul bianco velluto; le fece scorrere su di lui lentamente e lo attrasse a sé.
Ryker assaporò quel bacio caldo, assaporò ogni parte di lei
e lei si sciolse, languida, sotto di lui. L’intensa voluttà rimbombava nelle vene e il tempo le parve, per una volta, magicamente infinito. Il risucchio dei sensi.
Trattenne il respiro quando lui si fece strada dentro di lei:
si aspettava che sarebbe fuggito da un momento all’altro, che
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avrebbe scoperto qualcosa di non umano che lo avrebbe terrorizzato. Tuttavia lui incastrò lo sguardo nei suoi profondi
occhi color pece e gustò ogni istante di quel percorso, fino a
che non arrivò alla fine ed entrambi gemettero.
L’amore. Oltre la logica delle leggi universali, e parte di
esse.
Thari socchiuse le labbra in un muto grido di dolore e piacere; lui scese a baciargliele e lei chiuse le palpebre. La sua
mente contemplò il sentimento delicato che scaturiva dal
cuore di lui e lei si beò della sensazione di quell’intreccio perfetto, di lui dentro di sé, del bianco e del nero, dell’umano e
del demone. Erano forgiati insieme nello spazio impalpabile
di un tramonto senza fine. Il mio amore ti ucciderà. «Sono
tua, ora», sussurrò, cingendolo con le gambe.
«Sarai mia per sempre», replicò Ryker con voce roca, senza
sapere che quelle parole piene di una irreale promessa di eternità, racchiudevano un doloroso nocciolo di verità.
Lei fece per rispondere, ma lui uscì e affondò nuovamente
dentro di lei. Thari avvampò e il suo bacino si sollevò, avido,
verso di lui.
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Capitolo 12
I looked away, Then I looked back at you,
You try to say, The things that you can't undo
If I had my way, I'd never get over you.
Today is the day I pray that we make it through.
Make it through the fall.
Make it through it all
Fall to pieces - Avril Lvigne
Le ciglia sbatterono appena. Lunghe, curve, nere. Nere su
nero. Sugli occhi che tanto lo avevano spaventato. Ryker prese il viso di Thari tra le mani e le sfiorò le labbra continuando
a guardarla.
La morte, le tenebre, due pozzi senza fine.
Conosceva quegli occhi da quando era bambino, ne conosceva la paura che suscitavano in lui. Tuttavia, allora non conosceva la dolcezza e l’umanità di quello sguardo che credeva
solo di sognare nei momenti più tristi.
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Non c’era tristezza, però; c’erano due occhi che poteva amare. E non importava cosa sarebbe successo, era troppo irreale troppo lontano. Non desiderava neppure pensarci, anche se avrebbe dovuto, avrebbe dovuto fare un sacco di cose;
eppure era là, con lei, un mezzogiorno infuocato oltre il terrazzo, sul deserto silenzioso.
Thari si mosse appena e lo strinse.
Lui sorrise, ricambiandola. «Sai cos’è la cosa più strana, tesoro? Le tue ali.»
«Le ali?»
Ryker annuì. «Sì. Ti stupisce?»
Lei si strinse nelle spalle. «Pensavo che fosse il colore della
pelle. O gli occhi. O i capelli bianchi.»
«No. Sono le ali, perché il resto è umano, molto umano, e
se non lo fosse, lo è diventato insieme a te. Ma le ali… Thari,
sono scomodissime!»
La ragazza ridacchiò. «Signor Mancini, come può dire una
tale eresia? Le ali sono la parte del corpo più comoda e utile
al mondo.»
«Più del cuore e il cervello?»
«A parte quelli.»
Ryker la costrinse a guardarlo piegandole il viso. «Non
pensi che siano le uniche cose utili, o più utili, quando fai
l’amore con me.»
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Lei rise di nuovo con il suono cristallino che sgorgava dalla
sua bocca. «Va bene, come vuoi; ma le ali sono utili e sono
comodissime. Non sai quante cose non potrei fare, senza.»
«Per esempio?» chiese lui corrugando la fronte.
Gli lanciò un’occhiata, fingendo impazienza. «Volare?»
«Non sono un sacco di cose», commentò Ryker di rimando.
«Sì, invece», protestò «è che tu…»
«Non puoi capire», concluse per lei.
Thari scosse il capo. «Non vuoi capire: non è possibile sindacare sull’utilità del volo, delle ali, dell’equilibrio. È così ovvio.»
Il ragazzo le tirò una ciocca. «Penso proprio che tu sia terribilmente donna, Nefthari, e quindi vuoi sempre avere
l’ultima parola.»
Lei non replicò per qualche minuto, lasciando pensare a
Ryker di averla offesa, anche se lui non ne vedeva il motivo.
«Sai», disse infine, «nessuno mi chiama Nefthari.»
«Peccato. È un bel nome, per una come te.»
«Come lo conosci? Il nome intero, intendo.»
Lui ci dovette pensare alcuni istanti. «Lo ha detto Iside,
quando l’ho conosciuta, sul Colosseo. Oh, cielo, sul Colosseo!
Mai avrei pensato di poter dire sul Colosseo, al posto di accanto, davanti, dentro; è tutta colpa tua.»
Lei lo guardò con un’intensità tale che lui ne fu quasi imbarazzato. «Lo so. Non avrei mai dovuto farti tutto questo, se io
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fossi stata attenta alle mie stupide emozioni, ti avrei evitato
tante sofferenze.»
Lui fece per ribattere e dire che non era più certo di quella
realtà, ma lei, con una forza che lui in quel momento non si
aspettava, lo spinse da una parte con una sola mano.
Ryker sbatté le palpebre; troppo sorpreso anche per chiederle cosa accidenti le fosse venuto in mente, la guardò alzarsi in piedi e piegarsi poco più in là per prendere la spada.
Quando si voltò, lo sguardo di lei era quello più duro e meno
umano che le conoscesse.
Aprì la bocca, ma qualcosa piombò nella terrazza con uno
svolazzare di piume grigie, e dalle sue labbra non uscì nulla.
Thari strinse l’impugnatura assumendo la posizione tipica
di quando combatteva. «Stai violando l’abitazione di Iside
senza il suo consenso, puoi andare in contro a un richiamo
ufficiale in merito. Non sei la benvenuta, Sekhmet.»
L’altra sollevò un sopracciglio e si toccò i lunghi capelli setosi. «Senti da quale pulpito. Sono venuta qua giusto per portarti da chi di dovere. Riportare te e il tuo amichetto umano
al cospetto del capo delle milizie.»
«Cosa?»
«Hai capito bene. A quanto pare, qualcuno ha spifferato
tutto e tu hai finito di giocare all’umana innamorata. Se tutto
va per il meglio ti sarà tolto il tuo corpo da donna e dovrai
seguire le ultime persone che devono rinascere, puoi solo
sperare che sia così.»
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Thari alzò la spada. «Stai mentendo.»
«Assolutamente no.»
«Perché non sono venuti loro a prendermi?»
L’altra indicò con il capo Ryker, che era rimasto immobile
in un angolo del terrazzo, sul prato. «In realtà devo prendere
lui, ma ho pensato che fosse utile richiamarti all’ordine, sorellina. In fondo, non avrai libertà per molto tempo: sai che
per queste cose c’è un processo.» Schioccò la lingua. «O forse
non lo sai perché sei mezza umana? Ti è sfuggito?»
«Stai mentendo», ripeté.
«Sul fatto che sia mezza umana? Oh, no; lo sanno tutti.»
La ragazza strinse gli occhi e parlò con timbro fermo e sicuro. «Non su questo.»
«Puoi crederci o meno. Io mi prendo il fanciullo e tu puoi
fare ciò che vuoi; non mi interessa.»
Thari poggiò la punta della spada su quella di Sekhmet.
«Prendilo, allora», sibilò.
«Subito.» Il demone affondò sulla ragazza, che scartò sulla
destra e cercò di colpirla di nuovo.
I muscoli si tesero all’istante sotto la pelle scura, le loro lame stridettero al contatto forzato e rapido; gli occhi di Sekhmet Neseret lampeggiarono di fulmini vermigli nella profondità delle tenebre; le loro ali sbatterono nell’aria con colpi
poderosi e controllati.
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Quando l’arma di Thari sfiorò il fianco della donna, quella
indietreggiò, creando una certa distanza tra loro due. «Lascialo tornare al suo mondo, Thari.»
«Lo farò. A tempo debito, quando la situazione si risolverà,
ma di certo non lo lascerò nelle tue mani avide di vendetta.»
Con la coda dell’occhio vide il ragazzo alzarsi e osservarle da
poco lontano.
L’altra inclinò un poco il viso. «Pensi davvero che sia questo il motivo? In così tanto tempo non sei riuscita a capire
quale fosse il nostro dovere? Il tuo dovere come Figlia di Ananke, con obblighi e doveri precisi, con un equilibrio universale da rispettare. Lui non può essere tuo e tu non puoi
continuare a fuggire: tornerà alla sua vita e tu pagherai le
conseguenze delle tue azioni.» Le lanciò un’occhiata algida.
«Non sono io a decidere queste regole. Come non sono stata
io a decidere di donarti un corpo degno di nostra madre. E sì,
io non ero d’accordo perché non sei un demone puro: saresti
caduta in errore, prima o poi, e quell’errore è arrivato. Non
mi dispiace affatto dire che io lo avevo previsto, Thari. Questa è la realtà, e tuttavia non mi interessa torcere neppure un
capello al quel bambino: finiti tutti i tuoi compiti, perderai la
tua essenza di demone della rinascita, ed è questo quello che
conta, perché tu non lo sei!» La fissò con il suo sguardo liquido e si avvicinò di un paio di passi. «Non è vendetta; è
giustizia.»
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«Potresti avere ragione, ma non te lo lascerò prendere come se fosse un giocattolo cui hai diritto.»
Sekhmet non aspettò neppure che finisse la frase, le saltò
addosso con la spada inclinata verso di lei. La luce delle torce
baluginò sulle armi bianche e, colpita alla base del pollice con
un taglio rapido e profondo, Thari fu costretta lasciare
l’impugnatura.
Fu questione di attimi. La ragazza arretrò e scansò alcuni
colpi di spada, ma non aveva nulla per difendersi; sapeva
come sarebbe finita e si maledisse una volta di più. Lanciò
uno sguardo a Ryker, subito dietro le spalle del demone, per
comunicargli tutto il suo dispiacere, ma lui interpretò quel
gesto in modo diverso.
Con tutta la forza che aveva, il ragazzo corse e balzò al collo
di Sekhmet. Lei emise un suono sordo; con un movimento
troppo repentino per lui, indietreggiò spingendo con le ali e
lo sbatté contro il muro; prima che lui potesse comprendere,
lei lo afferrò per il collo, rigirandolo e stringendolo a sé.
Thari, che aveva ripreso la propria arma, si bloccò vedendo
che quella di Sekhmet era alla giugulare del ragazzo. «Non
puoi farlo rinascere.» Le uscì un mormorio incerto.
Lei piegò ancora di più il gomito intorno alla gola di lui.
«Non voglio farlo rinascere. Voglio portare lui, e te con lui, al
vostro posto.»
Ryker boccheggiò, pieno di rabbia, premendo le dita sul
braccio di lei. «Io non voglio andare da nessuna parte.»
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«Del resto, lo sai, non puoi tenerlo qui contro la sua volontà», continuò Sekhmet senza ascoltarlo.
«Non è contro la mia volontà», insistette lui.
«Ah, no? Strano.» Lo strattonò leggermente. «Forse perché
tu, Thari, non gli hai detto che tra meno di un mese devi uccidere sua sorella.»
Il silenzio che seguì fu una stilettata di dolore dentro il petto; mura di castelli che si sgretolavano inesorabili al suolo,
sotto i piedi. Tutto, ma non Lulù. Ryker alzò gli occhi verso
Thari, la quale aprii la bocca senza essere in grado di farne
uscire mezza parola; si sforzò di deglutire, distogliendo lo
sguardo da quello angosciato e incredulo di lui.
L’omissione, il tradimento, la colpa.
Abbassò l’arma, puntata verso di loro.
«È vero?» domandò lui con un filo di voce.
Lei mosse appena la testa in un movimento circolare, come
se non fosse capace di fare altro.
«Certo che è vero.» Sekhmet lo sentì allentare la presa sul
proprio braccio.
«È vero?» chiese di nuovo.
Il mio amore ti ucciderà. «Sì…» sussurrò.
Lui esitò alcuni istanti, poi esplose. «Non seguivi me, dopo
mia madre. Seguivi lei.»
«Io…»
«Mi hai mentito. Tutto quello che hai detto era una menzogna. Hai fatto tutto questo perché dovevi uccidere lei!»
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Lei scosse il capo con vigore. «No, Ryker. Dovevo seguire
lei, ma mi sono innamorata di te, di quello che sei, di come
vivi le tue emozioni; è la verità.»
Tutto, ma non Lulù. Lei doveva vivere, lei doveva essere felice. Lei ne stava uscendo con tutta la sua forza. Non lo meritava, nessuno di loro poteva meritare un'altra simile tragedia. «Se fosse così, me lo avresti detto.»
«Ben detto», osservò Sekhmet che sorrise soddisfatta dietro i capelli color cenere del ragazzo.
Lui lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Dentro di sé il
panico lo stava assalendo, ma non voleva farlo vedere, perché
la rabbia per tutto ciò che gli era successo, per le bugie, per
quei sentimenti troppo violenti, lo avrebbero fatto urlare per
il resto della sua vita. «Portami a casa, demone. Non voglio
ricordare nulla di tutto questo.» L’asprezza di quella frase
colpì Thari come una pugnalata nello stomaco.
Sekhmet lasciò la spada e lo afferrò per la vita, compiaciuta
di quanto le cose fossero state più brevi del previsto. A volte
bastavano poche parole e gli eventi prendevano pieghe diverse, inspiegabili, dure. Un attimo prima lui desiderava salvare
una persona e forse ucciderne un’altra; ora chiedeva con tetra fermezza di essere portato via dalla seconda e di abbandonare alla propria sofferenza la prima.
«Mi dispiace», cercò di dire ancora la ragazza.
«Lo hai sempre detto, ma sono solo parole.» E le sue parole
erano scagliate verso di lei come coltelli affilati.
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L’amore. Lucida follia; oltre la logica delle leggi universali, e parte di esse. «Lo so. E so cosa lei significhi per te. Ma
non potevo dirti di lei; non potevo dirti quanto ti amassi.»
Fece mezzo passo insicuro verso di lui.
Ryker voltò il viso e guardò gli occhi disumani di Sekhmet.
«Portami via. Ora!» Crudele, giusto, ferito.
Il demone gli fece chiudere le palpebre e lui non vide il corpo di Thari cedere sotto quel dolore senza fine, nei meandri
dilaniati dell’anima.
L’impotenza.
La colpa.
L’amore.
119
Capitolo 13
I know you’ll be a star
in somebody else’s sky,
but why,
why, why,
Can’t it be, can’t it be mine?
Black - Pearl Jam
Il silenzio era un tormento inaudito. E durava da troppo
tempo.
Lei aveva voglia di vivere, vivere come un’umana, sentire
l’umanità della sua pelle, del suo sangue. I battiti di un cuore
vermiglio, in un corpo nero come la notte; e invece tutto sarebbe finito.
Ora che ti ho trovato, ora che mi hai trovata.
Thari sospirò.
Era relegata nella dimensione dei demoni, in attesa, a meditare sulle leggi infrante. Troppe.
Poi lo scalpitio di piccoli piedi dentro scarpe morbide riecheggiò nella sua camera. Finalmente un rumore. Una donna
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entrò attraversando il grande arco che dava verso ovest, la
luce rosata del sole brillò sui capelli corvini.
«Madre…», mormorò Thari con un piccolo, impacciato inchino.
L’altra piegò il capo in un breve segno di saluto. «Ciao,
Vanth». Aveva una voce dolcissima, calda, che usciva dalle
labbra rosate con piccole note tondeggianti, quasi si potessero toccare. «È tanto tempo che non ci vediamo. Mi dispiace.»
Fece un passo verso di lei, ma Thari si allontanò, spostandosi; nell’aria pulviscoli dorati danzarono allegri.
Abbassò appena gli occhi.
«Non sono quella che gli umani definiscono una madre
presente, vero?»
Thari fissò lo sguardo sulle tende color pesca. «Non sei
neppure umana, se è per questo, madre.»
«No, non lo sono. Ma conosco l’umanità da un tempo molto lungo, conosco anche le loro critiche.» Sorrise mostrando
un’espressione deliziosa. «E conosco le loro emozioni, la loro
forza, il loro potere su di noi. Loro…»
«Lo sapevi?», la interruppe sua figlia, brusca.
Ananke la guardò incerta. La pelle liscissima, color noce,
sembrava brillare d’oro.
«Sapevi che sarebbe successo, che avrei fatto questa fine,
che prima o poi avrei fallito.»
L’altra scosse il capo. «No. Non potevo saperlo; nemmeno
tu potevi saperlo, Vanth. Nessuno ha questo potere e quello
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che sei, quello che sei oggi, tutte le tue azioni, non nascono
dal tuo sangue.» Aprì una mano e con grazia indicò intorno a
sé. «Si ostineranno sempre a sostenere il contrario, tuttavia
non è così. Siamo demoni: siamo umani anche noi, in parte;
e tu, tesoro, non hai fallito. Hai fatto le tue scelte e le hai fatte
con il cuore.»
Thari piegò il capo e lo scosse forte. «No, non è così. Io…»
Strinse i pugni. «Io ho le ali, ho la pelle nera, vivo la dimensione dei demoni; io provo piacere nel far rinascere gli umani. Ma il mio sangue è rosso.»
«Non fare quest’errore, figlia mia, non fare l’errore che
fanno tutti: non guardare solo fuori. È dentro che devi scoprire chi sei e cosa desideri; non ti dirò che sia facile, ma prova a farlo.»
La ragazza scosse ancora la testa, con meno forza. «È tutto
così complicato, lo è sempre stato. Desidero solo una vita
semplice: rispondere alle esigenze del mio corpo e a quelle
del mio cuore, ma farlo mi ha portato a perdere tutto.»
Sua madre sollevò leggera una mano e le accarezzò una
guancia. «Lo so; per me la vita è stata assai più facile, eppure
ho dovuto fare le mie scelte e, nelle nostre lunghissime vite,
di scelte bisogna farne molte.» Gli occhi cangianti di Ananke
la scrutarono, passando dal nero al viola e infine all’azzurro.
«Tuo padre», continuò facendo un passo indietro e guardando le tende anche lei, «è stato uno dei pochi che ho amato:
non sarei stata con uno sciocco, effimero umano, se non lo
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avessi amato. So che questo ha portato alla tua sofferenza,
più della mia e mi dispiace dire che non rimpiango ciò che
abbiamo vissuto.» Per un attimo lo sguardo si perse lontano
nel tempo, poi tornò a posarsi sulla figlia. «Le leggi oggi sono
altre, forse più giuste, io non ho il diritto di sindacarle. Desideravo solo dirti che sei frutto dell’amore. E che per quanto
ristrette, hai la possibilità di fare delle scelte anche tu; cosa
desideri di più di tutto in questo momento?»
«Salvare Ryker.»
«Non gli accadrà nulla: quando il capo delle milizie parlerà
con voi, lui perderà la memoria di questi ultimi eventi e tornerà alla sua vita.»
Con uno scatto Thari si allontanò di nuovo. «Non è questo
il punto: si tratta di Lucrezia; se la farò rinascere, lui impazzirà. È così difficile da capire?»
«No, non lo è. Ma a te importa così tanto se lui impazzirà o
meno? Non ricorderà nulla di tutto ciò.»
In risposta, Thari le rivolse un’occhiataccia che non avrebbe potuto permettersi, trattandosi di Ananke, ma la donna
non si scompose né glielo fece notare. Sospirò. «Hai due
giorni per riflettere su ciò che più desideri.»
«So già cosa desidero. Ma nulla dipende da me», replicò la
ragazza con meno foga.
«Sì, è piuttosto evidente; tuttavia, come dicevo, non è vero
che nulla dipende da te.» Sua madre fece un passo indietro;
gli occhi si tinsero di un tenue verde acqua. «Rifletti a fondo,
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Vanth, perché esiste un modo e quel modo dipende solo da
te. Se seguirai alcune strade, forse io potrò aiutarti; ma quelle
strade le devi prendere da sola»
***
Thari rimase immobile, così come solo un demone poteva fare. Poi, delle mani nere e amiche la toccarono sulla spalla,
prima di darle un buffetto rapido su una gota tesa.
«Ah, dolce mesto sguardo, tenera infante. Mi hai chiamata?» Iside aprì le braccia, senza attendere risposta.
E Thari non rispose se non gettandosi in quell’abbraccio. Si
tennero strette, ma non troppo a lungo perché il tempo a loro
disposizione era pochissimo. «Perderò tutto», mormorò la
ragazza sulla spalla dell’amica. «Perderò le mie qualità di
demone e con essa una parte di me, sarò relegata a un mondo
in cui non potrò avere contatti con gli umani, in cui non potrò seguire le loro vite. E perderò Ryker perché dovrò far rinascere sua sorella.» Soffocò un singhiozzo e si allontano da
Iside. «Avrei desiderato avere più tempo, avrei desiderato
fargli capire chi ero davvero, chi siamo noi figlie di Ananke:
avrei voluto fargli capire che a volte siamo anche degli angeli
custodi.»
Iside dondolò la testa.
«Beh, è così che li chiamano gli umani, ma era complicato;
è sempre stato complicato con loro, le nostre logiche sono…
oh, Iside», mormorò. «Ho sbagliato tutto, così come tutti mi
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facevano sempre presente; alla fine hanno avuto ragione loro.»
«Lo pensi davvero?»
Thari si strinse nelle spalle, lisciandosi la stoffa del suo
gonnellino. «Ananke dice che non dipende dalla mia natura.»
«Ananke non permette alle menzogne di invadere le sue
labbra».
Thari annuì e prima di continuare si asciugò le lacrime dal
viso, quindi alzò il capo con più decisione. «Nostra madre mi
ha detto di riflettere perché esiste un modo, credo alludesse a
Lucrezia, tuttavia io… non lo conosco. Come posso farla rimanere sulla terra ancora a lungo?»
L’altra sbatté le palpebre.
«Mi ha detto di riflettere a fondo, che dipende solo da me,
da ciò che desidero. I giorni sono passati e io non ho compreso. Lei non ha voluto dirmi nulla, nessuno ha voluto dirmi
nulla; so che c’è qualcosa che non mi è stato detto, forse perché sono Mezzosangue?»
Di nuovo l’amica sbatté le palpebre.
«Iside!», la voce di Thari uscì con un lamento strozzato.
«Tu lo sai? Iside, ti prego, se lo sai dimmelo. Qual è questo
modo, perché nessuno vuole dirmelo?»
Il demone deglutì e si voltò.
125
«Sono pronta a tutto e tu sei mia amica, l’unica che io abbia, perché ci metti tanto a dirmelo? Rimangono pochi minuti.»
E proprio allora uno dei messaggeri del capo delle milizie la
chiamò.
Iside gli lanciò un’occhiata, quindi afferrò un polso a Thari.
«Non vorrei proferir parola proprio perché siamo strabilianti
amiche, perché siamo sorelle, ranocchietta, tu incarni la sorella migliore che si possa possedere e noi ne possediamo fin
troppe.» La guardò in quegli occhi così umani, così diversi
dai suoi. «Ti perderò in ogni caso, le mie membra brameranno infinito odio e terribile vendetta, quando non sarai più
meco. E se ora dalle mie labbra uscisse la verità, codesta
vendetta sarà ancora peggiore.»
«Per favore…», supplicò Thari, senza capire.
Il messaggero si schiarì la voce, ma Iside non smise di parlare.
«Te lo dirò», sussurrò, «perché possiedi il diritto di scegliere; solo per questo.»
126
Capitolo 14
I find the love
that I know that I miss.
I lost my love, my life,
that night.
Last Kiss - Pearl Jam
L’alta tecnologia dei demoni e di tutte le creature superiori
invadeva la sala rossa del giudizio. Un’architettura dell’antico
Oriente rendeva all’occhio umano un complesso insieme di
arte e comodità. Passato e futuro. Ma in quel momento nella
sala era presente un unico umano ed era, fra l’altro, semicosciente.
Thari si morse l’interno della guancia nel guardarlo ancora
una volta, chiuso in una gabbia invisibile, lo sguardo perso.
Ryker aveva passato gli ultimi giorni in uno stato catatonico e
non solo per i poteri derivati dai demoni: era come se lui
stesso non accettasse nulla di tutto ciò.
Tuttavia l’unica ad esserne preoccupata era Thari.
127
Gli altri presenti si erano appena tranquillizzati perché si
era sparsa la voce che il Principe delle Milizie Superiori fosse
di buon umore e ben disposto nei confronti di tutti; non che
di solito non lo fosse, però ogni demone sapeva che odiava
scendere in quel livello e faceva rispettare le sue leggi con
una severità indifferente.
Un demone, in forma di bambino umano dai capelli rossi,
annunciò l’entrata del capo delle milizie e, per alcuni istanti,
Thari pensò di gridare. Invece rimase in silenzio, osservando
la luce che entrava da dietro le pesanti tende bordeaux.
Una luce acquosa, chiara, in grado di muoversi nell’aria,
nello spazio, nel tempo come una bolla di sapone che brilla di
luce propria. La cosa più bella che ognuno di loro avesse mai
visto; e anche la più temibile: nella sua bellezza, quell’essenza
incuteva un timore atavico.
«Messaggeri delle milizie, Ananke, figlie di Ananke e Figli
della Luce, benvenuti», salutò.
Le sue parole si diffusero nell’etere senza voce, una semplice, dolce vibrazione che raggiungeva le menti di chi gli era
davanti. Un pubblico che si chinò di fronte a lui per alcuni attimi.
Ryker rimase immobile, gli occhi sgranati, la sensazione di
avere qualche essere dentro di lui: sebbene potesse vedere e
udire, percepiva quell’essere, qualsiasi cosa fosse, come se risiedesse dentro di lui. Fece un passo indietro, quando si sentì
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guardato da quella creatura inumana, nonostante quella non
avesse un paio d’occhi in alcun punto.
Scontrò la schiena contro la sua gabbia invisibile e rimase a
fissare il Principe delle Milizie, che ora parlava con voce soave, lenta, quasi una carezza. Benché la testa gli dolesse, tentava di ascoltare con attenzione.
Anche Thari ascoltava e non perse una parola né del discorso del capo, né del resoconto dei Messaggeri. La vita di
lei, da quando era nato Ryker, venne raccontata con
un’infinità di dettagli, narrando di lei, della famiglia Mancini,
di Iside, di Sekhmet, di ogni mortale e immortale che aveva
avuto un ruolo in quella storia.
Oltre alla voce cadenzata dei Messaggeri, vi era il silenzio
assoluto e il respiro di Ryker.
«In questo processo», concluse uno dei Messaggeri, «si ritengono colpevoli Vanth Kriera Nefthari, Hskateltre Mpteri
Iside, Sekhmet Neseret e altre due Figlie di Ananke, già rinate, e un Figlio della Luce, già rinato anche lui. I Messaggeri
delle Milizie lasciano la parola al giudizio del Principe delle
Milizie.»
Sull’essenza acquosa passarono vari colori, prima che si
muovesse con un movimento fluido verso Sekhmet, che si inginocchiò. «Figlia di Ananke, sei accusata di aver rischiato la
rinascita non programmata di Ryker Mancini, qui presente.
Come ti dichiari?»
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Il demone abbassò il capo, chinandosi in avanti, e i suoi
lunghi capelli sfiorarono il pavimento. «Non colpevole, Principe», rispose senza esitazione.
Thari aggrottò le sopracciglia guardandola; era in piedi a
qualche metro da lei. Tra di loro si trovava Iside, che ora si
chinava come aveva fatto la loro sorella di fronte alla luce
splendente. «Figlia di Ananke, sei accusata di aver fatto rinascere un Figlio della Luce in una battaglia non autorizzata.
Come ti dichiari?»
«Non colpevole, Principe», replicò anche lei senza tentennamenti.
Il capo delle milizie si avvicinò a Thari, senza commentare,
nessuno poteva conoscere i suoi pensieri e i suoi voleri. La
ragazza fissò quella luce bella e inquietante per alcuni istanti,
quasi volesse comprenderne l’essenza; come lei, tutti la ignoravano, e mai l’avrebbe conosciuta nelle sue profondità, neppure ora che la sua vita da demone della rinascita stava per
finire.
Si genuflesse e piegò il capo attendendo la domanda. «Figlia di Ananke, sei accusata di aver fatto rinascere due tue sorelle. Come ti dichiari?»
«Colpevole, Principe.»
Vide l’occhiata di dissenso che le aveva lanciato Iside e
chiuse gli occhi.
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La luce non si mosse: come tutti già si aspettavano, rimase
davanti alla ragazza. «Sei accusata di aver mostrato il mondo
superiore a un umano. Come ti dichiari?»
«Colpevole, Principe.»
L’ombra vibrò appena. «Figlia di Ananke, sei a conoscenze
delle conseguenze di questo atto?»
«Sì, Principe.»
«Sai che perderai il tuo compito di Demone della Rinascita,
alla fine del tuo ultimo compito e che il tuo corpo subirà delle
modifiche? Sai che non potrai più varcare la dimensione degli uomini?»
Lei si morse un labbro. «Lo so, Principe», mormorò.
«Figlia di Ananke, Vanth Kriera Nefthari, sei accusata di
esserti innamorata di un umano, di averlo indotto a ricambiare il tuo sentimento, di avere avuto rapporti sessuali con
lui e di aver quindi violato una delle leggi più importanti delle relazioni tra uomini e demoni. Come ti dichiari?»
«Non mi ha indotto», biascicò Ryker schiacciato sul muro
della gabbia che esisteva solo per lui.
Il capo delle milizie non badò a lui; nel corso di tutto il processo lo aveva guardato solo una volta e riteneva che le sue
parole non fossero importanti. La protesta, qualsiasi essa
fosse, non giungeva alla luce densa, ferma nella sala, come se
non avesse proferito parola.
Thari, però, aprì le palpebre e sollevò il capo. Lui aveva gli
occhi cerchiati, in respiro appena ansimante, le mani premu131
te su qualcosa che solo lui sentiva. I loro sguardi si incontrarono e lei si sentì stringere lo stomaco. Tornò ad abbassare la
testa.
La colpa. L’amore. «Colpevole. Principe.»
Senza una parola, la luce divenne azzurrina e poi rosata,
mentre raggiungeva il posto di partenza. Per molto tempo,
cadde un silenzio rotto solo dall’ansimare del ragazzo.
Poi il demone bambino si avvicinò alle tre donne demone e
si librò nell’aria raggiungendo l’altezza dei loro visi.
«Hskateltre Mpteri Iside, Sekhmet Neseret, siete ritenute
colpevoli e per questo non potrete portare a termine i vostri
compiti per cento cicli solari, né potrete entrare nel mondo
degli umani per un intero ciclo solare», disse con la sua voce
da bambino che risuonò delicata in tutta la sala.
Iside e Sekhmet non si guardarono, nell’estrarre le proprie
armi e consegnarle al piccolo demone. Il bambino prese le
spade bianche e le fece dissolvere nelle sue manine chiare e
morbide; quindi si mosse verso Thari, mentre le due donne si
allontanavano dal punto in cui erano state fino ad allora.
«Vanth Kriera Nefthari, sei colpevole di aver infranto una
delle leggi universali delle relazioni tra uomini e demoni, di
aver mostrato il mondo superiore a un umano, di aver fatto
rinascere due tue sorelle, Figlie di Ananke, e per questo motivo dovrai lasciare per sempre il ruolo di demone della rinascita, il corpo che ora ti appartiene e non potrai più accedere
al mondo degli umani; questo da quando l’ultimo umano a te
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affidato sarà stato fatto rinascere, e quindi tra undici cicli solari.»
Thari annuì fissando gli occhi smeraldini del bambino, poi
inspirò, proprio mentre il demone stava per tornare sui suoi
passi. «Aspetta», sussurrò. Sollevò gli occhi sulla luce ora bianca, bianchissima. «Principe… Principe delle Milizie, io
ho…», la voce le tremò. «Io ho una richiesta da farvi.»
Tutti gli occhi si voltarono verso di lei, occhi profondi, dai
diversi colori, tutti inumani. La luce acquosa sembrò deformarsi un poco, prima di spostarsi nella sala e raggiungerla; le
girò attorno e lei si costrinse a rimanere con la testa alta.
«Ebbene, quale richiesta?»
La ragazza strinse i pugni un paio di volte, manifestando il
suo umano nervosismo. Si voltò a guardare Iside, in piedi accanto a Ryker e senza la sua spada. L’amica piegò il capo da
un lato e le fece un sorriso che non raggiunse gli occhi liquidi.
Thari lanciò un’occhiata al ragazzo, che con la fronte aggrottata e i capelli scompigliati seguiva la scena senza batter
ciglio, come se nonostante lo stordimento, cercasse di rimanere vigile. «Principe, mi è stato ricordato che, quando un
demone della rinascita non vuole far rinascere un umano,
può rifiutarsi di farlo.»
La luce si fermò. Thari vide sua madre, Ananke, annuire e
incrociare il suo sguardo. Ryker emise un mugolio, pensando
che finalmente quell’essere era sorpreso da qualcosa.
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«È vero. E ti hanno anche ricordato, demone della rinascita, le conseguenze di tale gesto?»
«Sì, mio principe», rispose Thari con voce più sicura. «Ne
conosco le conseguenze e sono pronta ad accettarle a favore
della vita umana e attuale di Lucrezia Mancini, sorella di
Ryker Mancini, qui presente. Affinché non rinasca se non per
cause naturali.»
Thari sapeva che la stavano fissando, ed era anche abbastanza certa che il principe stesse facendo altrettanto.
Ryker grugnì appena e allungò una mano per toccare un’ala
di Iside, benché la gabbia lo bloccasse. «Che succede? », le
domandò, «che vuol dire? Cosa faranno a mia sorella?»
Iside gli lanciò un’occhiata incomprensibile.
Il bambino demone svolazzò nell’aria con il suo volo innocente e i messaggeri delle Milizie lo seguirono, passando in
due file accanto a Thari, che senza una parola li seguì.
Poi la ragazza ci ripensò, creando un certo mormorio nella
stanza. Raggiunse Ryker. Solo lui era bloccato da quel muro
invisibile, sicché lei allungò una mano, per prendere quella di
lui.
«Tua sorella vivrà», sussurrò, pur sapendo che tutti, lì dentro, potevano sentire.
Ryker si rilassò e le sorrise, stringendole la mano a sua volta. «Hai visto, alla fine è stato facile; mi dispiace se non potrai più… »
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Thari gli poggiò un dito sulle labbra. Gli occhi azzurri, la
pelle chiara, la purezza dei suoi sentimenti, l’imperfezione
dell’essere un semplice umano. «Torna a casa, Ryker, prenditi cura della tua famiglia, come hai sempre fatto.»
Lui sbatté le palpebre; un senso di vuoto gli attraversò le
viscere. Il tuo amore mi ucciderà. «E tu cosa farai?»
Thari gli accarezzò il viso con la punta di un’ala, notando
con la coda dell’occhio il bambino demone fluttuare verso di
lei con i suoi folti capelli cremisi. «Non importa: non ricorderai niente di tutto questo.»
Ora che ti ho trovato, ora che mi hai trovata.
Ti perdo.
Lo lasciò e seguì il demone; non si voltò mai.
Di nuovo Ryker si schiacciò sulla gabbia, per seguirla con lo
sguardo, perché all’improvviso gli parve tutto privo di logica.
Non voleva dimenticare, anche se lo aveva detto. Voleva ricordarsi tutto, ricordarsi di lei, di loro due. Una sottile rabbia
impotente gli fece stringere i pugni.
«Iside, fai qualcosa!»
Lei lo fulminò, tuttavia lui non demorse.
«Non posso dimenticare tutto questo»
«Invece lo farai», quasi ringhiò mentre alcuni Figli della
Luce lasciavano la stanza in fila indiana.
«Oh, ti prego», quasi piagnucolò. «Allora, ti prego, promettimi, Iside, per favore, prometti che, per tutta l’eternità che
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dovete vivere, le ricorderai quanto la amo. Io non gliel’ho
detto, io…»
Lei fece un gesto con la mano. «Sei libero», disse solo e fece per allontanarsi. Ryker afferrò Iside per un braccio e la
strattonò.
Ma dovette lasciarla: il demone lo guardò con quei due occhi che sembravano due anguille e sulle palpebre si affollavano lacrime umane. Lacrime di dolore. Lacrime che lui non
comprendeva. «Che c’è? Sai qualcosa che io non so?»
«Non dovrei dirtelo, ma sono già stata condannata e le tue
membra non ricorderanno, idiota di un infante.» Le lacrime
uscirono oltre i bordi delle ciglia.
I demoni potevano piangere.
Qualcosa nel cuore di Ryker si spezzò. «Cosa? Iside, cosa?»
«Non hai compreso, stupido umano? Thari ha donato la
sua vita per quella di tua sorella.»
Ryker indietreggiò, quasi lo avessero colpito nello stomaco;
mille domande gli affollarono la mente, tumultuose. Perché?
Perché? Perché?
Tentò di respirare e recuperare un battito normale, il cuore
gli pulsava nelle viscere; cercò di tornare vicino ad Iside,
pronto a riempirla di quesiti ai quali doveva rispondere. Non
avrebbe accettato scuse.
Ma la luce acquosa, fluida e intensa, brillò, si espanse in
tutta la sala e Ryker dovette coprirsi gli occhi.
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Epilogo
‘Cause I am your lady
And you are my man
Wherever you reach for me
I'll do all that I can
The Power Of Love - Celine Dion
Anno 2011
Il dottor Filippo Martini scrisse un appunto sul suo quaderno prima di sollevare lo sguardo sulla sua paziente in attesa. Batté la penna due volte sulla scrivania in legno massello e si decise a guardarla.
Lei invece distolse lo sguardo fissandosi le mani. Era stata
la sua paziente più difficile da quando aveva iniziato a lavorare e lo era stata per tutto il team che l’aveva seguita e continuava a seguirla. Timida, impaurita dal mondo e spesso impacciata, ora stava finalmente sbocciando. Lentamente.
Tuttavia non era quella la sua particolarità: era la sua famiglia e la sua memoria, o meglio, la sua completa mancanza di
memoria. E in questo, non era progredita.
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L’incidente automobilistico da cui era scampata sembrava
non averle spezzato un capello, eppure ne era uscita con un
deficit inimmaginabile: una ragazza perde ogni ricordo di
ventuno anni di vita. All’inizio era stato un vantaggio, perché
la sua famiglia era morta nel rogo e di loro non era rimasto
nulla, lei non li ricordava e non aveva sofferto, poi però il dolore era arrivato. Il dolore di non sapere chi si è stati per ventuno anni, e il fatto che fosse straniera non era certo d’aiuto:
la casa in cui viveva era nuova, non c’erano ricordi, solo qualche mobile, degli scatoloni con dei vestiti e dei quadri ancora
imballati.
Il resto della sua vita era stato identificato da una carta
d’identità -che riportava luogo di nascita straniero e cittadinanza italiana- e un diario segreto, nel quale lei non si ritrovava.
Il dottor Martini trattenne un sospiro e si alzò. «Vieni, ti
accompagno alla porta», le disse aggirando la scrivania. Di
solito la visitava in ospedale, perché lei non poteva permettersi delle spese, lui però, aveva trovato il suo caso tanto interessante da non preoccuparsi di riceverla in studio; e ormai
l’aveva a cuore.
«Hai già segnato il prossimo appuntamento?»
«Sì, dottore.»
Lui aprì la porta. «Bene, allora non ti preoccupare. Come ti
ho già detto non c’è nulla da temere.» Ed era vero, perché, se
nulla migliorava, nulla neppure peggiorava. Il suo era un
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semplice mistero; irrisolvibile. «E se serve, non esitare a
chiamarmi.» Le sorrise e le diede un buffetto sulla guancia
come faceva con la figlia la mattina quando l’accompagnava a
scuola. «È una bella giornata, fatti una passeggiata. E fai un
buon pranzo.»
La ragazza obbedì. Si incamminò per i vicoli assolati della
città mangiando un pezzo di pizza, con passo lento; lavorava
in uno studio medico dove la donna che da anni faceva la segretaria era in maternità, ma quel giorno aveva preso permesso e poteva camminare tranquilla per un bel po’, prima di
tornare a casa.
Nel suo diario c’era scritto che amava fare fotografie, ma
non aveva macchinette fotografiche, così a volte rimaneva a
guardare dei punti immaginando di poterli ritrarre; forse avrebbe dovuto disegnare, se lo ripeteva da un po’ ed era certa
che avrebbe iniziato a farlo molto presto.
Sul suo diario aveva anche scritto che partiva per una meta
lontana, che non sarebbe tornata indietro, ma che lei e la sua
famiglia ne erano felici. In un appunto laterale aveva scritto
che sua madre le aveva salvato la vita. Aveva fissato quella
frase a lungo, un sacco di volte, eppure nulla le era tornato
alla mente; chissà a cosa si riferiva.
Erano troppe le cose che voleva sapere e che non avrebbe
mai saputo; ormai ne era certa.
Beh, pazienza, devo pensare al futuro, si disse, come faceva sempre. Camminò per un po’, poi arrivò nella piccola
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piazza Mattei e si sedette sul bordo di un grosso vaso tondo,
ad osservare la Fontana delle Tartarughe.
«Ehi», gridò qualcuno, «ehi, vieni qui!»
La ragazza si girò in tempo per vedere un grosso cane dal
pelo color sabbia venire verso di lei; la bestia abbaiò e poi
ringhiò. Lei aggrottò la fronte, impaurita, però si piegò un
poco in avanti e disse: «Ciao, cagnolone.»
«Mars! Vieni subito qui», un ragazzo spuntò da un vicolo.
Lei non perse d’occhio il cane, che aveva smesso di abbaiare. «Ciao, Mars», lo salutò con dolcezza, ma senza toccarlo.
Il ragazzo li raggiunse. «Scusami, di solito lo porta a spasso
mia sorella, ma è in vacanza con le amiche, così l'ho portato a
lavoro e ora non vedeva l'ora di uscire, mi è sfuggito. Ti ha
toccato? Ti sei spaventata?»
Lei scosse il capo e sollevò il viso. «No, si è solo fermato a
guardarmi.» Il suo sguardo incontrò gli occhi azzurri di lui e
per alcuni secondi rimase a fissarlo. «Io… ti conosco», disse
incerta.
Lui piegò appena un po’ il capo, scrutando gli scurissimi
occhi di lei, la pelle come il cioccolato, i capelli neri sciolti
sulle spalle, il naso piccolo. «Sì, ti ho vista da qualche parte»,
rispose infine, piegandosi ad accarezzare il proprio cane, senza riuscire a smettere di guardare la giovane.
Lei sorrise, un sorriso dolcissimo. «Ho capito: ti ho visto
dal dottor Martini, qualche volta.»
«Oh, è vero, ora mi ricordo di te. Sei spesso da lui»
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Lei annuì. «Sì, il dottore è molto interessato alla mia perdita di memoria.» Fece una smorfia gentile.
«Anche alla mia», replicò lui sedendosi accanto a lei. «Ho
dei vuoti di memoria su un periodo di prigionia di cui non ricordo nulla e vari buchi sparsi del periodo precedente, ma a
quanto pare il mio cervello sta benissimo.»
Lei osservò le sue labbra alcuni istanti, non era certa di voler parlare dei suoi problemi, ma lui sembrava un tipo cordiale. Sul proprio diario aveva scritto di non fidarsi di nessuno, ma di seguire il cuore.
Sorrise a quel pensiero da ragazzina e tornò a concentrarsi
su di lui. «Abiti qui?»
«Sì, qui vicino.»
«Anche io», replicò con voce cristallina. «Beh, possiamo
andarci a bere qualcosa, ogni tanto, così ti racconto la mia
assurda storia.»
Lui fece una risata bassa e calda. «Più strana della mia?»
«A giudicare da ciò che mi ha detto l'equipe dei medici che
si è presa cura di me, temo di sì.»
Mars scodinzolò, annusandole una scarpa. Il ragazzo le
porse la mano. «Allora per me va bene. Io sono Ryker Mancini.»
Lei abbassò il viso a guardare la mano chiara di lui, prima
di offrirgli la propria. «Io sono Nefthari Kriera.»
***
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«Ciao, Iside; che c’è?»
«Si sono ricongiunti. No, che blatero, si sono parlati, le loro
bocche si sono…»
«Doveva succedere prima o poi.»
«Orbene, mi sono quasi emozionata.»
«Iside, non puoi stare nel livello umano, e non puoi emozionarti per queste cose; o cacceranno via anche te. Anzi, lo
hanno già fatto. E io non ti aiuterò a uscirne.»
«Ne sono a conoscenza, madre. Gioisco della salvezza che
hai concesso alla mia amata sorella.»
Ananke le rivolse un’occhiata indecifrabile. «Vanth ha scelto da sola la sua strada, ha scelto da sola di dare la sua vita al
posto della ragazzina; il fatto che questo, per una figlia di un
umano, significhi poter scegliere tra rinascere o abbandonare
questa dimensione per diventare un’umana, beh, non l’ho
deciso io.»
«No, ma tu lo rimembrasti a tutti. Non lo avresti fatto con
noi altre.»
La donna sorrise. «Sì, è vero, ma voi altre non siete figlie di
umani.»
«Non siamo prole dell’amore», la corresse il demone.
«Oh, Iside, per favore, sparisci. Non mi piace avere nulla a
che fare con le mie figlie. Su, vai, io e te non abbiamo nulla
da dirci.»
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«Perdinci Bacco, madre! Me ne vado, me ne vado. La mia
mirabile presenza non è ben voluta, e io andrò a piangere in
qualche altro loco per le scarpe umane che mi son negate.»
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Note dell’autore
Chi è Ananke? La parola sembra provenga da una radice semitica basata sulle consonanti hnk da cui derivano diverse parole, compresa quella greca per
"necessità", nel senso di qualcosa di inevitabile. Per Omero era la forza che
regolava tutte le cose. In generale, nella
mitologia greca, era la personificazione del destino e per alcuni, oltre ad essere la madre di Adrastea, era anche madre
delle Moire.
Sì, ma chi erano le Moire? In greco antico moira significa
"sorte", "destino" o "partecipazione". Erano tre donne anziane che servivano l'Ade: Cloto, nome che in greco antico significa "io filo", che appunto filava lo stame della vita; Lachesi,
che significa "destino", che lo svolgeva sul fuso e Atropo, che
significa "inevitabile", che, con lucide cesoie, lo recideva, inesorabile. La lunghezza dei fili prodotti può variare, esattamente come quella della vita degli uomini. (da wiki)
Nel racconto la protagonista è un demone: nella cultura religiosa e nella filosofia greca, un essere che si pone a metà
strada fra ciò che è Divino e ciò che è umano, con la funzione
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di intermediare tra queste due dimensioni. (sempre da Wiki)
Di solito rappresentato come malvagio e soprannaturale, in
particolar modo nella cultura cristiana, dove il più famoso è
sicuramente Lucifero. Alcuni ricollegano i demoni agli extraterresti. Nel credo Islamico questi esseri sono a metà tra angeli e uomini, una categoria non proprio soprannaturale,
quasi umana.
Uno dei nomi della protagonista è Vanth: nella mitologia
etrusca rappresentava il fato inevitabile (che trova quindi
corrispondenza con le Moire greche, nonché con le Parche
romane). La sua iconografia la vuole alata, vestita di un corto
chitone dalle bretelle incrociate all'altezza del petto, che lasciano scoperto il seno.
Iside: secondo il mito, assemblò le parti del corpo di Osiride (fratello e sposo), riportandolo alla vita. Per questo era
considerata una divinità associata all'oltretomba.
Sekhmet Nesert: divinità egizia. Era la terribile dea della
guerra che, personificando i raggi dal calore mortale del sole,
incarnava il potere distruttivo dell'astro, ma anche l'aria rovente del deserto i cui venti erano il suo alito di fuoco e con i
quali puniva i nemici che si ribellavano al volere divino. Portava morte all'umanità. Veniva raffigurata come leonessa o
come una donna dalla la testa leonina.
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In piazza Campo de' Fiori: avevano luogo le esecuzioni capitali e le punizioni con tratti di corda. Nell’anno 1600 vi fu
arso vivo il filosofo e frate domenicano Giordano Bruno, accusato di eresia. In ricordo del filosofo, nel 1888 fu realizzato
sul luogo stesso del rogo un monumento bronzeo.
Per chi non lo sapesse, si dice che quando avviene un miracolo si senta profumo di rose, o di fiori in generale.
Il Colosseo è fatto di travertino, ma non so con certezza se
il bordo superiore sia dello stesso materiale, se sia stato usato
-nel tempo - intonaco color travertino (come in altri punti) o
se addirittura sia fatto di qualche altro materiale. Non sono
riuscita a trovare informazioni in merito.
Sul modo di dire "sangue blu" esistono diverse teorie: ovviamente questa nel racconto è la mia.
I luoghi di Roma che cito esistono tutti.
Sono abbastanza contenta, più che altro perché non è la fine che avevo previsto, come l'avevo prevista: è diversa e questa mi piace di più.
Tuttavia rimane un lavoro che non mi soddisfa a pieno. "Le
Figlie di Ananke" nasce come un racconto per il web e mi ero
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data alcune direttive (per esempio, capitoli brevi, non troppi
personaggi, linearità), oggi, quando lo rileggo, lo trovo solo
fastidioso. Indipendentemente dall'essere prolissi, mi sembra che accada tutto troppo velocemente e non in termini di
trama, ma proprio di racconto, di esperienze, di passaggi,
nonché di emozioni.
Forse perché esco da un'esperienza come "Nuova Terra", in
cui ho guardato al dettaglio, al famoso raccontato, ho cercato
di sviscerare tutto. Nel mio romanzo sono legata ai personaggi, vivo e rivivo la loro storia sentendomela sulla pelle,
anzi, sotto la pelle; con Thari e soprattutto con Ryker mi
manca qualcosa. Da lettrice, mi manca il sense of wonder, e
ho detto tutto! Forse non sono fatta per i racconti, del resto
non amo neppure leggerli. Imparerò la lezione.
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Ringraziamenti
Un grazie di cuore a tutti i lettori che hanno seguito la storia sul mio blog e perdonatemi se per la fine avete dovuto attendere così tanto. Spero ne sia valsa la pena.
Grazie quindi a chi mi ha linkata e rilinkata, commentata e
messo "mi piace". In particolare, grazie a Claudio Cordella,
Faith, Flyingpaw,
Manu, Nasreen, Sam, e SaraSunbeam-
Black.
Grazie a Luca Tarenzi, che mi ha corretta per quanto possibile, lo apprezzo davvero.
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