Parte prima. Il 1989 nella storia e nella memoria europea

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Parte prima. Il 1989 nella storia e nella memoria europea
I COSTI DELL’IMPERO
Fabio Bettanin
Venti anni dopo: fra memoria e storia
Le “rivoluzioni” del 1989 in Europa orientale sono uno degli
eventi pubblici meglio documentati della storia del XX secolo.
Sui loro principali momenti esistono filmati, reportage giornalistici,
una mole imponente di interviste e dichiarazioni di personaggi
pubblici e di semplici cittadini, un numero sterminato di
foto dei momenti salienti. Il flusso delle memorie degli esponenti
della politica e delle istituzioni che di esse furono protagonisti,
è iniziato da subito, si è presto esteso ai loro collaboratori,
e ha infine coinvolto milioni di persone che hanno narrato,
spesso su internet, esperienze individuali.
In conseguenza della caduta dei regimi dell’Europa orientale,
e poi dell’URSS, la pubblicazione di documenti sull’attività dei
vertici politici e istituzionali è giunta in anticipo sui tempi canonici
previsti dall’apertura degli archivi, e ha alimentato una copiosa
storiografia che continua ad arricchirsi di importanti contributi.
A differenza di altre svolte epocali, dalla pace di Vestfalia
in poi, la fine della Guerra fredda non fu seguita da rese, trattati,
condanne pubbliche che chiarissero in modo inequivocabile
chi erano i vinti e i vincitori, ed è comprensibile che da questa
massa di testimonianze siano scaturite due narrative pubbliche
predominanti, che scioglievano il nodo indicando nell’azione
non violenta delle folle e nell’azione consapevole dei leader del
mondo occidentale i fattori decisivi che consentirono la vittoria
della libertà sulla tirannia e lo smantellamento del mondo bipolare.
Ha notato con ironia Leffler che nella memorialistica sul
1989 i “dreams of freeedom” sono spesso mescolati con le
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“temptations of power” alimentate dalla volontà di esercitare
un ruolo decisivo nel mondo post Guerra fredda, dove molti rivendicavano il ruolo di “vincitori”. Le memorie di Reagan e
Bush, dei loro più stretti collaboratori, popolarizzarono una visione della Guerra fredda incentrata sul ruolo quasi esclusivo
degli USA, lungo la traiettoria: «power, determination, crisis,
defeat, humiliation, resurgence, and, finally, triumph» .1 A loro
volta, gli alleati europei degli Stati Uniti rivendicarono il merito
di avere avviato la politica di dialogo e cooperazione economica
con il blocco sovietico, codificata negli accordi di Helsinki e
culminata negli eventi del 1989 .2Nell’URSS, e poi nella Russia,
protagonisti della perestrojka e opinione pubblica non accettarono il ruolo di sconfitti. Filo conduttore delle memoria di Gorbaþev è la convinzione che l’Apocalisse fu evitata grazie alla scelta di non intervento compiuta nel 1989 nei confronti dei paesi
dell’Europa orientale e nel 1991 delle repubbliche sovietiche secessioniste, presentata come esito coerente della volontà di superare la Guerra fredda in nome del rispetto di valori universali
3 Le memorie dei più stretti collaboratori di Gorbaþev, anch’esse
prontamente pubblicate, presentano un quadro più critico del
pensiero e dell’azione dell’eroe della perestrojka, riconoscendo1 Mervyn P. Leffler, Dreams of Freedom, Temptations of Power, in Jeffrey A. Engel (ed.), The Fall of the Berlin Wall. The revolutionary Legacy
of 1989, Oxford, Oxford University Press, 2009,p. 132. Per testi canonici di
questa letteratura agiografica, cfr. Peter Sweizer, The Reagan Administration’s Secret Strategy that Hastened the Collapse of the Cold War, New,
York, Atlantic Monthly Press, 1994; Robert Gates, From the Shadows: The
Ultimate Inside Story of Five American Presidents and how they Won the
Cold War, New York, Simon & Schuster, 1996.
2 Michael Cox, “Another Transatlantic Split? American and European
Narratives and the End of the Cold War”, in Cold War History, vol.7, n.1,
2007, pp. 121-146; Celeste Wallander, “Western Policy and the Demise of
the Soviet Union”, in Journal of Cold War Studies, vol. 5, n.4, 2003, pp.
137-177; Frédéric Bozo, “<Winners> and <Losers>: France, the United States, and the End of the Cold War”, in Diplomatic History, vol. 33, n.5,
2009,pp.927-956; Daniel Deudney and G. John Ikenberry, “Who won the
Cold War?”, in G. John Ikenberry (ed.), American Foreign Policy: Theoretical Essays, New York, HarperCollins, 1996, pp. 612-37.
3 Mikhail Gorbachev, Memoirs, London, Doubleday, 1996. Per eccellenti analisi di questo punto di vista, che sostanzialmente concordano con
l’interpretazione di Gorbaþev, cfr.: Stephen Kotkin, A un passo dall’Apocalisse. Il collasso sovietico, 1970-2000, Roma, Viella, 2010 (2008); Archie
Brown, Seven Years that Changed the World. Perestroika in perspective,
Oxford, Oxford University Press, 2007.
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ne il coraggio e il carisma, non la profondità di analisi e capacità
strategica. Nelle parole di ýernjaev, il più stretto e ascoltato
consigliere di politica estera di Gorbaþev, questi fu «un grande
uomo… incapace di mostrasi all’altezza della propria grandezza
quando venne l’ora» 4. Il senso della sconfitta emerge solo dalle
memorie di alcuni esponenti degli apparati militari e del partito,
che imputano al “nuovo pensiero” di Gorbaþev la perdita
dell’Europa orientale e della Germania, ricorrendo a volte a inverosimili accuse di tradimento che hanno limitato la loro circolazione a un pubblico di nostalgici del passato comunista e di
specialisti5. I dirigenti comunisti cinesi videro negli avvenimenti
del 1989 la conferma della validità della loro scelta di rispondere alle proteste popolari con la repressione e il rilancio della riforma economica, che aveva consentito di difendere un socialismo altrove crollato6.
I tempi lunghi della storiografia espongono gli storici
all’insidia del conformismo culturale e politico di chi interviene
quando le interpretazioni pubbliche degli eventi si sono consolidate, il più delle volte attraverso la divulgazione mediatica, e
può essere indotto all’approfondimento e alla documentazione
del senso comune storico. Nel caso del 1989 il pericolo non è
stato del tutto evitato, ma non si è formata alcuna vulgata, e anzi molti miti prevalenti dopo il crollo dell’impero esterno sovietico sono stati con il tempo decostruiti. Da più parti ci si è interrogati sull’opportunità di usare il termine “rivoluzione” in rela7
zione alle vicende del 1989 . L’immagine
di una inarrestabile
spinta popolare che, in nome del ritorno all’Europa, abbatté in
modo non violento i regimi dell’Europa orientale, ha ceduto il
passo ad analisi più attente ai diversi ruoli svolti dalla folla nei
vari contesti nazionali, e meno disposta a attribuire la successiva frammentazione dei movimenti di opposizione ai regimi so4 Anatolij ýernjaev, Sovmestnyj Ischod. Dnevnik dvuch epoch, 1972199 (Fine collettiva. Diario di due epoche), Moskva, Rosspen, 2010, p. 859.
1 5 Fra le tante, per l’equilibrio dell’analisi, cfr.: S.F. Achromeev, G.M.
Kornienko, Glazami maršala i diplomata (Dalla prospettiva di un maresciallo e di un diplomatico), Moskva, Meždunarodnye otnošenija, 1992.
6 Cheng Jian, Tiananmen and the Fall f Berlin Wall: China’s Path toward 1989 and Beyond, in Engel, op. cit., pp. 96-131.
7 Per una prospettiva comparativa, cfr. Fred Halliday, Revolution and
World Politics. The Rise and Fall of the Sixth Great Power, Durham, Duke
University Press, 1999.
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cialisti ai tradimenti e agli inganni dei vecchi apparati del potere8. Il Reagan guerriero, che sfida e abbatte l’“impero del male”
tanto caro alla “storiografia della vittoria” ha fatto posto al Reagan negoziatore, impegnato a trovare punti di accordo con la
controparte sovietica .9Al riconoscimento del ruolo decisivo
svolto da Gorbaþev nel porre fine alla Guerra fredda, fa da corrispettivo la sempre più diffusa convinzione che l’incoerenza, la
mancata traduzione in pratica del “nuovo pensiero”, e non la
sua forza innovativa, siano all’origine del crollo del blocco socialista e dell’URSS10.
La storiografia si è infine riappropriata della riflessione sui
fattori di lungo periodo all’origine degli eventi del 1989, un tema che la memoria non può adeguatamente analizzare. Il punto
di partenza era scontato. Il mondo bipolare non è stato mai un
mondo simmetrico. Il divario del potenziale economico di USA e
URSS, da sempre enorme, diviene ancora più largo se il confronto viene fatto fra i rispettivi blocchi. Pochi dati possono sintetizzare questa situazione. Il PIL dell’Unione Sovietica crebbe, secondo le stime della CIA, del 8,9% fra il 1946 e il 1950, si assestò
attorno al 5% nei due decenni successivi, dopo i quali il tasso di
crescita conobbe un calo ininterrotto (2,9% nel 1971-75; 1,8%
nel 1976-80; 1,7% nel 1981-85), sino a divenire negativo nel
1986-91 (-2,1%). Una parabola simile seguì l’economia dei paesi
dell’Europa orientale. Nella seconda metà degli anni Cinquanta,
sulla spinta degli investimenti del decennio precedente, il PIL
dei paesi dell’area ebbe un incremento annuo oscillante fra il 6 e
8 Il dibattito sul ruolo delle masse è stata di recente rilanciata da Stephen Kotkin, che ha polemizzato con l’eccessiva enfasi sul ruolo delle masse
nel corso del 1989 (Uncivil Society. 1989 and the Implosion of the Communist Establishment, New York, The Modern Library Edition, 2009; con
il contributo di Jan T. Gross).
9 Cfr. Beth A. Fischer, US foreign policy under Reagan and Bush, in
Melwyn A. Leffler and Odd A. Westad, The Cambridge History of the Cold
War. Volume III. Endings, Cambridge, Cambridge University Press, 2010,
pp. 267-88.
10 La recente, importante biografia che Brown ha scritto di Gorbaþev
(op. cit.) attenua i toni oleografici della prima biografia, di dieci anni precedente (The Gorbachev Factor, Oxford, Oxford University Press, 1996).
Vladislav M. Zubok ha inserito in modo convincente il periodo della perestrojka nella parabola della storia sovietica (A Failed Empire. The Soviet
Union in the Cold War from Stalin to Gorbachev, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 2007, pp. 265-335).
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il 10%; continuò ad aumentare anche negli anni Sessanta, pur
con marcate differenze regionali (1,9% in Cecoslovacchia; 9,1%
in Romania); poi declinò bruscamente: 3.23% nel 1971-75; 0,9%
nel 1981-85; – 1,16 sino al 1989. Secondo valutazioni largamente condivise, all’inizio degli anni Settanta il reddito pro capite
dell’URSS, allora nel momento di sua massima espansione globale, era di poco superiore alla metà di quello statunitense, e un
decennio dopo era sceso a circa un terzo. A fronte di questa disparità, nel periodo dal 1965 al 1989 le spese militari sovietiche
superarono lievemente quelle statunitensi. Nei decenni fra la
morte di Stalin e il crollo dell’“impero esterno”, esse ammontarono a circa il 40% del bilancio e a una percentuale oscillante fra
il 15 e il 20% del PIL secondo le stime più prudenti, e fra il 25 e il
40% secondo l’ex direttore della CIA Robert Gates. Le valutazioni della CIA sono l’unica fonte disponibile, data l’inattendibilità
dei dati ufficiali sovietici sino al 1987. Solo dopo questa data iniziò un lavoro di revisione delle statistiche ufficiali che fu completato nel 1993, quando l’URSS non esisteva più. Da esso emerse che le valutazioni della CIA avevano peccato di ottimismo (per
errore, o per scelta deliberata di descrivere il nemico più temibile di quanto non fosse?): tenuto conto che la popolazione aumentò fra il 1975 e il 1990 del 13,9%, in URSS, nel periodo preso
in considerazione il tasso di crescita del reddito pro capite si
mantenne al di sotto dell’1%, smentendo tutte le teorie sui vantaggi dell’arretratezza economica . 11Ancora più preoccupante,
dal punto di vista sovietico, l’incapacità dell’imponente impegno
in campo militare di garantire una reale parità degli armamenti.
Nemmeno dopo il lancio dello Sputnik, nel 1957, i sovietici conseguirono una superiorità in campo nucleare (circostanza ben
11 P. Hanson, The Rise and Fall of the Soviet Economy. An Economic
History of the USSR from 1945, London, Longman, 2003, p. 5; W. Brus,
Storia economica dell’Europa orientale. 1950-1980, Roma, Editori Riuniti,
1983, p. 138; J.F. Brown, Eastern Europe and Communist Rule, Durham,
Duke U.P., 1988, p.21; G. Lundestad, “Imperial Overstretch”, Mikhail Gorbachev and the End of the Cold War, in “Cold War History”, No. 1, August
2000, pp. 1-20; N.E. Firth and J.H.Noren, Soviet Defense Spending. A History of CIA Estimates, 1950-1990, College Station, Texas U.P. 1998, pp.
118-30; R.M. Gates, From the Shadows, cit., pp. 318-19; H S. Rowen and C.
Wolf, The CIA’s Credibility, in “The National Interest”, Winter 1995-96, pp.
111-120. M. Eydelman, Monopolized Statistics Under a Totalitarian Regime, in M. Ellman and V. Kontorovich (eds.), The Destruction of the Soviet
Economic System. An Insiders’ Story, Armonk, Sharpe, 1998, pp. 70-76.
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nota alle Amministrazioni statunitensi), mentre i confronti armati indiretti, in particolare nel corso delle guerre in Medio Oriente, mostrarono l’inferiorità delle armi convenzionali fornite
dai sovietici agli alleati12.
Considerati nel loro complesso, i dati lasciano tuttavia pochi
dubbi: un simile livello di spese ha pochi confronti nell’epoca
contemporanea, nella quale l’URSS rappresenta, secondo Brooks
e Wohlforth, «the worst case of imperial overstretch» .13Il nesso fra bilancio militare alto e crisi sociale e politica non può tuttavia essere interpretato in modo deterministico; e infatti la crisi arrivò dapprima nella periferia dell’impero, i cui stati spendevano assai poco per la difesa 14
. Le spese militari si erano mantenute a livelli molto alti anche nei momenti di maggiore crescita
dell’economia sovietica. Una loro riduzione era stata avviata già
alla fine degli anni Settanta; altri tagli sarebbero potuti giungere
dal ritiro delle truppe dall’Afghanistan e dalla applicazione pratica della dottrina della “ragionevole sufficienza” della deterrenza nucleare, approvata nel 1986 dal XXVII congresso del PCUS,
che postulava l’impossibilità della vittoria in caso di guerra nucleare e la rinuncia alla parità nucleare. Gorbaþev non si mostrò
particolarmente ansioso di tagliare le spese del complesso industriale militare: non per l’opposizione dei militari, blanda nei
primi anni della perestrojka 15
, né per i timori suscitati dai pro12 Per un quadro generale cfr.: Federico Romero, Storia della guerra
fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, Einaudi, 2009; Odd A. Westad, The Global Cold War. Third World Intervetion and the Making of
Our Times, Cambridge, Cambridge University Press, 2005.
13 S. Brooks and W. C. Wohlforth, Power, Globalization and the End of
the Cold War. Reevaluating a Landmark Case for Ideas, in “International
Security”, No. 3 (Winter 2000-01), p. 22.
14 Ivan Berend, From the Soviet Bloc to the European Union: The Economic and Social Transformation of the Central and Eastern Europe since
1973, Cambridge, Cambridge University Press, 2009, pp. 25-80.
15 Per un quadro generale: V. Zubok, op. cit., pp. 294-302; Vojtech
Mastny, The Warsaw Pact as History, in Vojtech Mastny and Malcom
Byrne (eds.), A Cardboard Castle?. An Inside History of the Warsaw Pact,
1955-1991, Budapest, CEU Press, 2004, pp. 57-74; Sergei Belanovsky, The
Arms Race and the Burden of Military Expenditures, in Ellman, Kontorovich, op. cit., pp. 40-69, Andrew Bennett, Condemned to Repetition? The
Rise, Fall, and Reprise of Soviet-Russian Military Interventionism, 19731996, Cambridge, Mass., MIT Press, 1999. Sul 1989: Andrew Bennett, The
Guns That Didn’t Smoke: Ideas and the Soviet Non-Use of Force in 1989,
in “Journal of Cold War Studies”, vol. 7, n. 2, 2005, pp. 81-109.
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getti di “guerre stellari” di Reagan, giudicati preoccupanti, ma
velleitari nell’immediato 16
, ma per la consapevolezza che il taglio del bilancio militare avrebbe creato dei problemi sociali,
con lo smantellamento di parte delle fabbriche del complesso
militare-industriale senza risolvere nel breve periodo quelli economici, dato che la trasformazione della produzione militare
in civile avrebbe dovuto attendere anni 17. In questo caso, le scelte di Gorbaþev non mancavano di una loro logica. Per quanto
gravoso, il fardello delle spese militari era inferiore al costo dei
sussidi ai prezzi di consumo, conseguenza della bassa produttività complessiva dell’economia. Se c’era un settore dove intervenire, era questo, ma Gorbaþev esitò a farlo, nel timore di entrare nella spirale aumento dei prezzi – rivolta popolare, che a18
veva travolto la Polonia negli anni Settanta . Un’altra
voce al
passivo del bilancio era legata all’aiuto ai paesi socialisti. La sua
entità complessiva è difficilmente calcolabile .19Sicuramente inferiore al bilancio delle spese militari, essa esercitò un peso psicologico e politico maggiore, come dimostrano le recriminazioni
di tutti i leader del Cremlino, da Chrušþev a Gorbaþev, nei confronti degli omologhi dell’Europa orientale, accusati di pretendere di far vivere i loro popoli al di sopra dei mezzi, e meglio dei
sovietici. Dall’invasione dell’Ungheria (ma forse si potrebbe risalire al precedente della repressione della rivolta di Berlino del
giugno 1953) l’Unione Sovietica si vide costretta a sostenere i
suoi satelliti con aiuti sempre più generosi, per colmare il loro
deficit di legittimazione interna20. Fallito il tentativo di approfittare della distensione per creare economie orientate verso
l’esportazione nei paesi occidentali, sul modello di quanto stavano facendo i paesi dell’Estremo oriente asiatico, le economie
del blocco socialista divennero in larga misura parassitarie, accumulando un debito estero destinato a salire, secondo valuta16 Peter J. Westwick, “Space-Strike Weapons” and the Soviet Response
to SDI, in “Diplomatic History”, vol. 32, n. 5, 2008, pp. 955-979.
17 Hanson, op. cit., pp. 177-219.
18 Convincenti critiche alla politica economica di Gorbaþev sono state
mosse da: Egor Gajdar, Gibel’imperii. Uroki dlja sovremennoj Rossii (Le
rovine dell’impero. Lezioni per la Russia contemporanea), Moskva, Rosspen, 2007, pp. 206-376.
19 Dai diari di ýernjaev risulta che solo a partire dal 1986 la questione
cominciò a essere presa in considerazione dal politbjuro, senza giungere a
decisioni drastiche (op. cit., pp. 665 sgg.).
20 Hanson, op. cit., pp. 49 sgg.
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zioni complessive, da 6 bilioni di dollari nel 1970 a 110 nel 1989;
alla fine degli anni Settanta il valore del debito internazionale
era in Ungheria doppio rispetto all’export; in Polonia lo superava di cinque volte .21L’Unione Sovietica non era altrettanto esposta sul piano finanziario, ma senza l’importazione dei prodotti alimentari dai paesi occidentali, che ammontava a più del
10% del consumo totale, avrebbe rischiato una forte penuria alimentare. Anche se nulla sta a indicare che il gruppo dirigente
sovietico ne fosse pienamente consapevole, ancor più minaccioso nel lungo periodo era il divario con i paesi occidentali in conseguenza dell’incapacità di tenere il passo con la rivoluzione
tecnico-scientifica degli anni Settanta22.
Gli effetti politici di queste tendenze di lungo periodo emersero durante la crisi polacca del 1980-81, conclusasi con imposizione della legge marziale il 13 dicembre 1981. Il politbjuro del
PCUS formò una commissione, guidata da Suslov, per seguire da
vicino la vicenda alla quale dedicò, nell’arco di un anno, almeno
venti sedute. Di questa attività è disponibile una ricca documentazione, che consente di apprezzare le differenze con gli avvenimenti d’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968. La
colpa della situazione che si era creata, e della crescente popolarità di Solidarność, fu attribuita alla errata politica economica
del segretario del POUP Gierek. I suoi successori, Kania e poi Jaruzelski, furono sottoposti a critiche talvolta dure, ma ai vertici
del PCUS nessuno parlò di sostituirli con le “forze sane”: i filomoscoviti tante volte invocati nelle precedenti crisi. A Solidarność fu attribuito un seguito popolare ampio e trasversale, che
comprendeva anche membri del partito. Al suo leader Wałesa fu
riconosciuto di svolgere un ruolo di moderazione: quando non
parlavano di intellettuali, ma di operai che si battevano contro il
socialismo, persino i dirigenti del Cremlino riuscivano a trovare
un minimo di obiettività. Le distorsioni della propaganda occidentale furono condannate, senza attribuire loro un ruolo destabilizzante. La questione di fondo era economica, e su questo
Berend, op. cit., pp. 29-33.
rapporti del KGB risalenti alla fine degli anni Settanta del XX
secolo, metà dei nuovi progetti del complesso industriale militare sovietico
dipendevano dalla tecnologia acquisita, attraverso lo spionaggio, dall’Occidente. (cfr. Christopher Andrew and Vasili Mitrokhin, The Mitrokhin Archive: The KGB in Europe and the West, London, Allen Lane, 1999, pp.
280-87).
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punto al Cremlino erano decisi a essere pragmatici, come dimostra la risposta di Brežnev alla domanda di Jaruzelski sulla possibilità di accettare prestiti dagli USA dopo il colpo di stato: «In
linea di principio non ci opponiamo, sebbene, parlando francamente, sia dubbio che gli occidentali sostengano materialmente
un governo militare. Chiederanno concessioni, e qui bisogna vigilare». L’ipotesi di invadere la Polonia non fu mai presa in considerazione, e le imponenti manovre militari furono usate per
intimidire i polacchi; il loro effetto fu involontariamente amplificato dalle informazioni passate da Kukliński, un colonnello del
controspionaggio polacco che era agente della CIA dal 1970,
convinto che lo scenario fosse simile a quello della Cecoslovacchia nel 1968. Il Maresciallo Kulikov, comandante del Patto di
Varsavia, fu severamente rimproverato per avere promesso ai
polacchi di non lasciarli nei pasticci in caso di insuccesso del
golpe. Il parere dei paesi satelliti che premevano, a eccezione di
Romania e Ungheria, per misure repressive più dure, non fu
nemmeno preso in considerazione. Le ragioni emergono dal dibattito nel politbjuro. A spaventare i dirigenti sovietici erano i
costi del sostegno economico alla Polonia, che sarebbe cresciuto
in modo esponenziale in caso di intervento militare. Il quadro
era emerso in tutta la sua gravità già nel marzo 1981, quando
Archipov, uno dei membri della commissione Suslov, aveva comunicato ai suoi attoniti colleghi che il debito della Polonia con
i paesi capitalisti ammontava a 23 bilioni di dollari; solo per pagare gli interessi i polacchi avevano bisogno immediato di 700
milioni, che i sovietici non potevano fornire, anche perché già
inviavano alla Polonia 13 milioni di tonnellate di petrolio a 90
rubli a tonnellata, contro un prezzo mondiale di 170 («se potessimo vendere in valuta pregiata i guadagni sarebbero colossali»,
fu lo scontato commento). L’ipotesi di una moratoria e della richiesta di adesione al FMI fu scartata, perché avrebbe costituito
una «concessione ai paesi occidentali, senza effetti economici»,.
I margini di manovra per i dirigenti del Cremlino erano quindi
pressoché nulli, e il 10 dicembre il presidente del Gosplan Bajbakov presentò al poljtbjuro una lista di beni richiesti da Jaruzelski, ai quali andavano aggiunti 2,8 bilioni di dollari per ripianare i debiti con l’Occidente; sostegno che l’URSS poteva concedere
«attingendo alle riserve statali o tagliando sui consumi interni».
Altra via non c’era, e toccò al guardiano dell’ortodossia Suslov
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spiegare perché gli aiuti erano il male minore rispetto all’invasione: «Stiamo conducendo un grande lavoro per la pace, e non
possiamo cambiare la nostra posizione ora. L’opinione pubblica
mondiale non ci capirebbe… Che i compagni polacchi facciano
da soli quello che ritengono di fare» 23
. Difficile stabilire cosa sarebbe accaduto in caso di insuccesso del colpo di stato. Kramer
ritiene che i sovietici sarebbero stati costretti a intervenire , 24
ipotesi che forse sottovaluta la crisi irreversibile del paradigma
rivoluzionario imperiale che aveva guidato la politica estera so25
vietica dalla seconda guerra mondiale in poi . Nessuno
sembrava ritenere che il consolidamento a ogni costo delle conquiste dell’URSS, nel Terzo mondo come in Europa orientale, fosse
un obiettivo praticabile e desiderabile. Non i vertici del regime.
Non i militari, che, dopo avere avversato la guerra in Afghanistan, si allinearono senza difficoltà alle decisioni del partito sulla Polonia. Non i conservatori nel politbjuro (termine con il
quale, data l’assenza di riformisti, venivano indicati in genere gli
esponenti del complesso militare-industriale) consapevoli che
l’importazione di tecnologia era un fattore sostitutivo della riforma economica .26Non l’opinione pubblica, agli occhi della
quale l’immagine di un nemico pronto a approfittare delle debolezze sovietiche si era da tempo sbiadita: come era possibile
considerare nemici minacciosi gli esponenti di paesi che concludevano con l’URSS importanti trattati, e con il loro aiuto avevano consentito di migliorare il livello di vita sovietico, e dei popoli dell’impero? Scrive Zubok che «the fad of MarxismLeninism died a quiet death during the reign of Brezhnev», almeno agli occhi delle élite intellettuali che trascorrevano
«months and years reminiscing nostalgically about their last
23 Dokumenty “kommissii Suslova”. Sobytija v Pol’še v 1981 g. (Documenti della Commissione Suslov. Gli avvenimenti polacchi del 1981), in
“Novaja i Novejšaja Istorija”, n. 2, 1998, pp. 84-105.
24 Mark Kramer, Brežnev e l’Europa dell’Est, in “Storica”, n. 22 (2002),
pp. 100-102.
25 Si veda in merito: Zubok, op. cit., pp. 265-27; Mastny, srt. Cit., in
Mastny, Byrne, op. cit., pp. 44-65.
26 Sull’opposizione dei militari alla invasione dell’Afghanistan, cfr. Bennet, Condemned to Repetition?, cit., pp. 167-246. Una analoga, e più fortunata, azione di freno fu esercitata dei principali esponenti delle forze armate nel caso della Polonia (Dokumenty “kommissii Suslova”, cit., passim).
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trip to the West and waiting for the next one» . 27
Le condizioni
dell’impero esterno sovietico rendevano improponibile il ritorno
all’isolazionismo finanziario o tecnologico. L’integrazione economica, e persino culturale, era andata troppo in là per compiere una scelta che avrebbe compresso il livello di vita, con
l’inevitabile corollario di manifestazioni popolari e repressioni.
Ne andava anche dell’immagine del gruppo dirigente sovietico,
che aveva vantato come una vittoria la firma dei trattati SALT e
di Helsinki, e che era condannato dalla propria mediocrità a difendere la distensione senza avere cognizione di quali potessero
essere i suoi nuovi canoni. La scelta cadde sulla continuità: per
quanto possibile si tentò di mantenere lo scenario caratterizzato
dalla “finlandizzazione” dell’economia polacca, che a Mosca non
consideravano un precedente in grado di mettere in moto spinte
centrifughe all’interno del blocco socialista. Il risultato fu, sottolinea Mastny, l’accumulo delle contraddizioni che sarebbero esplose nel 1989 .28Prima che ciò accadesse, la Storia concesse
un’ultima opportunità all’Unione Sovietica.
Ancora un enigma
A venti anni di distanza, poco e nulla è rimasto del “nuovo
pensiero” di Gorbaþev. Esso non si non consolidò mai in un
complesso organico di idee in grado di colmare il vuoto lasciato
dal declino del marxismo-leninismo come ideologia ufficiale . 29
Questo non significa che la perestrojka abbia avuto carattere
solo reattivo, di risposta alle condizioni materiali dell’URSS. Da
buon riformista, Gorbaþev fu condotto nella sua azione da idee
guida scaturite dalla generalizzazione della sua esperienza poli27 Vladislav Zubok, Zhivago’s Children. The Last Russian Intelligentsia,
Cambridge, Massachusetts, The Belknap Press, 2009, pp. 299-328.
28 Voitech Mastny, The Soviet Non-invasion of Poland in 1980-81 and
the End of the Cold War, in Cold War International History Project,
Working Paper n. 23 (1998), p. 34.
29 Il dibattito sul ruolo svolto dalle idee nel determinare la fine della
Guerra fredda è stato riaperto dai contributi al numero monografico del
“Journal of Cold War Studies” (vol. 7, n. 2, 2005). Per una opinione opposta a quella esposta da chi scrive, cfr. R. English, The Sociology of New
Thinking: Elites, Identity Change, and the End of Cold War (pp. 43-80). Si
veda anche la replica di W.C Wohlforth, The End of Cold War as a Hard
Case for Ideas (pp. 165-72).
32
F. BETTANIN
tica, e di quella storica sovietica. La continuazione e il rilancio
del processo di distensione ebbero in questo ambito una indubbia preminenza, confermata dalle memorie di Gorbaþev e dei
suoi collaboratori 30. In questo ottocentesco primato della politica estera, è difficile distinguere gli interessi statali dai valori universali, la continuità dalla innovazione. Prima di Gorbaþev,
Brežnev e Stalin avevano costruito il loro potere sui successi
(presunti e reali) della loro politica estera; Chrušþev era stato
destituito per il motivo opposto. Sedere al tavolo delle trattative
con il presidente statunitense per parlare dei problemi del disarmo era un modo per riaffermare il ruolo di superpotenza
dell’URSS, e anche l’occasione per vedere riconosciuto ad essa e
ai suoi dirigenti il ruolo di arbitro dei destini dell’umanità. Le
memorie non lasciano dubbi sull’importanza che Gorbaþev annetteva ai vertici con statisti stranieri, che preparava con grande
cura, e con una unica preoccupazione: non mostrarsi debole.
Quando divenne impossibile difendere la finzione della parità,
Gorbaþev scelse di sostituire la politica di difesa dei “permanent
interests” con una politica “imbued with a messianic spirit”: un
31
passaggio fatale che Zubok fa risalire all’inizio del 1988 . Una
parabola simile descrisse un’altra idea guida, destinata a divenire un marchio personale di Gorbaþev: la “casa comune europea”32. Gorbaþev era il primo leader sovietico formatosi senza nutrire un senso di estraneità o di antagonismo nei confronti
dell’Europa. Il suo non era quindi un vuoto slogan, e agli occhi
degli europei occidentali aveva il merito di proiettarsi verso il
futuro, senza proporre il “ritorno” all’Europa invocato dai dissidenti dell’Europa orientale, che avrebbe lacerato i legami geopolitici e culturali formatisi nel dopoguerra, con conseguenze imprevedibili33. Mancò da parte sua la capacità, e soprattutto
l’interesse, a trasformare uno slogan di facile presa in iniziative
politiche. Nel corso della storia l’Europa è stata per la Russia un
contesto nel quale legittimare il proprio ruolo di grande poten30
Nelle memorie, Gorbaþev individua nella riunione del corpo diplomatico del maggio 1986 il momento di inizio della politica estera della perestrojka. (M. Gorbachev, op. cit., p. 402).
31 V. Zubok, A Failed Empire, cit., p. 309.
32 Per una prima organica definizione del concetto, cfr. Mikhail Gorbaciov, Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo,
Mailano, A. Mondadori, 1987, pp. 254-80.
33 Cfr. il contributo di Andrea Panaccione nel volume.
I costi dell’impero
33
za, una fonte di modernizzazione economica, un modello politico e istituzionale 34
. I richiami allo spirito di Helsinki confermano che per Gorbaþev il rinnovamento doveva partire dall’interno
dei blocchi esistenti, e dallo sviluppo di consolidati rapporti bilaterali. La Comunità europea non divenne mai un modello da
imitare; la transizione di Spagna e Portogallo dalla dittatura e
dalla democrazia non fu mai considerata un potenziale esempio.
Gorbaþev fu abile nell’inventare una tradizione umanitaria del
socialismo, ma solo alla fine del 1986 si convinse che parlare
pubblicamente di diritti umani non sarebbe stato interpretato
come una concessione agli occidentali . 35
Gorbaþev non era un
falso riformatore. Era piuttosto convinto che l’URSS potesse accelerare il processo di integrazione con l’Occidente solo dopo
avere messo ordine nella situazione interna, rompendo in tutti i
sensi con il passato. Questa era l’altra sua idea guida che, dopo
la sua nomina a segretario generale del PCUS, sintetizzò alla moglie esclamando: «Non possiamo più vivere così». (Il tutto in un
parco, perché delle mura di casa nemmeno il numero uno del
regime poteva fidarsi) 36
. Le parole, indubbiamente sincere, non
comportavano alcun senso di urgenza: solo due anni prima la
pubblicazione delle preoccupanti statistiche di Chanin sull’economia e del “rapporto di Novosibirsk”, che documentava lo stato di degrado della società, era passata senza suscitare partico37
lari reazioni nelle élite e nell’opinione pubblica sovietiche .
Gorbaþev non dedicò particolare attenzione ai problemi economici anche quando lo stato di crisi divenne acuto (il debito estero triplicò fra il 1985 e il 1989). All’inizio del 1987, quando le falle aperte nel bilancio dalla caduta dei prezzi del petrolio erano
già evidenti, sostituì un plenum del Comitato centrale del PCUS
sui prezzi con uno sulla democratizzazione; poi approvò decreti
34 Iver B.Neumann, Russia and the Idea of Europe. A study in identity
and international relations, London, Routledge, 1995.
35 Brown individua nella telefonata di Gorbaþev a Sacharov, il 19 dicembre 1986, l’atto simbolico di inizio di una politica di attenzione ai diritti
umani (op. cit., p.100). Per una riflessione sui suoi esiti, si veda: Daniel C.
Thomas, Human Right Ideas, the Demise of Communism, and the End of
Cold War, in “Journal of Cold War Studies”, vol. 7, n. 2, 2005, pp. 110-141;
Rosemary Foot, The Cold War and human rights, in Leffler, Westad, op.
cit., v. III, pp. 445-465.
36 Gorbachev, op. cit., p. 165.
37 Andrea Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione
Sovietica. 1945-1991, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 471-77.
34
F. BETTANIN
sulla elezione dei manager industriali e sulla formazione di cooperative, che crearono consenso, ma anche inflazione e corruzione. Questo suo singolare comportamento trova una spiegazione solo se si guarda a un passato nel quale le “grandi svolte”
della storia sovietica avevano originato progressi effimeri e tragedie durature, e le riforme economiche erano state quasi sempre avversate anche dalla popolazione. Meglio allora agire in
modo graduale, consentendo finalmente libertà di parola, ammettendo che nel passato sovietico esistevano “macchie bianche” (da colmare con prudenza), e soprattutto impegnandosi a
non ricorrere più all’uso della forza. Promessa sostanzialmente
mantenuta, e sulla quale non vi furono disaccordi all’interno del
gruppo dirigente, poiché alle lezioni del passato se ne era aggiunta un’altra, definitiva: il colpo di stato in Polonia aveva neutralizzato in pochi giorni i 10 milioni di iscritti a Solidarność,
senza riuscire a risolvere i problemi economici e a stabilizzare la
situazione politica.
In questo contesto va collocato quello che Jacques Lévesque
ha definito The Enigma of 1989: per quattro anni Gorbaþev relegò le relazioni con il blocco socialista a una posizione del tutto
secondaria, osservò la sua disintegrazione senza abbozzare un
tentativo di reazione, e continuò a professare una «idealistic
view of the world, based on universal reconciliation»38. Nell’ottobre 1939 Churchill aveva ritenuto di potere risolvere l’«enigma avvolto nell’oscurità del mistero» della politica sovietica usando la chiave esplicativa degli “interessi nazionali” 39
. Sessanta
anni dopo, il richiamo alla Realpolitik era inadeguato a spiegare
la politica di Gorbaþev. In una prospettiva imperiale, le sue scelte non mancavano di una loro logica. Dal trattato di Helsinki in
poi, i destini dei paesi dell’Europa orientale avevano cominciato
a dipendere sempre più da quanto accadeva a Washington, Berlino, e nelle altri capitali occidentali, oltre che a Mosca. L’ascesa
al potere di Gorbaþev aveva introdotto, in un quadro di sostanziale continuità, l’elemento nuovo di un leader sovietico in grado di rivaleggiare in popolarità con Reagan e Giovanni Paolo II,
38 Jacques Lévesque, The Enigma of 1989: the USSR and the Liberation
of Eastern Europe, Berkeley, University of California Press, 1997, p. 252.
39 Sulla fortuna di questa visione dell’Urss, cfr. Fabio Bettanin, Stalin e
l’Europa. La formazione dell’impero esterno sovietico (1941-1953), Roma,
Carocci, 2006.
I costi dell’impero
35
e di rubare la scena ai dissidenti dell’Europa orientale. Nelle
memorie Gorbaþev non nasconde il compiacimento provato
nell’essere acclamato dovunque dalla folla, a Pechino come a
Washington, a Berlino est come a Bonn, nell’essere inseguito da
giornali e televisioni occidentali per avere interviste e nello stabilire relazioni cordiali con tutti gli statisti occidentali. Considerata l’immagine dei suoi predecessori, la vanità è comprensibile40.
Sbagliava tuttavia Gorbaþev nel ritenere che il suo carisma
potesse assicurare risultati politici immediati. I leader dell’Europa erano assorbiti alla metà degli anni Ottanta da problemi
interni (la congiuntura economica non favorevole, l’adesione
alla Comunità europea di Spagna e Portogallo, gli accordi di
Schengen sulla libera circolazione delle persone, le trattative per
una moneta unica), e quindi propensi a vedere in lui un garante
dell’ordine e della stabilità nel continente, compresa la sua parte
orientale, più che un alfiere del rinnovamento. Da parte sua,
Gorbaþev non si affrettò a prendere iniziative riguardanti
l’Europa orientale. Solo nel dicembre 1987 giunse la decisione
di smantellare i missili intermedi sovietici in Europa (INF), seguita a un anno di distanza dal discorso all’ONU, nel quale Gorbaþev proclamò la «fine dell’età delle rivoluzioni violente», corroborando la sua affermazione con l’impegno a ritirare mezzo
milione di soldati dall’Europa orientale. Non riuscì tuttavia a
trasformare le sue aperture in un rovesciamento del discorso
pronunciato da Churchill a Fulton, come era nelle sue intenzioni
41. Perché ciò accadesse sarebbero stati necessari l’elargizione di
aiuti occidentali equivalenti a un nuovo Piano Marshall, e
l’avvio di un processo di revisione generale delle strutture della
sicurezza in Europa. Crediti economici continuarono ad affluire
verso l’Europa orientale. Mitterand, Tatcher e Kohl visitarono
Mosca, ma solo il Cancelliere tedesco aprì la prima consistente
linea di credito nei confronti di Mosca, che non fugò del tutto la
freddezza nei rapporti fra Germania occidentale e Urss, e personale fra i leader dei due paesi .42Anche l’America non era più
quella del dopoguerra: l’Europa, e in particolare quella orientaM. Gorbachev, op. cit., pp. 425-26.
Ibidem, p.456.
42 Aleksandr Galkin, Anatolij ýernjaev (a cura di), Michail Gorbačev i
germaskij vopros. Sbornik dokumentov. 1986-1991 gg., (Gorbaþev e il problema tedesco. Raccolta di documenti), Moskva, Ves’ Mir, 2006, pp. 135-40
e 156-187. (D’ora in poi: GiGV)
40
41
36
F. BETTANIN
le, aveva cessato di essere al centro del suo interesse. Di essa si
discusse poco nel corso dei quattro incontri fra Reagan e Gorbaþev, e la stessa “pausa di riflessione” che si prese Bush all’inizio
del suo mandato è da attribuire, oltre che a divisioni fra i suoi
consiglieri, alla difficoltà di capire quali fossero i piani sovietici,
e se Gorbaþev fosse in grado di mantenersi al potere. La missione di riferire in merito fu affidata a Kissinger, il quale, a quanto
riferì Gorbaþev ai membri del politbjuro, nel corso della riunione tenuta dalla Trilateral Commission a Mosca nel gennaio
1989, accennò alla possibilità di un “condominio USA-URSS
sull’Europa”, da tenere segreto, perché gli europei avevano già
considerato il summit di Reykjavik “un complotto” ai loro danni. La risposta, se vi fu, non è nota, perché Gorbaþev si limitò a
prendere tempo, ritenendo che «all’Ovest capiscono che il mondo ha bisogno di una pausa di respiro dalla corsa agli armamenti, dalla psicosi nucleare» 43
. Gli eventi sembrarono dargli ragione. A giugno la sua visita in Germania occidentale fu salutata
dal consueto bagno di folla, e i colloqui con Kohl furono molto
cordiali, tanto da indurre il cancelliere a pronunciare le parole
che Gorbaþev voleva ascoltare: «noi abbiamo non solo un desti44
no comune, ma anche una storia comune» . Nell’estate
Bush
visitò Polonia e Ungheria, sostenne i riformatori comunisti, non
incoraggiò i movimenti di opposizione, evitò di pronunciare critiche verso l’URSS e al successivo G7 di Parigi ottenne una moratoria dei debiti dei paesi dell’Europa orientale: l’esito del voto
polacco e il massacro di piazza Tien’anmen, verificatisi per un
gioco del destino entrambi il 4 giugno, obbligavano a puntare su
una uscita pacifica dal socialismo reale. Il presidente americano
non si affrettò tuttavia a fissare il summit, del quale Gorbaþev
aveva bisogno per rilanciare la propria immagine 45
. Senza particolare generosità e entusiasmo, i leader occidentali avevano fat43 Vladislav M. Zubok, New Evidence on the End of the Cold War, in
“Cold War International History Project Bullettin”, nn. 12/13 (1998), doc.
3, pp. 16-17.
44 GiGV, p. 178.
45 Melvyn P. Leffler parla di un comportamento «prudent and cautious» di Bush all’inizio della sua presidenza, attribuendo l’assenza di iniziative decise allo scetticismo che molti membri della sua amministrazione,
con la significativa eccezione del segretario di stato Baker, mostravano nei
confronti della perestrojka (For the Soul of Mankind. The United States,
the Soviet Union, and the Cold War, New York, Hill and Wang, 2007, pp.
423-27).
I costi dell’impero
37
to la loro parte. Nella logica del confronto bipolare, non ancora
superata, sarebbe spettato a Gorbaþev formulare proposte concrete. Ma da Mosca non giunse nessuna iniziativa.
Qualche anno dopo, quando l’URSS era già crollata, Gorbaþev rivendicò il merito di avere convocato i dirigenti dei paesi
del blocco socialista subito dopo la sua elezione a segretario generale del PCUS, comunicando la sua intenzione di rinunciare
alla “dottrina Brežnev”. Il «rispetto della sovranità e dell’indipendenza di ogni paese» avrebbe comportato per i partiti comunisti al potere una «piena responsabilità per la situazione nei
loro paesi» 46
. Le dichiarazioni di principio ebbero scarsi effetti
pratici. Nell’aprile 1985 il patto di Varsavia fu rinnovato per
venti anni, senza modificazioni significative alla sua struttura .47
Il COMECON continuò la sua attività, anche se a scartamento
sempre più ridotto48. Dopo avere discusso a Ginevra e Reykjavik
con Reagan dei destini dell’umanità, Gorbaþev non poteva permettersi di abbandonare a se stessi paesi incapaci di provvedere
alla propria sicurezza, dipendenti dagli aiuti economici esterni,
mentre affioravano divisioni politiche, sociali, persino etniche,
che prospettavano lo scenario di un possibile scontro civile. Da
parte sua sarebbe equivalso a una rinuncia a esercitare il ruolo
di superpotenza. Gorbaþev avrebbe potuto rendere pubblico,
pur in forma sfumata, ciò che aveva dichiarato fra le mura del
Cremlino, o compiere un gesto simbolico di condanna delle sopraffazioni del passato: la condanna delle invasioni sovietiche
dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, l’ammissione dell’esistenza di un “protocollo segreto” del patto Ribbentrop-Molotov,
l’ammissione delle responsabilità sovietiche per la strage di
Katyn’ si prestavano a questo scopo 49
. Non lo fece, e non cambiò
la sua scelta nemmeno quando la folla plaudente che nel 1987 lo
M. Gorbachev, op. cit., pp. 464-65.
Mastny, Byrne, op. cit., doc. 166, pp. 357-60.
48 Berend, op.cit., pp. 39-54; Hanson, op.cit., pp. 169-76.
49 I protocolli segreti del patto Ribbentrop-Molotov furono “trovati” negli archivi del Comitato centrale a 1989 inoltrato: del loro rinvenimento
dette notizia la “Pravda” il 2 luglio 1989. Articoli e saggi sulla tragedia di
Katyn’ cominciarono a essere pubblicati in URSS solo all’inizio del 1990, e
solo nell’agosto 1993 la commissione mista di storici russi e polacchi riuscì
a pubblicare un documento congiunto sulla vicenda (cfr. Inessa Jažborovskaja (a cura di), Kat’inskij sindrom v sovestko-pol’skich i rossijskopol’skich otnošenijach (La sindrome Katyn nei rapporti sovietico-polacchi e
russo-polacchi), Moskva, Rosspen, 2009, pp. 5-21.
46
47
38
F. BETTANIN
accolse in Cecoslovacchia sembrò spingerlo ad ammettere le responsabilità sovietiche per la soppressione della Primavera di
Praga conferendo al suo gesto un alto valore simbolico: se doveva esserci un rovesciamento di Fulton, quello era il momento.
Gorbaþev avrebbe poi spiegato il suo silenzio con un tipico argomento da Realpolitik: «Se l’Unione Sovietica avesse condannato gli eventi del 1968, questo avrebbe inferto un tremendo
colpo al Partito comunista cecoslovacco». La garanzia di un ritorno del passato andava cercata nella consapevolezza del gruppo dirigente sovietico: «I precedenti interventi si sono trasformati per noi in svantaggi. Vittorie di Pirro, per noi. Questa è stata la lezione dell’Ungheria nel 1956, Cecoslovacchia nel 1968,
Afghanistan nel 1979» 50
. Con i leader ungheresi, impegnati sul
ruolo da assegnare alla memoria dell’ottobre 1956 nella rifondazione del regime, fu più esplicito: «Gli eventi del 1956 ebbero in
effetti inizio con l’insoddisfazione popolare. In seguito, tuttavia,
essi si trasformarono in controrivoluzione e bagno di sangue.
Questo non può essere ignorato…I dirigenti sovietici hanno di
recente analizzato gli eventi del 1956 in Ungheria, e continuano
a ritenere che ciò fu una controrivoluzione, con tutti i tratti tipici di un simile evento» . 51Questo dichiarò Gorbaþev nel marzo
1989 al primo ministro Németh e al segretario del POSU Grόsz,
rivelando che all’origine della sua politica per l’Europa orientale
si ponevano non i timori di destabilizzazione dei regimi del
blocco socialista, quanto piuttosto una difficoltà a trovare un
punto d’incontro con i loro dirigenti. Kádár, Husák, Honecker,
Živkov, Jaruzelski, Ceauşescu, erano stati testimoni e responsabili di molte tragedie; alcuni avevano passato lunghi periodo in
detenzione, in molti casi nelle carceri del loro regime; in pochi
avevano tentato di distaccarsi dal modello sovietico, con iniziative che alla metà degli anni Ottanta avevano esaurito la loro
spinta: più che “moscoviti” essi erano, per la loro biografia personale e politica, dei conservatori poco disposti ad accettare i
progetti di perestrojka del socialismo, anche se questi venivano
da Mosca. L’“enigma” della politica di Gorbaþev aveva, nel loro
caso, una facile spiegazione: inutile impegnarsi di persona per
M. Gorbachev, op.cit., pp. 482-84.
Csaba Békés e Melinda Kalmár, The Political Transition in Hungary,
1989- , in “Cold War International History Project Bullettin”, nn. 12/13
90
(1998),
docc. 2 e 3, pp. 76-78.
50
51
I costi dell’impero
39
rimuoverli, quando un simile tentativo in passato aveva assorbito le energie del Cremlino, alienato l’Occidente, e prodotto risultati miseri. La scelta dell’inazione postulava una lenta evoluzione del quadro interno nei paesi dell’Europa orientale. Accadde
invece il contrario. Dovunque la crisi economica si aggravò, con
effetti sul quadro politico. In Polonia dall’amnistia politica del
1986 si giunse nel 1988 alla convocazione della “tavola rotonda”
fra i rappresentanti del regime e di Solidarność, formalmente
fuori legge. In Ungheria, l’uscita di scena di Kádár, nel maggio
1988, fu seguita a distanza di pochi mesi dall’approvazione di
leggi che di fatto introdussero il pluralismo politico. «Gorbachev took ideas too seriously» , 52
sostiene Zubok. Se pagine e
pagine sono state scritte sul ruolo dei suoi incontri con uomini
politici e statisti occidentali nel plasmare il “nuovo pensiero”
della perestrojka 53, non altrettanto si può dire dei contemporanei colloqui con esponenti dei paesi socialisti, nel corso dei quali
Gorbaþev si mostrò soprattutto interessato a esporre le proprie
idee. Nel suo incontro con il nuovo primo ministro ungherese
Németh, Gorbaþev una volta toccato il tema della democrazia,
non trovò di meglio che citare l’aforisma di Lenin: «Noi bolscevichi abbiamo conquistato la Russia, ora dobbiamo imparare a
governarla», commentando che questo avrebbe consentito «di
rivolgersi al popolo e rivitalizzare il sistema socialista» .54Si era
nel marzo 1989, la popolarità del PCUS e del suo segretario generale stava cadendo a picco in patria, anche per il rafforzamento dei movimenti nazionalisti; i cittadini sovietici avrebbero votato dopo pochi giorni per il Congresso dei deputati del popolo,
scegliendo anche candidati di opposizione, e Gorbaþev non trovava di meglio che parlare dei bei tempi andati con l’esponente
di un paese che più di ogni altro si era spinto avanti nella riforma del socialismo. Una lezione non dissimile fu impartita a Jaruzelski, giunto a Mosca alla fine di aprile. Alle informazioni
sulla situazione interna della Polonia alla vigilia delle elezioni
Zubok, A Failed Empire, cit., p. 309.
Secondo English I colloqui di Gorbaþev con Margaret Tatcher segnarono «a critical advance in his embrace of a liberal Weltanschaung, a nearKantian understanding of the link between genuine democracy and the
foundation of international trust» (art. cit., p. 66). Più equilibrato il giudizio di Brown, secondo il quale il pensiero di Gorbaþev mantenne sempre
una impronta socialdemocratica (Seven Years, cit., pp. 291-312).
54 Csaba Békés e Melinda Kalmár, art. cit., doc. 3, p. 77.
52
53
40
F. BETTANIN
decise dalla Tavola rotonda fornitegli da Jaruzelski, Gorbaþev
replicò con una dichiarazione di principio sulle vie diverse al socialismo che dovevano avere come denominatore comune la
democrazia intesa come «partecipazione reale della classe operaia alla gestione dell’economia e alla soluzione dei problemi
politici», conclusa dall’affermazione che la «perestrojka ha rag56 conversagiunto questo stato» 55
. Più che essere “surreale” , la
zione rivela l’hybris di un leader, che dopo avere dialogato con i
grandi della terra, non aveva alcuna intenzione di confrontarsi
con un esponente di un piccolo stato, sotto i quarant’anni, giunto quasi all’improvviso al potere, e nemmeno con quello di un
stato centrale negli equilibri europei, con una biografia di tutto
rispetto, che il potere lo aveva mantenuto grazie al sostegno sovietico. Che i loro paesi potessero rappresentare una via diversa,
forse più avanzata, di riforma dei regimi socialisti, fu ipotesi mai
presa in considerazione da Gorbaþev, il quale non trovò contraddittorio richiedere, nel suo discorso all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa del luglio 1989, un ruolo per
l’URSS in una Europa dall’«Atlantico agli Urali» e non da «Brest
a Brest»57.
Il problema non era nei pregiudizi e nell’arroganza di Gorbaþev, quanto nell’incapacità delle sue idee di tenere il passo
con l’evoluzione degli avvenimenti. Alla fine del 1988, il Cremlino non disponeva ancora di una visione complessiva del quadro
politico nei paesi dell’Europa orientale e dei loro rapporti con i
paesi occidentali. Un memorandum in tal senso fu inviato
nell’ottobre 1988 a Gorbaþev da Šachnazarov, suo consigliere
per i rapporti con l’Europa orientale. A tre mesi di distanza, a
conferma dell’assenza di un senso di assoluta urgenza, il compito di preparare un rapporto sulla situazione politica in Europa
orientale fu assegnato all’Istituto per lo studio dell’Economia
del sistema socialista mondiale (il c.d. Istituto Bogomolov), al
Dipartimento internazionale del Comitato centrale del PCUS, al
ministero degli Affari esteri, al KGB. Dalla lettura dei primi tre
55 Pawel Machcewicz, Poland 1986-1989. From “Cooptation” to “Negoziated Revolution”, ibidem, doc. N. 15, pp. 112-113.
56 Constantine Pleshakov, Berlino 1989: la caduta del muro, Milano,
Corbaccio, 2009, p. 213.
57 Consiglio d’Europa, Official Report, Fourty-first ordinary session, v.
I, 1990, pp. 197-205.
I costi dell’impero
41
memorandum (quello del KGB non è stato ancora pubblicato) 58
redatti nel febbraio 1989, emerge innanzitutto la diversa priorità assegnata all’Europa orientale dalle diverse istituzioni. Il sintetico, e spesso superficiale, documento del ministero degli Esteri è anche l’unico a ritenere l’URSS ancora in grado di esercitare un ruolo guida in Europa orientale. Contorto sino all’ossimoro, il memorandum del Dipartimento internazionale del
PCUS assegna all’URSS il ruolo di «leader del processo di rinnovamento socialista», ma aggiunge subito una riserva: «dopo avere rotto con il precedente tipo di relazioni, non ne abbiamo
stabilito ancora uno nuovo». Nel memorandum dell’Istituto dei
paesi socialisti la dettagliata analisi assume toni allarmati, a
tratti catastrofici, nel configurare la «minaccia di un collasso
economico», di un «indebolimento delle posizioni dei partiti al
comunisti al potere», di un collasso ideologico, possibile anticamera all’«anarchia e violenza». I paesi più a rischio sono considerati Polonia, Ungheria e Jugoslavia, per i quali l’unica via di
uscita viene intravista nella introduzione di misure di «tatcherismo socialista», impopolari ma necessarie per recuperare competitività. Nel caso della Polonia, lo scenario più favorevole è
individuato nell’introduzione del “pluralismo partitico“, con
l’inevitabile corollario della formazione di un grande partito cattolico. La possibilità di una guerra civile, tale da trasformare la
Polonia in un «Afghanistan al centro dell’Europa» non è del tutto esclusa; unica alternativa individuata a questo scenario, è
«una evoluzione verso una società borghese classica, del tipo di
Grecia e Italia» (sic!). Il memorandum è meno pessimista per
l’Ungheria, per la quale prevede la inevitabile evoluzione verso
una economia mista e forme di neutralismo, favoriti dall’ingresso nell’arena politica di «forze politiche alternative» al POSU. Anche per la Germania la previsione è di un inevitabile stravolgimento dello status quo, seguito dalla formazione di uno
confederazione tedesca neutrale. L’evoluzione verso il pluralismo politico è considerata inevitabile da tutti i memorandum,
che giudicano la prosecuzione del corso conservatore negli altri
paesi del blocco come la fonte di possibili rivolte popolari, o della frantumazione della federazione in Jugoslavia. Comune ai tre
memorandum è la convinzione che rinuncia all’uso della forza,
58 Per la cronistoria e il testo dei 3 documenti, cfr. Lévesque, Soviet Approches to Eastern Europe”, cit., pp. 49-72.
42
F. BETTANIN
pluralismo politico e finlandizzazione dei paesi dell’Europa orientale siano passaggi inevitabili. Sul primo punto nessun documento si diffonde in modo particolare. Solo la richiesta di
colmare le “macchie bianche” dei rapporti fra l’URSS e i singoli
paesi dell’Europa orientale contiene una velata critica alla scelta
di Gorbaþev di non associare l’abbandono di fatto della “dottrina Brežnev” e le solenni dichiarazioni di principio nei contesti
internazionali con il riconoscimento delle responsabilità
dell’Unione Sovietica. Altro giudizio condiviso è che «la spinta
verso il pluralismo politico nei paesi socialisti europei si sta manifestando ovunque, e diverrà sempre più dominante». Secondo
il Dipartimento internazionale, lo scenario più favorevole sarebbe stato quello di una “rivoluzione dall’alto”, veloce e indolore: quello intermedio la continuazione della situazione di alternarsi di “salti e arresti”; il più sfavorevole la permanenza al potere dei conservatori, potenziale causa di «una esplosione sociale dalle conseguenze imprevedibili». Importante era distinguere
fra «l’interesse a mantenere i partiti comunisti ai vertici del potere, e l’interesse a mantenere alleanze con questi paesi». Il
memorandum dell’Istituto dei Paesi socialisti è l’unico a toccare
il tema degli effetti politici della rinuncia sovietica a esercitare il
ruolo di “grande fratello”: «abbiamo rinunciato a imporre a tutto il mondo il modello del nostro paese, e abbiamo iniziato a
renderci conto della necessità di inserire nel modello socialista
alcune caratteristiche base del modello occidentale di sviluppo
(mercato, competizione, società civile, libertà, civili, ecc.)». Più
moderato, il memorandum del Dipartimento internazionale del
PCUS si limita a sottolineare che «se un Paese dissente da noi»,
non significa che si stia rivolgendo all’occidente, o sia diventando capitalista; la parabola storica di Cina e Jugoslavia dimostrava il contrario, e anche in Polonia tutti erano consapevoli della
«necessità di conservare qualche forma di alleanza con il nostro
paese». L’uso del termine «finlandizzazione», comune ai tre
memorandum, attribuisce al mondo capitalista un potere di attrazione inutile da contrastare, anche perché il processo era iniziato da tempo, e avrebbe ricevuto ulteriore impulso dalla nascita della UE, nel 1992. Con virtù profetica, il memorandum
dell’Istituto dei paesi socialisti si spinge sino a prevedere
l’adesione dei paesi dell’Europa orientale alla Comunità europea,
giudicando la prospettiva con favore, perché avrebbe sollevato
I costi dell’impero
43
l’URSS di un fardello economico insostenibile, avrebbe creato
per USA e Europa occidentale un interesse concreto a prevenire
rivolte, avrebbe arrestato lo slittamento dei paesi dell’area verso
il sottosviluppo. È singolare che il termine finlandizzazione venga usato in riferimento ai processi economici, mentre la comune
richiesta di riduzione delle truppe sovietiche di stanza in Europa
orientale (i tagli annunciati da Gorbaþev all’ONU nel dicembre
1988 erano evidentemente considerati solo un primo passo) non
si traduca in proposte dettagliate di riforma, o di scioglimento
del patto di Varsavia. Per gli estensori dei memorandum, la
formazione di una rete di interessi comuni dei paesi europei in
campo economico avrebbe dovuto precedere la revisione della
architettura della sicurezza nel continente: una scala di priorità
che le vicende successive al crollo dell’URSS avrebbero rovesciato.
La caduta del Muro colse tutti di sorpresa .59La constatazione è inoppugnabile, ma di scarso significato. Poche svolte storiche sono state “previste”, se con il termine si indica una precisa
definizione dei loro tempi e modi. La lettura dei memorandum
consente di affermare che l’élite politica sovietica era consapevole del precipitare della crisi in Europa orientale, e guardava al
processo senza eccessive preoccupazioni, e anzi con un certo favore, scorgendovi una opportunità per l’Unione sovietica di liberarsi di regimi delegittimati e inefficienti senza ricorrere
all’intervento diretto. Fra le righe, il memorandum dell’Istituto
dei paesi socialisti lascia intravedere la speranza che gli avvenimenti in Europa orientale forzassero Gorbaþev a muovere con
maggiore decisione verso il pluralismo politico e economico anche in patria: il che avvenne, ma non nel modo graduale e ordinato previsto dal memorandum 60. Sul piano pratico, la politica
di Gorbaþev per l’Europa orientale non accolse i suggerimenti
dei memorandum. La scelta di astenersi da ogni atto che potesse essere interpretato come una pressione per rovesciare i risultati delle elezioni del 4 giugno in Polonia, che avevano visto la
schiacciante vittoria di Solidarność; l’accettazione della decisio59 In merito si veda il fondamentale testo di Mary Elise Sarotte, 1989.
The Struggle to Create Post-Cold War Europe, Princeton, Princeton
University Press, 2009.
60 Sulle ripercussioni che gli avvenimenti in Europa orientale ebbero in
Urss, cfr.: M. Kramer, The Collapse of Eastern European Communism and
the Repercussions within the Soviet Union (Part 2), in “Journal of Cold
War Studies”, vol. 6, n. 4 (Fall 2005), pp. 3-64.
44
F. BETTANIN
ne di consentire il passaggio in Germania occidentale ai cittadini della Germania est, presa dal governo ungherese nel settembre; il linguaggio criptico tenuto all’inizio di ottobre nel corso
della sua visita in Germania, quando Gorbaþev evitò di condannare apertamente un regime inviso, sono azioni coerenti con la
politica di condotta seguita sino ad allora. I processi in corso in
Europa orientale erano irreversibili; contrastarli sarebbe stato
inutile; essi andavano però gestiti con il sostegno dei paesi occidentali, e senza accelerare il corso degli eventi. Questi tratti emergono dal colloquio del 1° novembre con il neo segretario della SED Ergon Krenz: ultimo atto della politica di Gorbaþev prima
della caduta del Muro. A giudicare dal resoconto stenografico,
Gorbaþev concesse ben poco. Non aiuti economici, resi impossibili dall’entità dei debiti tedeschi e dall’aggravarsi della crisi in
URSS. Non interesse e simpatia umana per il compito improbo
che attendeva Krenz, sostituiti da una investitura apostolica:
«non si può imporre la perestrojka a nessuno, essa deve maturare. Ed ecco, è maturata nella RDT». Anche l’assicurazione che
«al momento il problema dell’unificazione della Germania non
si pone all’ordine del giorno», era sostenuto più che dalla promessa di un impegno personale, dall’assicurazione che i più importanti uomini politici occidentali non consideravano con favore la prospettiva61. Come gli accadeva da tempo, per la soluzione
dei problemi internazionali Gorbaþev guardava soprattutto a
ovest. Pochi giorni dopo il Muro fu abbattuto da una folla di
berlinesi, anche essi certi che la soluzione dei loro problemi andasse cercata in quella direzione, e quelle che erano state sino
ad allora “rivoluzioni negoziate” si trasformarono in rivoluzioni
nelle quali il ruolo della folla non poteva essere ignorato .62Se il
destino dell’Europa orientale era nelle mani delle cancellerie occidentali, e di folle non violente, ma difficili da controllare, e soprattutto mosse da sentimenti antisovietici, quale ruolo il futuro
riservava al Cremlino ? Dopo averlo a lungo eluso, Gorbaþev doveva alfine porsi l’interrogativo.
GiGV, pp.232-245.
Cfr. Jacques Lévesque, The East European Revolutions of 1989, in
Lefller, Westad, op. cit., vol. III, pp. 311-332. Forti argomentazioni contro
l’uso del termine «rivoluzione» per gli eventi del 1989 in Europa orientale
sono avanzate da: Stephen Kotkin (with a contribution of Jan A. Gross),
Uncivil Society. cit.
61
62
I costi dell’impero
45
Miseria dello storicismo
Non era il solo. Dopo la caduta del Muro, nessuno pensava
che l’ordine europeo avrebbe subito una rapida modificazione;
ma nessuno riteneva che esso potesse restare a lungo inalterato.
A confrontarsi erano, nella terminologia usata da Sarotte, tre
ipotesi di transizione: il “restoration model”, nel quale le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale avrebbero deciso,
d’intesa con i due stati tedeschi, l’assetto della Germania (una
soluzione sintetizzata dalla formula “4+2”); il rilancio e l’adattamento alle condizioni della fine del XX secolo delle strutture
confederative che da secoli avevano contrassegnato la storia degli stati tedeschi; la vaga visione di nuove strutture paneuropee,
63 realtà nemche faceva capolino nei discorsi di Gorbaþev . In
meno al Cremlino qualcuno aveva idee chiare in merito, e
l’unico effetto certo dell’abbattimento del Muro fu di costringere
Gorbaþev ad assegnare alla questione tedesca un posto centrale
nella sua agenda politica. Dai resoconti delle sue iniziative e dalle memorie dei suoi collaboratori emerge un Gorbaþev preoccupato di conservare l’immagine di statista disposto a favorire
grandi mutamenti storici, purché essi avvenissero nella stabilità
e nel lungo periodo. In questi termini si espresse, a poche ore
dall’avvenimento, nel suo colloquio telefonico con Kohl: «nel
mondo erano in corso grandi trasformazioni», che dovevano essere «attentamente valutate;» per questo, bisognava dare tempo
alla «attuale direzione della RDT» di trovare la strada verso la
democrazia, la libertà e nuove forme di economia .64In altri termini, Gorbaþev voleva prendere tempo, ma in quel momento
anche Kohl era convinto che il completamento del processo di
unificazione avrebbe richiesto anni. La pressione popolare, e il
vuoto di potere apertosi nella Germania est indussero il cancelliere a rivedere questa convinzione. Il 21 novembre la stessa dirigenza sovietica, in circostanze non del tutto chiarite, fece pervenire a Kohl un messaggio nel quale si prospettava per la prima volta la possibilità di formare, come parte costitutiva di un
«ordine paneuropeo di pace», una confederazione tedesca, o
persino una Germania unita, ma fuori dalla Comunità europea e
63
64
Sarotte, op. cit., pp. 196-201.
GiGV, pp. 247-250.
46
F. BETTANIN
dalla NATO 65
. Kohl colse l’occasione che gli si offriva, e nel discorso al Bundestag del 28 novembre formulò un piano, articolato in dieci punti, di unificazione della Germania i cui tempi e
modi dovevano dipendere dalla espressione della volontà popolare e non solo dalle trattative fra stati (una visione sintetizzata
dalla formula “2+4”). In un coevo colloquio telefonico con Bush,
Kohl fu ancora più esplicito: la profondità della crisi in Germania orientale non lasciava spazio per la difesa dello status quo e
per una nuova Jalta 66
. Negli stessi giorni Gorbaþev era in visita
in Italia, dove avrebbe incontrato il pontefice per poi volare, il 2
e 3 dicembre, al vertice di Malta con Bush. Se Stalin, nel secondo dopoguerra, aveva puntato tutte le sue carte sull’abbandono
dell’Europa da parte degli USA, Gorbaþev confidava invece sulla
collaborazione con l’amministrazione statunitense per giungere
a una “Helsinki 2”: una nuova conferenza in grado di risolvere
la questione tedesca all’interno di una generale risistemazione
del continente67. Sbagliarono entrambi. I documenti preparatori
al summit rivelano che, ancora prima del colloquio con Kohl, la
politica del presidente Bush era ispirata dal una tattica attendista, e dal timore di cadere in una trappola simile a quella che,
dal punto di vista statunitense, Gorbaþev aveva teso a Reagan al
vertice di Reykjavik, inducendolo a eccessive concessioni . A68
Malta Gorbaþev sfogò la sua rabbia sul «signor Kohl [che] si affretta, si agita, si comporta in modo non serio e non responsabile», per poi sentenziare che «esistono due stati tedeschi, così ha
deciso la storia», e quindi non era tempo di parlare di unificazione. Bush replicò che anche negli USA erano stati «sorpresi
dall’estrema rapidità dei cambiamenti», ma che, «come Voi capirete, non si può pretendere da noi di non approvare
l’unificazione tedesca»69. Della Germania, e dell’Europa orientale, non si disse molto di più; lo stesso 3 dicembre Bush volò a
Laeken, dove incontrò Kohl, al quale diede il via libera per la at65 Una traduzione in inglese del documento è disponibile al sito: http:
//www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB296/doc06.pdf. Per una ricostruzione della vicenda, cfr. Sarotte, op. cit., pp. 70-76.
66 .
67 Secondo ýernjaev questo era l’obiettivo principale che Gorbaþev si
proponeva di raggiungere al vertice di Malta; riuscì a strappare a Bush solo
una vaga promessa in merito (op. cit., pp. 817-31).
68 Leffler, op. cit., pp. 440-41.
69 GiGV, pp. 268-272.
I costi dell’impero
47
70 memorie
tuazione del programma dei “dieci punti” . Nelle
Gorbaþev scrisse che l’incontro con Bush lo aveva convinto di
«avere passato il Rubicone» ,71ma non poté certo sfuggirgli la
progressiva emarginazione del Cremlino dalla soluzione della
questione tedesca. Della frustrazione sovietica fece le spese il
ministro degli Esteri tedesco Genscher, giunto a Mosca il 5 dicembre, che subì la sfuriata del suo collega Ševarnadze, secondo
il quale la Germania seguiva una strategia di violazione dei diritti sovrani di altri stati «applicata ora con la RDT, domani forse
con la Polonia e la Cecoslovacchia, dopo con l’Austria». Negli
stenogrammi tedeschi dell’incontro, Ševarnadze si spinse sino a
sostenere che “nemmeno Hitler si era permesso tanto 72«. Più
moderato, Gorbaþev ritornò a più riprese sulla questione di fondo: i “10 punti” erano stati enunciati, senza consultarlo, nonostante avesse avuto con Kohl «positivi e costruttivi scambi di
opinione», che avevano consentito di raggiungere un accordo su
«questioni di fondo» 73
. Per la prima volta dal 1947, quando Stalin aveva imposto alla Cecoslovacchia di non partecipare al piano Marshall, il gruppo dirigente sovietico era costretto a fronteggiare le iniziative di una potenza occidentale all’interno del
proprio impero esterno senza avere efficaci strumenti per fermarle. Qualche settimana dopo, riposte le speranze di una “Helsinki 2”, Gorbaþev evocò, nel corso di una riunione con i suoi
più stretti collaboratori, lo spettro di una Unione Sovietica costretta a firmare «una pace di Brest n.2». Unica consolazione
era la convinzione che Germania est e Polonia fossero casi a
parte: «Romania, Cecoslovacchia, Bulgaria, Ungheria sono interessati a noi. Soffrono, ma non possono andare lontano» .74Nonostante questa nota di parziale ottimismo, la prospettiva di
una “casa comune europea” costruita senza l’URSS, se non contro di essa, diveniva sempre più concreta.
Da politico consumato, che aveva costruito la carriera scalando la nomenclatura del PCUS, Gorbaþev sapeva imparare dalle sconfitte. Nel corso del 1990 Gorbaþev incontrò due volte il
cancelliere Kohl, nel febbraio e nel luglio, e si mantenne con lui
Sarotte, op. cit., pp. 78-79.
Gorbaþev, op. cit., p. 516.
72 http://www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB296/doc05.pdf.
73 GiGV, pp. 273-84.
74 Ibidem, p. 309.
70
71
48
F. BETTANIN
in costante contatto telefonico. Nel maggio ebbe un nuovo vertice con Bush, preparato da due incontri con il segretario di stato
Baker, con il quale i contatti erano mantenuti da Ševarnadze,
nell’ambito delle trattative del “2+4”. Mosca fu anche meta dei
più importanti uomini di stato dell’Europa occidentale, che discussero con Gorbaþev dei destini dell’Europa, e soprattutto della Germania. Senza sottovalutare il ruolo di questa intensa attività diplomatica, si può affermare che fu il rapporto privilegiato
stabilitosi fra Bonn e Mosca ad aprire la strada all’unificazione
tedesca e al trattato di collaborazione e di amicizia fra l’Unione
Sovietica e la Germania occidentale, firmato all’inizio di novembre75. Gorbaþev rinunciò a partecipare alle celebrazione per
l’unità tedesca per ragioni di opportunità, che indussero anche
Bush a fare altrettanto. E anche per la sensazione di essere stato
per la prima volta travolto dagli avvenimenti piuttosto che guidarli. «Non sarei sincero se dicessi di avere previsto il corso degli eventi e i problemi che la questione tedesca avrebbe alla fine
creato per la politica estera sovietica» ,76scriverà nelle sue altrimenti autocelebrative memorie. Se il giudizio politico sulla strategia seguita da Gorbaþev è stato da subito severo in Russia, il
dibattito storiografico ha espresso, almeno nei paesi occidentali,
posizioni più sfumate. È indubbio che le sue scelte furono condizionate dalla difficile situazione interna. La positiva conclusione del XXVIII congresso del PCUS, nel luglio 1990, che vide la
sconfitta dei conservatori, gli consentì di riguadagnare un margine di manovra nelle trattative sulla Germania, condizionate,
in misura maggiore di quanto abbia mai ammesso, dalle «twin
carrots of money and NATO reform» . 77
I silenzi che gli stenogrammi sovietici degli incontri mantengono sull’erogazione di
crediti da parte tedesca occidentale sin dal febbraio (solo i ringraziamenti di Gorbaþev a Kohl per il «sostegno accordato» tradiscono lo stato delle cose), sono un indice inequivocabile
dell’imbarazzo provato per accordi che potevano dare l’impressione di barattare i diritti acquisiti dall’URSS come potenza vincitrice della seconda guerra mondiale con il denaro tedesco. Difficile dire se Gorbaþev avrebbe potuto chiedere di più sul piano
finanziario: tenuto conto della accelerazione della crisi in UnioIbidem, pp. 307-604.
Gorbachev, op. cit., p. 516.
77 Sarotte, op. cit., p. 193
75
76
I costi dell’impero
49
ne Sovietica, del risultato delle elezioni del marzo 1990 in Germania est, che avevano espresso una chiara volontà di unificazione, ottenne crediti consistenti, anche se tutto fu presto bru78
ciato da una inflazione galoppante . Gorbaþev
non accettò
l’unificazione tedesca perché aveva un disperato bisogno di soldi; offerte economiche altrettanto allettanti giunsero dal Giappone, desideroso di chiudere il contenzioso delle isole Curili, e
furono rifiutate perché escludevano la prospettiva di una futura
collaborazione politica fra i due paesi in Asia 79
. Il suo errore più
grande fu semmai di ritenere che l’Occidente avrebbe potuto
concedere all’URSS un nuovo piano Marshall. In esso la sopravvalutazione delle risorse, finanziarie e intellettuali, dell’Occidente, si mescolò con la ricerca di un alibi per procrastinare le
ineludibili riforme economiche delle quali si stava discutendo in
quei giorni in Unione Sovietica 80. Non è nemmeno esatto affermare che nel luglio Gorbaþev offrì a Kohl «in dono il graduale e
completo ritiro delle truppe sovietiche senza nemmeno chiedere
in cambio la neutralità tedesca» 81
. Piuttosto, indebolì la propria
posizione negoziale avanzando, nel febbraio, la poco praticabile
proposta di una doppia appartenenza della Germania alla NATO
e al patto di Varsavia e poi non chiese, come i suoi consiglieri gli
avevano suggerito di fare, garanzie scritte sulle modalità di estensione della NATO, e sulla “demilitarizzazione”, e non solo
“neutralizzazione”, della Germania unita .82La proposta di non
prendere impegni definitivi sull’appartenenza della Germania
unita era, data la piega presa dagli avvenimenti, irrealizzabile, e
78 Ibidem, pp. 152-160; Tuomas Forsberg, Economic Incentives, Ideas,
and the End of the Cold War: Gorbachev and German Unification, in
“Journal of Cold War Studies”, vol. 7, n. 2, 2005, pp. 150-56; Helga Haftendorn, The unification of Germany, 1985, in Leffler, Westad, op. cit., v.
III, pp. 347-50.
79 Forsberg, art. cit., pp. 156-60.
80 Hanson, op. cit., pp. 220-35.
81 Kotkin, op. cit., p. 77.
82 Questo gli aveva chiesto di fare, in un memorandum risalente
all’aprile, Valentin Falin, vice presidente del dipartimento internazionale
del PCUS, e massimo esperto sovietico sulla Germania, divenuto in seguito
uno dei più aspri critici di Gorbaþev (GiGV, pp.398-408). Nel maggio era
chiaro che le trattative non procedevano, per i sovietici, nel migliore dei
modi, e ýernjaev, nel suo diario, ne addossò la responsabilità a Ševarnadze,
che le conduceva «con frasi generali invece di costringere i nostri partner a
esaminare le nostre concrete condizioni»(ýernjaev, op. cit., p. 855).
50
F. BETTANIN
persino pericolosa. Tutto ciò che Gorbaþev riuscì a ottenere fu
l’impegno a non muovere truppe della Germania ovest nella
parte orientale del paese prima che questa fosse stata abbandonata dal contingente sovietico. Non era una concessione di poco
conto, perché riconosceva implicitamente che l’URSS non era la
parte sconfitta nella Guerra fredda. Senza sottovalutare gli errori commessi da Gorbaþev, tipici di un politico formatosi in epoca
sovietica, per il quale i contatti personali contavano più delle garanzie scritte e dei trattati, bisogna dire che il suo compito non
era dei più facili. Rilanciare il “restoration model” era pressoché
impossibile, con gli USA proiettati verso la guerra con l’Iraq e
meno attenti ai problemi europei; Francia e Gran Bretagna
grandi potenze sulla carta, pronte a sostenere Gorbaþev solo a
parole e in dissenso fra loro, mentre i popoli dell’Europa orientale reclamavano il diritto a decidere del proprio destino. Il timore che i destini di Mosca venissero decisi a Berlino era giustificato, e si materializzava nella ricorrente metafora della “pace
di Brest”, ma la scelta della Germania occidentale come interlocutore principale, e di conseguenza della formula “2+4” per le
trattative, aveva poche alternative. I rapporti personali e politici
fra Gorbaþev e Kohl sintetizzano la miscela di opportunismo e
idealismo, superficialità e senso di responsabilità per i destini
dell’umanità, timori di emarginazione e perdurante visione da
grande potenza che contraddistinse l’ultimo scorcio della politica estera sovietica. Persino i burocratici stenogrammi degli incontri e dei colloqui telefonici fra i due uomini di stato rendono
il passaggio da una diffidenza reciproca a una intesa senza la
quale l’unificazione tedesca non sarebbe avvenuta in tempi così
brevi. I due avevano bisogno l’uno dell’altro, e in questa evoluzione vi è un elemento di Realpolitik, se non di opportunismo,
ma anche una affinità personale e politica: entrambi erano
pronti a cambiare l’Europa, e per questo dovevano scontrarsi
con avversari, interni e esterni, dichiarati e non. Se la perestrojka aveva radici intellettuali, queste risalivano alla Ostpolitik e
ai rapporti privilegiati che si erano da allora stabiliti fra Germania e URSS, non meno che alla Primavera di Praga. Qualche
giorno prima dell’unificazione della Germania, ricevendo una
delegazione della SPD comprendente Egon Bahr, che di quella
politica era stato uno dei padri, Gorbaþev riconobbe il suo debito intellettuale, parlando di «rapporti unici fra i nostri due par-
I costi dell’impero
51
titi». Tutti ormai, proseguì Gorbaþev, nell’URSS, nell’Europa, nel
mondo, erano consapevoli della necessità di «ricostruire la vita»: i tedeschi avevano dimostrato la capacità di farlo attraverso
il «rafforzamento della democrazia», mentre in Unione Sovietica, sino alla perestrojka, si era proceduto distruggendo «politicamente, ma anche fisicamente il nemico» . 83
Con retorica non
priva di sincerità, nel corso del decisivo incontro del luglio 1990,
Gorbaþev replicò a Kohl, che gli elencava i problemi aperti dal
sostegno economico concesso a Germania orientale e URSS, che:
«il cancelliere sta ora sperimentando la sua perestrojka… Grandi fini comportano difficoltà altrettanto grandi» 84. Da parte sua
Kohl, al momento della firma del Trattato di amicizia e cooperazione nel novembre 1990, dichiarò che a un eventuale insuccesso della perestrojka sarebbe «seguito il caos, con conseguenze
non solo per l’Unione sovietica, ma per tutta l’Europa»85.
Solo attraverso la collaborazione con una Germania unita
Gorbaþev poteva sperare di realizzare i suoi piani di formazione
di un sistema di istituzioni di sicurezza europee, da costruire
sulle ceneri del patto di Varsavia e NATO . 86
In questa visione eroica della storia, che era un espediente per sfuggire a una arcigna realtà, più che nel modo dilettantesco in cui furono condotte le trattative, va cercato l’errore di fondo della politica di Gorbaþev. L’unificazione tedesca assorbiva tutte le risorse tedesca
della Germania occidentale, impedendo ai capitali tedeschi (e
europei) di contribuire alla stabilizzazione dell’area, come era
accaduto nei decenni precedenti, e non stupisce che il cancelliere tedesco abbia tentato, al pari di Bush, di mantenere per
87
quanto possibile lo status quo in Europa orientale . Questo
comportava per Mosca la necessità di definire un proprio ruolo
nell’area, da esercitare non con la forza. È quindi meno scontata
di quanto possa sembrare la sconsolata considerazione di ýernjaev, a commento di un inconcludente plenum del comitato
GiGV, pp. 584-85.
Da segnalare che i giudizi espressi da Gorbaþev compaiono negli stenogrammi tedeschi dei colloqui del luglio, non in quelli pubblicati a cura
dalla Fondazione Gorbaþev (Cfr. Hanns J. Küsters, The Kohl-Gorbachev
Meetings in Moscow and in the Caucasus, 1990, in “Cold War History”,
vol. 2, n. 2 (January 2002), doc. 1, p. 204.
85 GiGV, p. 603.
86 Sarotte, op. cit., p. 104.
87 Leffler, op. cit., pp. 427-48.
83
84
52
F. BETTANIN
centrale del PCUS tenuto all’inizio del 1990 sulle questioni internazionali: «L’Europa orientale si sta staccando del tutto da noi,
e non amichevolmente…Ed è sempre più chiaro che la casa comune europea si farà in linea di massima senza di noi, senza
l’URSS»88. Gorbaþev decise invece, ha scritto Sarotte, che «it was
too costly to try to direct political events in regions, whether in
Afghanistan or Europe, that clearly had goals others than those
set by Moscow» .89Le annotazioni di ýernjaev sui giudizi pronunciati da Gorbaþev in occasione del suo ultimo incontro con
Kohl, a Kiev, nel luglio 1991, confermano il giudizio: «Europa
orientale… Gorbaþev si è dilungato sulla “cooperazione”…e sulla
liberazione del complesso della “superinfluenza”..<Li abbiamo
annoiati! Ma anche loro ci hanno annoiato>». Secondo Gorbaþev, la rinuncia a «pretendere rapporti particolari» con l’area
non avrebbe comportato per l’URSS la rinuncia al ruolo di superpotenza: «Kohl capisce di non essere in grado di inghiottire
l’URSS; di più, senza di noi non è in grado di inghiottire l’Europa
e di staccarsi dagli americani. E farà di tutto per aiutarci a risollevarci e agire assieme… Certo, l’Ucraina gli fa gola…Ma è qualcosa di diverso dallo spazio vitale hitleriano» 90. Pochi giorni dopo, il fallito golpe avrebbe troncato queste fantasie, che già suonavano da epitaffio per l’URSS Difficile dire cosa avrebbe potuto
ottenere Gorbaþev se, subito dopo la caduta del Muro, non avesse puntato tutte le sue carte sulla Germania occidentale, e avesse seguito con maggiore decisione il corso riformista imboccato
da altri paesi dell’ormai ex impero sovietico. In tutta l’Europa
orientale l’antisovietismo era forte, e più che della “noia” reciproca Gorbaþev avrebbe dovuto preoccuparsi dell’influsso che
gli avvenimenti nell’area cominciavano ad avere, invertendo
una tendenza storica, all’interno del’Unione sovietica . 91
Ma altrettanto decisiva era la perdurante dipendenza dei paesi
dell’area dai legami economici con l’URSS, senza il cui consenso
sarebbe stato impossibile creare un sistema di sicurezza europeo, e questo poneva a disposizione di Gorbaþev uno strumento
di intervento. Nessun impero scompare da un giorno all’altro, e
ýernjaev, op. cit., p. 838.
Sarotte, op. cit., p. 212.
90 ýernjaev, op. cit., pp. 958-59.
91 Kramer, The Collapse of Eastern European Communism and the Repercussions within the Soviet Union (Part 3), in “Journal of Cold War Studies”,vol. 7, n. 1, 2005, pp. 3-96.
88
89
I costi dell’impero
53
sarebbe toccato a Gorbaþev articolare in proposte concrete la
sua vaga visione di un ordine paneuropeo. Non tentò mai seriamente di farlo. Figlio di una storia che aveva visto più volte
l’URSS risollevarsi da tragedie immani e dimostrarsi capace di
uscire dall’isolamento e dalla marginalità internazionali, preferì
temporeggiare, in attesa di tempi migliori che non giunsero. In
questo storicismo sta il suo limite e anche il merito maggiore,
poiché Gorbaþev non venne mai meno alla convinzione che il
ruolo di superpotenza che l’URSS aveva svolto per anni comportasse il dovere di non porre a repentaglio i destini dell’umanità,
e quindi di accettare i verdetti della Storia, anche se questi erano di segno contrario ai suoi progetti e alle sue aspettative.
TRAIETTORIE DEL
CAMBIAMENTO
Il 1989 in Ungheria e Romania nel recente dibattito storico
Stefano Bottoni
Questo saggio si propone di analizzare in chiave comparativa
le traiettorie verso il cambiamento politico e socio-economico
compiute intorno al 1989 da due paesi dell’Europa centroorientale, l’Ungheria e la Romania, È lecito domandarsi cosa
possa accomunare, o rendere perlomeno comparabili, due esperienze apparentemente così distanti. L’Ungheria è infatti nota
alla letteratura specialistica come un caso di transizione “guidata” e apparentemente indolore dal sistema monopartitico comunista alla democrazia di tipo occidentale, attraverso un processo di autoriforma e apertura controllata avviato nella seconda metà degli anni Ottanta dallo stesso regime di János Kádár . 1
La Romania di Ceauşescu attraversò invece nell’ultimo decennio
una progressiva involuzione che portò il paese ad isolarsi dal
mondo esterno. La fine del regime comunista non scaturì da un
negoziato, ma da una rivoluzione armata, per buona parte spontanea, alla quale si affiancò in un secondo momento un colpo di
stato politico teso a detronizzare il dittatore Nicolae Ceauşescu.
Nel ripercorrere il cammino parallelo dei due paesi, il saggio si
propone di ritrovare e analizzare da un lato i tratti che legano le
1 Cfr. Béla Király and András Bozóki, eds.: Lawful Revolution in Hungary, 1989–1994. Highland Lakes, NJ, Atlantic Research & Publishing,
1995); Rudolf L. Tökés, Hungary’s Negotiated Revolution: Economic Reform, Social Change, and Political Succession, 1957-1990. New York, Cambridge University Press, 1996. Gli stenogrammi della tavola rotonda sono
stati pubblicati da András Bozóki et al.: A rendszerváltás forgatókönyve:
Kereksztal-tárgyalások 1989-ben, voll. 1-4. Budapest, Magvető, 1999; voll.
5-8. Budapest, Új Mandátum, 2000). In traduzione inglese Id.: The Roundtable Talks of 1989: The Genesis of Hungarian Democracy (BudapestNew York: CEU Press, 2002)
56
S. BOTTONI
due esperienze (la dipendenza dal sistema sovietico, il ruolo
dell’ex-partito guida, la debolezza dei movimenti di opposizione,
la questione della minoranza ungherese in Transilvania come
fonte di tensione fra i due regimi, le conseguenze sociali del
cambiamento), dall’altro tenta di spostare l’attenzione dall’anno-simbolo, il 1989, all’intero triennio 1988-1990. Come cercherò di argomentare, in Ungheria il momento decisivo della transizione politica ed economica, in cui si fissarono le regole del
cambiamento, avvenne prima dell’annus mirabilis, nel 1988,
mentre in Romania gli sconvolgimenti interni del dicembre
1989 non rappresentarono che l’inizio di una transizione che avrebbe visto drammatici sviluppi politici e culturali nel primo
semestre del 1990. Potremmo quindi concludere affermando
che in Ungheria non vi fu alcun mutamento radicale, solo una
trasformazione controllata, mentre in Romania la rivoluzione
durò esattamente sei mesi, dal 15 dicembre 1989 al 15 giugno
1990, e i suoi motivi di interesse storico risiedono non tanto nella molto studiata prima fase, quella della repressione e dei combattimenti (15-25 dicembre), ma nel ben più sconosciuto secondo momento della rifondazione politica ed economica.
Il contesto internazionale e le strategie sovietiche, 1986-1990
Le profonde trasformazioni
attraversate nel 1989-90
dall’Europa centro-orientale furono ampiamente influenzate
dall’agenda politica delle due superpotenze. Sarebbe tuttavia
errato affermare che Stati Uniti e Unione Sovietica abbiano guidato con mano ferma la trasformazione dei regimi comunisti
verso un assetto gradito a entrambi. Prima di concentrarci sul
caso ungherese e romeno, è utile ricordare che. nel caso della
riunificazione tedesca il repentino collasso della Repubblica
Democratica Tedesca nella primavera-estate del 1990 non solo
non era stato previsto o anticipato a Mosca e Washington, ma
non rientrava nell’agenda politica di nessun grande paese europeo. A rendere possibile un evento considerato fino a pochi mesi
prima un’indesiderabile utopia fu una combinazione di eventi:
la spregiudicata azione
politica del cancelliere tedescooccidentale Helmut Kohl, cui l’amministrazione Bush offrì una
sponda prudente, la debolezza delle nuove autorità di Berlino
Traiettorie del cambiamento
57
est, incapaci di dare dopo il 9 novembre 1989 un senso all’esistenza del “loro” stato, ma soprattutto la decisione strategica di
Gorbaþev, presa nel febbraio 1990, di legare il ritiro sovietico
dalla Germania orientale all’ottenimento di prestiti agevolati in
grado di dare una boccata d’ossigeno alla moribonda economia
sovietica2.
Proprio l’evoluzione dell’approccio gorbacioviano a quella
peculiare fascia di sicurezza che l’Europa orientale costituiva
per l’Unione Sovietica, in quanto suo “impero esterno” 3, si trova
attualmente al centro del dibattito scientifico .4Secondo Andrei
Graþev, vice-responabile del Dipartimento Esteri del Comitato
centrale del PCUS negli anni della perestrojka, consigliere e in
seguito portavoce di Gorbaþev, il “nuovo pensiero politico” gorbacioviano non rappresentava una semplice copertura della ritirata strategica di una delle superpotenze, ma tentava di combinare un’autentica cooperazione con l’Occidente, e in primo luogo con gli Usa, con il progetto di democratizzazione interna
dell’Urss. A partire dal XXVII congresso del PCUS del 1986 e su
raccomandazione di un nutrito gruppo di accademici e analisti
emarginati fino a quel momento dal processo decisionale sovietico, la nuova leadership adottò una politica estera per molti
versi innovativa, nella quale la rinuncia all’approccio di classe
nella lettura dei rapporti internazionali si affiancava a passi
concreti come la ripresa dei negoziati sul disarmo atomico (agevolati anche dalla catastrofe nucleare di ýernobyl’, che scosse
profondamente Gorbaþev), l’avvio del ritiro dall’Afghanistan,
l’attrazione di capitali occidentali e il miglioramento dei rapporti con la Cina5.
2 Mary Elise Sarotte, 1989. The struggle to create post-Cold War Europe. Princeton&Oxford, Princeton University Press, 2009.
3 Sui meccanismi di funzionamento dell’impero esterno sovietico vedi
in dettaglio Fabio Bettanin, Stalin e l’Europa. La formazione dell’impero
esterno sovietico. Roma, Carocci, 2006.
4 Un ruolo centrale al pensiero gorbacioviano viene attribuito come motore dei cambiamenti in Europa orientale da Archie Brown, The Gorbachev
Factor. Oxford, Oxford University Press, 1996. Secondo altri autori,
l’aggravamento della situazione economica e sociale ebbe un peso maggiore
di qualunque strategia politica. Stephen Kotkin, Armageddon averted. The
Soviet collapse 1970-2000. Oxford, Oxford University Press, 2008, capp. 3-4.
5 Andrei Graþev, Gorbachev’s Gamble. Soviet Foreign Policy and the
End of the Cold War, Polity Press, Cambridge, 2008.
58
S. BOTTONI
È interessante notare che fino al 1988 l’Europa orientale
non rientrasse tra le priorità della politica sovietica. Gorbaþev
guardava con indubbia simpatia a paesi riformisti come la Polonia e soprattutto l’Ungheria, ma per oltre tre anni la nuova dirigenza sovietica continuò a ragionare in termini di blocco e di
socialismo. Come sottolineò il diplomatico italiano Maurizio
Massari in un testo apparso nel 1990 , 6e come hanno successivamente confermato le ricerche d’archivio, la rinuncia all’interferenza negli affari interni dei paesi dell’Europa orientale venne
sancita politicamente durante la XIX conferenza del PCUS, nel
giugno-luglio 1988. Tale svolta trovò poi una consacrazione
pubblica nel discorso pronunciato da Gorbaþev il 7 dicembre
1988 all’assemblea generale dell’ONU, nel quale il segretario generale del PCUS affermò il diritto dei paesi membri del blocco
sovietico alla propria sovranità, un’affermazione che implicava
piena facoltà di scegliere il proprio assetto istituzionale e socioeconomico. La rinuncia sovietica all’irreversibilità del progetto
socialista non accompagnò soltanto le “rivoluzioni” del 1989,
ma le rese possibili. Più precisamente, determinò il loro carattere pacifico e mediato. Sebbene l’effetto-domino non fosse stato
previsto nei suoi dettagli, gli avvenimenti est-europei del 1989
non colsero nel loro insieme Mosca di sorpresa. Svetlana Savranskaya, curatrice di un’imponente collezione documentaria
relativa alla fine della Guerra fredda in Europa, osserva tuttavia
che l’ingresso del futuro dell’Europa orientale tra le priorità della politica sovietica non ebbe origine in primo luogo da
un’evoluzione democratica del pensiero gorbacioviano, ma dal
progressivo sfaldamento economico (e in seguito politico, dopo
le elezioni del marzo 1989, caratterizzate da un acceso pluralismo interno garantito dalle pluri-candidature) del fronte interno sovietico. Nel gennaio 1989 l’Urss era scossa da scontri etnici
estesi in Georgia e Armenia/Nagorno-Karabach, dalle pulsioni
indipendentiste nel Baltico, degli scioperi dei minatori del Donbass. Proprio il crollo del fronte interno spinse Gorbaþev e il suo
gruppo dirigente a dare il via libera ai cambiamenti politici che
dall’autunno 1988 si andavano prefigurando in Polonia e Un6 Maurizio Massari, La grande svolta: la riforma politica in Urss
(1986-1990). Napoli, Guida editore, 1990; Andrea Graziosi, L’Urss dal
trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica 1945-1991, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 503-579.
Traiettorie del cambiamento
59
gheria. Il generale Jaruselski e gli eredi ungheresi di János Kádár (il capo del governo Miklós Németh e il popolare Imre Pozsgay) acconsentirono all’avvio di negoziati formali con i movimenti di opposizione nella consapevolezza che l’Unione Sovietica non avrebbe ostacolato il processo di trasformazione interna7. Come ha sottolineato Mark Kramer, il progressivo disgregamento dell’impero esterno contribuì anche all’approfondirsi
della crisi interna dello Stato sovietico. In campo economico, la
reciproca dipendenza derivata da un sistema di scambi commerciali a prezzi fissi e a bassa efficienza economica originava
un sistema dal quale tutte le controparti non ricavavano che
perdite. Da un punto di vista politico ed ideologico, l’Europa orientale aveva un profondo significato per l’Unione Sovietica:
l’abbandono del socialismo da parte dei satelliti europei minò
gravemente le basi di legittimazione della stessa Urss e accelerò
la sua disgregazione8.
L’Ungheria nel cambiamento: eccezione o modello?
L’Ungheria degli anni Ottanta era considerata dalla maggior
parte degli analisti coevi il paese più aperto all’Occidente
dell’intero blocco orientale. L’incoraggiamento al consumo individuale e all’iniziativa privata, tale da favorire la nascita della
cosiddetta “seconda economia”, o economia parallela (magistralmente descritta nel 1982 dal sociologo István Kemény ),9 si
traduceva in una peculiare convivenza tra aderenza formale e
pubblica al regime e pluralismo informale nella sfera privata. Il
ruolo pilota svolto dallo stato danubiano nella trasformazione
dell’economia di piano in un sistema competitivo dominato dalla proprietà privata è quindi fuori discussione. Come ha dimostrato Ervin Csizmadia nella sua importante opera dedicata al
dibattito intellettuale ungherese sull’idea di Occidente negli an7 Svetlana Savranskaya, Thomas Blanton, Vladislav Zubok (eds.), Masterpieces of History. The Peaceful End of the Cold War in Europe, 1989,
Budapest, Central European University Press, 2010.
8 Mark Kramer, The Collapse of East European Communism and the
Repercussions within the Soviet Union (Part 1), “Journal of Cold War Studies”, Vol. 5, No. 4 (Fall 2003), pp. 178–256.
9 István Kemény, The Unregistered Economy in Hungary, “Soviet Studies”, Vol. 34, No. 3 (Jul. 1982), pp. 349-366.
60
S. BOTTONI
ni Settanta e Ottanta, l’orientamento dichiaratamente filooccidentale di gran parte delle élite non era un puro segnale di
opportunismo ma rappresentava lo sbocco naturale di un dibattito ventennale condotto pubblicamente su riviste liberamente
accessibili. Il tema dominante delle discussioni, appena lievemente intessuto di fraseologia marxista, era l’idea che l’Occidente non fosse solo un punto di riferimento democratico e per i
diritti umani, ma soprattutto un baluardo di libertà economica e
una prospettiva di integrazione super-nazionale, l’unica che offrisse all’Ungheria uno spiraglio dopo il fallimento economico
del sistema statalista di tipo sovietico. Questo costituì un primo
punto di contatto fra gli appartenenti a diversi gruppi di élite (i
tecnici del partito, gli esperti di politica estera, gli economisti e i
militanti dell’opposizione democratica). Il punto di svolta nella
presa di coscienza occidentale giunse nel giugno 1987, con la
pubblicazione del saggio intitolato “Társadalmi Szerződés”
(Contratto sociale), cui contribuirono economisti di estrazione
marxista e liberale generando le premesse di un nuovo patto di
modernizzazione. La crisi del sistema socialista sarebbe stata
superata agganciando il paese alla globalizzazione e all’interdipendenza economica, liberalizzandone rapidamente la struttura
10
economica ma senza aderire ad alcuna terapia shock . Non
a
caso, come afferma il politologo Rudolph L. Tőkés, fu proprio il
crollo di un consolidato compromesso sociale e psicologico (si
veda il persistente tabù relativo alla rivoluzione del 1956 ) a 11
mandare in crisi l’intero sistema kádáriano. Per il blocco sociale
che si era formato sulle élite politiche, economiche e culturali,
sostenute da una classe media di formazione tecnico-scientifica,
l’esplosione politica e sociale che aveva scosso il paese nel 1956
restava a trent’anni di distanza uno spettro il cui paventato ripetersi andava evitato ad ogni costo. Il compromesso kádáriano
con la società, che barattava una certa sicurezza economica con
strategie di adattamento individuale al regime socialista e con la
perdita di centralità della moralità pubblica, giunse ad esaurimento quando furono le stesse élite che ne avevano beneficiato
10 Ervin Csizmadia, Diskurzus és diktatúra. A magyar értelmiség vitái
Nyugat-Európáról a késő Kádár-rendszerben. Budapest, Századvég, 2001,
p. 78
11 Su questo mi permetto di rimandare al mio contributo intitolato
Damnatio memoriae? La rivoluzione del 1956 nel discorso pubblico ungherese, “Rivista di Studi Ungheresi”, n. 6/2007, pp. 69-81.
Traiettorie del cambiamento
61
a decretarne rumorosamente la fine 12
. Il successo di questa élite
di partito nel gestire il cambiamento economico e politico accomuna – pur nella differenza delle traiettorie storiche – il caso
ungherese a quello polacco e bulgaro, e differenzia in modo fondamentale questi casi da quello tedesco-orientale, cecoslovacco
e soprattutto romeno, in cui le vecchie élite non vollero e non
seppero crearsi alcuna “uscita di sicurezza” nel post-comunismo.
Il radicamento delle capacità di adattamento delle élite politiche
ed economiche post-comuniste, a proprio agio nella nuova realtà pluralistica, era dovuto al fatto che la nomenclatura era ormai
formata non soltanto da tecnocrati, ma da autentici manager
che non solo avevano studiato i meccanismi del mercato, ma li
applicavano quotidianamente anche a costo di scontrarsi con un
ambiente politico ostile.
Ma il successo non può essere spiegabile soltanto attraverso
la volontà di rottura. Perché la transizione ungherese assumesse
da subito i caratteri che le si riconoscono (mediata, gestita
dall’alto, cauta, accentuatamente tecnocratica) erano necessari
tre fattori concomitanti: il contesto internazionale, la forza delle
élite post-comuniste e la parallela debolezza dei gruppi di opposizione cui il potere veniva formalmente ceduto. Al contesto internazionale abbiamo dedicato il paragrafo precedente; analizzando il caso ungherese, lo storico László Borhi evidenzia una
sostanziale convergenza di interessi fra i sovietici e le principali
potenze occidentali. Ancora nel luglio 1989 il vice-responsabile
della sezione esteri del Partito socialista operaio ungherese, Imre Szokai, affermava in un memorandum riservato: “I nostri
partner (occidentali - nda) pensano che per conservare la stabilità europea e lo status quo acquisito negli ultimi decenni non
dovrebbe aver luogo alcun cambio di regime in Ungheria e la
politica ungherese non dovrebbe mettere a rischio la sicurezza
sovietica”13. L’estrema prudenza nei confronti della trasformazione politica dell’Europa orientale era dettata sia dalla volontà
di non indebolire Gorbaþev, quanto dal timore che il precipitare
della situazione potesse generare turbolenze a livello continen-
Tőkés, Hungary’s, cit., pp. 426-427.
László Borhi, A Reluctant and Fearful West. 1989 and Its International Context, “The Hungarian Quaterly”, Spring 2009, p. 64.
12
13
62
S. BOTTONI
tale (conflitti armati, instabilità economica, ondate migratorie
di profughi o rifugiati14).
Quanto all’evoluzione dei rapporti fra il partito-stato e i movimenti di opposizione, Zoltán Ripp, autore della più dettagliata
monografia sugli aspetti politici della trasformazione ungherese,
rileva una serie di contraddizioni e problemi assai interessanti.
In primo luogo, l’impulso fondamentale alle riforme si deve non
a spinte provenienti dal basso (o dall’esterno), ma all’azione del
governo guidato dall’economista Miklós Németh, in carica dal
24 novembre 1987 all’aprile 1990. In secondo luogo, le riforme
economiche precedettero qualunque vera liberalizzazione politica. L’approvazione della legge sul diritto societario (VI/1988),
una riforma fondamentale che consentiva la creazione di società
miste (detenute dai partner stranieri fino al 100% e non solo fino con quote di minoranza, come dal 1982), e attraverso la vendita di capitale pubblico (la cosiddetta “privatizzazione spontanea”) segnò in pratica il passaggio al sistema capitalista, che
venne sanzionato dal Comitato centrale del Partito comunista
nella seduta del 10 maggio 1988, pochi giorni prima della sostituzione dell’anziano Kádár con il più dinamico Károly Grósz 15. A
conferma del carattere selettivo della liberalizzazione politica in
atto, il Partito comunista e gli apparati di sicurezza gestirono in
modo differente i problemi di ordine pubblico causati dalle
sempre più frequenti dimostrazioni: tollerarono il corteo alternativo del 15 marzo in onore dei moti del 1848 (salvo vessare
numerosi dei diecimila partecipanti nelle ore serali), dispersero
con la forza il 16 giugno gli oppositori che ricordavano il trentennale della condanna a morte di Imre Nagy, mentre il 27 giugno appoggiarono la manifestazione, formalmente organizzata
da organizzazioni indipendenti in favore della minoranza ungherese in Transilvania. Nel frattempo, l’Ungheria ammetteva
di essere diventata il paese più indebitato al mondo (procapite), e il 28 agosto il vertice bilaterale romeno-ungherese
convocato ad Arad per stemperare le gravi tensioni accumulatesi a causa delle politiche discriminatorie del regime romeno si
concludeva con un fallimento personale di Grósz, accusato di
incapacitá diplomatica, e con un ulteriore aggravamento della
Ivi, p. 66.
Zoltán Ripp, Rendszerváltás Magyarországon 1987-1990, Budapest,
Napvilág Kiadó, 2006, p. 134.
14
15
Traiettorie del cambiamento
63
crisi umanitaria in atto. Nell’autunno 1988 emersero contrasti
sostanziali nella leadership comunista ungherese sui limiti della
liberalizzazione: il 29 novembre Grósz, ormai da posizioni di retroguardia, descrisse durante una manifestazione di quadri il
rischio di un nuovo “terrore bianco” e di una nuova controrivoluzione dopo quelle del 1919 e del 1956. Meno di due mesi più
tardi, tuttavia, parlando alla radio di stato il suo rivale Pozsgay
definì il 1956 una “sollevazione popolare”, e il 10-11 febbraio
1989 in una drammatica seduta del Comitato centrale, in cui si
rischiò anche la scissione, i riformatori ottennero una vittoria
decisiva: ogni trasformazione si sarebbe inserita in un quadro
multipartitico, e dell’assetto istituzionale del paese avrebbe deciso una tavola rotonda convocata sul modello polacco. Nonostante la presenza di numerosi movimenti di opposizione (tra i
principali il nazional-conservatore Forum democratico ungherese, costituitosi nell’autunno 1987, e due formazioni di orientamento liberal-democratico, l’Alleanza dei giovani democratici,
creata nel marzo 1988 e l’Alleanza dei democratici liberi, formalmente costituitasi nel novembre 1988), durante il cruciale
1988 la lotta politica non si svolse dunque fra il governo (e partito-stato) e l’opposizione extra-parlamentare, sostenuta dalla
piazza e dal “mondo libero”, ma quasi esclusivamente all’interno della nomenklatura, dove l’ala riformista godeva apertamente dell’appoggio non solo dell’Unione sovietica, ma anche del
blocco occidentale 16. Il credito accordato ai comunisti ungheresi
rivelava sia la sorprendente debolezza dei loro avversari politici,
sia la misura del paradosso ungherese: a lasciare gradualmente
il potere, nel 1989-90, era un regime il cui ex-leader János Kádár veniva rimpianto da quasi tre quarti della popolazione,
compresi molti cittadini che alle elezioni dell’aprile 1990 avrebbero votato per formazioni apertamente anticomuniste17.
Per quanto riguarda gli espetti socio-economici della transizione, l’Ungheria viene descritta come un paese “modello” nella
gestione della transizione socio-economica degli anni Novanta:
l’economia si contrasse di oltre il 25% nel 1990-92 ma non collassò (anche grazie al settore sommerso, che forniva un quota
16 Su questo insistono Csaba Békés, Melinda Kalmár, The political transition in Hungary, 1989-90, ”CWIHP Bullettin”, Issue 12/13, pp. 73-92.
17 Ignác Romsics, Magyarország története a XX. században, Budapest,
Osiris, 1999, p. 468.
64
S. BOTTONI
crescente di PIL), l’inflazione non superò mai il 30% annuo, il
tasso di disoccupazione raggiunse un picco del 13,7% nel febbraio 1993, per ridiscendere sotto il 10% nel 1998 e a un tasso
“fisiologico” del 5-7% nel 2000 e sino al 2009 (oggi la disoccupazione si attesta al 10-11%). L’Ungheria possiede oggi una delle
economie più privatizzate e più aperte del continente, mentre i
settori bancario, energetico e delle telecomunicazioni sono retti
da investitori stranieri in regime di concorrenza18.
La recente crisi ha tuttavia messo a nudo due fondamentali
contraddizioni di lungo periodo insite nel caso ungherese, fortemente consociativo e “consensuale”, di transizione economica.
La prima riguarda i termini del compromesso sociale. Diversamente da numerosi altri nuovi membri dell’Unione Europea, nei
quali il post-comunismo ha segnato anche la fine di un sistema
di protezione sociale, l’Ungheria ha mantenuto dopo il 1989 un
settore assistenziale di dimensioni ipertrofiche (basti pensare
agli oltre tremila comuni sparsi su un paese che conta 10 milioni
di abitanti), costoso, poco efficiente ed assai esposto alla corruzione. L’immobilismo pubblico ha assicurato una notevole pace
sociale negli anni Novanta, ma contribuisce oggi ad approfondire la crisi sociale, in quanto la riforma del sistema previdenziale
si scontra con interessi corporati che tagliano trasversalmente la
classe politica di destra e di sinistra. Anestetizzata da trent’anni
di paternalismo kádáriano, dall’illusione di un passaggio indolore all’economia di mercato e soprattutto da un’autentica “ideologia del consumo”, la popolazione appare mentalmente impreparata a sopportare ulteriori sacrifici (in questo possiamo cogliere una differenza fondamentale con il caso romeno, dove a
partire dagli anni Ottanta lo stato pretende dai cittadini un grado di rinunce impensabile in qualunque altro contesto europeo).
La seconda contraddizione, assai meno studiata ma di impatto
ormai dirompente, riguarda i confini etnici del compromesso
sociale. Nel solo biennio 1989-90 circa 1,5 milioni di occupati
sono spariti dal mercato del lavoro, ma appena cinqueseicentomila sono stati riassorbiti nei quindici anni successivi.
18 Cfr. l’analisi comparativa condotta da Ivan T. Berend, From the Soviet Bloc to the European Union: The Economic and Social Transformation of Central and Eastern Europe since 1973, Cambridge, Cambridge
University Press, 2009. Più critico nei confronti delle prestazioni economiche ungheresi del periodo post-1989 è l’economista László Csaba, The New
Political Economy of Emerging Europe, Budapest, Akadémiai Kiadó, 2005.
Traiettorie del cambiamento
65
Per ragioni economico-professionali, prima ancora che per discriminazione etnica, la minoranza rom – oltre seicentomila
persone cui il regime kádáriano assicurava, anzi imponeva un
posto di lavoro e un salario garantito – è stata la principale vittima della ristrutturazione sociale dei primi anni Novanta 19. Difficoltà economiche, barriere culturali e frustrazione sociale si
fondono in un problema di integrazione e sicurezza collettiva,
finora affrontato sotto l’esclusiva ottica del rispetto dei diritti
umani.
Da questo breve ragionamento sulle dinamiche e le conseguenze di lungo periodo dell’89 ungherese emergono diversi elementi utili per un confronto con il caso romeno. L’Ungheria
non rappresentò un’eccezione virtuosa nel quadro delle trasformazioni del 1989, bensì un modello di gestione consensuale
di una crisi politica. Il regime nella seconda metà degli anni Ottanta si era progressivamente trasformato – per dirla con Csizmadia – in una “dittatura discorsiva”, non priva di tratti autoritari ma certamente post-totalitaria nella gestione dell’ordine
pubblico e del dissenso 20. Le forze dell’ordine, i servizi segreti e
l’esercito non solo non frapposero alcun ostacolo alla trasforma21
zione, ma vi contribuirono in maniera discreta e decisiva . La
moderazione e il buon senso che emergono dalle scelte qualificanti compiute nel biennio 1988-89 tradiscono la consapevolezza che nessuno dei protagonisti fosse interessato a una radicalizzazione del conflitto. Il “lungo” 1989 ungherese si conformò
pienamente alle aspettative internazionali, sia per quanto riguarda la progressiva liberalizzazione politica ed economica, sia
per quanto riguarda l’assunzione di responsabilità internazionali del paese, ad esempio l’accoglimento di decine di migliaia di
rifugiati in transito dalla Romania, dalla Germania orientale e
dalla Cecoslovacchia. Proprio nella capacità di adattarsi con rapidità ai mutamenti della politica internazionale possiamo ravvisare una delle principali differenze con il caso romeno.
19 Un’introduzione alla storia della comunità rom nell’Ungheria del
‘900 in Csaba Dupcsi, A magyarországi cigányság története. Történelem a
cigánykutatás tükrében, 1890-2008, Budapest, Osiris, 2009.
20 Csizmadia, Diskurzus és diktatúra, cit., p. 16.
21 Sul ruolo dei servizi di sicurezza ungheresi durante la transizione si
veda l’eccellente analisi di Rolf Müller, Tibor Takács, Szigorúan titkos ‘89.
A magyar állambiztonsági szervek munkabeszámolói, Budapest, L’Harmattan, 2010.
66
S. BOTTONI
L’‘89 romeno: le premesse
Mentre in Ungheria il cambiamento politico venne se non
promosso, quantomeno canalizzato e accettato come inevitabile
dal partito-stato, nel caso romeno il potere comunista cadde vittima nel dicembre 1989 del proprio ottuso rifiuto di riconoscere
il carattere ineludibile della svolta. La situazione del paese infatti, sino all’autunno 1989, non sembrava contenere le premesse
del sovvertimento della dittatura di Nicolae Ceauşescu. Nonostante un decennio di privazioni durissime, dal razionamento
dei generi alimentari di prima necessità all’oscuramento della
televisione motivato con il risparmio energetico, il regime comunista romeno non subì alcuna significativa erosione interna,
grazie innanzitutto al ruolo abnorme assunto nel funzionamento quotidiano della dittatura dai servizi di sicurezza. Uno degli
elementi di originalità nel regime di Ceauşescu risiedeva proprio nella multifunzionalità e differenziazione degli apparati di
sicurezza. Branche dello stesso apparato, dotato complessivamente di oltre 40 mila ufficiali di professione ,22gestivano complesse operazioni economico-finanziarie internazionali 23
, condizionavano gli indirizzi ideologici del regime e utilizzavano le più
moderne forme di “psicologia operativa” nel loro lavoro quotidiano con gli informatori (nel dicembre 1989 quelli “attivi” erano 150 mila, mentre il numero delle persone in vita registrate
negli schedari come ex-appartenenti alla rete di informatori
sfiorava quota 500 mila in un paese di 23 milioni di abitanti ).24
Al tempo stesso, un apparato in grado di utilizzare risorse sofisticate e di gestire in modo altamente differenziato i propri contatti con i vari segmenti della società non cessò mai di praticare
su vasta scala forme di coercizione fisica ormai abbandonate nel
resto del blocco sovietico. Il regime di Ceauşescu era al tempo
Marius Oprea, Moştenitorii Securitţii, Bucureşti, Humanitas, p. 48.
Un’indagine del quotidiano “România Liber” rivelò nel settembre
1994 che oltre il 70% dei 1.549 titolari di imprese e società dal valore superiore al miliardo di lei avevano iniziato la propria carriera negli apparati di
sicurezza. Peter Siani-Davies, The Romanian revolution of December 1989,
Itacha&London, Cornell University Press, 2005, p. 40.
24 Cfr. Florica Dobre (coord.), Securitatea. Structuri, cadre, obiective şi
metode 1948-1989, 2 voll, Bucureşti, Editura Enciclopedic, 2006; S. B.
Moldovan-C.Anisescu-M. Matiu, “Partiturile” Securitţii - Directive, ordine, instrucţiunii (1947-1987), Bucureşti, Editura Nemira, 2007.
22
23
Traiettorie del cambiamento
67
stesso estremamente brutale e largamente accettato, in quanto
dispensava a una popolazione in gran parte di origini contadine,
abituata a ogni sorta di privazione fisica, una vasta gamma di
servizi essenziali: casa, lavoro, assistenza sanitaria, spazi di ricreazione. Inoltre il terrore poliziesco e il livellamento sociale
forzato lasciavano spazi crescenti alla corruzione. I generi razionati come la carne e i dolciumi, o i prodotti di importazione
occidentale ufficialmente introvabili diventavano accessibili attraverso un sistema di favoritismi diffuso a ogni livello della società.
Proprio gli anni Ottanta dimostravano che il regime comunista romeno, nella sua variante nazionalista e autarchica, poggiasse su basi più solide di quanto immaginato dai suoi critici .25
Inoltre, come è stato osservato soprattutto da analisti economici
e politici come Klaus Schröder ,26Anneli-Ute Gabanyi 27 e Jacek
Kalabinski28
, non poche delle responsabilità per il disastro economico e sociale addossate dopo la sua caduta al regime di Ceauşescu e personalmente al dittatore dovrebbero venire dirottate sui partner commerciali e sugli organismi internazionali, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, dei
quali la Romania era entrata a far parte, come primo stato del
Comecon, nel dicembre 1972, e che garantirono per un decennio
al paese l’erogazione di crediti agevolati. Nella sua monografia
sui rapporti tra stati socialisti e gli organismi finanziari, Marie
Lavigne descrive come nel settembre 1981 la Romania avesse
chiesto in via informale di rimodulare il pagamento del proprio
25 Sulle premesse di una tale legittimità popolare mi permetto di rinviare a due miei scritti: Transilvania rossa. Il comunismo romeno e la questione nazionale (1944-1965), Roma, Carocci, 2007, pp. 171-232; Reassessing the Communist takeover in Romania: violence, institutional continuity, and ethnic conflict management, “East European Politics and Societies”, no. 1/2010, pp. 59-89.
26 Klaus Schröder, The IMF and the countries of the Council for Mutual
Economic Assistance, “Intereconomics”, Vol. 17, no. 2, March, 1982, pp.
87-90.
27 Anneli-Ute Gabanyi, Ceauşescu Admits Economic Failures, Eschews
Responsibility, “Radio Free Europe Research” [Munich], no. 44, November
6, 1987, pp. 3-8.
28 Jacek Kalabinski, How World Bank bailouts help East European regimes. Discorso alla Heritage Foundation, 28 luglio 1988 http://www.policyarchive.org/handle/10207/bitstreams/12626.pdf. Sito consultato il 26
giugno 2010.
68
S. BOTTONI
debito. Il FMI concesse al paese un credito di 1,265 miliardi dollari in tre anni, ma pretese un programma di stabilizzazione che
comprendeva tagli agli investimenti e ai consumi, la svalutazione della moneta e una riforma del sistema di prezzi. Nel novembre
1981, mentre altri paesi del blocco orientale (Polonia, la stessa
Ungheria) entravano in grave crisi economico-finanziaria, il
Fondo monetario sospese l’erogazione del finanziamento perché
il governo romeno si rifiutava di applicare la ricetta. L’erogazione dei fondi venne ripresa soltanto nel giugno 1982, quando
il governo di Bucarest si impegnò ad applicare un duro programma di restrizioni e a fornire ai funzionari del Fondo informazioni dettagliate sulle condizioni finanziarie del paese29.
Come osserva Kalabinski, la Banca mondiale finanziò invece
con oltre 200 milioni di dollari, durante il piano quinquennale
1981-85, un programma di modernizzazione agricola cui si sarebbe organicamente legata la distruzione dei micro-villaggi annunciata nel 1988. I finanziamenti per l’attuazione di piani di
sviluppo ritenuti già all’epoca antiquati e irrazionalmente inquinanti vennero interamente riservati alle fattorie statali, tagliando fuori il piccolo settore privato. Solo nel 1987 il governo
romeno, dopo aver completato la sua collaborazione in campo
agricolo e dopo aver ripagato 12 miliardi di dollari di debito sovrano accumulato in quasi vent’anni, annunciò il proprio ritiro
dagli organismi economici globali.
Al disinteresse internazionale (o meglio, al diffuso interesse
per la stabilità del regime comunista romeno) si univa nel corso
degli anni Ottanta la totale assenza di un’opposizione strutturata anche solo in reti informali (l’unico samizdat apparso in Romania venne redatto nel 1981-82 in lingua ungherese 30). Mancava, soprattutto, una corrente riformista e liberale all’interno
del partito. Gli scontenti del culto della personalità di Ceauşescu
ragionavano non in termini di battaglia politica per un’evoluzione “normalizzatrice” del regime, bensì all’interno delle tradizionali coordinate di una congiura di palazzo tesa a sovvertire
l’ordine esistente (la defezione del vice-capo della Securitate, il
generale Ion Mihai Pacepa nel 1978, il tentato putsch militare
29 Marie Lavigne, International political economy and socialism, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, pp. 344-345
30 Károly Antal Tóth (a cura di,), Ellenpontok 1982, Miercurea Ciuc,
Pro-Print, 2000.
Traiettorie del cambiamento
69
contro Ceauşescu del 1984 in occasione di un suo viaggio in
Germania occidentale, l’attività politica di Silviu Brucan negli
anni 1987-89). L’assenza di coordinamento, fiducia reciproca e
influenza sui mezzi di comunicazione determinò il fallimento
della rivolta operaia di Braşov nel novembre 1987, così come
l’assoluta mancanza di eco sul piano interno della “Lettera dei
sei”, una dura critica alla politica interna firmata da ex leader
del partito diffusa dalla BBC nel marzo 1989.
Ai fini di comprendere i meccanismi della transizione romena e la convulsa dinamica degli eventi rivoluzionari del dicembre 1989 è più opportuno concentrarsi su un altro aspetto:
l’involuzione dei rapporti internazionali, alla cui dinamicità il
regime comunista romeno aveva attribuito un’importanza cruciale sin dall’inizio degli anni Sessanta. La Romania manifestava
infatti interesse per le esperienze in vario modo “eterodosse”
(Jugoslavia, Cina, Corea del Nord) e si ritagliava corposi spazi di
autonomia nel blocco sovietico, senza però mai tentare seriamente di scardinarlo 31
. A partire dalla metà degli anni Ottanta
un numero crescente di ex alleati e simpatizzanti iniziò ad allentare i suoi legami con il regime romeno e apparvero i primi gesti
clamorosi: nel maggio 1985 l’ambasciatore statunitense David
Funderburk rimise il proprio mandato e lasciò il paese in segno
pubblico di protesta contro la violazione dei diritti umani; due
anni più tardi, l’unica visita di Gorbaþev in Romania venne accolta con diffidenza e ostilità non solo dal regime, ma anche dalla popolazione, sul cui spirito pubblico l’antisovietismo del regime influiva in modo ancora significativo.
Dal 1988 il regime comunista romeno si posizionò in una
sorta di auto-isolamento. Il 28 febbraio 1988 Ceauşescu annunciò la rinuncia di Bucarest alla clausola di nazione più favorita
nell’interscambio con gli Stati Uniti, dopo che il governo americano aveva annunciato la cancellazione del paese dalla lista dei
beneficiari. Nel giugno 1988 il regime romeno dispose la chiusura immediata di un consolato ungherese (dunque di un altro
membro del Patto di Varsavia) e l’immediata espulsione dei diplomatici presenti in segno di rappresaglia per la manifestazione di Budapest in difesa dei diritti della minoranza transilvana
ungherese. Nell’aprile 1989 l’ambasciatore tedesco-occidentale
31 Vladimir Tismneanu, Stalinism for all seasons. A political history of
Romanian Communism, Princeton, University of California Press, 2003.
70
S. BOTTONI
a Bucarest venne richiamato a tempo indeterminato per consultazioni, una misura diplomatica piuttosto grave che venne presto seguita da numerosi altri paesi occidentali. Al momento dello scoppio dei primi tumulti di Timişoara, il 15-16 dicembre
1989, la Romania viveva in una condizione di straniamento spazio-temporale. Dopo il crollo del muro di Berlino, ma soprattutto dopo la rivoluzione di velluto cecoslovacca e il pacifico passaggio di poteri bulgaro, Ceauşescu e il suo regime erano consapevoli di avere una sola via a disposizione per mantenere il potere in caso di disordini, quella cinese. Il corso degli eventi avrebbe dimostrato che una dittatura ormai in decomposizione,
segnata da profondi conflitti interni, non possedeva le risorse
necessarie per seguire quel modello.
Una rivoluzione mancata?
La duplicità illustrata nel precedente paragrafo (terrore e
servizi sociali; repressione e consenso) contribuisce a spiegare
perché, a distanza di oltre vent’anni, la sequenza rivoluzioneguerra civile-lotta politica del 1989-90 continui a infiammare il
dibattito intellettuale e politico romeno. L’interpretazione “frontista”, promossa da Ion Iliescu e dagli intellettuali ad esso vicini,
che considera la rivoluzione del 1989 un evento legittimo, spontaneo e “limpido” nel suo svolgimento e nei suoi fini politici, è
stata infatti ripetutamente contestata in patria 32 e all’estero 33
.
Per molti la rivoluzione non fu altro che l’ultimo della lunga seria di colpi di stato che ha caratterizzato la storia contemporanea romena, un evento pianificato a lungo che si affiancò a disordini popolari fomentati da potenze esterne 34 (un’interpreta32 Cfr. il volume edito dal direttore dell’Istituto della Rivoluzione Romena, Ioan Scurtu, Revoluţia român din decembrie 1989 în context internaţional, Bucureşti, Editura Enciclopedic-Editura Institutului Revoluţiei Române din Decembrie 1989, 2006.
33 Fra le prime interpretazioni lucidamente critiche si veda Radu Portocal, Autopsie du coup d’État roumain, Paris, Calmann-Lévy, 1990; Anneli
Ute Gabanyi, Die unvollendete Revolution: Rumänien zwischen Diktatur
und Demokratie, Munich, Piper Verlag, 1990; Nestor Ratesh, Romania:
The Entangled Revolution (The Washington Papers), Westport (CO), Praeger Paperback, 1991.
34 Vedi la monumentale opera di Alex Mihai Stoenescu, Istoria loviturolor de Stat din România. Revoluţia din decembrie 1989 – o tragedie
Traiettorie del cambiamento
71
zione simile a quella offerta da Nicolae Ceauşescu nel suo discorso televisivo del 20 dicembre). Altri contrappongono invece
la “purezza” della prima fase (Timişoara 15-20 dicembre) alle
successive manipolazioni, che fecero deragliare gli eventi dal binario della rivoluzione 35
. Le ricostruzioni scientifiche più recenti, ad opera di studiosi romeni e stranieri, tendono ad un maggior equilibrio, nel tentativo di costruire un quadro interpretativo saldo attraverso la “decostruzione” di miti, leggende e opinioni formatesi nel corso degli anni .36Uno storico e analista di
intelligence americano, Richard A. Hall, ha persino dedicato la
propria ricerca di dottorato a raccogliere e classificare tutte le
dicerie, le “false notizie” disseminate spesso ad arte da giornalisti e personaggi pubblici legati agli ex-apparati di sicurezza37.
Il risultato di quest’opera di demitizzazione, come spesso
succede, è che nonostante la mole di nuove informazioni pervenute nessuno oggi appare in grado di offrire una spiegazione coerente dei fatti. Il 1989 romeno resta un enigma non soltanto
per il suo carattere apparentemente improvviso e imprevisto,
ma anche per la rapida sequenza di violenze di massa e vendette
politiche e personali che contraddistinsero la convulsa serie di
eventi che dalle prime manifestazioni di Timişoara (15-17 dicembre 1989) sfociò nel crollo del regime (22 dicembre), nel
processo e infine nella condanna a morte (25 dicembre) inflitta
attraverso l’applicazione della giustizia “rivoluzionaria” (di fatto
româneasc, vol. IV (tom 1-2), Bucureşti, Rao Editura, 2004-2005. Dello
stesso tenore De la regimul comunist la regimul Iliescu. Virgil Mgurenu
in dialog cu Alex Mihai Stoenescu. Bucureşti, Rao Editura, 2008. Si veda
anche il documentario storico di notevole impatto mediatico Checkmate –
Strategy of a Revolution, realizzato nel 2004 da Susanne Brandstätter.
35 Marius Mioc, Revoluţia fr mistere. Începutul revoluţiei române:
cazul László Tőkés. Timişoara, Editura Almanahul Banatului, 2002.
36 Peter Siani-Davies, The Romanian Revolution of December 1989,
Ithaca, Cornell University Press, 2005; Bogdan Murgescu (a cura di), Revoluţia român din decembrie 1989. Istorie şi memorie, Iaşi, Polirom, 2007;
Ruxandra Cesereanu, Decembrie ‘89. Deconstrucţia unei revoluţii, Iaşi,
Polirom, 2009.
37 La ricerca di Hall è raccolta nei seguenti saggi: The Uses of Absurdity: the Staged War Theory and the Romanian Revolution of December
198 , “East European Politics and Societies”, Vol. 13, No. 3 (Fall 1999), pp.
9
501-542;
Theories of Collective Action and Revolution: Evidence from the
Romanian Transition of December 1989,“Europe-Asia Studies”, Vol. 52,
No. 6 (Sept. 2000), pp. 1069-1093.
72
S. BOTTONI
sommaria) a Nicolae Ceauşescu e alla moglie Elena 38
. La rivoluzione romena fu prima di tutto un evento sanguinoso. Tra il 17 e
il 25 dicembre 1989 almeno 1.104 persone, tra civili e militari,
persero la vita per eventi (colpi d’arma da fuoco e da taglio, percosse, linciaggi) collegabili alla rivoluzione: l’85% morì tuttavia
il 22-25 dicembre, nei giorni successivi alla deposizione di Ceauşescu, quando reparti della polizia politica in via di dissolvimento (“terroristi”, secondo la definizione del capo del Fronte di
salvezza nazionale Ion Iliescu) ingaggiarono violenti combattimenti con le unità dell’esercito ormai schierate a difesa della rivoluzione a Bucarest e in altri centri urbani. Gli scontri armati
del dicembre 1989, attribuiti all’azione di non meglio identificati
nemici interni ed esterni, consolidarono il nuovo nucleo di potere intorno al Fronte di salvezza nazionale, che sembrava offrire
l’unico punto di appoggio ad una popolazione che non aveva
partecipato agli eventi e percepiva con angoscia il collasso
dell’apparato statale .39Entro le prime settimane del 1990 il
nuovo organo di governo, privo di qualunque contro-potere istituzionale, emise alcuni decreti legge di particolare importanza:
abolì numerosi provvedimenti «dal carattere illegale e contrari agli interessi del popolo romeno», decretò lo scioglimento del
Departamentul Securitţii Statului, provvide all’arresto e alla
rapida condanna all’ergastolo, pronunciata il 2 febbraio 1990
dal Tribunale militare territoriale di Bucarest, del ministro
dell’Interno Tudor Postelnicu e di diversi alti ufficiali della Securitate, accusati al pari del dittatore defunto di “genocidio” per
le repressioni di Timişoara del 17-20 dicembre, costate la vita a
una settantina di persone. Nel marzo 1990, il “processo di Timişoara” avrebbe portato alla condanna di poche altre decine di
attivisti di partito, ufficiali della Milizia e della Securitate, men38 Siani-Davies, The Romanian, cit., pp. 97-99. Stoenescu sostiene che
gli arresti effettuati nelle settimane successive al 22 dicembre, come quello
del generale Iulian Vlad, dal 1987 a capo del Departamentul Securitţii
Statului, presentassero caratteri di arbitrio in assenza di un quadro giuridico definito (la Costituzione democratica venne approvata soltanto nel
1991). Stoenescu, Istoria loviturilor de stat, cit., p. 387. Sul processo alla
coppia presidenziale cfr. l’analisi di Luca Falciola, Colpirne uno “per salvarne cento. Il processo ai Ceauşescu e le strategie di transizione nella
Romania post-comunista. Contemporanea”, n. 1/2010, pp. 53-78.
39 I problemi interpretativi legati all’eredità politica e alla memoria popolare della rivoluzione sono ben delineati in B. Murgescu (coord.), Revoluţia român din 1989: istorie şi memorie , Iaşi, Polirom 2007.
Traiettorie del cambiamento
73
tre la questione delle responsabilità politiche dell’eccidio non
venne eppure sollevata. Lo scioglimento per decreto dei servizi
di sicurezza, attuato sull’onda emotiva delle violenze di dicembre, costituì dunque un gesto politicamente razionale, mediante
il quale il “nuovo” regime marcava la propria discontinuità dalla
dittatura di Ceauşescu, addebitando ogni responsabilità penale
e politica a un segmento limitato, per quanto simbolicamente
cruciale, dell’apparato statale 40. Negli stessi giorni, la cartoteca
e i dossier degli apparati centrali della polizia politica, insieme
all’archivio storico del Comitato centrale del Partito comunista
romeno, venivano posti sotto il controllo del ministero della Difesa. Nel caso romeno, non fu quindi tanto la distruzione volontaria o accidentale 41 della documentazione compromettente a
impedire negli anni Novanta l’accesso agli archivi, quanto la difficile fruibilità determinata dal loro trasferimento segreto e incontrollato in diverse istituzioni, un processo che favorì la dispersione di unità archivistiche omogenee42.
Le tensioni politiche, sociali ed anche etno-nazionali (soprattutto in Transilvania) che il Fronte aveva tentato di contenere assumendo un ruolo di “partito unico democratico”, contenitore e megafono dell’intera società romena, esplosero in seguito alla decisione presa il 23 gennaio 1990 dal Fronte stesso di
costituirsi in partito politico e partecipare alle imminenti elezioni legislative. Il 29 gennaio e il 18 febbraio due imponenti
manifestazioni organizzate dai partiti storici appena ricostituiti,
liberale e contadino, vennero disturbate dall’intervento di gruppi di minatori giunti dal bacino carbonifero dello Jiu. L’indisturbata attività di una milizia informale a difesa del Fronte,
culminata nella sanguinosa calata dei minatori su Bucarest (mineriada) del 13-15 giugno, portò allo scoperto le fratture latenti
nel nuovo sistema politico. L’ala radicale e anticomunista, guidata dalle associazioni civiche rivoluzionarie, si radunò l’11 mar40 Secondo lo storico Marius Oprea, la ricostituzione degli stessi apparati iniziò il 1° febbraio 1990. Oprea, Moştenirorii Securitţii, Bucureşti,
Humanitas, 2004, p. 101.
41 Un’eccezione è rappresentata dalla documentazione conservata
all’interno delle sedi provinciali della Securitate. Esse vennero prese
d’assalto e in qualche caso date alle fiamme il 22 dicembre 1989. Diversi
cittadini approfittarono dell’occasione per impadronirsi del proprio dossier
o di altri materiali classificati.
42 Una ricostruzione dettagliata in Oprea, Moştenitorii, cit., pp. 124-147.
74
S. BOTTONI
zo a Timişoara. Al termine della manifestazione venne letto un
proclama (“declaraţie”) che sosteneva l’idea del “tradimento”
della rivoluzione e, all’ottavo punto, richiedeva che la legge elettorale prevedesse per tre legislature consecutive il divieto di
candidatura per gli ex-attivisti di partito (con evidente riferimento al leader del Fronte di salvezza nazionale, Ion Iliescu, esponente di spicco del PCR sino ai primi anni Ottanta) e gli ufficiali della polizia politica43.
Affrontare il nodo dell’ex-polizia politica significava mettere
in discussione le radici, che in quella realtà affondavano profondamente, della classe politica e del sistema economico postcomunista. Dopo l’11 marzo 1990 la resa dei conti con il passato subì un congelamento quasi decennale. Come a chiudere
simbolicamente la parentesi postrivoluzionaria, le celebrazioni
della giornata del 15 marzo da parte della comunità ungherese si
svolsero in un clima di pesante rivendicazione nazionale, che
degenerò il 19-20 marzo nei gravi scontri interetnici che esplosero nella città transilvana di Târgu-Mureş. Solo l’intervento
dell’esercito, peraltro tardivo, riuscì a stabilizzare la situazione e
a contenere il bilancio delle vittime di un conflitto che lo stesso
Fronte aveva, se non pianificato, strumentalizzato a fini politici
in vista delle elezioni del 20 maggio44.
Appare oggi evidente che le spedizioni punitive compiute
dai minatori sulla capitale Bucarest, che segnarono nell’interpretazione oggi prevalente la fine della “lunga rivoluzione” iniziata nel dicembre 1989, pur riflettendo la situazione caotica del
paese, rientravano in una una strategia che puntava ad attrarre
verso le forze del cambiamento “impercettibile” quella maggioranza di cittadini che la penuria e la violenza verbale e fisica di
quei mesi rendevano istintivamente nostalgici dell’ordine ceauşesciano. Comprensibile diventa quindi lo scenario cospirazionista, evocato da coloro che prima ancora degli osservatori occidentali avevano spogliato gli avvenimenti del dicembre 1989 e
dei mesi successivi della loro aura rivoluzionaria, inserendoli
nella più opaca categoria del colpo di stato e della “privatizza43 M. Burcea-M. Bumbeş, Lustrabilii, in “Anuarul Institutului de Investigare a Crimelor Comunismului în România”, Vol. 1. Iaşi, Polirom, 2006,
pp. 256-257.
44 La tesi della provocazione è autorevolmente sostenuta da Gabriel Andreescu, 15 ani de la înfruntrile din Târgu-Mureş, “Ziua”, 24 martie
2005, e da Marius Oprea, Moştenitorii, cit., p. 106.
Traiettorie del cambiamento
75
zione del regime comunista” .45Le migliaia di quadri operativi
della Securitate operanti sul territorio nazionale, con la loro fitta
trama di rapporti sociali intessuti a ogni livello e l’esclusiva conoscenza delle condizioni economiche del paese, costituivano
l’unico reale puntello a disposizione del nuovo regime . Il4624
marzo 1990, invece di rinnovare il decreto in scadenza che aveva sancito lo scioglimento della Securitate, il governo decise di
istituire un Serviciul Român de Informaţii, operante sul piano
interno e dotato degli stessi attributi, funzioni e almeno per tutti
gli anni Novanta anche del personale ereditato dalla Securitate.
Il superamento del regime comunista si verificò attraverso il
massimo di continuità politica e sociale con le vecchie strutture
di potere, in grado di determinare le dimissioni del governo
guidato da Petre Roman, travolto nel settembre 1991 dalla quarta mineriada. Ancora prima dalle elezioni del maggio 1992 che,
vinte a grande maggioranza dal Fronte, portarono alla formazione del governo guidato dall’ex-comunista Nicolae Vcroiu,
non trovò alcuno spazio la richiesta di avviare un’istruttoria nei
confronti dell’ex regime comunista avanzata dai gruppi di opposizione confluiti nei “partiti storici”, liberale e contadino47.
45 Uno dei più stimati analisti della Romania contemporanea, riprendendo l’accusa di “privatizzazione del regime”avanzata dall’opposizione
liberale negli anni Novanta, descrive in un libro assai documentato la parabola del primo quindicennio democratico nei termini di un “ladrocinio istituzionalizzato”, compiuto ai danni di un paese economicamente e psicologicamente esausto da élite politiche amorali e rapaci. Tom Gallagher, Theft
of a nation. Romania since Communism, London, Hurst&Co., 2004.
46 In quanto membro del comitato di esperti della Comisia prezidenţial pentru analiz dictaturii comuniste din România, chi scrive ha potuto
visionare negli Archivi nazionali di Bucarest diversi materiali provenienti
dal Comitato Centrale del PCR e relativi alla seconda metà degli anni Ottanta. Da essi emerge una generale sottovalutazione o addirittura mancata conoscenza delle gravissime condizioni socio-economiche del paese, un dato
in netto contrasto con la radiografia esatta e aggiornata delle disfunzioni
dell’apparato produttivo disponibile attraverso le carte del controspionaggio economico accessibili nel fondo Documentar dell’Arhiva Consiliului
pentru Studierea Arhivelor Securitţii.
47 Il 12 dicembre 1991 la Sezione militare della Corte suprema di giustizia assolse i membri del Comitato politico esecutivo del CC del PCR.
76
S. BOTTONI
Per concludere: elementi per un confronto
Nelle traiettorie del cambiamento in Ungheria e Romania
possiamo individuare diversi elementi utili per un confronto
analitico su due esperienze apparentemente così distanti. Un
tratto comune delle due storie è senz’altro costituito dal fondamentale ruolo sovietico e dalla rimarchevole assenza o passività
delle potenze occidentali. Nonostante ogni differenza e rivalità,
l’Ungheria e la Romania appartenevano allo stesso campo di alleanze, facevano riferimento allo stessa potenza nucleare e disponevano alla fine degli anni Ottanta dello stesso (limitato)
spazio di manovra. Sia in Ungheria che in Romania, il ruolo sovietico risultò fondamentale non per come i sovietici agirono,
ma nel modo in cui non intervennero a bloccare i processi di
trasformazione in atto. Dalle ricostruzioni più attendibili di cui
disponiamo sulle reazioni sovietiche alla rivoluzione romena
appare altamente improbabile che la leadership sovietica fosse
attivamente interessata, nel dicembre 1989, al rovesciamento
violento di una dittatura che non minacciava direttamente i suoi
interessi economici e militari 48. Un importante quotidiano romeno ha pubblicato recentemente lo stenogramma del primo
colloquio sostenuto da Ion Iliescu e Petre Roman con l’ambasciatore sovietico a Bucarest, il 27 dicembre 1989. Alla richiesta
romena di aiuto politico e anche militare, il diplomatico rispose
in modo evasivo, lasciando intendere che Mosca considerava la
breve guerra civile un affare interno romeno49.
Un secondo elemento comune nelle due traiettorie del cambiamento può essere individuato nella quasi imbarazzante debolezza dell’opposizione politica. Data l’indubbia diversità nel
grado di repressione interna fra i regimi di Kádár e Ceauşescu,
essa non può essere addebitata unicamente al terrore poliziesco.
Tale coincidenza suggerisce piuttosto la necessità di indagare
più a fondo sulle fonti di legittimità popolare di entrambi i regimi. La loro accettazione passiva da parte della popolazione era
probabilmente più alta di quanto essi stessi credessero, e la loro
48 Mark Kramer, The Collapse of East European Communism and the
Repercussions within the Soviet Union (Part 2), “Journal of Cold War Studies”, Volume 6, No. 4 (Fall 2004), p. 26.
49 Iliescu şi Roman ctre URSS: «Avem nevoie de sprijin !», “Adevrul”, 8 marzo 2010.
Traiettorie del cambiamento
77
immagine popolare è tuttora sorprendentemente positiva. In
Ungheria l’epoca di Kádár è ormai oggetto di un culto non sempre ironico, mentre in Romania le difficoltà economiche del
post-comunismo spingono soprattutto la popolazione rurale e di
estrazione operaia a guardare con malcelata nostalgia allo stato
comunista guidato da un leader indiscusso.
Mentre tuttavia il partito comunista ungherese scelse di accettare il cambiamento e di integrarsi nel nuovo sistema politico, contando sul fatto che la durezza della transizione comunista
avrebbe fatto rimpiangere la sicurezza collettiva garantita dal
kádárismo (il partito socialista conquistò il 54% dei seggi parlamentari alle elezioni del 1994), il PCR di Ceauşescu cadde vittima della propria incapacità di comprendere ciò che anche il
rigido partito bulgaro aveva compreso: la necessità di un cambiamento. A far crollare la dittatura di Ceauşescu non furono
dunque le manifestazioni di Timişoara, ma la mancata comprensione del contesto in cui esse avvenivano. Come sottolinea
Richard A. Hall, nell’ultima settimana di governo Ceauşescu
commise una serie di gravi errori tattico-strategici, per nulla inevitabili o attribuibili a cospirazioni esterne: la gestione
dell’ordine pubblico a Timişoara (sottovalutazione dell’evento il
15-16 dicembre, repressione sproporzionata il 17, ritirata dello
Stato il 19-20), la mancata rinuncia al viaggio in Iran dal 18 al
20 dicembre, e infine i due discorsi tenuti in diretta televisiva la
sera del 20 dicembre e nella mattinata del giorno successivo a
Bucarest. Nel condannare le azioni dei “controrivoluzionari” e
nel tentativo di mobilitare la piazza a suo favore, Ceauşescu riuscì nell’obiettivo opposto: informò dettagliatamente tutta la popolazione romena di ciò che stava avvenendo a Timişoara, e alimentò uno spirito pubblico sempre più ostile al regime50.
L’esito del cambiamento (pacifico e condiviso in Ungheria;
violento e fortemente discusso in Romania) dipende quindi da
una serie di fattori concomitanti: il tipo di regime che si intendeva sostituire, l’atteggiamento dei partiti comunisti di fronte
alla prospettiva della perdita del potere assoluto, le tradizioni
politiche dominanti. In Ungheria il ricordo delle rivoluzioni del
1918-19 e del 1956 conservava (e conserva tuttora) un effetto paralizzante e polarizzante, mentre il 1989 romeno ricalca negli
50
Hall, Theories, cit., pp. 1078-1079.
78
S. BOTTONI
aspetti “tecnici” della presa del potere di Ion Iliescu e del Fsn il
colpo di stato dell’agosto 1944, in cui pezzi di élite guidati dalla
corona complottarono con successo per rovesciare una dittatura
e favorire l’uscita del paese da un vicolo cieco.
VENTI ANNI DOPO: FU VERA
GLORIA?
Guido Franzinetti
Col senno di prima e col senno del poi
Tempo fa, uno studioso di fenomeni rivoluzionari rifletteva:
«L’evento è effettivamente così straordinario come apparve a
suo tempo? Così inaudito, così perturbatore e rinnovatore come
essi lo supposero? Quale fu il vero senso, quale è stato il vero
carattere, quali sono gli effetti permanenti di questa rivoluzione
strana e terribile? Che cosa esattamente ha distrutto? Che cosa
ha creato?
Pare che sia giunto il momento di ricercarlo e di dirlo, che
noi siamo collocati in quel punto preciso dal quale si può meglio
discernere e giudicare questo grande oggetto. Abbastanza distanti dalla Rivoluzione da non sentire che debolmente le passioni che offuscavano la vista di coloro che l’hanno fatta, siamo
abbastanza vicini da poter entrare nello spirito che l’ha provocata e per capirla. Tra poco sarà più difficile farlo, dal momento
che le grandi rivoluzioni che hanno successo fanno scomparire
le cause che le hanno prodotte, e diventano in tal modo incomprensibili in virtù del loro stesso successo»1.
A due decenni di distanza, potrebbe essere anche giunto il
momento di una riflessione storica, e non meramente giornalistica, sugli eventi dell’autunno 1989. All’epoca, molti li definirono una rivoluzione, anzi una “rivoluzione degli intellettuali” . 2
1 A. de Tocqueville, L’Ancien régime et la révolution (Oeuvres complètes, II, i, ed. J P Mayer), Paris, Gallimard, 1952, I, i, p. 80.
2 Timothy Garton Ash rimise in circolazione questa espressione (apparentemente insensibile al fatto che essere era stata coniata da Lewis Namier
in modo sprezzante, non elogiativo, per definire i movimenti del 1848 europeo). Cfr. T. Garton Ash, We The People, Harmondsworth, Penguin, 1990
80
G. FRANZINETTI
Sull’utilizzo della categoria di “rivoluzione” si potrebbe discutere, come pure sull’etichetta della “Caduta del Muro” (inteso come psicodramma della cultura comunista italiana). In prima
battuta, la cultura giornalistica dipinse gli eventi nei seguenti
termini: l’evento che segna la Fine della Guerra Fredda; la Rivoluzione dei Popoli, della Società Civile; Il Popolo Unito ha abbattuto il Muro, segnando l’avvento del Regno della Libertà, il
Trionfo della Pace; la Fine della Storia .3 È sintomatico che nella
Repubblica Federale di Germania si usi piuttosto il più sobrio
termine die Wende, ovvero “la svolta”.
Prevedibilmente, è da tempo in corso una controffensiva,
lanciata dai Nuovi Maestri del giornalismo, che spiegano che nel
1989 «la storia è cambiata, ma in peggio». Sulla base di un
qualche sondaggio isolato, condito con qualche dato qualitativo,
il giudizio trionfalistico dell’epoca è stato adesso rovesciato nel
suo contrario. Questo è d’altronde inevitabile nei casi in cui i
commenti provengono da chi non ha mai conosciuto la realtà
dell’Europa orientale prima della svolta del 1989.
Mezzo secolo fa uno dei maestri della storiografia di sinistra
rilevava che «il problema della storia contemporanea è che la
gente si ricorda dei tempi in cui tutte le opzioni erano ancora
aperte, e trovano difficile adottare l’atteggiamento dello storico
per il quale queste sono state chiuse dal fait accompli». In altre
parole, all’epoca la sinistra storiografica era rigorosamente deterministica. Lo storico definiva i ragionamenti controfattuali
come “giochi di società” . 4Anzi, la predilezione per teorie che
sottolineavano “il ruolo del caso o dell’incidente nella storia” era
[trad. It., Le rovine dell’impero, Milano, Mondadori, 1992]; e L. B. Namier,
The Revolution of the Intellectuals, Oxford: Oxford University Press, 1946
[trad. It., La rivoluzione degli intellettuali e altri saggi, Torino, Einaudi,
1972]..
3 Quest’ultima espressione fu in realtà coniata nel maggio del 1989, mesi prima della “caduta del Muro”, da Francis Fukuyama, che ovviamente
riprendeva una espressione di Hegel, che aveva poco a che vedere con il suo
successivo uso giornalistico. Cfr. Fukuyama, The End of History, in “National Interest”, Summer 1989 (articolo datato maggio 1989); P. Anderson,
The Ends of History, in Id., A Zone of Engagement (London: Verso, 1992),
cap. 13.
4 E. H. Carr, What is History? The George Macauley Trevelyan Lectures delivered in the University of Cambridge, January-March 1961,
London, Macmillan, 1961, rispettivamente p. 92 e p. 91..
Venti anni dopo: fu vera gloria?
81
vista come tipica di gruppi (sociali) o nazioni in declino . 5In altre parole, erano i falliti della storia6.
Prevedibilmente, le parti si sono invertite. La storiografia di
sinistra (perlomeno quella che all’epoca si riconosceva nelle posizioni dello storico determinista) ha adesso riscoperto la controfattualità, per sostenere che la svolta del 1989 fu un (tragico)
incidente e che avrebbe
potuto e dovuto
essere evitato.
Dall’altra parte, la storiografia opposta (che lo storico determinista del 1961 attaccava ferocemente) ha spesso adottato una
sua versione di determinismo, presentando gli eventi del 1989
come la fine inevitabile del comunismo. Va rilevato che gli avversari ideologici di Carr erano all’epoca Isaiah Berlin e Karl
Popper, che nel frattempo sono diventati autori prediletti della
medesima sinistra che li aveva in precedenza emarginati.
Che cosa è successo? Perché?
È bene partire da una definizione sommaria di quel che è avvenuto effettivamente nel 1989. Non c’è stata una “rivoluzione”,
bensì un processo di abdicazione controllato, favorito e spesso
incoraggiato dal centro del sistema imperiale, a Mosca. Come
spesso avviene nella storia e nella vita, le conseguenze di questo
processo andarono ben al di là delle intenzioni degli attori principali, e certamente del centro imperiale stesso. Ciò non toglie
che il processo fu in larga parte incoraggiato da questo centro, e
che proprio per questo fu in gran parte pacifico: gli unici due
episodi di violenza furono in Romania (in circostanze mai chiarite) e in Albania (ove la transizione avvenne solo dopo il 1991) 7.
In entrambi i casi le truppe sovietiche erano assenti. Questo era
perfettamente evidente in base alle fonti già disponibili
all’epoca, senza bisogno di ricorrere a successive rivelazioni daCarr, What is History?, cit., p. 96.
“L’idea che i voti agli esami siano tutti un terno al lotto sarà sempre
popolare tra coloro che ottengono brutti voti” (Carr, What is History?, cit.,
ibidem).
7 Sul caso romeno, cfr. P. Siani-Davies, The Romanian Revolution of
December 1989, Ithaca, Cornell University Press, 2005: e i riferimenti contenuti in C. Castellano e G. Franzinetti, Premessa alla raccolta di contributi
su Memorie, fonti, giustizia dopo la Guerra Fredda, in “Quaderni storici”,
XLIII (2008), ii, pp. 323-335, esp. pp. 332-335.
5
6
82
G. FRANZINETTI
gli archivi (dai quali, sinora, su questo periodo non è emerso
nulla che non fosse già ampiamente noto alla fine del 1989).
La svolta del 1989 può essere, semmai suddivisa in tre distinte fasi: la fase polacco-ungherese, in cui fu attuato un processo di abdicazione totalmente controllato, e avviato da tempo,
già prima dell’elezione di Gorbačev alla guida del partito comunista sovietico; la fase tedesco-orientale, cecoslovacca e bulgara,
in cui avvenne una convergenza tra una spinta dal basso (che
può anche essere considerata “rivoluzionaria”, se proprio si vuole ricorrere a questo aggettivo) e una crisi dall’alto (a Berlino
est, a Sofia e a Praga); e infine una fase romena, la cui natura
rimarrà controversa per i prossimi decenni 8. Il tutto fu suggellato dagli accordi americano-sovietici di Malta (2-3 dicembre
1989, quindi prima degli eventi romeni), importanti non per
quel che fu discusso, ma per quel che non fu discusso e non fu
messo in discussione. In quel momento non era affatto scontato
che non potesse avvenire un rovesciamento della situazione tedesco-orientale come conseguenza di un cambio della guardia a
Mosca9.
Si sarebbe potuto dire all’epoca, e si potrebbe ancora dire
degli eventi del 1989, c’est magnifique, mais ce n’est pas la révolution. Oppure si potrebbe riprendere il ragionamento di Vittorio Foa, che a suo tempo argomentò che le rivoluzioni avvengono solo quando le classi dirigenti sono divise al loro interno 10
.
8 In Bulgaria, come è noto, ebbe luogo un vero e proprio colpo di stato,
attuato da elementi gorbaceviani; a Praga la svolta ebbe luogo dopo gli eventi di Berlino est, e dopo mesi in cui l’insoddisfazione di Mosca nei confronti del governo di Praga era ben nota (il dissidente cecoslovacco Zděnek
Mlynař, esule a Vienna, amico di Gorbačëv fin dagli anni Cinquanta, era
stato a Mosca nel luglio 1989). Cfr. G. Franzinetti, Conto alla rovescia: la
caduta dei regimi comunisti nell’Europa centro-orientale, in “Comunità”,
n. 193-194, marzo 1992, pp. 68-85 (carente per quel che riguarda il versante balcanico); Castellano-Franzinetti, Premessa cit., nn. 26 e 28, p. 334; M.
Gorbachev e Z. Mlynař, Conversations with Gorbachev. On Perestroika,
the Prague Spring, and the Crossroads of Socialism, New York: Columbia
University Press, 2002 [1995]; colloquio telefonico con Ž. Medvedev, luglio
1989.
9 Su questo aspetto sono debitore delle osservazioni di Andrei Gračëv
(colloquio a Bosco Marengo, 9-10 ottobre 2009, in occasione del World Political Forum). Cfr. inoltre dello stesso Gračëv, Gorbačev’s Gamble, Cambridge, Polity Press, 2008.
10 Cfr. V. Foa, La crisi della Resistenza prima della liberazione, in “Il
Ponte”, III (1947), n. 11-12 (ripreso in Foa, Per una storia del movimento
Venti anni dopo: fu vera gloria?
83
In realtà, si potrebbe argomentare che il 1989 segna la fine del
mito della Rivoluzione, suggellando la fine di un dibattito avvenuto negli anni Settanta del XX secolo tra Raymond Aron e Ernest Gellner: Aron sosteneva che il sistema sovietico era irriformabile, mentre Gellner argomentava che semmai la liberalizzazione stava «diventando un fenomeno generico e anzi cruciale, così come era stato la rivoluzione» .11Ovviamente molti protagonisti di quegli anni rimangono ancorati al mito della Rivoluzione; questo porta prevedibilmente al mito della Rivoluzione
Tradita, se non al mito del complotto antirivoluzionario per esautorare la vera, autentica Rivoluzione.
Fu vera gloria?
Al trionfo della Rivoluzione o della svolta del 1989 è seguito,
prevedibilmente, l’anti-mito della catastrofe del liberismo selvaggio che avrebbe devastato l’Europa orientale dopo il 1989-91.
Dinanzi a questo tipo di critica sarebbe facile replicare con il
manzoniano «ai posteri l’ardua sentenza». Sono oramai passati
due decenni, e in ogni caso le transizioni sono finite da tempo,
almeno dal 1997. Non esistono più regimi di transizione; gli assetti politici e sociali negli stati che un tempo si definivano socialisti sono oramai definiti.
Il giudizio storico che può e deve essere dato sugli effetti di
quelle che furono chiamate le transizioni esteuropee comporta
tre livelli di analisi: una definizione di quel che è effettivamente
avvenuto nei diversi paesi esteuropei; una spiegazione di quel
che è avvenuto; e una prospettiva storica su questi processi.
Innanzi tutto, è fuorviante (anche se prevedibile in sede
giornalistica) parlare di “liberismo selvaggio”. Il cosiddetto liberismo thatcheriano fu un fenomeno abbastanza atipico dell’Europa occidentale degli anni Ottanta e Novanta. L’esperimento
thatcheriano fu in gran parte il prodotto di una società europea
operaio [Torino: Einaudi, 1980 ], pp. 13-24). In realtà questa è una reinterpretazione del pensiero di Foa ad opera di Francesco Ciafaloni. Foa stesso
era più cauto nell’esprimere una tesi del genere (colloquio con Vittorio Foa,
Roma 1992 circa).
11 E. A. Gellner, From the Revolution to Liberalization, in “Government
and Opposition”, XI (1976), n. 3, pp. 257-72. Cfr. ulteriori indicazioni in
Franzinetti, Conto alla rovescia cit., p. 70.
84
G. FRANZINETTI
molto particolare (basti pensare al diverso ruolo storico dei sindacati, o al sistema elettorale). Come si dice in Francia, una e12
conomia di mercato non implica una società di mercato . La
liberalizzazione dei mercati finanziari è stato l’unico aspetto in
cui il liberismo ha realmente inciso sull’Europa occidentale a
partire dagli anni Ottanta. Ma anche prendendo in esame gli stati
esteuropei, è difficile vedere dove fu attuata realmente questo “liberismo selvaggio” (per riprendere l’espressione giornalistica).
Chiunque sia vissuto in Europa orientale negli anni Novanta sa
bene quanto fossero differenziate le politiche economiche dei diversi stati. In Polonia vi fu una iniziale tendenza in tal senso nei
primissimi anni (1989-91), ma poi subentrarono ripetute oscillazioni, legate anche ai mutamenti politici. L’Ungheria fu sempre
più cauta sotto questo profilo. Nella Repubblica Cèca, Václav
Klaus (mèmore del suo soggiorno italiano alla fine degli anni Sessanta) seppe coniugare virtuosamente una retorica thatcheriana
con una prassi socialdemocratica. Ma certamente la Slovacchia di
Mečar (come pure l’Ucraina degli anni Novanta) avrebbe difficoltà ad essere presa come un prototipo di liberismo. Forse solo
l’Albania di Sali Berisha potè in qualche modo avvicinarsi al “liberismo selvaggio”, interpretato secondo l’esperienza storica della
regione balcanica. Passando alle repubbliche ex sovietiche, il prototipo delle transizioni “realmente esistenti” fu semmai il caso
dell’Uzbekistan, che difficilmente potrebbe essere accostato al
modello liberista. Con ciò non si vuole sostenere che non vi siano
state catastrofi sociali nelle cosiddette “economie di transizione”, ma solo che tali catastrofi non furono necessariamente legate ad un fantomatico “liberismo selvaggio”,
Ma come si spiegano le trasformazioni avviate con le cosiddette “transizioni”? Chi ama le spiegazioni cospiratorie (alla
Barruel) o anche solo le spiegazioni accidentali dei percorsi storici (che E. H. Carr sbeffeggiava nel 1961) potrà facilmente costruirsi (con un’ora di lavoro su qualche sito internet) una spiegazione cospiratoria sulla pervasività del “Washington consensus”, che tutto spiega nell’ordine del mondo.
Chi invece preferisce un approccio più empirico, in qualche
misura basato sull’osservazione, può avanzare una spiegazione
12 Cfr. G. Franzinetti, intervento alla discussione su The West: Meltdown of Capitalism? (World Political Forum, “Twenty Years After: the
World(s) beyond the Wall”, Bosco Marengo. 9-10 October, 2009).
Venti anni dopo: fu vera gloria?
85
leggermente più articolata (e falsificabile in senso popperiano).
A metà degli anni Ottanta, Aleksander Kwaśniewski, esponente
di primo piano del Partito operaio unificato polacco (POUP), andò a studiare economia all’Università del Maryland. Tornò con
un’ottima padronanza dell’inglese, e certamente con una conoscenza dell’economia capitalistica. Non c’era alcun bisogno, negli anni Novanta, di costringere Kwaśniewski e i suoi compagni
ad accettare il “Washington consensus”: ne facevano già parte.
Lo stesso vale per Leszek Balcerowicz, il futuro ministro nei
primi governi post-1989 in Polonia. In breve, non fu il “Washington consensus” ad essere decisivo, ma piuttosto il “Warsaw consensus”. Come è noto (almeno a quelli che andavano in
Polonia senza paraocchi ideologici) la vera privatizzazione “selvaggia” iniziò in Polonia prima della svolta del 1989, in una Polonia ancora socialista.
Il caso polacco ha molte sue specificità, ma è indicativo di
quel che avvenne all’interno delle diverse classi dirigente degli
stati socialisti, e cioè un mutamento generazionale, di una conversione generalizzata ai principi dell’economia di mercato, e di
una prassi estremamente variegata. Non è necessario ricorrere,
come spesso avviene tra coloro che adesso vedono il 1989 come
una “rivoluzione tradita”, ad una ipotesi di complotto delle classi dirigenti dei paesi socialisti per fingere o manipolare una “rivoluzione” allo scopo di coprire le tracce di una privatizzazione
strisciante (questa sì, davvero selvaggia): l’affrancamento della
nomenklatura. Bastava semplicemente sapere, sapere in anticipo quel che sarebbe avvenuto. Chi guida una macchina sapendo che sta per frenare si mette la cintura di sicurezza e se sopravvive bene; chi non se l’aspetta si fracassa contro il tergicristallo e non ne esce bene. Il mistero delle transizioni sta tutto
qua: tra chi sapeva e chi non sapeva. E chi sapeva? Chi aveva
potuto viaggiare liberamente, imparare le lingue, studiare? In
gran parte, i figli della nomenklatura. E chi non aveva potuto
farlo? La maggior parte della popolazione, e in particolare
l’opposizione più distante dal sistema, quella di destra. Nel
mondo ex socialista, di norma i ricchi erano di sinistra e i poveri
di destra. Certo, è una semplificazione, di tipo giornalistico, per
l’appunto ma questo è il modo in cui le cose sono viste dalla
maggioranza dei cittadini esteuropei. Ed è anche per questo che
una rinascita delle sinistre esteuropee è improbabile per almeno
86
G. FRANZINETTI
una generazione. “Comandano sempre quelli di prima”: questo è
il giudizio frequentemente riscontrato tra il pubblico esteuropeo.
Infine, quale è il giudizio storico che si può dare delle transizioni esteuropee? Vi sono due ordini di problemi. Il primo è di
ordine prettamente scientifico, e cioè la misurazione della effettiva variazione del tenore di vita in seguito alle transizioni. Negli
anni della Guerra fredda vi furono innumerevoli polemiche,
spesso strumentali, sulla comparabilità del tenore di vita negli
stati socialisti e in quelli delle economie di mercato. Ci furono
anche contributi che cercavano di affrontare seriamente (e
quindi scientificamente) il problema 13
. A questi studi potrebbero e dovrebbero tornare coloro che sono realmente interessati a
misurare gli effetti sociali delle trasformazioni degli anni Novanta. Nel caso degli effetti sulla salute, esiste un dibattito avviato negli anni Ottanta e che dura tuttora14.
Detto ciò, esiste un problema insormontabile per questi studi, e cioè la radicale discontinuità dei dati economici e sociali.
La discontinuità è stata troppo drastica per permettere la creazione di una serie continua di dati dal periodo socialista a quello
13 Cfr. a titolo esemplificativo, Z. Landau, Comparative Research on teh
Long-Range economic Growth of Poland (A roposal concernine the selection of states for comparison), in “Acta Poloniae Historica”, 1974, n. 29, pp.
111-36; E. Ehrlich, Contest between Countries: 1937-1986, in Soviet Studies”, 1990, vol. 43, n. 5, pp. 875-896; E. Ehrlich e G. Révész, Tendenze
economiche dell’Est Europa, in P. Anderson et al. (a cura di), Storia
d’Europa, Torino: Einaudi, 1993, vol. I (saggio private di una parte dei suoi
dati nell’edizione italiana); P. Marer et al., Historically Planned Economies. A Guide to the Data (Washington D.C.: World Bank, 1992); D. F.
Good e T. Ma, The economic Growth of Central and Eastern Europe in
Comparative Perspective, 1870-1989, in “European Review of Economic
History”, vol. 3, ii, August 1999, pp. 103-37.
14 N. Eberstadt, The Health Crisis in the USSR, in “New York Review of
Books”, 19 February 1981 (e il successivo scambio con A. Szymanski, 5 November, 198; Id., Commentary: ‘Reflections on the Heath Crisis: the
USSR’, in “International Journal of Epidemiology”, 2006, vol. 35, pp. 139497; C. Davis, Commentary: the Health Crisis in the USSR: reflections on
the Nicholas Eberstadt review of Rising Infant Mortality in the USSR in
the 1970s, in “International Journal of Epidemiology”, 2006, vol. 35, n. 6,
pp. 1400-1405; I. Boncz e A. Sebastyén, Letters to the Editor, Economy and
mortality in Eastern and Western Europe between 1945 and 1900: the
largest medical trial of history, in “International Journal of Epidemiology”, 2006, vol. 35, pp. 796-805; A. Szymanski, On the Uses of Disinformation to legitimize the revival of the Cold War: Health Crisis in the USSR, in
“Science & Society”, Winter 1981-1982, pp. 453-74.
Venti anni dopo: fu vera gloria?
87
post-socialista. Questo non significa abbandonare il campo ai
giornalisti improvvisati e ai Nuovi Maestri del giornalismo. Significa però prendere atto delle difficoltà e degli ostacoli che
qualsiasi comparazione storica dei tenori di vita comporta (basti
pensare alle discussioni storiografiche sul mutamento del tenore di vita dopo la Rivoluzione industriale, tuttora in corso). Dire
che (al limite) «solo l’un per cento dei russi ha beneficiato delle
trasformazioni» non vuol dire molto, se non si specifica da chi è
composto questo “un per cento”. Se questo un per cento è composto di “nuovi russi”, fa una grossa differenza, soprattutto per
gli interessati. Se, al contrario, sono tutti figli della vecchia nomenklatura, anche questo fa una grossa differenza. Bisogna decidersi, e per farlo bisogna proprio studiare e capire questi
“nuovi russi” e i loro padri. Più in generale, sarebbe il caso di
differenziare il giudizio sui costi sociali delle transizioni per
classi generazionali, regioni, e genere15.
Cosa è stato il Socialismo?
Nel 1918, in un caffè dinanzi all’università di Vienna, Max
Weber si sedette con i suoi amici Felix Somary e Joseph Schumpeter per discutere della situazione politica. Cosa pensare della
Rivoluzione di Ottobre, e cosa pensare dei bolscevichi? Schumpeter avanzò l’ipotesi che a questo punto il marxismo avrebbe avuto
una vera e propria verifica di laboratorio. Weber rispose:«sarebbe stato riempito di cadaveri, dal momento che erano i
bolscevichi a condurre l’esperimento». «Le sale di anatomia sono tutte uguali» rispose Schumpeter. Il tono della conversazione
si accese e il sociologo della neutralità assiologica rapidamente
uscì, lasciandosi dietro il suo strano equivalente austriaco”16.
15 Cfr. le analisi, per nulla apologetiche, di Bernard Lory: La traversée
du communisme en Bulgarie par quatre classes d’âge, in “Balkanologie”, I
(1997), n. 2, pp. 57-70: e Ouvrir les yeux sur la pauvreté nouvelle, in S. Yérasimos (a cura di), Le retour des Balkans 1991-2001, Paris, Autrement,
2002, pp. 161-73 (entrambi ripresi in Lory, Les Balkans: de la transition
post-ottomane à la transitino post-communistes, Istanbul, Isis, 2005.
16 A. Benanav, Kali’s Prophet [rec. di T. McGraw, Prophet of Innovation. Joseph Schumpeter and Creative Destruction, 2007], in “New Left
Review”, n. 48, November-December 2007, p. 139.
88
G. FRANZINETTI
Non è difficile immaginare quel che Schumpeter avrebbe
pensato dei risultati dell’esperimento. Ma uno storico deve cercare di avanzare una qualche spiegazione storica del fenomeno
che è andato sotto il nome di socialismo o di comunismo. La
forza del socialismo (nelle sue infinite varietà) risiedeva nella
sua abilità di fornire una alternativa credibile al capitalismo realmente esistente in termini di modernità (e non alla politica
della nostalgia, che sembra l’ambito preferito della sinistra radicale). È improbabile che individui nei diversi continenti siano
stati disposti a dedicare le loro energie (e spesso le loro vite) a
un obiettivo definito in termini di vaghe utopie, o ad altre aspettative millenaristiche. (Abbiamo bisogno dell’ABC del comunismo di Bucharin e Preobraženskij [1920] per capire la storia
dell’Urss?) I sostenitori dei diversi progetti socialisti in tutto il
mondo ragionavano in termini di obiettivi semplici e pratici.
Cosa portò al fallimento del socialismo? Prendiamo una
prospettiva ampia, globale per quanto è possibile. Il socialismo
(nelle sue diverse versioni) poteva avere una ampia eco nel periodo che uno storico dell’Asia e dell’Africa ha chiamato il “momento egualitario”: dal 1950 a circa il 1980 . 17Fu ben reale, per
milioni, forse miliardi, di individui. Ma in una propettiva storica
più ampia, fu solo un momento.
Stalin avrebbe detto a Churchill che la collettivizzazione
rappresentò «un formidabile sforzo, più formidabile della battaglia di Stalingrado». Come osserva David Low, alla fine (negli
anni Ottanta del XX secolo) i kulaki avevano vinto. Questo accadde ben prima della cosiddetta “caduta del Muro”. Il “Washington Consensus” emerse all’inizio degli anni Ottanta. In tutto il mondo, e soprattutto nel Terzo mondo, il socialismo cominciò a perdere la sua attrattiva18. I kulaki avevano vinto. È
una epigrafe appropriata per un grande storico determinista,
che forse oggi merita di essere riletto senza il senno del poi.
17 D. A. Low, The Egalitarian Moment. Asia and Africa 1950-1980,
Cambridge, Cambridge University Press, 1996.
18 Cfr. il caso dell’Angola, T. Hodges, Angola from Afro.Stalinism to Petro-Diamond Capitaism, Bloomington, Indiana University Press, 2001, per
il Mozambico, Moçambique [Atlas de Lusofonia, ed. P. Cardoso], Lisboa,
Prefacio, 2005. Cfr. inoltre A. O. Westad, The Global Cold War: Third
World Interventions and the Making of Our Times, Cambridge, Cambridge
University Press, 2005.
QUESTIONI NAZIONALI E NAZIONALISMI DOPO IL 1989
André Liebich
Lo scrittore americano Mark Twain rimase sorpreso leggendo su un giornale della propria morte. Con il senso dell’umorismo che lo caratterizzava scrisse alla redazione: «La notizia della mia morte è molto esagerata ».
Nei paesi dell’est sono cambiate molte cose dal 1989. Ma per
quanto riguarda i nazionalismi, la notizia dell’emergenza del nazionalismo nella scia delle rivoluzioni del 1989 è esagerata. Secondo la tesi sostenuta da questo articolo, il nazionalismo rappresenta una delle linee di continuità tra l’esperienza vissuta nei paesi dell’Europa dell’est nell’epoca comunista e la realtà odierna.
Questo articolo è diviso in tre parti. Innanzitutto, si analizza
il ruolo del nazionalismo nei paesi dell’est nell’epoca comunista.
In seguito vengono brevemente rievocate le rivoluzioni stesse
sostenendo la tesi che una relativa moderazione di queste rivoluzioni e il loro carattere di velluto sono dovuti proprio al quadro nazionalista che limitava queste rivoluzioni. Infine verrà
trattata la questione del nazionalismo postcomunista, cercando
di porre in evidenza i numerosi elementi di continuità, secondo
l’opinione di certi commentatori, tra il comunismo di quell’epoca e il nazionalismo capitalistico odierno.
1. Durante il periodo comunista, nei paesi del blocco si può
osservare una dialettica tra nazionalismo e internazionalismo,
ma è stato il nazionalismo che si è imposto, prima o poi, in maniera decisiva.
I partiti comunisti che presero il potere nell’Europa dell’est
all’indomani della seconda guerra mondiale si presentarono, nei
primi tempi, come dei partiti nazionali o addirittura come dei
90
A. LIEBICH
partiti patriottici. Questo non fu un caso esclusivamente dell’est.
Il Partito comunista francese si dichiarò il partito “dei 75.000
fucilati”. Ovviamente, l’accento non fu messo sui fucilati in qualità
di comunisti, ma sui fucilati in qualità di francesi. All’est la prudenza sociale, che si espresse nella concezione iniziale della “democrazia popolare”, trovò la sua contropartita nazionale nei gesti
ostentati di patriottismo ed addirittura di sciovinismo da parte dei
comunisti recentemente arrivati al potere. I partiti comunisti
dell’est furono i più ardenti sostenitori dell’espulsione delle minoranze nemiche, soprattutto dei tedeschi, ma anche degli ungheresi e addirittura degli italiani. La nuova democrazia doveva
essere etnicamente pura, utilizzando un termine anacronistico.
Dal 1948, durante il passaggio alla stalinizzazione integrale,
l’internazionalismo era la parola d’ordine obbligata. L’internazionalismo significò in questo contesto la sovietizzazione e spesso, anche la russificazione. È proprio in questo periodo che si conobbero le vicende ben descritte da Maurice Duverger in “Gli aranci del lago Balaton” .1 Ma lo stalinismo internazionalista fu di
breve durata. In Polonia cessò con l’avvento al potere di Gomulka
nel 1956. In Ungheria esso finì nel 1956 ma soltanto per qualche
giorno, per poi riprendersi in seguito al fallimento della Rivoluzione e svanire gradualmente durante gli anni Settanta e Ottanta.
Nei paesi balcanici lo stalinismo internazionalista cedette a
quello che si potrebbe chiamare lo stalinismo nazionale. Il caso
della Cecoslovacchia è il più complesso. Con una stalinizzazione
durata quarant’anni, ad eccezione del breve episodio della Primavera di Praga nel 1968, il regime comunista a Praga non cercò di sfruttare pienamente il sentimento nazionale, salvo sotto
la forma di una xenofobia generalizzata ma tiepida. La dualità
nazionale della Cecoslovacchia spiega in parte questa reticenza
a giocare la carta nazionale che gli altri paesi sfruttavano ad oltranza. Anche nella Germania dell’est, che avrebbe potuto essere considerata inadatta alle manifestazioni del nazionalismo, il
regime ha celebrato il personaggio di Martin Lutero – il cinquecentesimo anniversario della nascita è caduto nel 1983 – ovviamente non come riformatore religioso, ma come eroe nazionale.
Il personaggio di Bismarck, come alcune tradizioni militari
prussiane così come il passo dell’oca, entrarono nel repertorio
1
Maurice Duverger, Les Orangers du Lac Balaton, Paris, Seuil, 1980.
Questioni nazionali e nazionalismi dopo il 1989
91
di legittimazione della Germania dell’est. E ancora dall’Albania,
che si era dichiarata il primo stato ateo del mondo, Enver Xoxha
proclamò orgogliosamente che l’unica religione degli albanesi
era quella dell’albanismo2.
2. Cosa succede al nazionalismo quando avvengono i cambiamenti di regime nel 1989 ?
Quando i regimi dell’est cominciano a crollare, i partiti al potere non si accontentano più di appoggiarsi semplicemente sul
nazionalismo, essi invocano i nazionalismi come punto di riconciliazione con le opposizioni emergenti. A questo proposito possiamo citare il Generale Jaruzelski in divisa militare, con la
bandiera e l’inno nazionale in sottofondo, che nel 1981 dichiara
3
la legge marziale nel nome degli interessi della Polonia . Sette
anni dopo, inaugurando le trattative della tavola rotonda che
portarono ad elezioni libere, i delegati del Generale Jaruzelski
annunciarono di voler parlare «jak Polak z Polakiem» ovvero
«come un polacco con un polacco» .4 Anche in Ungheria, la versione magiara della tavola rotonda è un dialogo tra compatrioti5. Il primo ministro Miklòs Nèmeth, schernito durante il secondo funerale di Imre Nagy nel giugno del 1989, si riabilita di
fronte all’opinione pubblica prendendo la decisione, nel nome
degli interessi dell’Ungheria e senza tener conto della solidarietà
socialista, di aprire le frontiere con l’Austria per i tedeschi
dell’est. In Romania è il Fronte di salvezza nazionale che succede a Ceauşescu, lui stesso un dittatore nazionale. In Bulgaria il
2 La fine dell’epoca comunista in Europa dell’est coincise con lo sviluppo di una letteratura occidentale, essenzialmente anglofona, sulle particolarità della situazione dei Paesi dell’est. Vedi, ad esempio, le collezioni seguenti: Nationalism in the USSR & Eastern Europe in the era of Brezhnev
& Kosygin, a cura di George W. Simmonds, Detroit, MI: University of Detroit Press, 1977; Communism in Eastern Europe, a cura di Teresa Rakowska-Harmstone, Bloomington, University of Indiana Press, 1979, 2a edizione, 1984.
3 Il classico racconto della vicenda di Solidarność che finì con la scena
sopra descritta, rimane quello di Timothy Garton Ash, The Polish Revolution 1980-1982, Londres, Jonathan Cape, 1983.
4 Wiktor Osiatyński, The Roundtable Talks in Poland, in The Roundtable Talks and the Breakdown of Communism, a cura di Jon Elster, Chicago,
University of Chicago Press, 1996, pp. 21-68. Anche, Jacqueline Hayden,
The Collapse of Communist Power in Poland, Milton Park, Routledge, 2006.
5 Andràs Sajò, The Roundtable Talks in Hungary, in Elster, op. cit., pp.
69-98.
92
A. LIEBICH
regime di Živkov raggiunse parossismi sciovinistici con l’espulsione dei turchi bulgari; il trasferimento del potere assunse la
forma di un colpo di stato all’interno del partito, che fu accettato
senza sommosse da parte della popolazione poiché il carattere
nazionale del partito non fu messo in dubbio6.
In alcuni paesi, durante le prime elezioni libere del 1989 e
del 1990, le opposizioni cercano di screditare i partiti comunisti
ancora al potere associandoli a Mosca. Vengono ricordati i manifesti elettorali ungheresi: Brežnev e Honecker (si, Honecker)
si scambiano un bacio affettuoso sulla bocca, mentre nella parte
inferiore del manifesto una bella e giovane coppia innamorata si
abbraccia teneramente, con la scritta «tessék választani», «A
voi la scelta» 7. Oppure, un grasso soldato sovietico visto di spalle con la scritta in cirillico «tovarišči» ed il simbolo che generalmente si vede su una porta chiusa di un negozio o di un teatro, sempre in russo, «konec», ovvero «fine» 8. Ma la tattica della diretta associazione tra comunisti e russi ha i suoi limiti. Anzitutto, nell’Europa dell’est si è coscienti, anche se non si tiene
ad ammetterlo, che le rivoluzioni in questi paesi possono aver
luogo unicamente perché Mosca mette in pratica la politica di
non ingerenza e del lasciar fare. Ma soprattutto, già nel 1989, i
partiti comunisti dell’Europa dell’est, compresi i regimi “duri”
come quelli della DDR o della Cecoslovacchia che rifiutano le riforme di Gorbaciov, si sono sufficientemente allontanati dalla
Unione Sovietica da rendere poco credibili le accuse di intrinseca complicità. Sicuramente, in un secondo momento, i partiti di
destra estrapoleranno dal loro arsenale elettorale l’epiteto «servi di Mosca», ma nel 1989 questa accusa è una freccia che non
raggiunge il cuore del dibattito politico.
Le spiegazioni delle cause delle rivoluzioni del 1989 sono
tante. In linea generale ci si divide tra i sostenitori dell’idea della mobilitazione popolare o della nascita della società civile ed i
6 La letteratura sulla caduta dei regimi comunisti è molto ampia. Vedi,
tra gli altri, J. F. Brown, Surge to Freedom: The End of Communist Rule in
Eastern Europe, Durham, Duke University Press, 1992; Jacques Lévesque,
1989, la fin d’un empire: l’URSS et la libération de l’Europe de l’est, Paris,
Presses de Sciences Po, 1995; Gale Stokes, The Walls Came Tumbling
Down: The Collapse of Communism in Eastern Europe, New York, Oxford
University Press, 1993.
7 Vedi manifesto allegato.
8 Vedi manifesto allegato.
Questioni nazionali e nazionalismi dopo il 1989
93
sostenitori dell’idea del suicidio o dell’abbandono volontario del
potere da parte delle élites dirigenti. Non ci si interroga invece
abbastanza sulle cause per cui le rivoluzioni hanno avuto un carattere pacifico, tanto da poter essere chiamate “di velluto”. La
violenza ha avuto luogo soltanto in Romania e anche in Romania essa è stata per un verso spontanea e per l’altro simbolica . 9
L’assenza di un intervento sovietico, o meglio l’impossibilità di
poter contare sull’esercito sovietico, rappresenta certamente un
fattore importante. Ma tutti questi regimi dispongono di risorse
repressive interne che già da sole sono sufficienti a domare il movimento fin dalle prime manifestazioni. Dunque, le forze
dell’ordine non soltanto non sono intervenute in maniera decisiva, ma il fatto notevole è che i dirigenti decaduti non sono scappati dal paese come avrebbero fatto gli sconfitti in altre rivoluzioni.
La chiave interpretativa di questo fenomeno – delle rivoluzioni che risparmiano le loro vittime – è da cercare nel quadro
nazionale comune a tutti i partiti presenti. I comunisti così come gli oppositori si dichiarano tutti patrioti. Questo rappresenta
una specie di garanzia: chiunque sia il vincitore, i perdenti non
saranno trattati come dei traditori, bensì come dei compatrioti
che hanno idee sbagliate o come avversari politici.
Questo argomento viene rafforzato, a contraris, da due casi
che si differenziano dal modello generale del 1989.
Il primo di questi casi è, ovviamente, la Repubblica democratica tedesca 10
. Il nazionalismo della Germania dell’est, l’orgoglio di appartenere al “primo Stato socialista sul suolo tedesco”, si è rivelato incapace di resistere al nazionalismo semplicemente tedesco. Anche in questo caso, il nazionalismo è al centro degli eventi del 1989 ma, nell’escalation dei nazionalismi,
uno perde e l’altro vince. Ironicamente è proprio in Germania,
tra tedeschi, che le purghe della classe politica nell’epoca postcomunista saranno le più radicali. Ed è ancora più ironico che
la severità della repressione in Germania dell’est dopo il comunismo abbia creato un sentimento quasi nazionale all’est. Come
9 Peter Siani-Davies, The Romanian Revolution of December 1989, Ithaca, Cornell University Press, 2005.
10 Sul caso della Germania Est vedi Charles S. Maier, Dissolution: The
Crisis of Communism and the End of East Germany, Princeton, Princeton
University Press 1997 [Trad. it. Il crollo - La crisi del comunismo e la fine
della Germania est, Bologna, il Mulino, 1999].
94
A. LIEBICH
afferma Pierre Hassner, all’epoca della Guerra fredda esisteva
una nazione tedesca, ma con due stati tedeschi. Oggigiorno nello stato tedesco ci sono probabilmente due nazioni tedesche.
Un’altra eccezione al modello del 1989 è rappresentata dal
caso cecoslovacco. All’interno di uno stato binazionale, nessuno
dei due campi presenti può appellarsi in modo credibile al nazionalismo. D’altronde, il potere non può superare la sua identificazione con l’occupazione sovietica del 1968. Se in Cecoslovacchia il Partito comunista e l’opposizione non sono riusciti a coesistere sotto l’insegna del nazionalismo, le divergenze nazionali
all’interno dell’opposizione non tardarono a manifestarsi con i
risultati che sappiamo, ovvero la divisione del paese alla fine del
1992. Attualmente la Repubblica ceca e la Slovacchia sono gli
unici stati dell’Europa centrale che non hanno avuto un presidente di formazione politica postcomunista. La Repubblica ceca
è l’unico paese dell’Europa dell’est che accoglie un partito che si
chiama ancora oggi (ed ha mantenuto lo stesso nome) “comunista”. Il Partito comunista di Boemia e Moravia è il terzo partito
politico del paese11.
3. Le rivoluzioni dell’89 sono considerate “miracolose”. Un
sistema potente, apparentemente indistruttibile, è crollato come
un castello di carte. Ma l’ultimo miracolo dell’89 è il ritorno dei
comunisti appena dopo qualche anno.
In Polonia, l’eroe di Solidarność e il primo presidente polacco liberamente eletto dopo la seconda guerra mondiale, Lech
Walesa, cedette il portafoglio di presidente dopo un solo mandato al candidato della sinistra Aleksander Kwasniewski, un ex
ministro comunista e un vero furbacchione. Il governo polacco
era già passato nelle mani di ex comunisti due anni prima, nel
1993, sulla base del peso della loro rappresentanza in parlamento. Questo accadde in un paese dove nel 1989 i comunisti non
avevano vinto nessun seggio messo liberamente in palio, ad eccezione d’un seggio al senato dove il candidato comunista vinci11 Sul caso cecoslovacco, vedi Miroslav Novák, Une transition démocratique exemplaire? L’émergence d’un système de partis dans les pays tchéques, Prague, Centre français de recherches en sciences sociales, 1997; Frédéric Wehrlé, Le Divorce tchéco-slovaque: vie et mort de la Tchécoslovaquie 1918-1992, Paris, Harmattan 1994; The End of Czechoslovakia, a cura
di Jiri Musil, Budapest, Central European University Press, 1995.
Questioni nazionali e nazionalismi dopo il 1989
95
tore si vantò dei suoi legami con il cardinale primate della Polonia. Kwasniewski otterrà un secondo mandato e rimarrà al potere per dieci anni; per sette di questi, i suoi governi furono di
sinistra, postcomunisti12.
In Ungheria il ritorno del Partito comunista, certamente
rinnovato e con un altro nome, è ancora più veloce. Se il partito
ottiene l’8% dei voti alle prime libere elezioni del 1990, nel 1994
raccolse una maggioranza assoluta del 54% .13L’ultimo ministro
degli Affari esteri dell’Ungheria comunista, Gyula Horn, diviene
primo ministro. Il suo partito rimarrà al potere fino al 2010 con
una sola interruzione di quattro anni.
A grandi linee, se si designasse un quadro degli orientamenti politici in Europa centro-orientale di questi ultimi vent’anni,
al primo posto (o almeno al secondo) troveremmo i partiti ex
comunisti. E sono partiti “normali”, perfettamente integrati nel
sistema, che formano ed entrano nelle coalizioni, perfino con i
14
partiti di estrema destra come nella Slovacchia di oggi . D’altronde, non si tratta unicamente dell’ascendenza di ex partiti
comunisti riformati, ma anche, come abbiamo visto, del ritorno
di personaggi importanti identificabili con il vecchio regime.
Ovviamente non si tratta del ritorno dell’ideologia marxistaleninista, e non è grazie a questa ideologia che gli ex comunisti
vengono eletti. Tutti, quasi senza eccezione, sono ardenti difensori del libero mercato, a favore dell’entrata del loro paese nella
NATO e dell’adesione all’Unione Europea. Dichiarano inoltre, e
senza imbarazzo, di non avere mai creduto al comunismo neanche quando erano ministri di governi comunisti e membri
dell’ufficio politico del partito comunista. Il fatto di ostentare la
loro amnesia selettiva, il loro opportunismo oppure la mancan12 Sulla Polonia, vedi George Sanford, Democratic Government in Poland: Constitutional Politics since 1989, New York, Palgrave Macmillan,
2002. Sulla problematica della “transizione democratica”, nell’Europa postcomunista, vedi Klaus von Beyme, Transition to Democracy in Eastern
Europe, New York, Palgrave Macmillan, 1997; Democratic Consolidation
in Eastern Europe, vol. 1, Institutional Engineering, a cura di Jan Zielonka, Oxford, Oxford University Press, 2001.
13 Ignác Romsics, Hungary in the Twentieth Century, Budapest: Corvina Osiris, 1999, p. 443.
14 Dal luglio 2006, il governo slovacco è formato da una coalizione diretta dai socialdemocratici di Robert Fico, ma che comprende anche il Partito nazionale slovacco e il Partito popolare-Movimento per una Slovacchia
democratica dell’ex primo ministro Vladimir Meciar.
96
A. LIEBICH
za di una ferma convinzione, li libera dalle loro responsabilità.
Ma ciò che soprende è che l’elettorato li elegge una volta dopo
l’altra. Di nuovo, la spiegazione più plausibile sulla quale baso la
mia tesi è che i personaggi politici, così come i loro elettori, sono
convinti, oggi come ieri e nel periodo comunista come all’epoca
presente, che questi dirigenti abbiano sempre agito come patrioti negli interessi della nazione.
Chiaramente questa identificazione tra i dirigenti ex comunisti e le masse è controversa e complessa. Dopo il 1989, i nuovi
partiti di destra nei Paesi dell’est mettono in pratica la “lustrazione”, ovvero l’esame del passato dei candidati alle cariche politiche ed alle alte funzioni dello Stato 15
. L’obiettivo della pratica
della “purificazione” da parte della destra è quello di eliminare
gli ex comunisti e di sottolinearne il radicamento in un passato
screditato. La purificazione sfugge di mano; il caso più recente è
quello di Milan Kundera, accusato di essere stato un collaboratore della polizia segreta all’inizio degli anni Cinquanta 16
. Anche
per Lech Walesa è stato “scoperto” un passato da agente comunista, il che provoca lo scherno generale . 17
Insomma, la lustrazione è un fallimento. Più interessante è la tesi della sociologa
ceca, Jirina Siklova, che parla della «solidarietà dei colpevoli».
Secondo Siklova, tutti (o quasi) hanno collaborato in un modo o
nell’altro con i regimi comunisti dell’epoca. In fin dei conti
l’unica soluzione alternativa alla collaborazione era la prigione,
l’isolamento sociale o l’esilio. Avendo tutti collaborato ed essendosi tutti adattati al nuovo ordine postcomunista, nessuno può
rimproverare ai dirigenti di aver fatto la stessa cosa18.
Per quanto riguarda il nazionalismo vero e proprio, il suo
slancio apparente dopo il 1989 è largamente illusorio. Il più
grande incidente di conflitto etnico è avvenuto a Târgu Mures in
15 Kieran Williams, Aleks Szczerbiak, Brigid Fowler, Explaining Lustration in Eastern Europe: A Post-communist politics approach, SEI [Sussex
European Institute] Working Paper 62, 2003.
16 Jana Prikryl, The Kundera Conundrum: Kundera, Respekt, and Contempt, “The Nation”, 8 giugno 2009.
17 Adam Michnik, The Polish Witch-Hunt, “New York Review of Books”,
28 giugno 2007.
18 Jirina Siklovà, The Solidarity of the Culpable, “Social Research” 58:4
(1991) pp. 765-774.
Questioni nazionali e nazionalismi dopo il 1989
97
Transilvania nel 1990 19 e ha provocato cinque morti. Le tensioni
etniche sono numerose, visibili e addirittura lampanti: gli skinheads in Germania dell’est ed altrove, la nuova guardia ungherese in camicie bianche piuttosto che in camicie nere, (il movimento è stato vietato recentemente, ma forse sta per essere rilegalizzato dato il risultato delle elezioni 2010), oppure Radio
Maryja in Polonia e il suo antisemitismo. Tutte queste manifestazioni non sono in nome di un nazionalismo nuovo, ma di una
società che ammette la libertà d’espressione e che accetta le
conseguenze indesiderate di cui questa libertà è portatrice.
D’altronde, il nazionalismo più violento si manifesta nel disprezzo e nell’ostilità dimostrata apertamente nei confronti dei
Rom. Da questo punto di vista, per ciò che concerne i Rom i Paesi dell’est si trovano in pieno accordo con i paesi dell’Europa
occidentale. L’integrazione delle due Europe si è realizzata se
non altro su questo piano.
Infine, la questione dell’integrazione europea. C’è da chiedersi perché i Paesi dell’est, dopo aver acquisito recentemene la
loro indipendenza, si affretterebbero così tanto a sacrificarne
una parte per sottomettersi alla disciplina di Bruxelles. Possiamo avanzare l’ipotesi che la risposta a questa domanda sta nel
fatto che i Paesi dell’est non intravedevano nessun prezzo da
pagare per questa integrazione, che consideravano come dovuta. L’Unione Europea era una madre nutrice che avrebbe porto
ai suoi figli trascurati il suo seno generoso, dal quale sarebbe
fluito in abbondanza il latte del riconoscimento e dell’aiuto economico. I Paesi dell’est si sentivano offesi dalle condizioni che
erano loro imposte, proprio nell’ambito della regolazione dei
problemi etnici e nazionali20
.
Pensiamo al Piano Balladur, formalmente conosciuto come
il Patto di stabilità in Europa, del 1995, con il quale si pretesero
dei trattati bilaterali tra paesi che non si amavano per niente,
come ad esempio tra l’Ungheria e la Slovacchia o tra l’Ungheria
19 Secondo Tom Gallagher, Theft of a Nation: Romania since Communism, London, Hurst, 2005, pp. 82-89, gli eventi di Târgu Mures furono
provocati artificialmente ai fini della lotta di potere interna.
20 Gwendolyn Sasse, The Politics of EU Conditionality: the norm of minority protection during and beyond EU accession, in International Influence Beyond Conditionality: Postcommunist Europe after EU Enlargement, a cura di Rachel A. Epstein e Ulrich Sedelmeir, London, Routledge,
2009, pp. 47-65.
98
A. LIEBICH
e la Romania .21Oppure, ricordiamo le condizioni di Copenaghen del 1993 secondo le quali il rispetto e la protezione delle
minoranze devono essere il criterio chiave dell’ammissibilità
all’Unione europea 22
. I Paesi dell’est si attennero a queste condizioni con grande fatica. Essi le rispettano in modo selettivo da
quando sono entrati a far parte dell’Unione. Nell’agosto del
2009 al presidente ungherese è stato vietato di entrare sul territorio slovacco dove aveva intenzione di recarsi per inaugurare
una statua di Santo Stefano. È la prima volta che un paese
membro dell’Unione offende in questo modo un altro paese
membro, rifiutando al capo di stato d’un
paese partner
nell’Unione, e per di più un paese vicino, la libertà di movimento che è il diritto di ogni cittadino europeo23.
4. In conclusione, bisogna ricordare che molte cose sono
cambiate in Europa dopo il 1989. Per constatarlo basta viaggiare nei Paesi dell’est o parlare con i giovani che provengono da
essi. I cambiamenti sono avvenuti in due direzioni: se la solidarietà europea d’un tempo voleva dire che gli interessi nazionali
dovevano essere messi da parte per dare priorità agli interessi
europei, oggi solidarietà europea significa l’appoggio a un
membro dell’Unione, più spesso all’est, quando esso si dichiara
minacciato, e di solito sempre dall’est.
All’epoca del comunismo i Paesi dell’est si dicevano “nazionali nella forma, socialisti nel contenuto”. Ma lo erano solo a
metà, come questo intervento ha cercato di dimostrare. Si potrebbe dire che i Paesi dell’est fossero “socialisti nella forma e
nazionali nel contenuto”. Qualunque cosa si pensi del passato,
oggi bisogna riconoscere che questi paesi sono diventati “europei nella forma, ma nazionalisti nel contenuto”.
21 Victor-Yves Ghebali, L’OSCE dans l’Europe post-communiste 1901996: vers une identité paneuropéenne de sécurité, Bruxelles, Bruylant,
1996, p. 95 e passim
22 Gwendolyn Sasse, EU Conditionality and Minority Rights: Translating
the Copenhagen Criterion into Policy, EUI Working Paper No. 2005/16,
European University Institute, Robert Schuman Centre for Advanced Studies, Florence, consultato il 23 aprile 2010 su http://ideas.repec.org/p/
erp/euirsc/p0154.html.
23 Slovak-Hungarian Tensions, “Hungarian Spectrum”, 20 agosto 2009,
consultato il 23 aprile 2010 al http://esbalogh.typepad.com/hungarianspectrum/2009/08/slovakhungarian-tensions.html.
LE NUOVE GENERAZIONI NELL’EPOCA DI
GORBAČEV,
EL’CYN E PUTIN: TRE DIVERSE
FASI
Aleksandr Tarasov
I veri cambiamenti politici nell’Unione sovietica (quelli conosciuti in tutto il mondo con il nome di perestrojka) hanno
avuto inizio nel 1988, mentre nel 1989 hanno assunto un aspetto definitivo e irreversibile (che è giunto a termine con il collasso dell’URSS), come nel resto del blocco orientale. Durante il
ventennio successivo l’URSS (e poi la Russia) ha attraversato tre
grandi fasi storiche: quella della presidenza Gorbačev, quella di
El’cyn ed infine la fase di Putin che di fatto dura fino ad oggi,
dato che il presidente Medvedev non è, senza dubbio, un personaggio politico autonomo. A queste tre fasi corrispondono tre
generazioni assolutamente diverse l’una dall’altra. Ciascuna di
queste generazioni si era formata al termine della fase storica
precedente e non assumeva il suo proprio aspetto socio-culturale
immediatamente; tuttavia la differenza tra le generazioni è evidente. Convenzionalmente si possono chiamare “generazione di
Gorbačev”, “generazione di El’cyn”, “generazione di Putin”.
La generazione di Gorbačev si è formata nel periodo precedente alla perestrojka e si distingueva per il rifiuto assoluto
dell’ideologia ufficiale sovietica, che era completamente discreditata. Questa generazione prendeva di mira in misura ragguardevole il cambiamento della contemporanea realtà sociale, oppure – il che era un fenomeno altrettanto diffuso – ignorava la
realtà sociale ufficialmente riconosciuta, costruendo nello stesso
tempo una propria realtà parallela sotto forma di sviluppo di
subculture giovanili, della musica rock e di fenomeni simili.
Tuttavia, nonostante il rifiuto dell’ideologia ufficiale sovietica,
questa generazione, nel suo atteggiamento più profondo, era più
“sovietica” che non: una delle sue critiche fondamentali nei con-
100
A. TARASOV
fronti del regime era la discordanza tra i principi dichiarati e la
vita reale. In primo luogo i giovani non accettavano la disuguaglianza sociale ed economica. Negli ultimi anni dell’Unione sovietica, nonostante le notizie ufficiali abbiano sempre dichiarato
il contrario, la società si presentava già con una notevole differenziazione sociale, dove la nomenclatura aveva privilegi importanti (anche se risultano ridicoli al giorno d’oggi). E proprio
questi privilegi (in gran parte illegali) suscitavano tra i giovani
indignazione, ancora più forte perché tali privilegi erano associati ad una gerontocrazia. Non è un caso che le più importanti
organizzazioni di opposizione esclusivamente giovanili che si
sono formate in Russia durante la perestrojka si siano rivelate
organizzazioni di sinistra, a partire dalla Federazione dei club
socialisti (FSOK: Federacija socialističeskich obščestvennych
klubov) e finendo con la Confederazione degli anarchicosindacalisti (KAS: Konfederacija anarcho-sindikalistov). Tutte
queste organizzazioni mettevano in dubbio il carattere socialista
della società sovietica, criticata sia da sinistra che da una destra
classicamente socialdemocratica.
La generazione di Gorbačev si era formata in condizioni di
consapevole rifiuto dell’ideologia sovietica e aveva sviluppato
autonomamente, con un processo creativo, le proprie ideologie
(più di una). Invece la generazione di El’cyn si è trovata totalmente esposta all’ondata propagandistica e informativa che si è
infranta sui giovani di questa generazione durante la perestrojka, e che era controllata dalla nomenclatura sovietica dei mass
media. Principalmente questa ondata consisteva nello smascheramento dei crimini dello stalinismo e degli abusi dell’élite sovietica, ma anche nella propaganda religiosa e nell’esaltazione
dell’economia di mercato. La generazione di El’cyn non è apparsa sulla scena sociale subito dopo il collasso dell’URSS, ma a metà e nella seconda parte degli anni Novanta. Dalla generazione
precedente essa si distingueva per “l’idealismo di mercato”, per
l’entusiastica accettazione della disuguaglianza sociale ed economica, considerata come la base dello sviluppo, e per il conseguente interesse verso il neoliberalismo. Per la maggior parte
(chiaramente in ciascuna generazione c’erano delle eccezioni) la
generazione di El’cyn puntava ad ottenere il successo economico
a qualsiasi costo, compreso (e probabilmente anche in primo
luogo) l’uso del crimine. Proprio questa generazione ha alimen-
Le nuove generazioni nell’epoca di Gorbačev, Elìcyn e Putin 101
tato un accesso di massa alle strutture criminali ed ha contribuito alla crescita di un banditismo mai registrato in Russia dai
tempi della guerra civile.
Le illusioni di questa generazione si sono infrante contro la
vita reale. L’economia di mercato non ha per niente garantito
alla generazione di El’cyn la prosperità di massa e una vita da
milionari. Ha raggiunto il benessere solo una esigua parte (meno del 5%) della popolazione, per la maggior parte appartenente
alla ex nomenclatura sovietica e formata da membri delle sue
famiglie. Tra la gente di successo i giovani erano molto pochi, ed
ancora meno erano quelli che si erano “fatti da soli” e che non si
erano trovati tra le file dei “figli di papà” grazie alle loro origini
sociali. Introdotti nel mondo criminale durante la lotta per la
privatizzazione della proprietà statale, questi giovani si sono
sterminati da soli nelle guerre di gangster, o in parte sono finiti
in galera. Perciò la generazione successiva – la generazione di
Putin – la cui configurazione si è definita pienamente verso la
metà degli anni Duemila, ha dimostrato un atteggiamento diverso nei confronti della disuguaglianza sociale ed economica da
quello della generazione di Gorbačev e della generazione di
El’cyn. La maggior parte della generazione di Putin si scandalizzava dei privilegi e del tenore di vita della “nuova élite”, ma al
tempo stesso lo considerava naturale e non provava nemmeno a
mettere in dubbio lo stato delle cose, cercando invece l’occasione per aggregarsi a quelli che si erano trovati “in alto” senza neanche sperare di “farsi da soli”. Se per la generazione di Gorbačev l’ideale dei giovani era rappresentato dai personaggi che esercitavano attività creative, e per la generazione di El’cyn dai
businessmen e dai banditi, per la generazione di Putin l’ideale
erano i funzionari perché proprio loro avevano la possibilità di
arricchirsi velocemente, correndo rischi relativamente bassi
grazie alla onnipresente corruzione.
Alla generazione di Gorbaciov non era congeniale la percezione di un mondo dominato dalla concorrenza personale tra
coetanei. Di fatto, questa concorrenza non esisteva. Le critiche
erano piuttosto rivolte ai gruppi di età maggiore, che erano visti
come un freno allo sviluppo sociale in generale. I coetanei venivano percepiti come rappresentanti di gruppi diversi dal punto
di vista sia politico che ideologico che tuttavia, con uno sforzo
solidale, distruggevano il mostro gerontocratico. Però già la ge-
102
A. TARASOV
nerazione di El’cyn, trovandosi nel mondo reale della concorrenza di mercato e dovendo affrontare (a differenza della generazione precedente) la disoccupazione di massa, ha cominciato
a percepire i vicini, coetanei compresi, come concorrenti, anche
se cercava ancora di superare questa concorrenza tramite
l’unione in piccoli gruppi (formati sulla base di legami di parentela, di amicizia, di etnia oppure di comunità). La generazione di
Putin ha ormai una percezione univoca dei coetanei come concorrenti e conduce, usando le parole di Hobbes, una guerra di
tutti contro tutti. La generazione di Putin costruisce compagnie
di amici in modo tale che all’interno di esse non ci siano concorrenti (anche potenziali). E se solo si intravede una possibilità di
concorrenza, la compagnia si disgrega.
Uno dei fattori importanti per i giovani, in quanto categoria
sociale che non ha ancora compiuto completamente il processo
della socializzazione, è l’istruzione, e più precisamente l’accesso
all’istruzione, la sua qualità e la sua assimilazione da parte dei
giovani. La generazione di Gorbačev ha avuto la fortuna di usufruire dell’istruzione gratuita, basata sui principi di universalità,
mentre la soppressione delle restrizioni ideologiche nel sistema
dell’istruzione è stata accolta da questa generazione con entusiasmo. La generazione di Gorbačev si è trovata in una posizione
vantaggiosa rispetto alle generazioni successive: oggi possiamo
constatare con sicurezza che l’accesso alla istruzione di qualità,
priva di limitazioni ideologiche, ha garantito alla maggior parte
di questa generazione la possibilità di una socializzazione di
successo, di una crescita qualitativa, ed a molti di loro una realizzazione personale. L’ondata più giovane di questa generazione ha visto negli ultimi anni dei suoi percorsi universitari i tentativi del potere di peggiorare radicalmente la qualità dell’istruzione (già nel periodo di El’cyn) e la qualità di vita degli studenti, ma nel complesso è riuscita a respingere con successo questi
tentativi. Tuttavia, già la generazione di El’cyn ha affrontato la
commercializzazione dell’istruzione e, di conseguenza, il suo
accesso limitato per i ceti sociali poveri e meno benestanti
(nell’epoca di El’cyn il loro numero ha superato l’80%). Allo
stesso tempo, a causa della “fuga dei cervelli” in occidente,
dell’invecchiamento dei docenti universitari, della forte riduzione dei finanziamenti nel settore dell’istruzione e del caos nei
programmi scolastici, la qualità dell’istruzione è calata drasti-
Le nuove generazioni nell’epoca di Gorbačev, Elìcyn e Putin 103
camente. Tutto questo ha peggiorato drammaticamente la situazione della generazione di El’cyn nel mercato del lavoro, ma
la maggior parte di essa ha potuto rendersene conto solo
nell’epoca di Putin: l’abbassamento della qualità dell’istruzione,
il rifiuto della sua universalità e l’imposizione di una rigida specializzazione non hanno permesso alla maggior parte degli studenti della generazione di El’cyn di pronosticare con esattezza il
proprio futuro. Una parte notevole di questa generazione, nelle
condizioni di quello che più tardi ha assunto il nome di “capitalismo selvaggio”, ha assolutamente rifiutato l’istruzione universitaria dopo essere giunta alla conclusione (in seguito ad osservazioni empiriche) che ci si poteva arricchire anche senza ricorrere all’istruzione. Una parte di loro ci è anche riuscita, ma la
precarietà e la breve durata di questo successo si sono rivelate
ben presto.
La generazione di Putin, basandosi sulla brutta esperienza
della generazione precedente, apprezza molto l’istruzione – in
misura maggiore rispetto ai tempi sovietici; ma l’istruzione di
per sé è diventata assolutamente diversa. Il sistema d’istruzione
si è diviso in due parti ineguali: in un segmento piccolissimo di
istruzione competitivo e di qualità e in un segmento d’istruzione
qualitativamente molto basso per la maggior parte della popolazione. Si è rivelato un chiaro divario tra l’istruzione (in particolare a livello di specializzazione) precedentemente offerta in
Russia e le reali domande del mercato, molto più semplificate.
Nell’epoca di Putin si è deciso di correggere questo divario grazie all’estrema semplificazione dei programmi universitari e a
una stretta specializzazione orientata alle domande concrete dei
datori di lavoro. La domanda del “grande business” è stata esplicitata dall’oligarca Vladimir Potanin: noi abbiamo tanta gente intelligente, ma ci mancano dei semplici operai. Il ministro
dell’Istruzione russo, Andrej Fursenko, ha dichiarato – durante
il suo intervento nell’estate del 2009 nella colonia estiva appartenente al movimento pro-governativo Naši (“I nostri”) creato
appositamente dal Cremlino – che il difetto del sistema di istruzione sovietica consisteva nell’obiettivo di formare una personalità creativa, mentre il nuovo sistema di istruzione consiste nella
formazione di una massa di esecutori qualificati. Per questo motivo sono stati riesaminati tutti i programmi e i metodi
dell’istruzione e le autorità si sono addirittura decise all’aboli-
104
A. TARASOV
zione degli esami di ammissione e alla loro sostituzione con un
unico esame statale, in altre parole dei test creati con il principio degli “indovinelli”. Questi test andrebbero proposti ad un
livello di scuola secondaria, ma non universitario.
In seguito all’introduzione totale dell’esame unico sono
scoppiati diversi scandali perché è emerso che la maggior parte
degli studenti iscritti all’università, sulla base degli alti voti presi
all’esame unico, conoscevano poco la grammatica russa, non
sapevano scrivere, non leggevano quasi niente, non erano capaci di risolvere problemi matematici di livello scolastico e, addirittura, non erano capaci di formulare le proprie opinioni. Il fatto è che negli ultimi due-tre anni invece di studiare a scuola,
imparavano a compilare correttamente le caselle delle risposte
dei test. La maggior parte dei giovani della generazione di Putin
non è ancora entrata nel mercato del lavoro e ancora non si
rende nemmeno conto delle difficoltà che la aspettano.
In altre parole noi osserviamo diversi processi: il miglioramento della qualità dell’istruzione senza limite di accesso per la
generazione di Gorbačev (anche se l’ultima ondata di questa generazione, che terminava la sua formazione all’epoca di El’cyn,
ha affrontato un processo contrario), il peggioramento dell’istruzione e un forte calo della sua accessibilità per la generazione di El’cyn e la drammatica continuazione di questo processo
per la generazione di Putin, parallelamente all’aumento del prestigio e alla nascita nel sistema dell’istruzione di un segmento
creato apposta per l’autoriproduzione dell’élite sociale.
La generazione di Gorbačev è cresciuta nella tradizione sovietica del rispetto dell’alta cultura, ma anzitutto della cultura
europea. Quando all’epoca di Gorbačev sono state abolite le limitazioni ideologiche, questa generazione ha potuto disporre di
una grande quantità di prodotti culturali, prima poco accessibili
o addirittura vietati. Questo fenomeno non ha avuto un grande
impatto sui gusti estetici e sulle preferenze di quella generazione, che hanno subito solamente una correzione e diversificazione. Al contrario, la generazione di El’cyn si è imbattuta nell’invasione della “cultura di massa” di modello occidentale all’interno dello spazio culturale russo. Nei primi tempi la cultura di
massa occidentale è stata assorbita nel suo aspetto puro, ovvero
sotto forma di prodotti realizzati in Occidente (in Russia è passato del tempo prima che si imparasse a fabbricare prodotti di
Le nuove generazioni nell’epoca di Gorbačev, Elìcyn e Putin 105
questo genere). Questa cultura di massa ha spostato tutta la cultura precedente al margine dello spazio culturale. Invece, ai
tempi di Putin si è disgregato completamente lo spazio culturale
unitario, portando alla formazione di una vera e propria cultura
a mosaico, la cui venuta era già stata prevista negli anni Sessanta dal sociologo francese, studioso dell’informazione e della cultura, Abraham Moles. Ne consegue che oggi diversi gruppi di
giovani non possono trovare una lingua comune di comunicazione culturale. Oggigiorno non esistono autorità culturali così
come non esistono unici stereotipi culturali; diventa così ampiamente plausibile la situazione in cui i giovani che vivono gli
uni accanto agli altri – letteralmente nella stessa casa e allo
stesso piano – possiedono idee opposte sulla cultura: né i nomi
dei protagonisti del mondo culturale né i titoli delle opere gli
permettono di comunicare tra loro.
All’epoca di Gorbačev nel paese aveva luogo una fioritura di
subculture giovanili, che infatti sono diventate una parte importante dello spazio culturale nazionale. Nell’epoca di El’cyn le subculture giovanili sono state cacciate nel ghetto. Il loro numero
è diminuito, e la maggior parte di esse sono immerse nel mondo
delle illusioni, dandosi all’escapismo. Nell’epoca di Putin le subculture giovanili sono diventate oggetto di persecuzioni, spesso
senza nessun valido motivo. Il loro prestigio nell’ambito giovanile è stato minato, o quasi.
Nell’epoca di Gorbačev per i giovani, in generale, era importante la conquista dell’autonomia, dell’indipendenza. È proprio
su questo piano che la generazione di Gorbačev si contrapponeva al precedente sistema sovietico: retrogrado, conservatore, retrivo e tradizionale. Ai tempi di El’cyn è avvenuta semplicemente la demolizione del sistema dei valori. Al primo posto si sono
fatti strada l’individualismo e il successo materiale. Nel momento in cui la generazione di Putin si è resa visibile sulla scena sociale, questo processo è arrivato alla sua logica conclusione: una
atomizzazione totale. Un mio collega della facoltà di storia
dell’Università statale di Mosca “Lomonosov”, che è stato nominato tutor del corso, godeva della fiducia degli studenti, e perciò
ha avuto la possibilità di partecipare ai blog studenteschi e alle
community in internet. Mi ha detto, con delusione, che gli studenti non sono capaci di mettersi d’accordo sull’andare a bere
una birra al venerdì dopo le lezioni, tanto meno di costituire
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comunità culturali e difendere insieme i propri diritti culturali
ed altri. Le comunità studentesche che ha incontrato su internet
l’hanno colpito, citando le sue parole, per la loro schizofrenia.
Erano formate, ad esempio, sul principio di unione di quelli a
cui piacciono le scarpe da ginnastica rosa. Si è scoperto subito
dopo che i partecipanti della comunità non vanno d’accordo su
nulla d’altro. Hanno subito litigato tra loro e la comunità si è disgregata.
Un fattore importante che ha differenziato una generazione
di giovani dall’altra è stata la crescita della xenofobia. Durante
tutta la storia dell’Unione sovietica, dal momento della sua fondazione, sono esistite solo tre generazioni delle quali si può dire
che erano poco o quasi per niente xenofobiche: la generazione
degli anni Venti (che percepiva con entusiasmo l’idea della rivoluzione su scala mondiale), la generazione del “disgelo” e la generazione di Gorbačev. Di quest’ultima si può anche affermare
che sia stata una generazione cosmopolitica. Tuttavia all’epoca
di El’cyn, con l’inizio della guerra in Cecenia, numerosi traumi
psicologici legati al crollo dell’Unione sovietica e ai conflitti etnici sul suo territorio, nonché le ondate di migrazioni di massa
coincise con la crisi economica, hanno provocato una crescita
veloce della xenofobia presso la popolazione in generale. Nelle
condizioni della guerra in Cecenia la crescita di organizzazioni
di estrema destra e addirittura fasciste nell’ambito giovanile è
stata provocata da una parte dal regime, che incoraggiava questa xenofobia e, anzi, la introduceva (così la propaganda identificava i ceceni con i musulmani, ed i musulmani con i terroristi
in generale), dall’altra dalla generazione di El’cyn che, come ho
accennato prima, era caratterizzata da un livello di cultura e istruzione molto più basso e generalmente non aveva un atteggiamento critico verso la propaganda del governo. All’epoca di
Gorbačev le organizzazioni di estrema destra erano costituite da
persone alquanto anziane ed erano orientate sul modello xenofobico pre-rivoluzionario delle “Centurie nere”. Il periodo di
El’cyn ha favorito la crescita di teorie e di movimenti abbastanza moderni – neofascisti e neonazisti. Il fenomeno di massa è
diventato quello dei nazi-skinhead, che si sono resi famosi per la
violenza causata da motivi razziali, nazionali, politici e religiosi,
nonché per l’aggressione ai rappresentanti di altre subculture
giovanili. Il numero di nazi-skinhead in Russia ha raggiunto
Le nuove generazioni nell’epoca di Gorbačev, Elìcyn e Putin 107
all’incirca le 70 mila unità, superando quello di altri paesi del
mondo. Circa due-tre anni fa il numero degli skinhead ha cominciato a calare, ed il tramonto di questa cultura ha avuto inizio. Questo è legato principalmente alla nascita in Russia del fenomeno degli “antifa” (antifascisti), che prima non esisteva nel
paese ma che raggiunge un sempre più alto livello di popolarità.
Dato che l’“antifa” si pone in conflitto rispetto alla subcultura
dei nazi-skinhead, anche se non riesce a eliminare gradualmente quest’ultima, comunque la limita rendendola meno attraente
agli occhi dei giovani. Gli “antifa” formano i gruppi di combattimento della resistenza alla violenza nazista di strada. Questi
gruppi consistono principalmente di redskin, “skinhead rossi”,
che sono da tanto tempo conosciuti in Europa, ma fino ad oggi
non erano presenti in Russia.
La generazione di Putin è stata la prima generazione ad affrontare un fenomeno particolare della nostra società: la paura
dei giovani. Attualmente in Russia esistono moltissimi miti negativi che riguardano i giovani. I giovani fanno paura, nessuno
vuole avere a che fare con loro. Si notano azioni repressive da
parte della polizia, causate da motivi non validi. Se ai tempi di
El’cyn, al momento dell’assunzione al lavoro, essere giovani era
un vantaggio, adesso è tutto il contrario: oggi sarà assunto più
probabilmente il trentenne, e non perché ha più esperienza, ma
perché il ventenne è sospettato di essere un drogato, uno skinhead, oppure qualcos’altro di negativo.
Un alto grado di attività politica distingueva la generazione
di Gorbačev. Come già accennato, l’ultima ondata di quella generazione ha reagito con forza a una “riforma dell’istruzione”,
per essa molto negativa, tramite l’organizzazione di una serie di
manifestazioni studentesche che hanno portato alle dimissioni
del ministro dell’Istruzione. La generazione successiva, orientata al successo individuale, non poteva più opporre resistenza
con lo stesso successo. La generazione di Putin è semplicemente
intimidita, perché oggi qualunque attività politica non autorizzata dal potere – sia quella di estrema destra, che quella liberale, socialista ed anarchica – è sottoposta a un severo controllo e
a una repressione diretta. Questo fenomeno è nato già durante il
periodo di El’cyn, ma si è rivelato chiaramente, consolidandosi,
ai tempi di Putin. Il potere in Russia si è trasformato in una
corporazione chiusa alla società, costruita sul modello della ma-
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A. TARASOV
fia o dei servizi speciali. Per
Parte
la prima
seconda
volta dai tempi di Stalin si
è ricorsi alle provocazioni politiche. Anche se il livello di istruzione tra i giovani è calato, questo non significa che i giovani
siano diventati tutti quanti stupidi.
PAESII giovani vedono queste repressioni, capiscono il loro motivo e hanno paura di dimostrare
una posizione indipendente.
Una breve conclusione. Non voglio nascondere che sono fortemente pessimista. In qualità di persona che studia i movimenti giovanili da più di vent’anni, praticamente non vedo tendenze
positive per i giovani del mio paese. La generazione di Gorbačev
si è rivelata troppo sviluppata, troppo intelligente, troppo dotata
per le condizioni reali del periodo post-sovietico. È entrata in
conflitto con il sistema sovietico perché l’ha superato notevolmente. Questo si è ripercosso sullo sviluppo dell’economia: sono
stati preparati quadri rivelatisi troppo specializzati per l’economia sovietica. In seguito, la maggior parte di loro è partita per
l’Occidente. Sono assolutamente convinto che la nuova classe
dirigente in Russia, che è stata prodotta principalmente dalla
nomenclatura sovietica (chiamo questa classe burocraticoborghese), ha tratto le conclusioni dell’esperienza storica precedente e ha preso le misure per evitare la ripetizione degli eventi
dei 1989-1991. In quel periodo la nomenclatura ha aggiunto la
proprietà al potere, sacrificando quella sua piccola parte (meno
del 30 %) che ha perso il potere e il suo status sociale. Invece al
momento attuale il ripresentarsi di avvenimenti di quel tipo minaccerebbe sia la perdita di potere della nuova classe dirigente,
che la proprietà. Perciò la politica della degradazione culturale e
formativa è una politica cosciente del potere russo.