Parte prima. Il 1989 nella storia e nella memoria europea
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Parte prima. Il 1989 nella storia e nella memoria europea
I COSTI DELL’IMPERO Fabio Bettanin Venti anni dopo: fra memoria e storia Le “rivoluzioni” del 1989 in Europa orientale sono uno degli eventi pubblici meglio documentati della storia del XX secolo. Sui loro principali momenti esistono filmati, reportage giornalistici, una mole imponente di interviste e dichiarazioni di personaggi pubblici e di semplici cittadini, un numero sterminato di foto dei momenti salienti. Il flusso delle memorie degli esponenti della politica e delle istituzioni che di esse furono protagonisti, è iniziato da subito, si è presto esteso ai loro collaboratori, e ha infine coinvolto milioni di persone che hanno narrato, spesso su internet, esperienze individuali. In conseguenza della caduta dei regimi dell’Europa orientale, e poi dell’URSS, la pubblicazione di documenti sull’attività dei vertici politici e istituzionali è giunta in anticipo sui tempi canonici previsti dall’apertura degli archivi, e ha alimentato una copiosa storiografia che continua ad arricchirsi di importanti contributi. A differenza di altre svolte epocali, dalla pace di Vestfalia in poi, la fine della Guerra fredda non fu seguita da rese, trattati, condanne pubbliche che chiarissero in modo inequivocabile chi erano i vinti e i vincitori, ed è comprensibile che da questa massa di testimonianze siano scaturite due narrative pubbliche predominanti, che scioglievano il nodo indicando nell’azione non violenta delle folle e nell’azione consapevole dei leader del mondo occidentale i fattori decisivi che consentirono la vittoria della libertà sulla tirannia e lo smantellamento del mondo bipolare. Ha notato con ironia Leffler che nella memorialistica sul 1989 i “dreams of freeedom” sono spesso mescolati con le 22 F. BETTANIN “temptations of power” alimentate dalla volontà di esercitare un ruolo decisivo nel mondo post Guerra fredda, dove molti rivendicavano il ruolo di “vincitori”. Le memorie di Reagan e Bush, dei loro più stretti collaboratori, popolarizzarono una visione della Guerra fredda incentrata sul ruolo quasi esclusivo degli USA, lungo la traiettoria: «power, determination, crisis, defeat, humiliation, resurgence, and, finally, triumph» .1 A loro volta, gli alleati europei degli Stati Uniti rivendicarono il merito di avere avviato la politica di dialogo e cooperazione economica con il blocco sovietico, codificata negli accordi di Helsinki e culminata negli eventi del 1989 .2Nell’URSS, e poi nella Russia, protagonisti della perestrojka e opinione pubblica non accettarono il ruolo di sconfitti. Filo conduttore delle memoria di Gorbaþev è la convinzione che l’Apocalisse fu evitata grazie alla scelta di non intervento compiuta nel 1989 nei confronti dei paesi dell’Europa orientale e nel 1991 delle repubbliche sovietiche secessioniste, presentata come esito coerente della volontà di superare la Guerra fredda in nome del rispetto di valori universali 3 Le memorie dei più stretti collaboratori di Gorbaþev, anch’esse prontamente pubblicate, presentano un quadro più critico del pensiero e dell’azione dell’eroe della perestrojka, riconoscendo1 Mervyn P. Leffler, Dreams of Freedom, Temptations of Power, in Jeffrey A. Engel (ed.), The Fall of the Berlin Wall. The revolutionary Legacy of 1989, Oxford, Oxford University Press, 2009,p. 132. Per testi canonici di questa letteratura agiografica, cfr. Peter Sweizer, The Reagan Administration’s Secret Strategy that Hastened the Collapse of the Cold War, New, York, Atlantic Monthly Press, 1994; Robert Gates, From the Shadows: The Ultimate Inside Story of Five American Presidents and how they Won the Cold War, New York, Simon & Schuster, 1996. 2 Michael Cox, “Another Transatlantic Split? American and European Narratives and the End of the Cold War”, in Cold War History, vol.7, n.1, 2007, pp. 121-146; Celeste Wallander, “Western Policy and the Demise of the Soviet Union”, in Journal of Cold War Studies, vol. 5, n.4, 2003, pp. 137-177; Frédéric Bozo, “<Winners> and <Losers>: France, the United States, and the End of the Cold War”, in Diplomatic History, vol. 33, n.5, 2009,pp.927-956; Daniel Deudney and G. John Ikenberry, “Who won the Cold War?”, in G. John Ikenberry (ed.), American Foreign Policy: Theoretical Essays, New York, HarperCollins, 1996, pp. 612-37. 3 Mikhail Gorbachev, Memoirs, London, Doubleday, 1996. Per eccellenti analisi di questo punto di vista, che sostanzialmente concordano con l’interpretazione di Gorbaþev, cfr.: Stephen Kotkin, A un passo dall’Apocalisse. Il collasso sovietico, 1970-2000, Roma, Viella, 2010 (2008); Archie Brown, Seven Years that Changed the World. Perestroika in perspective, Oxford, Oxford University Press, 2007. I costi dell’impero 23 ne il coraggio e il carisma, non la profondità di analisi e capacità strategica. Nelle parole di ýernjaev, il più stretto e ascoltato consigliere di politica estera di Gorbaþev, questi fu «un grande uomo… incapace di mostrasi all’altezza della propria grandezza quando venne l’ora» 4. Il senso della sconfitta emerge solo dalle memorie di alcuni esponenti degli apparati militari e del partito, che imputano al “nuovo pensiero” di Gorbaþev la perdita dell’Europa orientale e della Germania, ricorrendo a volte a inverosimili accuse di tradimento che hanno limitato la loro circolazione a un pubblico di nostalgici del passato comunista e di specialisti5. I dirigenti comunisti cinesi videro negli avvenimenti del 1989 la conferma della validità della loro scelta di rispondere alle proteste popolari con la repressione e il rilancio della riforma economica, che aveva consentito di difendere un socialismo altrove crollato6. I tempi lunghi della storiografia espongono gli storici all’insidia del conformismo culturale e politico di chi interviene quando le interpretazioni pubbliche degli eventi si sono consolidate, il più delle volte attraverso la divulgazione mediatica, e può essere indotto all’approfondimento e alla documentazione del senso comune storico. Nel caso del 1989 il pericolo non è stato del tutto evitato, ma non si è formata alcuna vulgata, e anzi molti miti prevalenti dopo il crollo dell’impero esterno sovietico sono stati con il tempo decostruiti. Da più parti ci si è interrogati sull’opportunità di usare il termine “rivoluzione” in rela7 zione alle vicende del 1989 . L’immagine di una inarrestabile spinta popolare che, in nome del ritorno all’Europa, abbatté in modo non violento i regimi dell’Europa orientale, ha ceduto il passo ad analisi più attente ai diversi ruoli svolti dalla folla nei vari contesti nazionali, e meno disposta a attribuire la successiva frammentazione dei movimenti di opposizione ai regimi so4 Anatolij ýernjaev, Sovmestnyj Ischod. Dnevnik dvuch epoch, 1972199 (Fine collettiva. Diario di due epoche), Moskva, Rosspen, 2010, p. 859. 1 5 Fra le tante, per l’equilibrio dell’analisi, cfr.: S.F. Achromeev, G.M. Kornienko, Glazami maršala i diplomata (Dalla prospettiva di un maresciallo e di un diplomatico), Moskva, Meždunarodnye otnošenija, 1992. 6 Cheng Jian, Tiananmen and the Fall f Berlin Wall: China’s Path toward 1989 and Beyond, in Engel, op. cit., pp. 96-131. 7 Per una prospettiva comparativa, cfr. Fred Halliday, Revolution and World Politics. The Rise and Fall of the Sixth Great Power, Durham, Duke University Press, 1999. 24 F. BETTANIN cialisti ai tradimenti e agli inganni dei vecchi apparati del potere8. Il Reagan guerriero, che sfida e abbatte l’“impero del male” tanto caro alla “storiografia della vittoria” ha fatto posto al Reagan negoziatore, impegnato a trovare punti di accordo con la controparte sovietica .9Al riconoscimento del ruolo decisivo svolto da Gorbaþev nel porre fine alla Guerra fredda, fa da corrispettivo la sempre più diffusa convinzione che l’incoerenza, la mancata traduzione in pratica del “nuovo pensiero”, e non la sua forza innovativa, siano all’origine del crollo del blocco socialista e dell’URSS10. La storiografia si è infine riappropriata della riflessione sui fattori di lungo periodo all’origine degli eventi del 1989, un tema che la memoria non può adeguatamente analizzare. Il punto di partenza era scontato. Il mondo bipolare non è stato mai un mondo simmetrico. Il divario del potenziale economico di USA e URSS, da sempre enorme, diviene ancora più largo se il confronto viene fatto fra i rispettivi blocchi. Pochi dati possono sintetizzare questa situazione. Il PIL dell’Unione Sovietica crebbe, secondo le stime della CIA, del 8,9% fra il 1946 e il 1950, si assestò attorno al 5% nei due decenni successivi, dopo i quali il tasso di crescita conobbe un calo ininterrotto (2,9% nel 1971-75; 1,8% nel 1976-80; 1,7% nel 1981-85), sino a divenire negativo nel 1986-91 (-2,1%). Una parabola simile seguì l’economia dei paesi dell’Europa orientale. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, sulla spinta degli investimenti del decennio precedente, il PIL dei paesi dell’area ebbe un incremento annuo oscillante fra il 6 e 8 Il dibattito sul ruolo delle masse è stata di recente rilanciata da Stephen Kotkin, che ha polemizzato con l’eccessiva enfasi sul ruolo delle masse nel corso del 1989 (Uncivil Society. 1989 and the Implosion of the Communist Establishment, New York, The Modern Library Edition, 2009; con il contributo di Jan T. Gross). 9 Cfr. Beth A. Fischer, US foreign policy under Reagan and Bush, in Melwyn A. Leffler and Odd A. Westad, The Cambridge History of the Cold War. Volume III. Endings, Cambridge, Cambridge University Press, 2010, pp. 267-88. 10 La recente, importante biografia che Brown ha scritto di Gorbaþev (op. cit.) attenua i toni oleografici della prima biografia, di dieci anni precedente (The Gorbachev Factor, Oxford, Oxford University Press, 1996). Vladislav M. Zubok ha inserito in modo convincente il periodo della perestrojka nella parabola della storia sovietica (A Failed Empire. The Soviet Union in the Cold War from Stalin to Gorbachev, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 2007, pp. 265-335). I costi dell’impero 25 il 10%; continuò ad aumentare anche negli anni Sessanta, pur con marcate differenze regionali (1,9% in Cecoslovacchia; 9,1% in Romania); poi declinò bruscamente: 3.23% nel 1971-75; 0,9% nel 1981-85; – 1,16 sino al 1989. Secondo valutazioni largamente condivise, all’inizio degli anni Settanta il reddito pro capite dell’URSS, allora nel momento di sua massima espansione globale, era di poco superiore alla metà di quello statunitense, e un decennio dopo era sceso a circa un terzo. A fronte di questa disparità, nel periodo dal 1965 al 1989 le spese militari sovietiche superarono lievemente quelle statunitensi. Nei decenni fra la morte di Stalin e il crollo dell’“impero esterno”, esse ammontarono a circa il 40% del bilancio e a una percentuale oscillante fra il 15 e il 20% del PIL secondo le stime più prudenti, e fra il 25 e il 40% secondo l’ex direttore della CIA Robert Gates. Le valutazioni della CIA sono l’unica fonte disponibile, data l’inattendibilità dei dati ufficiali sovietici sino al 1987. Solo dopo questa data iniziò un lavoro di revisione delle statistiche ufficiali che fu completato nel 1993, quando l’URSS non esisteva più. Da esso emerse che le valutazioni della CIA avevano peccato di ottimismo (per errore, o per scelta deliberata di descrivere il nemico più temibile di quanto non fosse?): tenuto conto che la popolazione aumentò fra il 1975 e il 1990 del 13,9%, in URSS, nel periodo preso in considerazione il tasso di crescita del reddito pro capite si mantenne al di sotto dell’1%, smentendo tutte le teorie sui vantaggi dell’arretratezza economica . 11Ancora più preoccupante, dal punto di vista sovietico, l’incapacità dell’imponente impegno in campo militare di garantire una reale parità degli armamenti. Nemmeno dopo il lancio dello Sputnik, nel 1957, i sovietici conseguirono una superiorità in campo nucleare (circostanza ben 11 P. Hanson, The Rise and Fall of the Soviet Economy. An Economic History of the USSR from 1945, London, Longman, 2003, p. 5; W. Brus, Storia economica dell’Europa orientale. 1950-1980, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 138; J.F. Brown, Eastern Europe and Communist Rule, Durham, Duke U.P., 1988, p.21; G. Lundestad, “Imperial Overstretch”, Mikhail Gorbachev and the End of the Cold War, in “Cold War History”, No. 1, August 2000, pp. 1-20; N.E. Firth and J.H.Noren, Soviet Defense Spending. A History of CIA Estimates, 1950-1990, College Station, Texas U.P. 1998, pp. 118-30; R.M. Gates, From the Shadows, cit., pp. 318-19; H S. Rowen and C. Wolf, The CIA’s Credibility, in “The National Interest”, Winter 1995-96, pp. 111-120. M. Eydelman, Monopolized Statistics Under a Totalitarian Regime, in M. Ellman and V. Kontorovich (eds.), The Destruction of the Soviet Economic System. An Insiders’ Story, Armonk, Sharpe, 1998, pp. 70-76. 26 F. BETTANIN nota alle Amministrazioni statunitensi), mentre i confronti armati indiretti, in particolare nel corso delle guerre in Medio Oriente, mostrarono l’inferiorità delle armi convenzionali fornite dai sovietici agli alleati12. Considerati nel loro complesso, i dati lasciano tuttavia pochi dubbi: un simile livello di spese ha pochi confronti nell’epoca contemporanea, nella quale l’URSS rappresenta, secondo Brooks e Wohlforth, «the worst case of imperial overstretch» .13Il nesso fra bilancio militare alto e crisi sociale e politica non può tuttavia essere interpretato in modo deterministico; e infatti la crisi arrivò dapprima nella periferia dell’impero, i cui stati spendevano assai poco per la difesa 14 . Le spese militari si erano mantenute a livelli molto alti anche nei momenti di maggiore crescita dell’economia sovietica. Una loro riduzione era stata avviata già alla fine degli anni Settanta; altri tagli sarebbero potuti giungere dal ritiro delle truppe dall’Afghanistan e dalla applicazione pratica della dottrina della “ragionevole sufficienza” della deterrenza nucleare, approvata nel 1986 dal XXVII congresso del PCUS, che postulava l’impossibilità della vittoria in caso di guerra nucleare e la rinuncia alla parità nucleare. Gorbaþev non si mostrò particolarmente ansioso di tagliare le spese del complesso industriale militare: non per l’opposizione dei militari, blanda nei primi anni della perestrojka 15 , né per i timori suscitati dai pro12 Per un quadro generale cfr.: Federico Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, Einaudi, 2009; Odd A. Westad, The Global Cold War. Third World Intervetion and the Making of Our Times, Cambridge, Cambridge University Press, 2005. 13 S. Brooks and W. C. Wohlforth, Power, Globalization and the End of the Cold War. Reevaluating a Landmark Case for Ideas, in “International Security”, No. 3 (Winter 2000-01), p. 22. 14 Ivan Berend, From the Soviet Bloc to the European Union: The Economic and Social Transformation of the Central and Eastern Europe since 1973, Cambridge, Cambridge University Press, 2009, pp. 25-80. 15 Per un quadro generale: V. Zubok, op. cit., pp. 294-302; Vojtech Mastny, The Warsaw Pact as History, in Vojtech Mastny and Malcom Byrne (eds.), A Cardboard Castle?. An Inside History of the Warsaw Pact, 1955-1991, Budapest, CEU Press, 2004, pp. 57-74; Sergei Belanovsky, The Arms Race and the Burden of Military Expenditures, in Ellman, Kontorovich, op. cit., pp. 40-69, Andrew Bennett, Condemned to Repetition? The Rise, Fall, and Reprise of Soviet-Russian Military Interventionism, 19731996, Cambridge, Mass., MIT Press, 1999. Sul 1989: Andrew Bennett, The Guns That Didn’t Smoke: Ideas and the Soviet Non-Use of Force in 1989, in “Journal of Cold War Studies”, vol. 7, n. 2, 2005, pp. 81-109. I costi dell’impero 27 getti di “guerre stellari” di Reagan, giudicati preoccupanti, ma velleitari nell’immediato 16 , ma per la consapevolezza che il taglio del bilancio militare avrebbe creato dei problemi sociali, con lo smantellamento di parte delle fabbriche del complesso militare-industriale senza risolvere nel breve periodo quelli economici, dato che la trasformazione della produzione militare in civile avrebbe dovuto attendere anni 17. In questo caso, le scelte di Gorbaþev non mancavano di una loro logica. Per quanto gravoso, il fardello delle spese militari era inferiore al costo dei sussidi ai prezzi di consumo, conseguenza della bassa produttività complessiva dell’economia. Se c’era un settore dove intervenire, era questo, ma Gorbaþev esitò a farlo, nel timore di entrare nella spirale aumento dei prezzi – rivolta popolare, che a18 veva travolto la Polonia negli anni Settanta . Un’altra voce al passivo del bilancio era legata all’aiuto ai paesi socialisti. La sua entità complessiva è difficilmente calcolabile .19Sicuramente inferiore al bilancio delle spese militari, essa esercitò un peso psicologico e politico maggiore, come dimostrano le recriminazioni di tutti i leader del Cremlino, da Chrušþev a Gorbaþev, nei confronti degli omologhi dell’Europa orientale, accusati di pretendere di far vivere i loro popoli al di sopra dei mezzi, e meglio dei sovietici. Dall’invasione dell’Ungheria (ma forse si potrebbe risalire al precedente della repressione della rivolta di Berlino del giugno 1953) l’Unione Sovietica si vide costretta a sostenere i suoi satelliti con aiuti sempre più generosi, per colmare il loro deficit di legittimazione interna20. Fallito il tentativo di approfittare della distensione per creare economie orientate verso l’esportazione nei paesi occidentali, sul modello di quanto stavano facendo i paesi dell’Estremo oriente asiatico, le economie del blocco socialista divennero in larga misura parassitarie, accumulando un debito estero destinato a salire, secondo valuta16 Peter J. Westwick, “Space-Strike Weapons” and the Soviet Response to SDI, in “Diplomatic History”, vol. 32, n. 5, 2008, pp. 955-979. 17 Hanson, op. cit., pp. 177-219. 18 Convincenti critiche alla politica economica di Gorbaþev sono state mosse da: Egor Gajdar, Gibel’imperii. Uroki dlja sovremennoj Rossii (Le rovine dell’impero. Lezioni per la Russia contemporanea), Moskva, Rosspen, 2007, pp. 206-376. 19 Dai diari di ýernjaev risulta che solo a partire dal 1986 la questione cominciò a essere presa in considerazione dal politbjuro, senza giungere a decisioni drastiche (op. cit., pp. 665 sgg.). 20 Hanson, op. cit., pp. 49 sgg. 28 F. BETTANIN zioni complessive, da 6 bilioni di dollari nel 1970 a 110 nel 1989; alla fine degli anni Settanta il valore del debito internazionale era in Ungheria doppio rispetto all’export; in Polonia lo superava di cinque volte .21L’Unione Sovietica non era altrettanto esposta sul piano finanziario, ma senza l’importazione dei prodotti alimentari dai paesi occidentali, che ammontava a più del 10% del consumo totale, avrebbe rischiato una forte penuria alimentare. Anche se nulla sta a indicare che il gruppo dirigente sovietico ne fosse pienamente consapevole, ancor più minaccioso nel lungo periodo era il divario con i paesi occidentali in conseguenza dell’incapacità di tenere il passo con la rivoluzione tecnico-scientifica degli anni Settanta22. Gli effetti politici di queste tendenze di lungo periodo emersero durante la crisi polacca del 1980-81, conclusasi con imposizione della legge marziale il 13 dicembre 1981. Il politbjuro del PCUS formò una commissione, guidata da Suslov, per seguire da vicino la vicenda alla quale dedicò, nell’arco di un anno, almeno venti sedute. Di questa attività è disponibile una ricca documentazione, che consente di apprezzare le differenze con gli avvenimenti d’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968. La colpa della situazione che si era creata, e della crescente popolarità di Solidarność, fu attribuita alla errata politica economica del segretario del POUP Gierek. I suoi successori, Kania e poi Jaruzelski, furono sottoposti a critiche talvolta dure, ma ai vertici del PCUS nessuno parlò di sostituirli con le “forze sane”: i filomoscoviti tante volte invocati nelle precedenti crisi. A Solidarność fu attribuito un seguito popolare ampio e trasversale, che comprendeva anche membri del partito. Al suo leader Wałesa fu riconosciuto di svolgere un ruolo di moderazione: quando non parlavano di intellettuali, ma di operai che si battevano contro il socialismo, persino i dirigenti del Cremlino riuscivano a trovare un minimo di obiettività. Le distorsioni della propaganda occidentale furono condannate, senza attribuire loro un ruolo destabilizzante. La questione di fondo era economica, e su questo Berend, op. cit., pp. 29-33. rapporti del KGB risalenti alla fine degli anni Settanta del XX secolo, metà dei nuovi progetti del complesso industriale militare sovietico dipendevano dalla tecnologia acquisita, attraverso lo spionaggio, dall’Occidente. (cfr. Christopher Andrew and Vasili Mitrokhin, The Mitrokhin Archive: The KGB in Europe and the West, London, Allen Lane, 1999, pp. 280-87). 21 22 Secondo I costi dell’impero 29 punto al Cremlino erano decisi a essere pragmatici, come dimostra la risposta di Brežnev alla domanda di Jaruzelski sulla possibilità di accettare prestiti dagli USA dopo il colpo di stato: «In linea di principio non ci opponiamo, sebbene, parlando francamente, sia dubbio che gli occidentali sostengano materialmente un governo militare. Chiederanno concessioni, e qui bisogna vigilare». L’ipotesi di invadere la Polonia non fu mai presa in considerazione, e le imponenti manovre militari furono usate per intimidire i polacchi; il loro effetto fu involontariamente amplificato dalle informazioni passate da Kukliński, un colonnello del controspionaggio polacco che era agente della CIA dal 1970, convinto che lo scenario fosse simile a quello della Cecoslovacchia nel 1968. Il Maresciallo Kulikov, comandante del Patto di Varsavia, fu severamente rimproverato per avere promesso ai polacchi di non lasciarli nei pasticci in caso di insuccesso del golpe. Il parere dei paesi satelliti che premevano, a eccezione di Romania e Ungheria, per misure repressive più dure, non fu nemmeno preso in considerazione. Le ragioni emergono dal dibattito nel politbjuro. A spaventare i dirigenti sovietici erano i costi del sostegno economico alla Polonia, che sarebbe cresciuto in modo esponenziale in caso di intervento militare. Il quadro era emerso in tutta la sua gravità già nel marzo 1981, quando Archipov, uno dei membri della commissione Suslov, aveva comunicato ai suoi attoniti colleghi che il debito della Polonia con i paesi capitalisti ammontava a 23 bilioni di dollari; solo per pagare gli interessi i polacchi avevano bisogno immediato di 700 milioni, che i sovietici non potevano fornire, anche perché già inviavano alla Polonia 13 milioni di tonnellate di petrolio a 90 rubli a tonnellata, contro un prezzo mondiale di 170 («se potessimo vendere in valuta pregiata i guadagni sarebbero colossali», fu lo scontato commento). L’ipotesi di una moratoria e della richiesta di adesione al FMI fu scartata, perché avrebbe costituito una «concessione ai paesi occidentali, senza effetti economici»,. I margini di manovra per i dirigenti del Cremlino erano quindi pressoché nulli, e il 10 dicembre il presidente del Gosplan Bajbakov presentò al poljtbjuro una lista di beni richiesti da Jaruzelski, ai quali andavano aggiunti 2,8 bilioni di dollari per ripianare i debiti con l’Occidente; sostegno che l’URSS poteva concedere «attingendo alle riserve statali o tagliando sui consumi interni». Altra via non c’era, e toccò al guardiano dell’ortodossia Suslov 30 F. BETTANIN spiegare perché gli aiuti erano il male minore rispetto all’invasione: «Stiamo conducendo un grande lavoro per la pace, e non possiamo cambiare la nostra posizione ora. L’opinione pubblica mondiale non ci capirebbe… Che i compagni polacchi facciano da soli quello che ritengono di fare» 23 . Difficile stabilire cosa sarebbe accaduto in caso di insuccesso del colpo di stato. Kramer ritiene che i sovietici sarebbero stati costretti a intervenire , 24 ipotesi che forse sottovaluta la crisi irreversibile del paradigma rivoluzionario imperiale che aveva guidato la politica estera so25 vietica dalla seconda guerra mondiale in poi . Nessuno sembrava ritenere che il consolidamento a ogni costo delle conquiste dell’URSS, nel Terzo mondo come in Europa orientale, fosse un obiettivo praticabile e desiderabile. Non i vertici del regime. Non i militari, che, dopo avere avversato la guerra in Afghanistan, si allinearono senza difficoltà alle decisioni del partito sulla Polonia. Non i conservatori nel politbjuro (termine con il quale, data l’assenza di riformisti, venivano indicati in genere gli esponenti del complesso militare-industriale) consapevoli che l’importazione di tecnologia era un fattore sostitutivo della riforma economica .26Non l’opinione pubblica, agli occhi della quale l’immagine di un nemico pronto a approfittare delle debolezze sovietiche si era da tempo sbiadita: come era possibile considerare nemici minacciosi gli esponenti di paesi che concludevano con l’URSS importanti trattati, e con il loro aiuto avevano consentito di migliorare il livello di vita sovietico, e dei popoli dell’impero? Scrive Zubok che «the fad of MarxismLeninism died a quiet death during the reign of Brezhnev», almeno agli occhi delle élite intellettuali che trascorrevano «months and years reminiscing nostalgically about their last 23 Dokumenty “kommissii Suslova”. Sobytija v Pol’še v 1981 g. (Documenti della Commissione Suslov. Gli avvenimenti polacchi del 1981), in “Novaja i Novejšaja Istorija”, n. 2, 1998, pp. 84-105. 24 Mark Kramer, Brežnev e l’Europa dell’Est, in “Storica”, n. 22 (2002), pp. 100-102. 25 Si veda in merito: Zubok, op. cit., pp. 265-27; Mastny, srt. Cit., in Mastny, Byrne, op. cit., pp. 44-65. 26 Sull’opposizione dei militari alla invasione dell’Afghanistan, cfr. Bennet, Condemned to Repetition?, cit., pp. 167-246. Una analoga, e più fortunata, azione di freno fu esercitata dei principali esponenti delle forze armate nel caso della Polonia (Dokumenty “kommissii Suslova”, cit., passim). I costi dell’impero 31 trip to the West and waiting for the next one» . 27 Le condizioni dell’impero esterno sovietico rendevano improponibile il ritorno all’isolazionismo finanziario o tecnologico. L’integrazione economica, e persino culturale, era andata troppo in là per compiere una scelta che avrebbe compresso il livello di vita, con l’inevitabile corollario di manifestazioni popolari e repressioni. Ne andava anche dell’immagine del gruppo dirigente sovietico, che aveva vantato come una vittoria la firma dei trattati SALT e di Helsinki, e che era condannato dalla propria mediocrità a difendere la distensione senza avere cognizione di quali potessero essere i suoi nuovi canoni. La scelta cadde sulla continuità: per quanto possibile si tentò di mantenere lo scenario caratterizzato dalla “finlandizzazione” dell’economia polacca, che a Mosca non consideravano un precedente in grado di mettere in moto spinte centrifughe all’interno del blocco socialista. Il risultato fu, sottolinea Mastny, l’accumulo delle contraddizioni che sarebbero esplose nel 1989 .28Prima che ciò accadesse, la Storia concesse un’ultima opportunità all’Unione Sovietica. Ancora un enigma A venti anni di distanza, poco e nulla è rimasto del “nuovo pensiero” di Gorbaþev. Esso non si non consolidò mai in un complesso organico di idee in grado di colmare il vuoto lasciato dal declino del marxismo-leninismo come ideologia ufficiale . 29 Questo non significa che la perestrojka abbia avuto carattere solo reattivo, di risposta alle condizioni materiali dell’URSS. Da buon riformista, Gorbaþev fu condotto nella sua azione da idee guida scaturite dalla generalizzazione della sua esperienza poli27 Vladislav Zubok, Zhivago’s Children. The Last Russian Intelligentsia, Cambridge, Massachusetts, The Belknap Press, 2009, pp. 299-328. 28 Voitech Mastny, The Soviet Non-invasion of Poland in 1980-81 and the End of the Cold War, in Cold War International History Project, Working Paper n. 23 (1998), p. 34. 29 Il dibattito sul ruolo svolto dalle idee nel determinare la fine della Guerra fredda è stato riaperto dai contributi al numero monografico del “Journal of Cold War Studies” (vol. 7, n. 2, 2005). Per una opinione opposta a quella esposta da chi scrive, cfr. R. English, The Sociology of New Thinking: Elites, Identity Change, and the End of Cold War (pp. 43-80). Si veda anche la replica di W.C Wohlforth, The End of Cold War as a Hard Case for Ideas (pp. 165-72). 32 F. BETTANIN tica, e di quella storica sovietica. La continuazione e il rilancio del processo di distensione ebbero in questo ambito una indubbia preminenza, confermata dalle memorie di Gorbaþev e dei suoi collaboratori 30. In questo ottocentesco primato della politica estera, è difficile distinguere gli interessi statali dai valori universali, la continuità dalla innovazione. Prima di Gorbaþev, Brežnev e Stalin avevano costruito il loro potere sui successi (presunti e reali) della loro politica estera; Chrušþev era stato destituito per il motivo opposto. Sedere al tavolo delle trattative con il presidente statunitense per parlare dei problemi del disarmo era un modo per riaffermare il ruolo di superpotenza dell’URSS, e anche l’occasione per vedere riconosciuto ad essa e ai suoi dirigenti il ruolo di arbitro dei destini dell’umanità. Le memorie non lasciano dubbi sull’importanza che Gorbaþev annetteva ai vertici con statisti stranieri, che preparava con grande cura, e con una unica preoccupazione: non mostrarsi debole. Quando divenne impossibile difendere la finzione della parità, Gorbaþev scelse di sostituire la politica di difesa dei “permanent interests” con una politica “imbued with a messianic spirit”: un 31 passaggio fatale che Zubok fa risalire all’inizio del 1988 . Una parabola simile descrisse un’altra idea guida, destinata a divenire un marchio personale di Gorbaþev: la “casa comune europea”32. Gorbaþev era il primo leader sovietico formatosi senza nutrire un senso di estraneità o di antagonismo nei confronti dell’Europa. Il suo non era quindi un vuoto slogan, e agli occhi degli europei occidentali aveva il merito di proiettarsi verso il futuro, senza proporre il “ritorno” all’Europa invocato dai dissidenti dell’Europa orientale, che avrebbe lacerato i legami geopolitici e culturali formatisi nel dopoguerra, con conseguenze imprevedibili33. Mancò da parte sua la capacità, e soprattutto l’interesse, a trasformare uno slogan di facile presa in iniziative politiche. Nel corso della storia l’Europa è stata per la Russia un contesto nel quale legittimare il proprio ruolo di grande poten30 Nelle memorie, Gorbaþev individua nella riunione del corpo diplomatico del maggio 1986 il momento di inizio della politica estera della perestrojka. (M. Gorbachev, op. cit., p. 402). 31 V. Zubok, A Failed Empire, cit., p. 309. 32 Per una prima organica definizione del concetto, cfr. Mikhail Gorbaciov, Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo, Mailano, A. Mondadori, 1987, pp. 254-80. 33 Cfr. il contributo di Andrea Panaccione nel volume. I costi dell’impero 33 za, una fonte di modernizzazione economica, un modello politico e istituzionale 34 . I richiami allo spirito di Helsinki confermano che per Gorbaþev il rinnovamento doveva partire dall’interno dei blocchi esistenti, e dallo sviluppo di consolidati rapporti bilaterali. La Comunità europea non divenne mai un modello da imitare; la transizione di Spagna e Portogallo dalla dittatura e dalla democrazia non fu mai considerata un potenziale esempio. Gorbaþev fu abile nell’inventare una tradizione umanitaria del socialismo, ma solo alla fine del 1986 si convinse che parlare pubblicamente di diritti umani non sarebbe stato interpretato come una concessione agli occidentali . 35 Gorbaþev non era un falso riformatore. Era piuttosto convinto che l’URSS potesse accelerare il processo di integrazione con l’Occidente solo dopo avere messo ordine nella situazione interna, rompendo in tutti i sensi con il passato. Questa era l’altra sua idea guida che, dopo la sua nomina a segretario generale del PCUS, sintetizzò alla moglie esclamando: «Non possiamo più vivere così». (Il tutto in un parco, perché delle mura di casa nemmeno il numero uno del regime poteva fidarsi) 36 . Le parole, indubbiamente sincere, non comportavano alcun senso di urgenza: solo due anni prima la pubblicazione delle preoccupanti statistiche di Chanin sull’economia e del “rapporto di Novosibirsk”, che documentava lo stato di degrado della società, era passata senza suscitare partico37 lari reazioni nelle élite e nell’opinione pubblica sovietiche . Gorbaþev non dedicò particolare attenzione ai problemi economici anche quando lo stato di crisi divenne acuto (il debito estero triplicò fra il 1985 e il 1989). All’inizio del 1987, quando le falle aperte nel bilancio dalla caduta dei prezzi del petrolio erano già evidenti, sostituì un plenum del Comitato centrale del PCUS sui prezzi con uno sulla democratizzazione; poi approvò decreti 34 Iver B.Neumann, Russia and the Idea of Europe. A study in identity and international relations, London, Routledge, 1995. 35 Brown individua nella telefonata di Gorbaþev a Sacharov, il 19 dicembre 1986, l’atto simbolico di inizio di una politica di attenzione ai diritti umani (op. cit., p.100). Per una riflessione sui suoi esiti, si veda: Daniel C. Thomas, Human Right Ideas, the Demise of Communism, and the End of Cold War, in “Journal of Cold War Studies”, vol. 7, n. 2, 2005, pp. 110-141; Rosemary Foot, The Cold War and human rights, in Leffler, Westad, op. cit., v. III, pp. 445-465. 36 Gorbachev, op. cit., p. 165. 37 Andrea Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica. 1945-1991, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 471-77. 34 F. BETTANIN sulla elezione dei manager industriali e sulla formazione di cooperative, che crearono consenso, ma anche inflazione e corruzione. Questo suo singolare comportamento trova una spiegazione solo se si guarda a un passato nel quale le “grandi svolte” della storia sovietica avevano originato progressi effimeri e tragedie durature, e le riforme economiche erano state quasi sempre avversate anche dalla popolazione. Meglio allora agire in modo graduale, consentendo finalmente libertà di parola, ammettendo che nel passato sovietico esistevano “macchie bianche” (da colmare con prudenza), e soprattutto impegnandosi a non ricorrere più all’uso della forza. Promessa sostanzialmente mantenuta, e sulla quale non vi furono disaccordi all’interno del gruppo dirigente, poiché alle lezioni del passato se ne era aggiunta un’altra, definitiva: il colpo di stato in Polonia aveva neutralizzato in pochi giorni i 10 milioni di iscritti a Solidarność, senza riuscire a risolvere i problemi economici e a stabilizzare la situazione politica. In questo contesto va collocato quello che Jacques Lévesque ha definito The Enigma of 1989: per quattro anni Gorbaþev relegò le relazioni con il blocco socialista a una posizione del tutto secondaria, osservò la sua disintegrazione senza abbozzare un tentativo di reazione, e continuò a professare una «idealistic view of the world, based on universal reconciliation»38. Nell’ottobre 1939 Churchill aveva ritenuto di potere risolvere l’«enigma avvolto nell’oscurità del mistero» della politica sovietica usando la chiave esplicativa degli “interessi nazionali” 39 . Sessanta anni dopo, il richiamo alla Realpolitik era inadeguato a spiegare la politica di Gorbaþev. In una prospettiva imperiale, le sue scelte non mancavano di una loro logica. Dal trattato di Helsinki in poi, i destini dei paesi dell’Europa orientale avevano cominciato a dipendere sempre più da quanto accadeva a Washington, Berlino, e nelle altri capitali occidentali, oltre che a Mosca. L’ascesa al potere di Gorbaþev aveva introdotto, in un quadro di sostanziale continuità, l’elemento nuovo di un leader sovietico in grado di rivaleggiare in popolarità con Reagan e Giovanni Paolo II, 38 Jacques Lévesque, The Enigma of 1989: the USSR and the Liberation of Eastern Europe, Berkeley, University of California Press, 1997, p. 252. 39 Sulla fortuna di questa visione dell’Urss, cfr. Fabio Bettanin, Stalin e l’Europa. La formazione dell’impero esterno sovietico (1941-1953), Roma, Carocci, 2006. I costi dell’impero 35 e di rubare la scena ai dissidenti dell’Europa orientale. Nelle memorie Gorbaþev non nasconde il compiacimento provato nell’essere acclamato dovunque dalla folla, a Pechino come a Washington, a Berlino est come a Bonn, nell’essere inseguito da giornali e televisioni occidentali per avere interviste e nello stabilire relazioni cordiali con tutti gli statisti occidentali. Considerata l’immagine dei suoi predecessori, la vanità è comprensibile40. Sbagliava tuttavia Gorbaþev nel ritenere che il suo carisma potesse assicurare risultati politici immediati. I leader dell’Europa erano assorbiti alla metà degli anni Ottanta da problemi interni (la congiuntura economica non favorevole, l’adesione alla Comunità europea di Spagna e Portogallo, gli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone, le trattative per una moneta unica), e quindi propensi a vedere in lui un garante dell’ordine e della stabilità nel continente, compresa la sua parte orientale, più che un alfiere del rinnovamento. Da parte sua, Gorbaþev non si affrettò a prendere iniziative riguardanti l’Europa orientale. Solo nel dicembre 1987 giunse la decisione di smantellare i missili intermedi sovietici in Europa (INF), seguita a un anno di distanza dal discorso all’ONU, nel quale Gorbaþev proclamò la «fine dell’età delle rivoluzioni violente», corroborando la sua affermazione con l’impegno a ritirare mezzo milione di soldati dall’Europa orientale. Non riuscì tuttavia a trasformare le sue aperture in un rovesciamento del discorso pronunciato da Churchill a Fulton, come era nelle sue intenzioni 41. Perché ciò accadesse sarebbero stati necessari l’elargizione di aiuti occidentali equivalenti a un nuovo Piano Marshall, e l’avvio di un processo di revisione generale delle strutture della sicurezza in Europa. Crediti economici continuarono ad affluire verso l’Europa orientale. Mitterand, Tatcher e Kohl visitarono Mosca, ma solo il Cancelliere tedesco aprì la prima consistente linea di credito nei confronti di Mosca, che non fugò del tutto la freddezza nei rapporti fra Germania occidentale e Urss, e personale fra i leader dei due paesi .42Anche l’America non era più quella del dopoguerra: l’Europa, e in particolare quella orientaM. Gorbachev, op. cit., pp. 425-26. Ibidem, p.456. 42 Aleksandr Galkin, Anatolij ýernjaev (a cura di), Michail Gorbačev i germaskij vopros. Sbornik dokumentov. 1986-1991 gg., (Gorbaþev e il problema tedesco. Raccolta di documenti), Moskva, Ves’ Mir, 2006, pp. 135-40 e 156-187. (D’ora in poi: GiGV) 40 41 36 F. BETTANIN le, aveva cessato di essere al centro del suo interesse. Di essa si discusse poco nel corso dei quattro incontri fra Reagan e Gorbaþev, e la stessa “pausa di riflessione” che si prese Bush all’inizio del suo mandato è da attribuire, oltre che a divisioni fra i suoi consiglieri, alla difficoltà di capire quali fossero i piani sovietici, e se Gorbaþev fosse in grado di mantenersi al potere. La missione di riferire in merito fu affidata a Kissinger, il quale, a quanto riferì Gorbaþev ai membri del politbjuro, nel corso della riunione tenuta dalla Trilateral Commission a Mosca nel gennaio 1989, accennò alla possibilità di un “condominio USA-URSS sull’Europa”, da tenere segreto, perché gli europei avevano già considerato il summit di Reykjavik “un complotto” ai loro danni. La risposta, se vi fu, non è nota, perché Gorbaþev si limitò a prendere tempo, ritenendo che «all’Ovest capiscono che il mondo ha bisogno di una pausa di respiro dalla corsa agli armamenti, dalla psicosi nucleare» 43 . Gli eventi sembrarono dargli ragione. A giugno la sua visita in Germania occidentale fu salutata dal consueto bagno di folla, e i colloqui con Kohl furono molto cordiali, tanto da indurre il cancelliere a pronunciare le parole che Gorbaþev voleva ascoltare: «noi abbiamo non solo un desti44 no comune, ma anche una storia comune» . Nell’estate Bush visitò Polonia e Ungheria, sostenne i riformatori comunisti, non incoraggiò i movimenti di opposizione, evitò di pronunciare critiche verso l’URSS e al successivo G7 di Parigi ottenne una moratoria dei debiti dei paesi dell’Europa orientale: l’esito del voto polacco e il massacro di piazza Tien’anmen, verificatisi per un gioco del destino entrambi il 4 giugno, obbligavano a puntare su una uscita pacifica dal socialismo reale. Il presidente americano non si affrettò tuttavia a fissare il summit, del quale Gorbaþev aveva bisogno per rilanciare la propria immagine 45 . Senza particolare generosità e entusiasmo, i leader occidentali avevano fat43 Vladislav M. Zubok, New Evidence on the End of the Cold War, in “Cold War International History Project Bullettin”, nn. 12/13 (1998), doc. 3, pp. 16-17. 44 GiGV, p. 178. 45 Melvyn P. Leffler parla di un comportamento «prudent and cautious» di Bush all’inizio della sua presidenza, attribuendo l’assenza di iniziative decise allo scetticismo che molti membri della sua amministrazione, con la significativa eccezione del segretario di stato Baker, mostravano nei confronti della perestrojka (For the Soul of Mankind. The United States, the Soviet Union, and the Cold War, New York, Hill and Wang, 2007, pp. 423-27). I costi dell’impero 37 to la loro parte. Nella logica del confronto bipolare, non ancora superata, sarebbe spettato a Gorbaþev formulare proposte concrete. Ma da Mosca non giunse nessuna iniziativa. Qualche anno dopo, quando l’URSS era già crollata, Gorbaþev rivendicò il merito di avere convocato i dirigenti dei paesi del blocco socialista subito dopo la sua elezione a segretario generale del PCUS, comunicando la sua intenzione di rinunciare alla “dottrina Brežnev”. Il «rispetto della sovranità e dell’indipendenza di ogni paese» avrebbe comportato per i partiti comunisti al potere una «piena responsabilità per la situazione nei loro paesi» 46 . Le dichiarazioni di principio ebbero scarsi effetti pratici. Nell’aprile 1985 il patto di Varsavia fu rinnovato per venti anni, senza modificazioni significative alla sua struttura .47 Il COMECON continuò la sua attività, anche se a scartamento sempre più ridotto48. Dopo avere discusso a Ginevra e Reykjavik con Reagan dei destini dell’umanità, Gorbaþev non poteva permettersi di abbandonare a se stessi paesi incapaci di provvedere alla propria sicurezza, dipendenti dagli aiuti economici esterni, mentre affioravano divisioni politiche, sociali, persino etniche, che prospettavano lo scenario di un possibile scontro civile. Da parte sua sarebbe equivalso a una rinuncia a esercitare il ruolo di superpotenza. Gorbaþev avrebbe potuto rendere pubblico, pur in forma sfumata, ciò che aveva dichiarato fra le mura del Cremlino, o compiere un gesto simbolico di condanna delle sopraffazioni del passato: la condanna delle invasioni sovietiche dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, l’ammissione dell’esistenza di un “protocollo segreto” del patto Ribbentrop-Molotov, l’ammissione delle responsabilità sovietiche per la strage di Katyn’ si prestavano a questo scopo 49 . Non lo fece, e non cambiò la sua scelta nemmeno quando la folla plaudente che nel 1987 lo M. Gorbachev, op. cit., pp. 464-65. Mastny, Byrne, op. cit., doc. 166, pp. 357-60. 48 Berend, op.cit., pp. 39-54; Hanson, op.cit., pp. 169-76. 49 I protocolli segreti del patto Ribbentrop-Molotov furono “trovati” negli archivi del Comitato centrale a 1989 inoltrato: del loro rinvenimento dette notizia la “Pravda” il 2 luglio 1989. Articoli e saggi sulla tragedia di Katyn’ cominciarono a essere pubblicati in URSS solo all’inizio del 1990, e solo nell’agosto 1993 la commissione mista di storici russi e polacchi riuscì a pubblicare un documento congiunto sulla vicenda (cfr. Inessa Jažborovskaja (a cura di), Kat’inskij sindrom v sovestko-pol’skich i rossijskopol’skich otnošenijach (La sindrome Katyn nei rapporti sovietico-polacchi e russo-polacchi), Moskva, Rosspen, 2009, pp. 5-21. 46 47 38 F. BETTANIN accolse in Cecoslovacchia sembrò spingerlo ad ammettere le responsabilità sovietiche per la soppressione della Primavera di Praga conferendo al suo gesto un alto valore simbolico: se doveva esserci un rovesciamento di Fulton, quello era il momento. Gorbaþev avrebbe poi spiegato il suo silenzio con un tipico argomento da Realpolitik: «Se l’Unione Sovietica avesse condannato gli eventi del 1968, questo avrebbe inferto un tremendo colpo al Partito comunista cecoslovacco». La garanzia di un ritorno del passato andava cercata nella consapevolezza del gruppo dirigente sovietico: «I precedenti interventi si sono trasformati per noi in svantaggi. Vittorie di Pirro, per noi. Questa è stata la lezione dell’Ungheria nel 1956, Cecoslovacchia nel 1968, Afghanistan nel 1979» 50 . Con i leader ungheresi, impegnati sul ruolo da assegnare alla memoria dell’ottobre 1956 nella rifondazione del regime, fu più esplicito: «Gli eventi del 1956 ebbero in effetti inizio con l’insoddisfazione popolare. In seguito, tuttavia, essi si trasformarono in controrivoluzione e bagno di sangue. Questo non può essere ignorato…I dirigenti sovietici hanno di recente analizzato gli eventi del 1956 in Ungheria, e continuano a ritenere che ciò fu una controrivoluzione, con tutti i tratti tipici di un simile evento» . 51Questo dichiarò Gorbaþev nel marzo 1989 al primo ministro Németh e al segretario del POSU Grόsz, rivelando che all’origine della sua politica per l’Europa orientale si ponevano non i timori di destabilizzazione dei regimi del blocco socialista, quanto piuttosto una difficoltà a trovare un punto d’incontro con i loro dirigenti. Kádár, Husák, Honecker, Živkov, Jaruzelski, Ceauşescu, erano stati testimoni e responsabili di molte tragedie; alcuni avevano passato lunghi periodo in detenzione, in molti casi nelle carceri del loro regime; in pochi avevano tentato di distaccarsi dal modello sovietico, con iniziative che alla metà degli anni Ottanta avevano esaurito la loro spinta: più che “moscoviti” essi erano, per la loro biografia personale e politica, dei conservatori poco disposti ad accettare i progetti di perestrojka del socialismo, anche se questi venivano da Mosca. L’“enigma” della politica di Gorbaþev aveva, nel loro caso, una facile spiegazione: inutile impegnarsi di persona per M. Gorbachev, op.cit., pp. 482-84. Csaba Békés e Melinda Kalmár, The Political Transition in Hungary, 1989- , in “Cold War International History Project Bullettin”, nn. 12/13 90 (1998), docc. 2 e 3, pp. 76-78. 50 51 I costi dell’impero 39 rimuoverli, quando un simile tentativo in passato aveva assorbito le energie del Cremlino, alienato l’Occidente, e prodotto risultati miseri. La scelta dell’inazione postulava una lenta evoluzione del quadro interno nei paesi dell’Europa orientale. Accadde invece il contrario. Dovunque la crisi economica si aggravò, con effetti sul quadro politico. In Polonia dall’amnistia politica del 1986 si giunse nel 1988 alla convocazione della “tavola rotonda” fra i rappresentanti del regime e di Solidarność, formalmente fuori legge. In Ungheria, l’uscita di scena di Kádár, nel maggio 1988, fu seguita a distanza di pochi mesi dall’approvazione di leggi che di fatto introdussero il pluralismo politico. «Gorbachev took ideas too seriously» , 52 sostiene Zubok. Se pagine e pagine sono state scritte sul ruolo dei suoi incontri con uomini politici e statisti occidentali nel plasmare il “nuovo pensiero” della perestrojka 53, non altrettanto si può dire dei contemporanei colloqui con esponenti dei paesi socialisti, nel corso dei quali Gorbaþev si mostrò soprattutto interessato a esporre le proprie idee. Nel suo incontro con il nuovo primo ministro ungherese Németh, Gorbaþev una volta toccato il tema della democrazia, non trovò di meglio che citare l’aforisma di Lenin: «Noi bolscevichi abbiamo conquistato la Russia, ora dobbiamo imparare a governarla», commentando che questo avrebbe consentito «di rivolgersi al popolo e rivitalizzare il sistema socialista» .54Si era nel marzo 1989, la popolarità del PCUS e del suo segretario generale stava cadendo a picco in patria, anche per il rafforzamento dei movimenti nazionalisti; i cittadini sovietici avrebbero votato dopo pochi giorni per il Congresso dei deputati del popolo, scegliendo anche candidati di opposizione, e Gorbaþev non trovava di meglio che parlare dei bei tempi andati con l’esponente di un paese che più di ogni altro si era spinto avanti nella riforma del socialismo. Una lezione non dissimile fu impartita a Jaruzelski, giunto a Mosca alla fine di aprile. Alle informazioni sulla situazione interna della Polonia alla vigilia delle elezioni Zubok, A Failed Empire, cit., p. 309. Secondo English I colloqui di Gorbaþev con Margaret Tatcher segnarono «a critical advance in his embrace of a liberal Weltanschaung, a nearKantian understanding of the link between genuine democracy and the foundation of international trust» (art. cit., p. 66). Più equilibrato il giudizio di Brown, secondo il quale il pensiero di Gorbaþev mantenne sempre una impronta socialdemocratica (Seven Years, cit., pp. 291-312). 54 Csaba Békés e Melinda Kalmár, art. cit., doc. 3, p. 77. 52 53 40 F. BETTANIN decise dalla Tavola rotonda fornitegli da Jaruzelski, Gorbaþev replicò con una dichiarazione di principio sulle vie diverse al socialismo che dovevano avere come denominatore comune la democrazia intesa come «partecipazione reale della classe operaia alla gestione dell’economia e alla soluzione dei problemi politici», conclusa dall’affermazione che la «perestrojka ha rag56 conversagiunto questo stato» 55 . Più che essere “surreale” , la zione rivela l’hybris di un leader, che dopo avere dialogato con i grandi della terra, non aveva alcuna intenzione di confrontarsi con un esponente di un piccolo stato, sotto i quarant’anni, giunto quasi all’improvviso al potere, e nemmeno con quello di un stato centrale negli equilibri europei, con una biografia di tutto rispetto, che il potere lo aveva mantenuto grazie al sostegno sovietico. Che i loro paesi potessero rappresentare una via diversa, forse più avanzata, di riforma dei regimi socialisti, fu ipotesi mai presa in considerazione da Gorbaþev, il quale non trovò contraddittorio richiedere, nel suo discorso all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa del luglio 1989, un ruolo per l’URSS in una Europa dall’«Atlantico agli Urali» e non da «Brest a Brest»57. Il problema non era nei pregiudizi e nell’arroganza di Gorbaþev, quanto nell’incapacità delle sue idee di tenere il passo con l’evoluzione degli avvenimenti. Alla fine del 1988, il Cremlino non disponeva ancora di una visione complessiva del quadro politico nei paesi dell’Europa orientale e dei loro rapporti con i paesi occidentali. Un memorandum in tal senso fu inviato nell’ottobre 1988 a Gorbaþev da Šachnazarov, suo consigliere per i rapporti con l’Europa orientale. A tre mesi di distanza, a conferma dell’assenza di un senso di assoluta urgenza, il compito di preparare un rapporto sulla situazione politica in Europa orientale fu assegnato all’Istituto per lo studio dell’Economia del sistema socialista mondiale (il c.d. Istituto Bogomolov), al Dipartimento internazionale del Comitato centrale del PCUS, al ministero degli Affari esteri, al KGB. Dalla lettura dei primi tre 55 Pawel Machcewicz, Poland 1986-1989. From “Cooptation” to “Negoziated Revolution”, ibidem, doc. N. 15, pp. 112-113. 56 Constantine Pleshakov, Berlino 1989: la caduta del muro, Milano, Corbaccio, 2009, p. 213. 57 Consiglio d’Europa, Official Report, Fourty-first ordinary session, v. I, 1990, pp. 197-205. I costi dell’impero 41 memorandum (quello del KGB non è stato ancora pubblicato) 58 redatti nel febbraio 1989, emerge innanzitutto la diversa priorità assegnata all’Europa orientale dalle diverse istituzioni. Il sintetico, e spesso superficiale, documento del ministero degli Esteri è anche l’unico a ritenere l’URSS ancora in grado di esercitare un ruolo guida in Europa orientale. Contorto sino all’ossimoro, il memorandum del Dipartimento internazionale del PCUS assegna all’URSS il ruolo di «leader del processo di rinnovamento socialista», ma aggiunge subito una riserva: «dopo avere rotto con il precedente tipo di relazioni, non ne abbiamo stabilito ancora uno nuovo». Nel memorandum dell’Istituto dei paesi socialisti la dettagliata analisi assume toni allarmati, a tratti catastrofici, nel configurare la «minaccia di un collasso economico», di un «indebolimento delle posizioni dei partiti al comunisti al potere», di un collasso ideologico, possibile anticamera all’«anarchia e violenza». I paesi più a rischio sono considerati Polonia, Ungheria e Jugoslavia, per i quali l’unica via di uscita viene intravista nella introduzione di misure di «tatcherismo socialista», impopolari ma necessarie per recuperare competitività. Nel caso della Polonia, lo scenario più favorevole è individuato nell’introduzione del “pluralismo partitico“, con l’inevitabile corollario della formazione di un grande partito cattolico. La possibilità di una guerra civile, tale da trasformare la Polonia in un «Afghanistan al centro dell’Europa» non è del tutto esclusa; unica alternativa individuata a questo scenario, è «una evoluzione verso una società borghese classica, del tipo di Grecia e Italia» (sic!). Il memorandum è meno pessimista per l’Ungheria, per la quale prevede la inevitabile evoluzione verso una economia mista e forme di neutralismo, favoriti dall’ingresso nell’arena politica di «forze politiche alternative» al POSU. Anche per la Germania la previsione è di un inevitabile stravolgimento dello status quo, seguito dalla formazione di uno confederazione tedesca neutrale. L’evoluzione verso il pluralismo politico è considerata inevitabile da tutti i memorandum, che giudicano la prosecuzione del corso conservatore negli altri paesi del blocco come la fonte di possibili rivolte popolari, o della frantumazione della federazione in Jugoslavia. Comune ai tre memorandum è la convinzione che rinuncia all’uso della forza, 58 Per la cronistoria e il testo dei 3 documenti, cfr. Lévesque, Soviet Approches to Eastern Europe”, cit., pp. 49-72. 42 F. BETTANIN pluralismo politico e finlandizzazione dei paesi dell’Europa orientale siano passaggi inevitabili. Sul primo punto nessun documento si diffonde in modo particolare. Solo la richiesta di colmare le “macchie bianche” dei rapporti fra l’URSS e i singoli paesi dell’Europa orientale contiene una velata critica alla scelta di Gorbaþev di non associare l’abbandono di fatto della “dottrina Brežnev” e le solenni dichiarazioni di principio nei contesti internazionali con il riconoscimento delle responsabilità dell’Unione Sovietica. Altro giudizio condiviso è che «la spinta verso il pluralismo politico nei paesi socialisti europei si sta manifestando ovunque, e diverrà sempre più dominante». Secondo il Dipartimento internazionale, lo scenario più favorevole sarebbe stato quello di una “rivoluzione dall’alto”, veloce e indolore: quello intermedio la continuazione della situazione di alternarsi di “salti e arresti”; il più sfavorevole la permanenza al potere dei conservatori, potenziale causa di «una esplosione sociale dalle conseguenze imprevedibili». Importante era distinguere fra «l’interesse a mantenere i partiti comunisti ai vertici del potere, e l’interesse a mantenere alleanze con questi paesi». Il memorandum dell’Istituto dei Paesi socialisti è l’unico a toccare il tema degli effetti politici della rinuncia sovietica a esercitare il ruolo di “grande fratello”: «abbiamo rinunciato a imporre a tutto il mondo il modello del nostro paese, e abbiamo iniziato a renderci conto della necessità di inserire nel modello socialista alcune caratteristiche base del modello occidentale di sviluppo (mercato, competizione, società civile, libertà, civili, ecc.)». Più moderato, il memorandum del Dipartimento internazionale del PCUS si limita a sottolineare che «se un Paese dissente da noi», non significa che si stia rivolgendo all’occidente, o sia diventando capitalista; la parabola storica di Cina e Jugoslavia dimostrava il contrario, e anche in Polonia tutti erano consapevoli della «necessità di conservare qualche forma di alleanza con il nostro paese». L’uso del termine «finlandizzazione», comune ai tre memorandum, attribuisce al mondo capitalista un potere di attrazione inutile da contrastare, anche perché il processo era iniziato da tempo, e avrebbe ricevuto ulteriore impulso dalla nascita della UE, nel 1992. Con virtù profetica, il memorandum dell’Istituto dei paesi socialisti si spinge sino a prevedere l’adesione dei paesi dell’Europa orientale alla Comunità europea, giudicando la prospettiva con favore, perché avrebbe sollevato I costi dell’impero 43 l’URSS di un fardello economico insostenibile, avrebbe creato per USA e Europa occidentale un interesse concreto a prevenire rivolte, avrebbe arrestato lo slittamento dei paesi dell’area verso il sottosviluppo. È singolare che il termine finlandizzazione venga usato in riferimento ai processi economici, mentre la comune richiesta di riduzione delle truppe sovietiche di stanza in Europa orientale (i tagli annunciati da Gorbaþev all’ONU nel dicembre 1988 erano evidentemente considerati solo un primo passo) non si traduca in proposte dettagliate di riforma, o di scioglimento del patto di Varsavia. Per gli estensori dei memorandum, la formazione di una rete di interessi comuni dei paesi europei in campo economico avrebbe dovuto precedere la revisione della architettura della sicurezza nel continente: una scala di priorità che le vicende successive al crollo dell’URSS avrebbero rovesciato. La caduta del Muro colse tutti di sorpresa .59La constatazione è inoppugnabile, ma di scarso significato. Poche svolte storiche sono state “previste”, se con il termine si indica una precisa definizione dei loro tempi e modi. La lettura dei memorandum consente di affermare che l’élite politica sovietica era consapevole del precipitare della crisi in Europa orientale, e guardava al processo senza eccessive preoccupazioni, e anzi con un certo favore, scorgendovi una opportunità per l’Unione sovietica di liberarsi di regimi delegittimati e inefficienti senza ricorrere all’intervento diretto. Fra le righe, il memorandum dell’Istituto dei paesi socialisti lascia intravedere la speranza che gli avvenimenti in Europa orientale forzassero Gorbaþev a muovere con maggiore decisione verso il pluralismo politico e economico anche in patria: il che avvenne, ma non nel modo graduale e ordinato previsto dal memorandum 60. Sul piano pratico, la politica di Gorbaþev per l’Europa orientale non accolse i suggerimenti dei memorandum. La scelta di astenersi da ogni atto che potesse essere interpretato come una pressione per rovesciare i risultati delle elezioni del 4 giugno in Polonia, che avevano visto la schiacciante vittoria di Solidarność; l’accettazione della decisio59 In merito si veda il fondamentale testo di Mary Elise Sarotte, 1989. The Struggle to Create Post-Cold War Europe, Princeton, Princeton University Press, 2009. 60 Sulle ripercussioni che gli avvenimenti in Europa orientale ebbero in Urss, cfr.: M. Kramer, The Collapse of Eastern European Communism and the Repercussions within the Soviet Union (Part 2), in “Journal of Cold War Studies”, vol. 6, n. 4 (Fall 2005), pp. 3-64. 44 F. BETTANIN ne di consentire il passaggio in Germania occidentale ai cittadini della Germania est, presa dal governo ungherese nel settembre; il linguaggio criptico tenuto all’inizio di ottobre nel corso della sua visita in Germania, quando Gorbaþev evitò di condannare apertamente un regime inviso, sono azioni coerenti con la politica di condotta seguita sino ad allora. I processi in corso in Europa orientale erano irreversibili; contrastarli sarebbe stato inutile; essi andavano però gestiti con il sostegno dei paesi occidentali, e senza accelerare il corso degli eventi. Questi tratti emergono dal colloquio del 1° novembre con il neo segretario della SED Ergon Krenz: ultimo atto della politica di Gorbaþev prima della caduta del Muro. A giudicare dal resoconto stenografico, Gorbaþev concesse ben poco. Non aiuti economici, resi impossibili dall’entità dei debiti tedeschi e dall’aggravarsi della crisi in URSS. Non interesse e simpatia umana per il compito improbo che attendeva Krenz, sostituiti da una investitura apostolica: «non si può imporre la perestrojka a nessuno, essa deve maturare. Ed ecco, è maturata nella RDT». Anche l’assicurazione che «al momento il problema dell’unificazione della Germania non si pone all’ordine del giorno», era sostenuto più che dalla promessa di un impegno personale, dall’assicurazione che i più importanti uomini politici occidentali non consideravano con favore la prospettiva61. Come gli accadeva da tempo, per la soluzione dei problemi internazionali Gorbaþev guardava soprattutto a ovest. Pochi giorni dopo il Muro fu abbattuto da una folla di berlinesi, anche essi certi che la soluzione dei loro problemi andasse cercata in quella direzione, e quelle che erano state sino ad allora “rivoluzioni negoziate” si trasformarono in rivoluzioni nelle quali il ruolo della folla non poteva essere ignorato .62Se il destino dell’Europa orientale era nelle mani delle cancellerie occidentali, e di folle non violente, ma difficili da controllare, e soprattutto mosse da sentimenti antisovietici, quale ruolo il futuro riservava al Cremlino ? Dopo averlo a lungo eluso, Gorbaþev doveva alfine porsi l’interrogativo. GiGV, pp.232-245. Cfr. Jacques Lévesque, The East European Revolutions of 1989, in Lefller, Westad, op. cit., vol. III, pp. 311-332. Forti argomentazioni contro l’uso del termine «rivoluzione» per gli eventi del 1989 in Europa orientale sono avanzate da: Stephen Kotkin (with a contribution of Jan A. Gross), Uncivil Society. cit. 61 62 I costi dell’impero 45 Miseria dello storicismo Non era il solo. Dopo la caduta del Muro, nessuno pensava che l’ordine europeo avrebbe subito una rapida modificazione; ma nessuno riteneva che esso potesse restare a lungo inalterato. A confrontarsi erano, nella terminologia usata da Sarotte, tre ipotesi di transizione: il “restoration model”, nel quale le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale avrebbero deciso, d’intesa con i due stati tedeschi, l’assetto della Germania (una soluzione sintetizzata dalla formula “4+2”); il rilancio e l’adattamento alle condizioni della fine del XX secolo delle strutture confederative che da secoli avevano contrassegnato la storia degli stati tedeschi; la vaga visione di nuove strutture paneuropee, 63 realtà nemche faceva capolino nei discorsi di Gorbaþev . In meno al Cremlino qualcuno aveva idee chiare in merito, e l’unico effetto certo dell’abbattimento del Muro fu di costringere Gorbaþev ad assegnare alla questione tedesca un posto centrale nella sua agenda politica. Dai resoconti delle sue iniziative e dalle memorie dei suoi collaboratori emerge un Gorbaþev preoccupato di conservare l’immagine di statista disposto a favorire grandi mutamenti storici, purché essi avvenissero nella stabilità e nel lungo periodo. In questi termini si espresse, a poche ore dall’avvenimento, nel suo colloquio telefonico con Kohl: «nel mondo erano in corso grandi trasformazioni», che dovevano essere «attentamente valutate;» per questo, bisognava dare tempo alla «attuale direzione della RDT» di trovare la strada verso la democrazia, la libertà e nuove forme di economia .64In altri termini, Gorbaþev voleva prendere tempo, ma in quel momento anche Kohl era convinto che il completamento del processo di unificazione avrebbe richiesto anni. La pressione popolare, e il vuoto di potere apertosi nella Germania est indussero il cancelliere a rivedere questa convinzione. Il 21 novembre la stessa dirigenza sovietica, in circostanze non del tutto chiarite, fece pervenire a Kohl un messaggio nel quale si prospettava per la prima volta la possibilità di formare, come parte costitutiva di un «ordine paneuropeo di pace», una confederazione tedesca, o persino una Germania unita, ma fuori dalla Comunità europea e 63 64 Sarotte, op. cit., pp. 196-201. GiGV, pp. 247-250. 46 F. BETTANIN dalla NATO 65 . Kohl colse l’occasione che gli si offriva, e nel discorso al Bundestag del 28 novembre formulò un piano, articolato in dieci punti, di unificazione della Germania i cui tempi e modi dovevano dipendere dalla espressione della volontà popolare e non solo dalle trattative fra stati (una visione sintetizzata dalla formula “2+4”). In un coevo colloquio telefonico con Bush, Kohl fu ancora più esplicito: la profondità della crisi in Germania orientale non lasciava spazio per la difesa dello status quo e per una nuova Jalta 66 . Negli stessi giorni Gorbaþev era in visita in Italia, dove avrebbe incontrato il pontefice per poi volare, il 2 e 3 dicembre, al vertice di Malta con Bush. Se Stalin, nel secondo dopoguerra, aveva puntato tutte le sue carte sull’abbandono dell’Europa da parte degli USA, Gorbaþev confidava invece sulla collaborazione con l’amministrazione statunitense per giungere a una “Helsinki 2”: una nuova conferenza in grado di risolvere la questione tedesca all’interno di una generale risistemazione del continente67. Sbagliarono entrambi. I documenti preparatori al summit rivelano che, ancora prima del colloquio con Kohl, la politica del presidente Bush era ispirata dal una tattica attendista, e dal timore di cadere in una trappola simile a quella che, dal punto di vista statunitense, Gorbaþev aveva teso a Reagan al vertice di Reykjavik, inducendolo a eccessive concessioni . A68 Malta Gorbaþev sfogò la sua rabbia sul «signor Kohl [che] si affretta, si agita, si comporta in modo non serio e non responsabile», per poi sentenziare che «esistono due stati tedeschi, così ha deciso la storia», e quindi non era tempo di parlare di unificazione. Bush replicò che anche negli USA erano stati «sorpresi dall’estrema rapidità dei cambiamenti», ma che, «come Voi capirete, non si può pretendere da noi di non approvare l’unificazione tedesca»69. Della Germania, e dell’Europa orientale, non si disse molto di più; lo stesso 3 dicembre Bush volò a Laeken, dove incontrò Kohl, al quale diede il via libera per la at65 Una traduzione in inglese del documento è disponibile al sito: http: //www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB296/doc06.pdf. Per una ricostruzione della vicenda, cfr. Sarotte, op. cit., pp. 70-76. 66 . 67 Secondo ýernjaev questo era l’obiettivo principale che Gorbaþev si proponeva di raggiungere al vertice di Malta; riuscì a strappare a Bush solo una vaga promessa in merito (op. cit., pp. 817-31). 68 Leffler, op. cit., pp. 440-41. 69 GiGV, pp. 268-272. I costi dell’impero 47 70 memorie tuazione del programma dei “dieci punti” . Nelle Gorbaþev scrisse che l’incontro con Bush lo aveva convinto di «avere passato il Rubicone» ,71ma non poté certo sfuggirgli la progressiva emarginazione del Cremlino dalla soluzione della questione tedesca. Della frustrazione sovietica fece le spese il ministro degli Esteri tedesco Genscher, giunto a Mosca il 5 dicembre, che subì la sfuriata del suo collega Ševarnadze, secondo il quale la Germania seguiva una strategia di violazione dei diritti sovrani di altri stati «applicata ora con la RDT, domani forse con la Polonia e la Cecoslovacchia, dopo con l’Austria». Negli stenogrammi tedeschi dell’incontro, Ševarnadze si spinse sino a sostenere che “nemmeno Hitler si era permesso tanto 72«. Più moderato, Gorbaþev ritornò a più riprese sulla questione di fondo: i “10 punti” erano stati enunciati, senza consultarlo, nonostante avesse avuto con Kohl «positivi e costruttivi scambi di opinione», che avevano consentito di raggiungere un accordo su «questioni di fondo» 73 . Per la prima volta dal 1947, quando Stalin aveva imposto alla Cecoslovacchia di non partecipare al piano Marshall, il gruppo dirigente sovietico era costretto a fronteggiare le iniziative di una potenza occidentale all’interno del proprio impero esterno senza avere efficaci strumenti per fermarle. Qualche settimana dopo, riposte le speranze di una “Helsinki 2”, Gorbaþev evocò, nel corso di una riunione con i suoi più stretti collaboratori, lo spettro di una Unione Sovietica costretta a firmare «una pace di Brest n.2». Unica consolazione era la convinzione che Germania est e Polonia fossero casi a parte: «Romania, Cecoslovacchia, Bulgaria, Ungheria sono interessati a noi. Soffrono, ma non possono andare lontano» .74Nonostante questa nota di parziale ottimismo, la prospettiva di una “casa comune europea” costruita senza l’URSS, se non contro di essa, diveniva sempre più concreta. Da politico consumato, che aveva costruito la carriera scalando la nomenclatura del PCUS, Gorbaþev sapeva imparare dalle sconfitte. Nel corso del 1990 Gorbaþev incontrò due volte il cancelliere Kohl, nel febbraio e nel luglio, e si mantenne con lui Sarotte, op. cit., pp. 78-79. Gorbaþev, op. cit., p. 516. 72 http://www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB296/doc05.pdf. 73 GiGV, pp. 273-84. 74 Ibidem, p. 309. 70 71 48 F. BETTANIN in costante contatto telefonico. Nel maggio ebbe un nuovo vertice con Bush, preparato da due incontri con il segretario di stato Baker, con il quale i contatti erano mantenuti da Ševarnadze, nell’ambito delle trattative del “2+4”. Mosca fu anche meta dei più importanti uomini di stato dell’Europa occidentale, che discussero con Gorbaþev dei destini dell’Europa, e soprattutto della Germania. Senza sottovalutare il ruolo di questa intensa attività diplomatica, si può affermare che fu il rapporto privilegiato stabilitosi fra Bonn e Mosca ad aprire la strada all’unificazione tedesca e al trattato di collaborazione e di amicizia fra l’Unione Sovietica e la Germania occidentale, firmato all’inizio di novembre75. Gorbaþev rinunciò a partecipare alle celebrazione per l’unità tedesca per ragioni di opportunità, che indussero anche Bush a fare altrettanto. E anche per la sensazione di essere stato per la prima volta travolto dagli avvenimenti piuttosto che guidarli. «Non sarei sincero se dicessi di avere previsto il corso degli eventi e i problemi che la questione tedesca avrebbe alla fine creato per la politica estera sovietica» ,76scriverà nelle sue altrimenti autocelebrative memorie. Se il giudizio politico sulla strategia seguita da Gorbaþev è stato da subito severo in Russia, il dibattito storiografico ha espresso, almeno nei paesi occidentali, posizioni più sfumate. È indubbio che le sue scelte furono condizionate dalla difficile situazione interna. La positiva conclusione del XXVIII congresso del PCUS, nel luglio 1990, che vide la sconfitta dei conservatori, gli consentì di riguadagnare un margine di manovra nelle trattative sulla Germania, condizionate, in misura maggiore di quanto abbia mai ammesso, dalle «twin carrots of money and NATO reform» . 77 I silenzi che gli stenogrammi sovietici degli incontri mantengono sull’erogazione di crediti da parte tedesca occidentale sin dal febbraio (solo i ringraziamenti di Gorbaþev a Kohl per il «sostegno accordato» tradiscono lo stato delle cose), sono un indice inequivocabile dell’imbarazzo provato per accordi che potevano dare l’impressione di barattare i diritti acquisiti dall’URSS come potenza vincitrice della seconda guerra mondiale con il denaro tedesco. Difficile dire se Gorbaþev avrebbe potuto chiedere di più sul piano finanziario: tenuto conto della accelerazione della crisi in UnioIbidem, pp. 307-604. Gorbachev, op. cit., p. 516. 77 Sarotte, op. cit., p. 193 75 76 I costi dell’impero 49 ne Sovietica, del risultato delle elezioni del marzo 1990 in Germania est, che avevano espresso una chiara volontà di unificazione, ottenne crediti consistenti, anche se tutto fu presto bru78 ciato da una inflazione galoppante . Gorbaþev non accettò l’unificazione tedesca perché aveva un disperato bisogno di soldi; offerte economiche altrettanto allettanti giunsero dal Giappone, desideroso di chiudere il contenzioso delle isole Curili, e furono rifiutate perché escludevano la prospettiva di una futura collaborazione politica fra i due paesi in Asia 79 . Il suo errore più grande fu semmai di ritenere che l’Occidente avrebbe potuto concedere all’URSS un nuovo piano Marshall. In esso la sopravvalutazione delle risorse, finanziarie e intellettuali, dell’Occidente, si mescolò con la ricerca di un alibi per procrastinare le ineludibili riforme economiche delle quali si stava discutendo in quei giorni in Unione Sovietica 80. Non è nemmeno esatto affermare che nel luglio Gorbaþev offrì a Kohl «in dono il graduale e completo ritiro delle truppe sovietiche senza nemmeno chiedere in cambio la neutralità tedesca» 81 . Piuttosto, indebolì la propria posizione negoziale avanzando, nel febbraio, la poco praticabile proposta di una doppia appartenenza della Germania alla NATO e al patto di Varsavia e poi non chiese, come i suoi consiglieri gli avevano suggerito di fare, garanzie scritte sulle modalità di estensione della NATO, e sulla “demilitarizzazione”, e non solo “neutralizzazione”, della Germania unita .82La proposta di non prendere impegni definitivi sull’appartenenza della Germania unita era, data la piega presa dagli avvenimenti, irrealizzabile, e 78 Ibidem, pp. 152-160; Tuomas Forsberg, Economic Incentives, Ideas, and the End of the Cold War: Gorbachev and German Unification, in “Journal of Cold War Studies”, vol. 7, n. 2, 2005, pp. 150-56; Helga Haftendorn, The unification of Germany, 1985, in Leffler, Westad, op. cit., v. III, pp. 347-50. 79 Forsberg, art. cit., pp. 156-60. 80 Hanson, op. cit., pp. 220-35. 81 Kotkin, op. cit., p. 77. 82 Questo gli aveva chiesto di fare, in un memorandum risalente all’aprile, Valentin Falin, vice presidente del dipartimento internazionale del PCUS, e massimo esperto sovietico sulla Germania, divenuto in seguito uno dei più aspri critici di Gorbaþev (GiGV, pp.398-408). Nel maggio era chiaro che le trattative non procedevano, per i sovietici, nel migliore dei modi, e ýernjaev, nel suo diario, ne addossò la responsabilità a Ševarnadze, che le conduceva «con frasi generali invece di costringere i nostri partner a esaminare le nostre concrete condizioni»(ýernjaev, op. cit., p. 855). 50 F. BETTANIN persino pericolosa. Tutto ciò che Gorbaþev riuscì a ottenere fu l’impegno a non muovere truppe della Germania ovest nella parte orientale del paese prima che questa fosse stata abbandonata dal contingente sovietico. Non era una concessione di poco conto, perché riconosceva implicitamente che l’URSS non era la parte sconfitta nella Guerra fredda. Senza sottovalutare gli errori commessi da Gorbaþev, tipici di un politico formatosi in epoca sovietica, per il quale i contatti personali contavano più delle garanzie scritte e dei trattati, bisogna dire che il suo compito non era dei più facili. Rilanciare il “restoration model” era pressoché impossibile, con gli USA proiettati verso la guerra con l’Iraq e meno attenti ai problemi europei; Francia e Gran Bretagna grandi potenze sulla carta, pronte a sostenere Gorbaþev solo a parole e in dissenso fra loro, mentre i popoli dell’Europa orientale reclamavano il diritto a decidere del proprio destino. Il timore che i destini di Mosca venissero decisi a Berlino era giustificato, e si materializzava nella ricorrente metafora della “pace di Brest”, ma la scelta della Germania occidentale come interlocutore principale, e di conseguenza della formula “2+4” per le trattative, aveva poche alternative. I rapporti personali e politici fra Gorbaþev e Kohl sintetizzano la miscela di opportunismo e idealismo, superficialità e senso di responsabilità per i destini dell’umanità, timori di emarginazione e perdurante visione da grande potenza che contraddistinse l’ultimo scorcio della politica estera sovietica. Persino i burocratici stenogrammi degli incontri e dei colloqui telefonici fra i due uomini di stato rendono il passaggio da una diffidenza reciproca a una intesa senza la quale l’unificazione tedesca non sarebbe avvenuta in tempi così brevi. I due avevano bisogno l’uno dell’altro, e in questa evoluzione vi è un elemento di Realpolitik, se non di opportunismo, ma anche una affinità personale e politica: entrambi erano pronti a cambiare l’Europa, e per questo dovevano scontrarsi con avversari, interni e esterni, dichiarati e non. Se la perestrojka aveva radici intellettuali, queste risalivano alla Ostpolitik e ai rapporti privilegiati che si erano da allora stabiliti fra Germania e URSS, non meno che alla Primavera di Praga. Qualche giorno prima dell’unificazione della Germania, ricevendo una delegazione della SPD comprendente Egon Bahr, che di quella politica era stato uno dei padri, Gorbaþev riconobbe il suo debito intellettuale, parlando di «rapporti unici fra i nostri due par- I costi dell’impero 51 titi». Tutti ormai, proseguì Gorbaþev, nell’URSS, nell’Europa, nel mondo, erano consapevoli della necessità di «ricostruire la vita»: i tedeschi avevano dimostrato la capacità di farlo attraverso il «rafforzamento della democrazia», mentre in Unione Sovietica, sino alla perestrojka, si era proceduto distruggendo «politicamente, ma anche fisicamente il nemico» . 83 Con retorica non priva di sincerità, nel corso del decisivo incontro del luglio 1990, Gorbaþev replicò a Kohl, che gli elencava i problemi aperti dal sostegno economico concesso a Germania orientale e URSS, che: «il cancelliere sta ora sperimentando la sua perestrojka… Grandi fini comportano difficoltà altrettanto grandi» 84. Da parte sua Kohl, al momento della firma del Trattato di amicizia e cooperazione nel novembre 1990, dichiarò che a un eventuale insuccesso della perestrojka sarebbe «seguito il caos, con conseguenze non solo per l’Unione sovietica, ma per tutta l’Europa»85. Solo attraverso la collaborazione con una Germania unita Gorbaþev poteva sperare di realizzare i suoi piani di formazione di un sistema di istituzioni di sicurezza europee, da costruire sulle ceneri del patto di Varsavia e NATO . 86 In questa visione eroica della storia, che era un espediente per sfuggire a una arcigna realtà, più che nel modo dilettantesco in cui furono condotte le trattative, va cercato l’errore di fondo della politica di Gorbaþev. L’unificazione tedesca assorbiva tutte le risorse tedesca della Germania occidentale, impedendo ai capitali tedeschi (e europei) di contribuire alla stabilizzazione dell’area, come era accaduto nei decenni precedenti, e non stupisce che il cancelliere tedesco abbia tentato, al pari di Bush, di mantenere per 87 quanto possibile lo status quo in Europa orientale . Questo comportava per Mosca la necessità di definire un proprio ruolo nell’area, da esercitare non con la forza. È quindi meno scontata di quanto possa sembrare la sconsolata considerazione di ýernjaev, a commento di un inconcludente plenum del comitato GiGV, pp. 584-85. Da segnalare che i giudizi espressi da Gorbaþev compaiono negli stenogrammi tedeschi dei colloqui del luglio, non in quelli pubblicati a cura dalla Fondazione Gorbaþev (Cfr. Hanns J. Küsters, The Kohl-Gorbachev Meetings in Moscow and in the Caucasus, 1990, in “Cold War History”, vol. 2, n. 2 (January 2002), doc. 1, p. 204. 85 GiGV, p. 603. 86 Sarotte, op. cit., p. 104. 87 Leffler, op. cit., pp. 427-48. 83 84 52 F. BETTANIN centrale del PCUS tenuto all’inizio del 1990 sulle questioni internazionali: «L’Europa orientale si sta staccando del tutto da noi, e non amichevolmente…Ed è sempre più chiaro che la casa comune europea si farà in linea di massima senza di noi, senza l’URSS»88. Gorbaþev decise invece, ha scritto Sarotte, che «it was too costly to try to direct political events in regions, whether in Afghanistan or Europe, that clearly had goals others than those set by Moscow» .89Le annotazioni di ýernjaev sui giudizi pronunciati da Gorbaþev in occasione del suo ultimo incontro con Kohl, a Kiev, nel luglio 1991, confermano il giudizio: «Europa orientale… Gorbaþev si è dilungato sulla “cooperazione”…e sulla liberazione del complesso della “superinfluenza”..<Li abbiamo annoiati! Ma anche loro ci hanno annoiato>». Secondo Gorbaþev, la rinuncia a «pretendere rapporti particolari» con l’area non avrebbe comportato per l’URSS la rinuncia al ruolo di superpotenza: «Kohl capisce di non essere in grado di inghiottire l’URSS; di più, senza di noi non è in grado di inghiottire l’Europa e di staccarsi dagli americani. E farà di tutto per aiutarci a risollevarci e agire assieme… Certo, l’Ucraina gli fa gola…Ma è qualcosa di diverso dallo spazio vitale hitleriano» 90. Pochi giorni dopo, il fallito golpe avrebbe troncato queste fantasie, che già suonavano da epitaffio per l’URSS Difficile dire cosa avrebbe potuto ottenere Gorbaþev se, subito dopo la caduta del Muro, non avesse puntato tutte le sue carte sulla Germania occidentale, e avesse seguito con maggiore decisione il corso riformista imboccato da altri paesi dell’ormai ex impero sovietico. In tutta l’Europa orientale l’antisovietismo era forte, e più che della “noia” reciproca Gorbaþev avrebbe dovuto preoccuparsi dell’influsso che gli avvenimenti nell’area cominciavano ad avere, invertendo una tendenza storica, all’interno del’Unione sovietica . 91 Ma altrettanto decisiva era la perdurante dipendenza dei paesi dell’area dai legami economici con l’URSS, senza il cui consenso sarebbe stato impossibile creare un sistema di sicurezza europeo, e questo poneva a disposizione di Gorbaþev uno strumento di intervento. Nessun impero scompare da un giorno all’altro, e ýernjaev, op. cit., p. 838. Sarotte, op. cit., p. 212. 90 ýernjaev, op. cit., pp. 958-59. 91 Kramer, The Collapse of Eastern European Communism and the Repercussions within the Soviet Union (Part 3), in “Journal of Cold War Studies”,vol. 7, n. 1, 2005, pp. 3-96. 88 89 I costi dell’impero 53 sarebbe toccato a Gorbaþev articolare in proposte concrete la sua vaga visione di un ordine paneuropeo. Non tentò mai seriamente di farlo. Figlio di una storia che aveva visto più volte l’URSS risollevarsi da tragedie immani e dimostrarsi capace di uscire dall’isolamento e dalla marginalità internazionali, preferì temporeggiare, in attesa di tempi migliori che non giunsero. In questo storicismo sta il suo limite e anche il merito maggiore, poiché Gorbaþev non venne mai meno alla convinzione che il ruolo di superpotenza che l’URSS aveva svolto per anni comportasse il dovere di non porre a repentaglio i destini dell’umanità, e quindi di accettare i verdetti della Storia, anche se questi erano di segno contrario ai suoi progetti e alle sue aspettative. TRAIETTORIE DEL CAMBIAMENTO Il 1989 in Ungheria e Romania nel recente dibattito storico Stefano Bottoni Questo saggio si propone di analizzare in chiave comparativa le traiettorie verso il cambiamento politico e socio-economico compiute intorno al 1989 da due paesi dell’Europa centroorientale, l’Ungheria e la Romania, È lecito domandarsi cosa possa accomunare, o rendere perlomeno comparabili, due esperienze apparentemente così distanti. L’Ungheria è infatti nota alla letteratura specialistica come un caso di transizione “guidata” e apparentemente indolore dal sistema monopartitico comunista alla democrazia di tipo occidentale, attraverso un processo di autoriforma e apertura controllata avviato nella seconda metà degli anni Ottanta dallo stesso regime di János Kádár . 1 La Romania di Ceauşescu attraversò invece nell’ultimo decennio una progressiva involuzione che portò il paese ad isolarsi dal mondo esterno. La fine del regime comunista non scaturì da un negoziato, ma da una rivoluzione armata, per buona parte spontanea, alla quale si affiancò in un secondo momento un colpo di stato politico teso a detronizzare il dittatore Nicolae Ceauşescu. Nel ripercorrere il cammino parallelo dei due paesi, il saggio si propone di ritrovare e analizzare da un lato i tratti che legano le 1 Cfr. Béla Király and András Bozóki, eds.: Lawful Revolution in Hungary, 1989–1994. Highland Lakes, NJ, Atlantic Research & Publishing, 1995); Rudolf L. Tökés, Hungary’s Negotiated Revolution: Economic Reform, Social Change, and Political Succession, 1957-1990. New York, Cambridge University Press, 1996. Gli stenogrammi della tavola rotonda sono stati pubblicati da András Bozóki et al.: A rendszerváltás forgatókönyve: Kereksztal-tárgyalások 1989-ben, voll. 1-4. Budapest, Magvető, 1999; voll. 5-8. Budapest, Új Mandátum, 2000). In traduzione inglese Id.: The Roundtable Talks of 1989: The Genesis of Hungarian Democracy (BudapestNew York: CEU Press, 2002) 56 S. BOTTONI due esperienze (la dipendenza dal sistema sovietico, il ruolo dell’ex-partito guida, la debolezza dei movimenti di opposizione, la questione della minoranza ungherese in Transilvania come fonte di tensione fra i due regimi, le conseguenze sociali del cambiamento), dall’altro tenta di spostare l’attenzione dall’anno-simbolo, il 1989, all’intero triennio 1988-1990. Come cercherò di argomentare, in Ungheria il momento decisivo della transizione politica ed economica, in cui si fissarono le regole del cambiamento, avvenne prima dell’annus mirabilis, nel 1988, mentre in Romania gli sconvolgimenti interni del dicembre 1989 non rappresentarono che l’inizio di una transizione che avrebbe visto drammatici sviluppi politici e culturali nel primo semestre del 1990. Potremmo quindi concludere affermando che in Ungheria non vi fu alcun mutamento radicale, solo una trasformazione controllata, mentre in Romania la rivoluzione durò esattamente sei mesi, dal 15 dicembre 1989 al 15 giugno 1990, e i suoi motivi di interesse storico risiedono non tanto nella molto studiata prima fase, quella della repressione e dei combattimenti (15-25 dicembre), ma nel ben più sconosciuto secondo momento della rifondazione politica ed economica. Il contesto internazionale e le strategie sovietiche, 1986-1990 Le profonde trasformazioni attraversate nel 1989-90 dall’Europa centro-orientale furono ampiamente influenzate dall’agenda politica delle due superpotenze. Sarebbe tuttavia errato affermare che Stati Uniti e Unione Sovietica abbiano guidato con mano ferma la trasformazione dei regimi comunisti verso un assetto gradito a entrambi. Prima di concentrarci sul caso ungherese e romeno, è utile ricordare che. nel caso della riunificazione tedesca il repentino collasso della Repubblica Democratica Tedesca nella primavera-estate del 1990 non solo non era stato previsto o anticipato a Mosca e Washington, ma non rientrava nell’agenda politica di nessun grande paese europeo. A rendere possibile un evento considerato fino a pochi mesi prima un’indesiderabile utopia fu una combinazione di eventi: la spregiudicata azione politica del cancelliere tedescooccidentale Helmut Kohl, cui l’amministrazione Bush offrì una sponda prudente, la debolezza delle nuove autorità di Berlino Traiettorie del cambiamento 57 est, incapaci di dare dopo il 9 novembre 1989 un senso all’esistenza del “loro” stato, ma soprattutto la decisione strategica di Gorbaþev, presa nel febbraio 1990, di legare il ritiro sovietico dalla Germania orientale all’ottenimento di prestiti agevolati in grado di dare una boccata d’ossigeno alla moribonda economia sovietica2. Proprio l’evoluzione dell’approccio gorbacioviano a quella peculiare fascia di sicurezza che l’Europa orientale costituiva per l’Unione Sovietica, in quanto suo “impero esterno” 3, si trova attualmente al centro del dibattito scientifico .4Secondo Andrei Graþev, vice-responabile del Dipartimento Esteri del Comitato centrale del PCUS negli anni della perestrojka, consigliere e in seguito portavoce di Gorbaþev, il “nuovo pensiero politico” gorbacioviano non rappresentava una semplice copertura della ritirata strategica di una delle superpotenze, ma tentava di combinare un’autentica cooperazione con l’Occidente, e in primo luogo con gli Usa, con il progetto di democratizzazione interna dell’Urss. A partire dal XXVII congresso del PCUS del 1986 e su raccomandazione di un nutrito gruppo di accademici e analisti emarginati fino a quel momento dal processo decisionale sovietico, la nuova leadership adottò una politica estera per molti versi innovativa, nella quale la rinuncia all’approccio di classe nella lettura dei rapporti internazionali si affiancava a passi concreti come la ripresa dei negoziati sul disarmo atomico (agevolati anche dalla catastrofe nucleare di ýernobyl’, che scosse profondamente Gorbaþev), l’avvio del ritiro dall’Afghanistan, l’attrazione di capitali occidentali e il miglioramento dei rapporti con la Cina5. 2 Mary Elise Sarotte, 1989. The struggle to create post-Cold War Europe. Princeton&Oxford, Princeton University Press, 2009. 3 Sui meccanismi di funzionamento dell’impero esterno sovietico vedi in dettaglio Fabio Bettanin, Stalin e l’Europa. La formazione dell’impero esterno sovietico. Roma, Carocci, 2006. 4 Un ruolo centrale al pensiero gorbacioviano viene attribuito come motore dei cambiamenti in Europa orientale da Archie Brown, The Gorbachev Factor. Oxford, Oxford University Press, 1996. Secondo altri autori, l’aggravamento della situazione economica e sociale ebbe un peso maggiore di qualunque strategia politica. Stephen Kotkin, Armageddon averted. The Soviet collapse 1970-2000. Oxford, Oxford University Press, 2008, capp. 3-4. 5 Andrei Graþev, Gorbachev’s Gamble. Soviet Foreign Policy and the End of the Cold War, Polity Press, Cambridge, 2008. 58 S. BOTTONI È interessante notare che fino al 1988 l’Europa orientale non rientrasse tra le priorità della politica sovietica. Gorbaþev guardava con indubbia simpatia a paesi riformisti come la Polonia e soprattutto l’Ungheria, ma per oltre tre anni la nuova dirigenza sovietica continuò a ragionare in termini di blocco e di socialismo. Come sottolineò il diplomatico italiano Maurizio Massari in un testo apparso nel 1990 , 6e come hanno successivamente confermato le ricerche d’archivio, la rinuncia all’interferenza negli affari interni dei paesi dell’Europa orientale venne sancita politicamente durante la XIX conferenza del PCUS, nel giugno-luglio 1988. Tale svolta trovò poi una consacrazione pubblica nel discorso pronunciato da Gorbaþev il 7 dicembre 1988 all’assemblea generale dell’ONU, nel quale il segretario generale del PCUS affermò il diritto dei paesi membri del blocco sovietico alla propria sovranità, un’affermazione che implicava piena facoltà di scegliere il proprio assetto istituzionale e socioeconomico. La rinuncia sovietica all’irreversibilità del progetto socialista non accompagnò soltanto le “rivoluzioni” del 1989, ma le rese possibili. Più precisamente, determinò il loro carattere pacifico e mediato. Sebbene l’effetto-domino non fosse stato previsto nei suoi dettagli, gli avvenimenti est-europei del 1989 non colsero nel loro insieme Mosca di sorpresa. Svetlana Savranskaya, curatrice di un’imponente collezione documentaria relativa alla fine della Guerra fredda in Europa, osserva tuttavia che l’ingresso del futuro dell’Europa orientale tra le priorità della politica sovietica non ebbe origine in primo luogo da un’evoluzione democratica del pensiero gorbacioviano, ma dal progressivo sfaldamento economico (e in seguito politico, dopo le elezioni del marzo 1989, caratterizzate da un acceso pluralismo interno garantito dalle pluri-candidature) del fronte interno sovietico. Nel gennaio 1989 l’Urss era scossa da scontri etnici estesi in Georgia e Armenia/Nagorno-Karabach, dalle pulsioni indipendentiste nel Baltico, degli scioperi dei minatori del Donbass. Proprio il crollo del fronte interno spinse Gorbaþev e il suo gruppo dirigente a dare il via libera ai cambiamenti politici che dall’autunno 1988 si andavano prefigurando in Polonia e Un6 Maurizio Massari, La grande svolta: la riforma politica in Urss (1986-1990). Napoli, Guida editore, 1990; Andrea Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica 1945-1991, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 503-579. Traiettorie del cambiamento 59 gheria. Il generale Jaruselski e gli eredi ungheresi di János Kádár (il capo del governo Miklós Németh e il popolare Imre Pozsgay) acconsentirono all’avvio di negoziati formali con i movimenti di opposizione nella consapevolezza che l’Unione Sovietica non avrebbe ostacolato il processo di trasformazione interna7. Come ha sottolineato Mark Kramer, il progressivo disgregamento dell’impero esterno contribuì anche all’approfondirsi della crisi interna dello Stato sovietico. In campo economico, la reciproca dipendenza derivata da un sistema di scambi commerciali a prezzi fissi e a bassa efficienza economica originava un sistema dal quale tutte le controparti non ricavavano che perdite. Da un punto di vista politico ed ideologico, l’Europa orientale aveva un profondo significato per l’Unione Sovietica: l’abbandono del socialismo da parte dei satelliti europei minò gravemente le basi di legittimazione della stessa Urss e accelerò la sua disgregazione8. L’Ungheria nel cambiamento: eccezione o modello? L’Ungheria degli anni Ottanta era considerata dalla maggior parte degli analisti coevi il paese più aperto all’Occidente dell’intero blocco orientale. L’incoraggiamento al consumo individuale e all’iniziativa privata, tale da favorire la nascita della cosiddetta “seconda economia”, o economia parallela (magistralmente descritta nel 1982 dal sociologo István Kemény ),9 si traduceva in una peculiare convivenza tra aderenza formale e pubblica al regime e pluralismo informale nella sfera privata. Il ruolo pilota svolto dallo stato danubiano nella trasformazione dell’economia di piano in un sistema competitivo dominato dalla proprietà privata è quindi fuori discussione. Come ha dimostrato Ervin Csizmadia nella sua importante opera dedicata al dibattito intellettuale ungherese sull’idea di Occidente negli an7 Svetlana Savranskaya, Thomas Blanton, Vladislav Zubok (eds.), Masterpieces of History. The Peaceful End of the Cold War in Europe, 1989, Budapest, Central European University Press, 2010. 8 Mark Kramer, The Collapse of East European Communism and the Repercussions within the Soviet Union (Part 1), “Journal of Cold War Studies”, Vol. 5, No. 4 (Fall 2003), pp. 178–256. 9 István Kemény, The Unregistered Economy in Hungary, “Soviet Studies”, Vol. 34, No. 3 (Jul. 1982), pp. 349-366. 60 S. BOTTONI ni Settanta e Ottanta, l’orientamento dichiaratamente filooccidentale di gran parte delle élite non era un puro segnale di opportunismo ma rappresentava lo sbocco naturale di un dibattito ventennale condotto pubblicamente su riviste liberamente accessibili. Il tema dominante delle discussioni, appena lievemente intessuto di fraseologia marxista, era l’idea che l’Occidente non fosse solo un punto di riferimento democratico e per i diritti umani, ma soprattutto un baluardo di libertà economica e una prospettiva di integrazione super-nazionale, l’unica che offrisse all’Ungheria uno spiraglio dopo il fallimento economico del sistema statalista di tipo sovietico. Questo costituì un primo punto di contatto fra gli appartenenti a diversi gruppi di élite (i tecnici del partito, gli esperti di politica estera, gli economisti e i militanti dell’opposizione democratica). Il punto di svolta nella presa di coscienza occidentale giunse nel giugno 1987, con la pubblicazione del saggio intitolato “Társadalmi Szerződés” (Contratto sociale), cui contribuirono economisti di estrazione marxista e liberale generando le premesse di un nuovo patto di modernizzazione. La crisi del sistema socialista sarebbe stata superata agganciando il paese alla globalizzazione e all’interdipendenza economica, liberalizzandone rapidamente la struttura 10 economica ma senza aderire ad alcuna terapia shock . Non a caso, come afferma il politologo Rudolph L. Tőkés, fu proprio il crollo di un consolidato compromesso sociale e psicologico (si veda il persistente tabù relativo alla rivoluzione del 1956 ) a 11 mandare in crisi l’intero sistema kádáriano. Per il blocco sociale che si era formato sulle élite politiche, economiche e culturali, sostenute da una classe media di formazione tecnico-scientifica, l’esplosione politica e sociale che aveva scosso il paese nel 1956 restava a trent’anni di distanza uno spettro il cui paventato ripetersi andava evitato ad ogni costo. Il compromesso kádáriano con la società, che barattava una certa sicurezza economica con strategie di adattamento individuale al regime socialista e con la perdita di centralità della moralità pubblica, giunse ad esaurimento quando furono le stesse élite che ne avevano beneficiato 10 Ervin Csizmadia, Diskurzus és diktatúra. A magyar értelmiség vitái Nyugat-Európáról a késő Kádár-rendszerben. Budapest, Századvég, 2001, p. 78 11 Su questo mi permetto di rimandare al mio contributo intitolato Damnatio memoriae? La rivoluzione del 1956 nel discorso pubblico ungherese, “Rivista di Studi Ungheresi”, n. 6/2007, pp. 69-81. Traiettorie del cambiamento 61 a decretarne rumorosamente la fine 12 . Il successo di questa élite di partito nel gestire il cambiamento economico e politico accomuna – pur nella differenza delle traiettorie storiche – il caso ungherese a quello polacco e bulgaro, e differenzia in modo fondamentale questi casi da quello tedesco-orientale, cecoslovacco e soprattutto romeno, in cui le vecchie élite non vollero e non seppero crearsi alcuna “uscita di sicurezza” nel post-comunismo. Il radicamento delle capacità di adattamento delle élite politiche ed economiche post-comuniste, a proprio agio nella nuova realtà pluralistica, era dovuto al fatto che la nomenclatura era ormai formata non soltanto da tecnocrati, ma da autentici manager che non solo avevano studiato i meccanismi del mercato, ma li applicavano quotidianamente anche a costo di scontrarsi con un ambiente politico ostile. Ma il successo non può essere spiegabile soltanto attraverso la volontà di rottura. Perché la transizione ungherese assumesse da subito i caratteri che le si riconoscono (mediata, gestita dall’alto, cauta, accentuatamente tecnocratica) erano necessari tre fattori concomitanti: il contesto internazionale, la forza delle élite post-comuniste e la parallela debolezza dei gruppi di opposizione cui il potere veniva formalmente ceduto. Al contesto internazionale abbiamo dedicato il paragrafo precedente; analizzando il caso ungherese, lo storico László Borhi evidenzia una sostanziale convergenza di interessi fra i sovietici e le principali potenze occidentali. Ancora nel luglio 1989 il vice-responsabile della sezione esteri del Partito socialista operaio ungherese, Imre Szokai, affermava in un memorandum riservato: “I nostri partner (occidentali - nda) pensano che per conservare la stabilità europea e lo status quo acquisito negli ultimi decenni non dovrebbe aver luogo alcun cambio di regime in Ungheria e la politica ungherese non dovrebbe mettere a rischio la sicurezza sovietica”13. L’estrema prudenza nei confronti della trasformazione politica dell’Europa orientale era dettata sia dalla volontà di non indebolire Gorbaþev, quanto dal timore che il precipitare della situazione potesse generare turbolenze a livello continen- Tőkés, Hungary’s, cit., pp. 426-427. László Borhi, A Reluctant and Fearful West. 1989 and Its International Context, “The Hungarian Quaterly”, Spring 2009, p. 64. 12 13 62 S. BOTTONI tale (conflitti armati, instabilità economica, ondate migratorie di profughi o rifugiati14). Quanto all’evoluzione dei rapporti fra il partito-stato e i movimenti di opposizione, Zoltán Ripp, autore della più dettagliata monografia sugli aspetti politici della trasformazione ungherese, rileva una serie di contraddizioni e problemi assai interessanti. In primo luogo, l’impulso fondamentale alle riforme si deve non a spinte provenienti dal basso (o dall’esterno), ma all’azione del governo guidato dall’economista Miklós Németh, in carica dal 24 novembre 1987 all’aprile 1990. In secondo luogo, le riforme economiche precedettero qualunque vera liberalizzazione politica. L’approvazione della legge sul diritto societario (VI/1988), una riforma fondamentale che consentiva la creazione di società miste (detenute dai partner stranieri fino al 100% e non solo fino con quote di minoranza, come dal 1982), e attraverso la vendita di capitale pubblico (la cosiddetta “privatizzazione spontanea”) segnò in pratica il passaggio al sistema capitalista, che venne sanzionato dal Comitato centrale del Partito comunista nella seduta del 10 maggio 1988, pochi giorni prima della sostituzione dell’anziano Kádár con il più dinamico Károly Grósz 15. A conferma del carattere selettivo della liberalizzazione politica in atto, il Partito comunista e gli apparati di sicurezza gestirono in modo differente i problemi di ordine pubblico causati dalle sempre più frequenti dimostrazioni: tollerarono il corteo alternativo del 15 marzo in onore dei moti del 1848 (salvo vessare numerosi dei diecimila partecipanti nelle ore serali), dispersero con la forza il 16 giugno gli oppositori che ricordavano il trentennale della condanna a morte di Imre Nagy, mentre il 27 giugno appoggiarono la manifestazione, formalmente organizzata da organizzazioni indipendenti in favore della minoranza ungherese in Transilvania. Nel frattempo, l’Ungheria ammetteva di essere diventata il paese più indebitato al mondo (procapite), e il 28 agosto il vertice bilaterale romeno-ungherese convocato ad Arad per stemperare le gravi tensioni accumulatesi a causa delle politiche discriminatorie del regime romeno si concludeva con un fallimento personale di Grósz, accusato di incapacitá diplomatica, e con un ulteriore aggravamento della Ivi, p. 66. Zoltán Ripp, Rendszerváltás Magyarországon 1987-1990, Budapest, Napvilág Kiadó, 2006, p. 134. 14 15 Traiettorie del cambiamento 63 crisi umanitaria in atto. Nell’autunno 1988 emersero contrasti sostanziali nella leadership comunista ungherese sui limiti della liberalizzazione: il 29 novembre Grósz, ormai da posizioni di retroguardia, descrisse durante una manifestazione di quadri il rischio di un nuovo “terrore bianco” e di una nuova controrivoluzione dopo quelle del 1919 e del 1956. Meno di due mesi più tardi, tuttavia, parlando alla radio di stato il suo rivale Pozsgay definì il 1956 una “sollevazione popolare”, e il 10-11 febbraio 1989 in una drammatica seduta del Comitato centrale, in cui si rischiò anche la scissione, i riformatori ottennero una vittoria decisiva: ogni trasformazione si sarebbe inserita in un quadro multipartitico, e dell’assetto istituzionale del paese avrebbe deciso una tavola rotonda convocata sul modello polacco. Nonostante la presenza di numerosi movimenti di opposizione (tra i principali il nazional-conservatore Forum democratico ungherese, costituitosi nell’autunno 1987, e due formazioni di orientamento liberal-democratico, l’Alleanza dei giovani democratici, creata nel marzo 1988 e l’Alleanza dei democratici liberi, formalmente costituitasi nel novembre 1988), durante il cruciale 1988 la lotta politica non si svolse dunque fra il governo (e partito-stato) e l’opposizione extra-parlamentare, sostenuta dalla piazza e dal “mondo libero”, ma quasi esclusivamente all’interno della nomenklatura, dove l’ala riformista godeva apertamente dell’appoggio non solo dell’Unione sovietica, ma anche del blocco occidentale 16. Il credito accordato ai comunisti ungheresi rivelava sia la sorprendente debolezza dei loro avversari politici, sia la misura del paradosso ungherese: a lasciare gradualmente il potere, nel 1989-90, era un regime il cui ex-leader János Kádár veniva rimpianto da quasi tre quarti della popolazione, compresi molti cittadini che alle elezioni dell’aprile 1990 avrebbero votato per formazioni apertamente anticomuniste17. Per quanto riguarda gli espetti socio-economici della transizione, l’Ungheria viene descritta come un paese “modello” nella gestione della transizione socio-economica degli anni Novanta: l’economia si contrasse di oltre il 25% nel 1990-92 ma non collassò (anche grazie al settore sommerso, che forniva un quota 16 Su questo insistono Csaba Békés, Melinda Kalmár, The political transition in Hungary, 1989-90, ”CWIHP Bullettin”, Issue 12/13, pp. 73-92. 17 Ignác Romsics, Magyarország története a XX. században, Budapest, Osiris, 1999, p. 468. 64 S. BOTTONI crescente di PIL), l’inflazione non superò mai il 30% annuo, il tasso di disoccupazione raggiunse un picco del 13,7% nel febbraio 1993, per ridiscendere sotto il 10% nel 1998 e a un tasso “fisiologico” del 5-7% nel 2000 e sino al 2009 (oggi la disoccupazione si attesta al 10-11%). L’Ungheria possiede oggi una delle economie più privatizzate e più aperte del continente, mentre i settori bancario, energetico e delle telecomunicazioni sono retti da investitori stranieri in regime di concorrenza18. La recente crisi ha tuttavia messo a nudo due fondamentali contraddizioni di lungo periodo insite nel caso ungherese, fortemente consociativo e “consensuale”, di transizione economica. La prima riguarda i termini del compromesso sociale. Diversamente da numerosi altri nuovi membri dell’Unione Europea, nei quali il post-comunismo ha segnato anche la fine di un sistema di protezione sociale, l’Ungheria ha mantenuto dopo il 1989 un settore assistenziale di dimensioni ipertrofiche (basti pensare agli oltre tremila comuni sparsi su un paese che conta 10 milioni di abitanti), costoso, poco efficiente ed assai esposto alla corruzione. L’immobilismo pubblico ha assicurato una notevole pace sociale negli anni Novanta, ma contribuisce oggi ad approfondire la crisi sociale, in quanto la riforma del sistema previdenziale si scontra con interessi corporati che tagliano trasversalmente la classe politica di destra e di sinistra. Anestetizzata da trent’anni di paternalismo kádáriano, dall’illusione di un passaggio indolore all’economia di mercato e soprattutto da un’autentica “ideologia del consumo”, la popolazione appare mentalmente impreparata a sopportare ulteriori sacrifici (in questo possiamo cogliere una differenza fondamentale con il caso romeno, dove a partire dagli anni Ottanta lo stato pretende dai cittadini un grado di rinunce impensabile in qualunque altro contesto europeo). La seconda contraddizione, assai meno studiata ma di impatto ormai dirompente, riguarda i confini etnici del compromesso sociale. Nel solo biennio 1989-90 circa 1,5 milioni di occupati sono spariti dal mercato del lavoro, ma appena cinqueseicentomila sono stati riassorbiti nei quindici anni successivi. 18 Cfr. l’analisi comparativa condotta da Ivan T. Berend, From the Soviet Bloc to the European Union: The Economic and Social Transformation of Central and Eastern Europe since 1973, Cambridge, Cambridge University Press, 2009. Più critico nei confronti delle prestazioni economiche ungheresi del periodo post-1989 è l’economista László Csaba, The New Political Economy of Emerging Europe, Budapest, Akadémiai Kiadó, 2005. Traiettorie del cambiamento 65 Per ragioni economico-professionali, prima ancora che per discriminazione etnica, la minoranza rom – oltre seicentomila persone cui il regime kádáriano assicurava, anzi imponeva un posto di lavoro e un salario garantito – è stata la principale vittima della ristrutturazione sociale dei primi anni Novanta 19. Difficoltà economiche, barriere culturali e frustrazione sociale si fondono in un problema di integrazione e sicurezza collettiva, finora affrontato sotto l’esclusiva ottica del rispetto dei diritti umani. Da questo breve ragionamento sulle dinamiche e le conseguenze di lungo periodo dell’89 ungherese emergono diversi elementi utili per un confronto con il caso romeno. L’Ungheria non rappresentò un’eccezione virtuosa nel quadro delle trasformazioni del 1989, bensì un modello di gestione consensuale di una crisi politica. Il regime nella seconda metà degli anni Ottanta si era progressivamente trasformato – per dirla con Csizmadia – in una “dittatura discorsiva”, non priva di tratti autoritari ma certamente post-totalitaria nella gestione dell’ordine pubblico e del dissenso 20. Le forze dell’ordine, i servizi segreti e l’esercito non solo non frapposero alcun ostacolo alla trasforma21 zione, ma vi contribuirono in maniera discreta e decisiva . La moderazione e il buon senso che emergono dalle scelte qualificanti compiute nel biennio 1988-89 tradiscono la consapevolezza che nessuno dei protagonisti fosse interessato a una radicalizzazione del conflitto. Il “lungo” 1989 ungherese si conformò pienamente alle aspettative internazionali, sia per quanto riguarda la progressiva liberalizzazione politica ed economica, sia per quanto riguarda l’assunzione di responsabilità internazionali del paese, ad esempio l’accoglimento di decine di migliaia di rifugiati in transito dalla Romania, dalla Germania orientale e dalla Cecoslovacchia. Proprio nella capacità di adattarsi con rapidità ai mutamenti della politica internazionale possiamo ravvisare una delle principali differenze con il caso romeno. 19 Un’introduzione alla storia della comunità rom nell’Ungheria del ‘900 in Csaba Dupcsi, A magyarországi cigányság története. Történelem a cigánykutatás tükrében, 1890-2008, Budapest, Osiris, 2009. 20 Csizmadia, Diskurzus és diktatúra, cit., p. 16. 21 Sul ruolo dei servizi di sicurezza ungheresi durante la transizione si veda l’eccellente analisi di Rolf Müller, Tibor Takács, Szigorúan titkos ‘89. A magyar állambiztonsági szervek munkabeszámolói, Budapest, L’Harmattan, 2010. 66 S. BOTTONI L’‘89 romeno: le premesse Mentre in Ungheria il cambiamento politico venne se non promosso, quantomeno canalizzato e accettato come inevitabile dal partito-stato, nel caso romeno il potere comunista cadde vittima nel dicembre 1989 del proprio ottuso rifiuto di riconoscere il carattere ineludibile della svolta. La situazione del paese infatti, sino all’autunno 1989, non sembrava contenere le premesse del sovvertimento della dittatura di Nicolae Ceauşescu. Nonostante un decennio di privazioni durissime, dal razionamento dei generi alimentari di prima necessità all’oscuramento della televisione motivato con il risparmio energetico, il regime comunista romeno non subì alcuna significativa erosione interna, grazie innanzitutto al ruolo abnorme assunto nel funzionamento quotidiano della dittatura dai servizi di sicurezza. Uno degli elementi di originalità nel regime di Ceauşescu risiedeva proprio nella multifunzionalità e differenziazione degli apparati di sicurezza. Branche dello stesso apparato, dotato complessivamente di oltre 40 mila ufficiali di professione ,22gestivano complesse operazioni economico-finanziarie internazionali 23 , condizionavano gli indirizzi ideologici del regime e utilizzavano le più moderne forme di “psicologia operativa” nel loro lavoro quotidiano con gli informatori (nel dicembre 1989 quelli “attivi” erano 150 mila, mentre il numero delle persone in vita registrate negli schedari come ex-appartenenti alla rete di informatori sfiorava quota 500 mila in un paese di 23 milioni di abitanti ).24 Al tempo stesso, un apparato in grado di utilizzare risorse sofisticate e di gestire in modo altamente differenziato i propri contatti con i vari segmenti della società non cessò mai di praticare su vasta scala forme di coercizione fisica ormai abbandonate nel resto del blocco sovietico. Il regime di Ceauşescu era al tempo Marius Oprea, Moştenitorii Securitţii, Bucureşti, Humanitas, p. 48. Un’indagine del quotidiano “România Liber” rivelò nel settembre 1994 che oltre il 70% dei 1.549 titolari di imprese e società dal valore superiore al miliardo di lei avevano iniziato la propria carriera negli apparati di sicurezza. Peter Siani-Davies, The Romanian revolution of December 1989, Itacha&London, Cornell University Press, 2005, p. 40. 24 Cfr. Florica Dobre (coord.), Securitatea. Structuri, cadre, obiective şi metode 1948-1989, 2 voll, Bucureşti, Editura Enciclopedic, 2006; S. B. Moldovan-C.Anisescu-M. Matiu, “Partiturile” Securitţii - Directive, ordine, instrucţiunii (1947-1987), Bucureşti, Editura Nemira, 2007. 22 23 Traiettorie del cambiamento 67 stesso estremamente brutale e largamente accettato, in quanto dispensava a una popolazione in gran parte di origini contadine, abituata a ogni sorta di privazione fisica, una vasta gamma di servizi essenziali: casa, lavoro, assistenza sanitaria, spazi di ricreazione. Inoltre il terrore poliziesco e il livellamento sociale forzato lasciavano spazi crescenti alla corruzione. I generi razionati come la carne e i dolciumi, o i prodotti di importazione occidentale ufficialmente introvabili diventavano accessibili attraverso un sistema di favoritismi diffuso a ogni livello della società. Proprio gli anni Ottanta dimostravano che il regime comunista romeno, nella sua variante nazionalista e autarchica, poggiasse su basi più solide di quanto immaginato dai suoi critici .25 Inoltre, come è stato osservato soprattutto da analisti economici e politici come Klaus Schröder ,26Anneli-Ute Gabanyi 27 e Jacek Kalabinski28 , non poche delle responsabilità per il disastro economico e sociale addossate dopo la sua caduta al regime di Ceauşescu e personalmente al dittatore dovrebbero venire dirottate sui partner commerciali e sugli organismi internazionali, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, dei quali la Romania era entrata a far parte, come primo stato del Comecon, nel dicembre 1972, e che garantirono per un decennio al paese l’erogazione di crediti agevolati. Nella sua monografia sui rapporti tra stati socialisti e gli organismi finanziari, Marie Lavigne descrive come nel settembre 1981 la Romania avesse chiesto in via informale di rimodulare il pagamento del proprio 25 Sulle premesse di una tale legittimità popolare mi permetto di rinviare a due miei scritti: Transilvania rossa. Il comunismo romeno e la questione nazionale (1944-1965), Roma, Carocci, 2007, pp. 171-232; Reassessing the Communist takeover in Romania: violence, institutional continuity, and ethnic conflict management, “East European Politics and Societies”, no. 1/2010, pp. 59-89. 26 Klaus Schröder, The IMF and the countries of the Council for Mutual Economic Assistance, “Intereconomics”, Vol. 17, no. 2, March, 1982, pp. 87-90. 27 Anneli-Ute Gabanyi, Ceauşescu Admits Economic Failures, Eschews Responsibility, “Radio Free Europe Research” [Munich], no. 44, November 6, 1987, pp. 3-8. 28 Jacek Kalabinski, How World Bank bailouts help East European regimes. Discorso alla Heritage Foundation, 28 luglio 1988 http://www.policyarchive.org/handle/10207/bitstreams/12626.pdf. Sito consultato il 26 giugno 2010. 68 S. BOTTONI debito. Il FMI concesse al paese un credito di 1,265 miliardi dollari in tre anni, ma pretese un programma di stabilizzazione che comprendeva tagli agli investimenti e ai consumi, la svalutazione della moneta e una riforma del sistema di prezzi. Nel novembre 1981, mentre altri paesi del blocco orientale (Polonia, la stessa Ungheria) entravano in grave crisi economico-finanziaria, il Fondo monetario sospese l’erogazione del finanziamento perché il governo romeno si rifiutava di applicare la ricetta. L’erogazione dei fondi venne ripresa soltanto nel giugno 1982, quando il governo di Bucarest si impegnò ad applicare un duro programma di restrizioni e a fornire ai funzionari del Fondo informazioni dettagliate sulle condizioni finanziarie del paese29. Come osserva Kalabinski, la Banca mondiale finanziò invece con oltre 200 milioni di dollari, durante il piano quinquennale 1981-85, un programma di modernizzazione agricola cui si sarebbe organicamente legata la distruzione dei micro-villaggi annunciata nel 1988. I finanziamenti per l’attuazione di piani di sviluppo ritenuti già all’epoca antiquati e irrazionalmente inquinanti vennero interamente riservati alle fattorie statali, tagliando fuori il piccolo settore privato. Solo nel 1987 il governo romeno, dopo aver completato la sua collaborazione in campo agricolo e dopo aver ripagato 12 miliardi di dollari di debito sovrano accumulato in quasi vent’anni, annunciò il proprio ritiro dagli organismi economici globali. Al disinteresse internazionale (o meglio, al diffuso interesse per la stabilità del regime comunista romeno) si univa nel corso degli anni Ottanta la totale assenza di un’opposizione strutturata anche solo in reti informali (l’unico samizdat apparso in Romania venne redatto nel 1981-82 in lingua ungherese 30). Mancava, soprattutto, una corrente riformista e liberale all’interno del partito. Gli scontenti del culto della personalità di Ceauşescu ragionavano non in termini di battaglia politica per un’evoluzione “normalizzatrice” del regime, bensì all’interno delle tradizionali coordinate di una congiura di palazzo tesa a sovvertire l’ordine esistente (la defezione del vice-capo della Securitate, il generale Ion Mihai Pacepa nel 1978, il tentato putsch militare 29 Marie Lavigne, International political economy and socialism, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, pp. 344-345 30 Károly Antal Tóth (a cura di,), Ellenpontok 1982, Miercurea Ciuc, Pro-Print, 2000. Traiettorie del cambiamento 69 contro Ceauşescu del 1984 in occasione di un suo viaggio in Germania occidentale, l’attività politica di Silviu Brucan negli anni 1987-89). L’assenza di coordinamento, fiducia reciproca e influenza sui mezzi di comunicazione determinò il fallimento della rivolta operaia di Braşov nel novembre 1987, così come l’assoluta mancanza di eco sul piano interno della “Lettera dei sei”, una dura critica alla politica interna firmata da ex leader del partito diffusa dalla BBC nel marzo 1989. Ai fini di comprendere i meccanismi della transizione romena e la convulsa dinamica degli eventi rivoluzionari del dicembre 1989 è più opportuno concentrarsi su un altro aspetto: l’involuzione dei rapporti internazionali, alla cui dinamicità il regime comunista romeno aveva attribuito un’importanza cruciale sin dall’inizio degli anni Sessanta. La Romania manifestava infatti interesse per le esperienze in vario modo “eterodosse” (Jugoslavia, Cina, Corea del Nord) e si ritagliava corposi spazi di autonomia nel blocco sovietico, senza però mai tentare seriamente di scardinarlo 31 . A partire dalla metà degli anni Ottanta un numero crescente di ex alleati e simpatizzanti iniziò ad allentare i suoi legami con il regime romeno e apparvero i primi gesti clamorosi: nel maggio 1985 l’ambasciatore statunitense David Funderburk rimise il proprio mandato e lasciò il paese in segno pubblico di protesta contro la violazione dei diritti umani; due anni più tardi, l’unica visita di Gorbaþev in Romania venne accolta con diffidenza e ostilità non solo dal regime, ma anche dalla popolazione, sul cui spirito pubblico l’antisovietismo del regime influiva in modo ancora significativo. Dal 1988 il regime comunista romeno si posizionò in una sorta di auto-isolamento. Il 28 febbraio 1988 Ceauşescu annunciò la rinuncia di Bucarest alla clausola di nazione più favorita nell’interscambio con gli Stati Uniti, dopo che il governo americano aveva annunciato la cancellazione del paese dalla lista dei beneficiari. Nel giugno 1988 il regime romeno dispose la chiusura immediata di un consolato ungherese (dunque di un altro membro del Patto di Varsavia) e l’immediata espulsione dei diplomatici presenti in segno di rappresaglia per la manifestazione di Budapest in difesa dei diritti della minoranza transilvana ungherese. Nell’aprile 1989 l’ambasciatore tedesco-occidentale 31 Vladimir Tismneanu, Stalinism for all seasons. A political history of Romanian Communism, Princeton, University of California Press, 2003. 70 S. BOTTONI a Bucarest venne richiamato a tempo indeterminato per consultazioni, una misura diplomatica piuttosto grave che venne presto seguita da numerosi altri paesi occidentali. Al momento dello scoppio dei primi tumulti di Timişoara, il 15-16 dicembre 1989, la Romania viveva in una condizione di straniamento spazio-temporale. Dopo il crollo del muro di Berlino, ma soprattutto dopo la rivoluzione di velluto cecoslovacca e il pacifico passaggio di poteri bulgaro, Ceauşescu e il suo regime erano consapevoli di avere una sola via a disposizione per mantenere il potere in caso di disordini, quella cinese. Il corso degli eventi avrebbe dimostrato che una dittatura ormai in decomposizione, segnata da profondi conflitti interni, non possedeva le risorse necessarie per seguire quel modello. Una rivoluzione mancata? La duplicità illustrata nel precedente paragrafo (terrore e servizi sociali; repressione e consenso) contribuisce a spiegare perché, a distanza di oltre vent’anni, la sequenza rivoluzioneguerra civile-lotta politica del 1989-90 continui a infiammare il dibattito intellettuale e politico romeno. L’interpretazione “frontista”, promossa da Ion Iliescu e dagli intellettuali ad esso vicini, che considera la rivoluzione del 1989 un evento legittimo, spontaneo e “limpido” nel suo svolgimento e nei suoi fini politici, è stata infatti ripetutamente contestata in patria 32 e all’estero 33 . Per molti la rivoluzione non fu altro che l’ultimo della lunga seria di colpi di stato che ha caratterizzato la storia contemporanea romena, un evento pianificato a lungo che si affiancò a disordini popolari fomentati da potenze esterne 34 (un’interpreta32 Cfr. il volume edito dal direttore dell’Istituto della Rivoluzione Romena, Ioan Scurtu, Revoluţia român din decembrie 1989 în context internaţional, Bucureşti, Editura Enciclopedic-Editura Institutului Revoluţiei Române din Decembrie 1989, 2006. 33 Fra le prime interpretazioni lucidamente critiche si veda Radu Portocal, Autopsie du coup d’État roumain, Paris, Calmann-Lévy, 1990; Anneli Ute Gabanyi, Die unvollendete Revolution: Rumänien zwischen Diktatur und Demokratie, Munich, Piper Verlag, 1990; Nestor Ratesh, Romania: The Entangled Revolution (The Washington Papers), Westport (CO), Praeger Paperback, 1991. 34 Vedi la monumentale opera di Alex Mihai Stoenescu, Istoria loviturolor de Stat din România. Revoluţia din decembrie 1989 – o tragedie Traiettorie del cambiamento 71 zione simile a quella offerta da Nicolae Ceauşescu nel suo discorso televisivo del 20 dicembre). Altri contrappongono invece la “purezza” della prima fase (Timişoara 15-20 dicembre) alle successive manipolazioni, che fecero deragliare gli eventi dal binario della rivoluzione 35 . Le ricostruzioni scientifiche più recenti, ad opera di studiosi romeni e stranieri, tendono ad un maggior equilibrio, nel tentativo di costruire un quadro interpretativo saldo attraverso la “decostruzione” di miti, leggende e opinioni formatesi nel corso degli anni .36Uno storico e analista di intelligence americano, Richard A. Hall, ha persino dedicato la propria ricerca di dottorato a raccogliere e classificare tutte le dicerie, le “false notizie” disseminate spesso ad arte da giornalisti e personaggi pubblici legati agli ex-apparati di sicurezza37. Il risultato di quest’opera di demitizzazione, come spesso succede, è che nonostante la mole di nuove informazioni pervenute nessuno oggi appare in grado di offrire una spiegazione coerente dei fatti. Il 1989 romeno resta un enigma non soltanto per il suo carattere apparentemente improvviso e imprevisto, ma anche per la rapida sequenza di violenze di massa e vendette politiche e personali che contraddistinsero la convulsa serie di eventi che dalle prime manifestazioni di Timişoara (15-17 dicembre 1989) sfociò nel crollo del regime (22 dicembre), nel processo e infine nella condanna a morte (25 dicembre) inflitta attraverso l’applicazione della giustizia “rivoluzionaria” (di fatto româneasc, vol. IV (tom 1-2), Bucureşti, Rao Editura, 2004-2005. Dello stesso tenore De la regimul comunist la regimul Iliescu. Virgil Mgurenu in dialog cu Alex Mihai Stoenescu. Bucureşti, Rao Editura, 2008. Si veda anche il documentario storico di notevole impatto mediatico Checkmate – Strategy of a Revolution, realizzato nel 2004 da Susanne Brandstätter. 35 Marius Mioc, Revoluţia fr mistere. Începutul revoluţiei române: cazul László Tőkés. Timişoara, Editura Almanahul Banatului, 2002. 36 Peter Siani-Davies, The Romanian Revolution of December 1989, Ithaca, Cornell University Press, 2005; Bogdan Murgescu (a cura di), Revoluţia român din decembrie 1989. Istorie şi memorie, Iaşi, Polirom, 2007; Ruxandra Cesereanu, Decembrie ‘89. Deconstrucţia unei revoluţii, Iaşi, Polirom, 2009. 37 La ricerca di Hall è raccolta nei seguenti saggi: The Uses of Absurdity: the Staged War Theory and the Romanian Revolution of December 198 , “East European Politics and Societies”, Vol. 13, No. 3 (Fall 1999), pp. 9 501-542; Theories of Collective Action and Revolution: Evidence from the Romanian Transition of December 1989,“Europe-Asia Studies”, Vol. 52, No. 6 (Sept. 2000), pp. 1069-1093. 72 S. BOTTONI sommaria) a Nicolae Ceauşescu e alla moglie Elena 38 . La rivoluzione romena fu prima di tutto un evento sanguinoso. Tra il 17 e il 25 dicembre 1989 almeno 1.104 persone, tra civili e militari, persero la vita per eventi (colpi d’arma da fuoco e da taglio, percosse, linciaggi) collegabili alla rivoluzione: l’85% morì tuttavia il 22-25 dicembre, nei giorni successivi alla deposizione di Ceauşescu, quando reparti della polizia politica in via di dissolvimento (“terroristi”, secondo la definizione del capo del Fronte di salvezza nazionale Ion Iliescu) ingaggiarono violenti combattimenti con le unità dell’esercito ormai schierate a difesa della rivoluzione a Bucarest e in altri centri urbani. Gli scontri armati del dicembre 1989, attribuiti all’azione di non meglio identificati nemici interni ed esterni, consolidarono il nuovo nucleo di potere intorno al Fronte di salvezza nazionale, che sembrava offrire l’unico punto di appoggio ad una popolazione che non aveva partecipato agli eventi e percepiva con angoscia il collasso dell’apparato statale .39Entro le prime settimane del 1990 il nuovo organo di governo, privo di qualunque contro-potere istituzionale, emise alcuni decreti legge di particolare importanza: abolì numerosi provvedimenti «dal carattere illegale e contrari agli interessi del popolo romeno», decretò lo scioglimento del Departamentul Securitţii Statului, provvide all’arresto e alla rapida condanna all’ergastolo, pronunciata il 2 febbraio 1990 dal Tribunale militare territoriale di Bucarest, del ministro dell’Interno Tudor Postelnicu e di diversi alti ufficiali della Securitate, accusati al pari del dittatore defunto di “genocidio” per le repressioni di Timişoara del 17-20 dicembre, costate la vita a una settantina di persone. Nel marzo 1990, il “processo di Timişoara” avrebbe portato alla condanna di poche altre decine di attivisti di partito, ufficiali della Milizia e della Securitate, men38 Siani-Davies, The Romanian, cit., pp. 97-99. Stoenescu sostiene che gli arresti effettuati nelle settimane successive al 22 dicembre, come quello del generale Iulian Vlad, dal 1987 a capo del Departamentul Securitţii Statului, presentassero caratteri di arbitrio in assenza di un quadro giuridico definito (la Costituzione democratica venne approvata soltanto nel 1991). Stoenescu, Istoria loviturilor de stat, cit., p. 387. Sul processo alla coppia presidenziale cfr. l’analisi di Luca Falciola, Colpirne uno “per salvarne cento. Il processo ai Ceauşescu e le strategie di transizione nella Romania post-comunista. Contemporanea”, n. 1/2010, pp. 53-78. 39 I problemi interpretativi legati all’eredità politica e alla memoria popolare della rivoluzione sono ben delineati in B. Murgescu (coord.), Revoluţia român din 1989: istorie şi memorie , Iaşi, Polirom 2007. Traiettorie del cambiamento 73 tre la questione delle responsabilità politiche dell’eccidio non venne eppure sollevata. Lo scioglimento per decreto dei servizi di sicurezza, attuato sull’onda emotiva delle violenze di dicembre, costituì dunque un gesto politicamente razionale, mediante il quale il “nuovo” regime marcava la propria discontinuità dalla dittatura di Ceauşescu, addebitando ogni responsabilità penale e politica a un segmento limitato, per quanto simbolicamente cruciale, dell’apparato statale 40. Negli stessi giorni, la cartoteca e i dossier degli apparati centrali della polizia politica, insieme all’archivio storico del Comitato centrale del Partito comunista romeno, venivano posti sotto il controllo del ministero della Difesa. Nel caso romeno, non fu quindi tanto la distruzione volontaria o accidentale 41 della documentazione compromettente a impedire negli anni Novanta l’accesso agli archivi, quanto la difficile fruibilità determinata dal loro trasferimento segreto e incontrollato in diverse istituzioni, un processo che favorì la dispersione di unità archivistiche omogenee42. Le tensioni politiche, sociali ed anche etno-nazionali (soprattutto in Transilvania) che il Fronte aveva tentato di contenere assumendo un ruolo di “partito unico democratico”, contenitore e megafono dell’intera società romena, esplosero in seguito alla decisione presa il 23 gennaio 1990 dal Fronte stesso di costituirsi in partito politico e partecipare alle imminenti elezioni legislative. Il 29 gennaio e il 18 febbraio due imponenti manifestazioni organizzate dai partiti storici appena ricostituiti, liberale e contadino, vennero disturbate dall’intervento di gruppi di minatori giunti dal bacino carbonifero dello Jiu. L’indisturbata attività di una milizia informale a difesa del Fronte, culminata nella sanguinosa calata dei minatori su Bucarest (mineriada) del 13-15 giugno, portò allo scoperto le fratture latenti nel nuovo sistema politico. L’ala radicale e anticomunista, guidata dalle associazioni civiche rivoluzionarie, si radunò l’11 mar40 Secondo lo storico Marius Oprea, la ricostituzione degli stessi apparati iniziò il 1° febbraio 1990. Oprea, Moştenirorii Securitţii, Bucureşti, Humanitas, 2004, p. 101. 41 Un’eccezione è rappresentata dalla documentazione conservata all’interno delle sedi provinciali della Securitate. Esse vennero prese d’assalto e in qualche caso date alle fiamme il 22 dicembre 1989. Diversi cittadini approfittarono dell’occasione per impadronirsi del proprio dossier o di altri materiali classificati. 42 Una ricostruzione dettagliata in Oprea, Moştenitorii, cit., pp. 124-147. 74 S. BOTTONI zo a Timişoara. Al termine della manifestazione venne letto un proclama (“declaraţie”) che sosteneva l’idea del “tradimento” della rivoluzione e, all’ottavo punto, richiedeva che la legge elettorale prevedesse per tre legislature consecutive il divieto di candidatura per gli ex-attivisti di partito (con evidente riferimento al leader del Fronte di salvezza nazionale, Ion Iliescu, esponente di spicco del PCR sino ai primi anni Ottanta) e gli ufficiali della polizia politica43. Affrontare il nodo dell’ex-polizia politica significava mettere in discussione le radici, che in quella realtà affondavano profondamente, della classe politica e del sistema economico postcomunista. Dopo l’11 marzo 1990 la resa dei conti con il passato subì un congelamento quasi decennale. Come a chiudere simbolicamente la parentesi postrivoluzionaria, le celebrazioni della giornata del 15 marzo da parte della comunità ungherese si svolsero in un clima di pesante rivendicazione nazionale, che degenerò il 19-20 marzo nei gravi scontri interetnici che esplosero nella città transilvana di Târgu-Mureş. Solo l’intervento dell’esercito, peraltro tardivo, riuscì a stabilizzare la situazione e a contenere il bilancio delle vittime di un conflitto che lo stesso Fronte aveva, se non pianificato, strumentalizzato a fini politici in vista delle elezioni del 20 maggio44. Appare oggi evidente che le spedizioni punitive compiute dai minatori sulla capitale Bucarest, che segnarono nell’interpretazione oggi prevalente la fine della “lunga rivoluzione” iniziata nel dicembre 1989, pur riflettendo la situazione caotica del paese, rientravano in una una strategia che puntava ad attrarre verso le forze del cambiamento “impercettibile” quella maggioranza di cittadini che la penuria e la violenza verbale e fisica di quei mesi rendevano istintivamente nostalgici dell’ordine ceauşesciano. Comprensibile diventa quindi lo scenario cospirazionista, evocato da coloro che prima ancora degli osservatori occidentali avevano spogliato gli avvenimenti del dicembre 1989 e dei mesi successivi della loro aura rivoluzionaria, inserendoli nella più opaca categoria del colpo di stato e della “privatizza43 M. Burcea-M. Bumbeş, Lustrabilii, in “Anuarul Institutului de Investigare a Crimelor Comunismului în România”, Vol. 1. Iaşi, Polirom, 2006, pp. 256-257. 44 La tesi della provocazione è autorevolmente sostenuta da Gabriel Andreescu, 15 ani de la înfruntrile din Târgu-Mureş, “Ziua”, 24 martie 2005, e da Marius Oprea, Moştenitorii, cit., p. 106. Traiettorie del cambiamento 75 zione del regime comunista” .45Le migliaia di quadri operativi della Securitate operanti sul territorio nazionale, con la loro fitta trama di rapporti sociali intessuti a ogni livello e l’esclusiva conoscenza delle condizioni economiche del paese, costituivano l’unico reale puntello a disposizione del nuovo regime . Il4624 marzo 1990, invece di rinnovare il decreto in scadenza che aveva sancito lo scioglimento della Securitate, il governo decise di istituire un Serviciul Român de Informaţii, operante sul piano interno e dotato degli stessi attributi, funzioni e almeno per tutti gli anni Novanta anche del personale ereditato dalla Securitate. Il superamento del regime comunista si verificò attraverso il massimo di continuità politica e sociale con le vecchie strutture di potere, in grado di determinare le dimissioni del governo guidato da Petre Roman, travolto nel settembre 1991 dalla quarta mineriada. Ancora prima dalle elezioni del maggio 1992 che, vinte a grande maggioranza dal Fronte, portarono alla formazione del governo guidato dall’ex-comunista Nicolae Vcroiu, non trovò alcuno spazio la richiesta di avviare un’istruttoria nei confronti dell’ex regime comunista avanzata dai gruppi di opposizione confluiti nei “partiti storici”, liberale e contadino47. 45 Uno dei più stimati analisti della Romania contemporanea, riprendendo l’accusa di “privatizzazione del regime”avanzata dall’opposizione liberale negli anni Novanta, descrive in un libro assai documentato la parabola del primo quindicennio democratico nei termini di un “ladrocinio istituzionalizzato”, compiuto ai danni di un paese economicamente e psicologicamente esausto da élite politiche amorali e rapaci. Tom Gallagher, Theft of a nation. Romania since Communism, London, Hurst&Co., 2004. 46 In quanto membro del comitato di esperti della Comisia prezidenţial pentru analiz dictaturii comuniste din România, chi scrive ha potuto visionare negli Archivi nazionali di Bucarest diversi materiali provenienti dal Comitato Centrale del PCR e relativi alla seconda metà degli anni Ottanta. Da essi emerge una generale sottovalutazione o addirittura mancata conoscenza delle gravissime condizioni socio-economiche del paese, un dato in netto contrasto con la radiografia esatta e aggiornata delle disfunzioni dell’apparato produttivo disponibile attraverso le carte del controspionaggio economico accessibili nel fondo Documentar dell’Arhiva Consiliului pentru Studierea Arhivelor Securitţii. 47 Il 12 dicembre 1991 la Sezione militare della Corte suprema di giustizia assolse i membri del Comitato politico esecutivo del CC del PCR. 76 S. BOTTONI Per concludere: elementi per un confronto Nelle traiettorie del cambiamento in Ungheria e Romania possiamo individuare diversi elementi utili per un confronto analitico su due esperienze apparentemente così distanti. Un tratto comune delle due storie è senz’altro costituito dal fondamentale ruolo sovietico e dalla rimarchevole assenza o passività delle potenze occidentali. Nonostante ogni differenza e rivalità, l’Ungheria e la Romania appartenevano allo stesso campo di alleanze, facevano riferimento allo stessa potenza nucleare e disponevano alla fine degli anni Ottanta dello stesso (limitato) spazio di manovra. Sia in Ungheria che in Romania, il ruolo sovietico risultò fondamentale non per come i sovietici agirono, ma nel modo in cui non intervennero a bloccare i processi di trasformazione in atto. Dalle ricostruzioni più attendibili di cui disponiamo sulle reazioni sovietiche alla rivoluzione romena appare altamente improbabile che la leadership sovietica fosse attivamente interessata, nel dicembre 1989, al rovesciamento violento di una dittatura che non minacciava direttamente i suoi interessi economici e militari 48. Un importante quotidiano romeno ha pubblicato recentemente lo stenogramma del primo colloquio sostenuto da Ion Iliescu e Petre Roman con l’ambasciatore sovietico a Bucarest, il 27 dicembre 1989. Alla richiesta romena di aiuto politico e anche militare, il diplomatico rispose in modo evasivo, lasciando intendere che Mosca considerava la breve guerra civile un affare interno romeno49. Un secondo elemento comune nelle due traiettorie del cambiamento può essere individuato nella quasi imbarazzante debolezza dell’opposizione politica. Data l’indubbia diversità nel grado di repressione interna fra i regimi di Kádár e Ceauşescu, essa non può essere addebitata unicamente al terrore poliziesco. Tale coincidenza suggerisce piuttosto la necessità di indagare più a fondo sulle fonti di legittimità popolare di entrambi i regimi. La loro accettazione passiva da parte della popolazione era probabilmente più alta di quanto essi stessi credessero, e la loro 48 Mark Kramer, The Collapse of East European Communism and the Repercussions within the Soviet Union (Part 2), “Journal of Cold War Studies”, Volume 6, No. 4 (Fall 2004), p. 26. 49 Iliescu şi Roman ctre URSS: «Avem nevoie de sprijin !», “Adevrul”, 8 marzo 2010. Traiettorie del cambiamento 77 immagine popolare è tuttora sorprendentemente positiva. In Ungheria l’epoca di Kádár è ormai oggetto di un culto non sempre ironico, mentre in Romania le difficoltà economiche del post-comunismo spingono soprattutto la popolazione rurale e di estrazione operaia a guardare con malcelata nostalgia allo stato comunista guidato da un leader indiscusso. Mentre tuttavia il partito comunista ungherese scelse di accettare il cambiamento e di integrarsi nel nuovo sistema politico, contando sul fatto che la durezza della transizione comunista avrebbe fatto rimpiangere la sicurezza collettiva garantita dal kádárismo (il partito socialista conquistò il 54% dei seggi parlamentari alle elezioni del 1994), il PCR di Ceauşescu cadde vittima della propria incapacità di comprendere ciò che anche il rigido partito bulgaro aveva compreso: la necessità di un cambiamento. A far crollare la dittatura di Ceauşescu non furono dunque le manifestazioni di Timişoara, ma la mancata comprensione del contesto in cui esse avvenivano. Come sottolinea Richard A. Hall, nell’ultima settimana di governo Ceauşescu commise una serie di gravi errori tattico-strategici, per nulla inevitabili o attribuibili a cospirazioni esterne: la gestione dell’ordine pubblico a Timişoara (sottovalutazione dell’evento il 15-16 dicembre, repressione sproporzionata il 17, ritirata dello Stato il 19-20), la mancata rinuncia al viaggio in Iran dal 18 al 20 dicembre, e infine i due discorsi tenuti in diretta televisiva la sera del 20 dicembre e nella mattinata del giorno successivo a Bucarest. Nel condannare le azioni dei “controrivoluzionari” e nel tentativo di mobilitare la piazza a suo favore, Ceauşescu riuscì nell’obiettivo opposto: informò dettagliatamente tutta la popolazione romena di ciò che stava avvenendo a Timişoara, e alimentò uno spirito pubblico sempre più ostile al regime50. L’esito del cambiamento (pacifico e condiviso in Ungheria; violento e fortemente discusso in Romania) dipende quindi da una serie di fattori concomitanti: il tipo di regime che si intendeva sostituire, l’atteggiamento dei partiti comunisti di fronte alla prospettiva della perdita del potere assoluto, le tradizioni politiche dominanti. In Ungheria il ricordo delle rivoluzioni del 1918-19 e del 1956 conservava (e conserva tuttora) un effetto paralizzante e polarizzante, mentre il 1989 romeno ricalca negli 50 Hall, Theories, cit., pp. 1078-1079. 78 S. BOTTONI aspetti “tecnici” della presa del potere di Ion Iliescu e del Fsn il colpo di stato dell’agosto 1944, in cui pezzi di élite guidati dalla corona complottarono con successo per rovesciare una dittatura e favorire l’uscita del paese da un vicolo cieco. VENTI ANNI DOPO: FU VERA GLORIA? Guido Franzinetti Col senno di prima e col senno del poi Tempo fa, uno studioso di fenomeni rivoluzionari rifletteva: «L’evento è effettivamente così straordinario come apparve a suo tempo? Così inaudito, così perturbatore e rinnovatore come essi lo supposero? Quale fu il vero senso, quale è stato il vero carattere, quali sono gli effetti permanenti di questa rivoluzione strana e terribile? Che cosa esattamente ha distrutto? Che cosa ha creato? Pare che sia giunto il momento di ricercarlo e di dirlo, che noi siamo collocati in quel punto preciso dal quale si può meglio discernere e giudicare questo grande oggetto. Abbastanza distanti dalla Rivoluzione da non sentire che debolmente le passioni che offuscavano la vista di coloro che l’hanno fatta, siamo abbastanza vicini da poter entrare nello spirito che l’ha provocata e per capirla. Tra poco sarà più difficile farlo, dal momento che le grandi rivoluzioni che hanno successo fanno scomparire le cause che le hanno prodotte, e diventano in tal modo incomprensibili in virtù del loro stesso successo»1. A due decenni di distanza, potrebbe essere anche giunto il momento di una riflessione storica, e non meramente giornalistica, sugli eventi dell’autunno 1989. All’epoca, molti li definirono una rivoluzione, anzi una “rivoluzione degli intellettuali” . 2 1 A. de Tocqueville, L’Ancien régime et la révolution (Oeuvres complètes, II, i, ed. J P Mayer), Paris, Gallimard, 1952, I, i, p. 80. 2 Timothy Garton Ash rimise in circolazione questa espressione (apparentemente insensibile al fatto che essere era stata coniata da Lewis Namier in modo sprezzante, non elogiativo, per definire i movimenti del 1848 europeo). Cfr. T. Garton Ash, We The People, Harmondsworth, Penguin, 1990 80 G. FRANZINETTI Sull’utilizzo della categoria di “rivoluzione” si potrebbe discutere, come pure sull’etichetta della “Caduta del Muro” (inteso come psicodramma della cultura comunista italiana). In prima battuta, la cultura giornalistica dipinse gli eventi nei seguenti termini: l’evento che segna la Fine della Guerra Fredda; la Rivoluzione dei Popoli, della Società Civile; Il Popolo Unito ha abbattuto il Muro, segnando l’avvento del Regno della Libertà, il Trionfo della Pace; la Fine della Storia .3 È sintomatico che nella Repubblica Federale di Germania si usi piuttosto il più sobrio termine die Wende, ovvero “la svolta”. Prevedibilmente, è da tempo in corso una controffensiva, lanciata dai Nuovi Maestri del giornalismo, che spiegano che nel 1989 «la storia è cambiata, ma in peggio». Sulla base di un qualche sondaggio isolato, condito con qualche dato qualitativo, il giudizio trionfalistico dell’epoca è stato adesso rovesciato nel suo contrario. Questo è d’altronde inevitabile nei casi in cui i commenti provengono da chi non ha mai conosciuto la realtà dell’Europa orientale prima della svolta del 1989. Mezzo secolo fa uno dei maestri della storiografia di sinistra rilevava che «il problema della storia contemporanea è che la gente si ricorda dei tempi in cui tutte le opzioni erano ancora aperte, e trovano difficile adottare l’atteggiamento dello storico per il quale queste sono state chiuse dal fait accompli». In altre parole, all’epoca la sinistra storiografica era rigorosamente deterministica. Lo storico definiva i ragionamenti controfattuali come “giochi di società” . 4Anzi, la predilezione per teorie che sottolineavano “il ruolo del caso o dell’incidente nella storia” era [trad. It., Le rovine dell’impero, Milano, Mondadori, 1992]; e L. B. Namier, The Revolution of the Intellectuals, Oxford: Oxford University Press, 1946 [trad. It., La rivoluzione degli intellettuali e altri saggi, Torino, Einaudi, 1972].. 3 Quest’ultima espressione fu in realtà coniata nel maggio del 1989, mesi prima della “caduta del Muro”, da Francis Fukuyama, che ovviamente riprendeva una espressione di Hegel, che aveva poco a che vedere con il suo successivo uso giornalistico. Cfr. Fukuyama, The End of History, in “National Interest”, Summer 1989 (articolo datato maggio 1989); P. Anderson, The Ends of History, in Id., A Zone of Engagement (London: Verso, 1992), cap. 13. 4 E. H. Carr, What is History? The George Macauley Trevelyan Lectures delivered in the University of Cambridge, January-March 1961, London, Macmillan, 1961, rispettivamente p. 92 e p. 91.. Venti anni dopo: fu vera gloria? 81 vista come tipica di gruppi (sociali) o nazioni in declino . 5In altre parole, erano i falliti della storia6. Prevedibilmente, le parti si sono invertite. La storiografia di sinistra (perlomeno quella che all’epoca si riconosceva nelle posizioni dello storico determinista) ha adesso riscoperto la controfattualità, per sostenere che la svolta del 1989 fu un (tragico) incidente e che avrebbe potuto e dovuto essere evitato. Dall’altra parte, la storiografia opposta (che lo storico determinista del 1961 attaccava ferocemente) ha spesso adottato una sua versione di determinismo, presentando gli eventi del 1989 come la fine inevitabile del comunismo. Va rilevato che gli avversari ideologici di Carr erano all’epoca Isaiah Berlin e Karl Popper, che nel frattempo sono diventati autori prediletti della medesima sinistra che li aveva in precedenza emarginati. Che cosa è successo? Perché? È bene partire da una definizione sommaria di quel che è avvenuto effettivamente nel 1989. Non c’è stata una “rivoluzione”, bensì un processo di abdicazione controllato, favorito e spesso incoraggiato dal centro del sistema imperiale, a Mosca. Come spesso avviene nella storia e nella vita, le conseguenze di questo processo andarono ben al di là delle intenzioni degli attori principali, e certamente del centro imperiale stesso. Ciò non toglie che il processo fu in larga parte incoraggiato da questo centro, e che proprio per questo fu in gran parte pacifico: gli unici due episodi di violenza furono in Romania (in circostanze mai chiarite) e in Albania (ove la transizione avvenne solo dopo il 1991) 7. In entrambi i casi le truppe sovietiche erano assenti. Questo era perfettamente evidente in base alle fonti già disponibili all’epoca, senza bisogno di ricorrere a successive rivelazioni daCarr, What is History?, cit., p. 96. “L’idea che i voti agli esami siano tutti un terno al lotto sarà sempre popolare tra coloro che ottengono brutti voti” (Carr, What is History?, cit., ibidem). 7 Sul caso romeno, cfr. P. Siani-Davies, The Romanian Revolution of December 1989, Ithaca, Cornell University Press, 2005: e i riferimenti contenuti in C. Castellano e G. Franzinetti, Premessa alla raccolta di contributi su Memorie, fonti, giustizia dopo la Guerra Fredda, in “Quaderni storici”, XLIII (2008), ii, pp. 323-335, esp. pp. 332-335. 5 6 82 G. FRANZINETTI gli archivi (dai quali, sinora, su questo periodo non è emerso nulla che non fosse già ampiamente noto alla fine del 1989). La svolta del 1989 può essere, semmai suddivisa in tre distinte fasi: la fase polacco-ungherese, in cui fu attuato un processo di abdicazione totalmente controllato, e avviato da tempo, già prima dell’elezione di Gorbačev alla guida del partito comunista sovietico; la fase tedesco-orientale, cecoslovacca e bulgara, in cui avvenne una convergenza tra una spinta dal basso (che può anche essere considerata “rivoluzionaria”, se proprio si vuole ricorrere a questo aggettivo) e una crisi dall’alto (a Berlino est, a Sofia e a Praga); e infine una fase romena, la cui natura rimarrà controversa per i prossimi decenni 8. Il tutto fu suggellato dagli accordi americano-sovietici di Malta (2-3 dicembre 1989, quindi prima degli eventi romeni), importanti non per quel che fu discusso, ma per quel che non fu discusso e non fu messo in discussione. In quel momento non era affatto scontato che non potesse avvenire un rovesciamento della situazione tedesco-orientale come conseguenza di un cambio della guardia a Mosca9. Si sarebbe potuto dire all’epoca, e si potrebbe ancora dire degli eventi del 1989, c’est magnifique, mais ce n’est pas la révolution. Oppure si potrebbe riprendere il ragionamento di Vittorio Foa, che a suo tempo argomentò che le rivoluzioni avvengono solo quando le classi dirigenti sono divise al loro interno 10 . 8 In Bulgaria, come è noto, ebbe luogo un vero e proprio colpo di stato, attuato da elementi gorbaceviani; a Praga la svolta ebbe luogo dopo gli eventi di Berlino est, e dopo mesi in cui l’insoddisfazione di Mosca nei confronti del governo di Praga era ben nota (il dissidente cecoslovacco Zděnek Mlynař, esule a Vienna, amico di Gorbačëv fin dagli anni Cinquanta, era stato a Mosca nel luglio 1989). Cfr. G. Franzinetti, Conto alla rovescia: la caduta dei regimi comunisti nell’Europa centro-orientale, in “Comunità”, n. 193-194, marzo 1992, pp. 68-85 (carente per quel che riguarda il versante balcanico); Castellano-Franzinetti, Premessa cit., nn. 26 e 28, p. 334; M. Gorbachev e Z. Mlynař, Conversations with Gorbachev. On Perestroika, the Prague Spring, and the Crossroads of Socialism, New York: Columbia University Press, 2002 [1995]; colloquio telefonico con Ž. Medvedev, luglio 1989. 9 Su questo aspetto sono debitore delle osservazioni di Andrei Gračëv (colloquio a Bosco Marengo, 9-10 ottobre 2009, in occasione del World Political Forum). Cfr. inoltre dello stesso Gračëv, Gorbačev’s Gamble, Cambridge, Polity Press, 2008. 10 Cfr. V. Foa, La crisi della Resistenza prima della liberazione, in “Il Ponte”, III (1947), n. 11-12 (ripreso in Foa, Per una storia del movimento Venti anni dopo: fu vera gloria? 83 In realtà, si potrebbe argomentare che il 1989 segna la fine del mito della Rivoluzione, suggellando la fine di un dibattito avvenuto negli anni Settanta del XX secolo tra Raymond Aron e Ernest Gellner: Aron sosteneva che il sistema sovietico era irriformabile, mentre Gellner argomentava che semmai la liberalizzazione stava «diventando un fenomeno generico e anzi cruciale, così come era stato la rivoluzione» .11Ovviamente molti protagonisti di quegli anni rimangono ancorati al mito della Rivoluzione; questo porta prevedibilmente al mito della Rivoluzione Tradita, se non al mito del complotto antirivoluzionario per esautorare la vera, autentica Rivoluzione. Fu vera gloria? Al trionfo della Rivoluzione o della svolta del 1989 è seguito, prevedibilmente, l’anti-mito della catastrofe del liberismo selvaggio che avrebbe devastato l’Europa orientale dopo il 1989-91. Dinanzi a questo tipo di critica sarebbe facile replicare con il manzoniano «ai posteri l’ardua sentenza». Sono oramai passati due decenni, e in ogni caso le transizioni sono finite da tempo, almeno dal 1997. Non esistono più regimi di transizione; gli assetti politici e sociali negli stati che un tempo si definivano socialisti sono oramai definiti. Il giudizio storico che può e deve essere dato sugli effetti di quelle che furono chiamate le transizioni esteuropee comporta tre livelli di analisi: una definizione di quel che è effettivamente avvenuto nei diversi paesi esteuropei; una spiegazione di quel che è avvenuto; e una prospettiva storica su questi processi. Innanzi tutto, è fuorviante (anche se prevedibile in sede giornalistica) parlare di “liberismo selvaggio”. Il cosiddetto liberismo thatcheriano fu un fenomeno abbastanza atipico dell’Europa occidentale degli anni Ottanta e Novanta. L’esperimento thatcheriano fu in gran parte il prodotto di una società europea operaio [Torino: Einaudi, 1980 ], pp. 13-24). In realtà questa è una reinterpretazione del pensiero di Foa ad opera di Francesco Ciafaloni. Foa stesso era più cauto nell’esprimere una tesi del genere (colloquio con Vittorio Foa, Roma 1992 circa). 11 E. A. Gellner, From the Revolution to Liberalization, in “Government and Opposition”, XI (1976), n. 3, pp. 257-72. Cfr. ulteriori indicazioni in Franzinetti, Conto alla rovescia cit., p. 70. 84 G. FRANZINETTI molto particolare (basti pensare al diverso ruolo storico dei sindacati, o al sistema elettorale). Come si dice in Francia, una e12 conomia di mercato non implica una società di mercato . La liberalizzazione dei mercati finanziari è stato l’unico aspetto in cui il liberismo ha realmente inciso sull’Europa occidentale a partire dagli anni Ottanta. Ma anche prendendo in esame gli stati esteuropei, è difficile vedere dove fu attuata realmente questo “liberismo selvaggio” (per riprendere l’espressione giornalistica). Chiunque sia vissuto in Europa orientale negli anni Novanta sa bene quanto fossero differenziate le politiche economiche dei diversi stati. In Polonia vi fu una iniziale tendenza in tal senso nei primissimi anni (1989-91), ma poi subentrarono ripetute oscillazioni, legate anche ai mutamenti politici. L’Ungheria fu sempre più cauta sotto questo profilo. Nella Repubblica Cèca, Václav Klaus (mèmore del suo soggiorno italiano alla fine degli anni Sessanta) seppe coniugare virtuosamente una retorica thatcheriana con una prassi socialdemocratica. Ma certamente la Slovacchia di Mečar (come pure l’Ucraina degli anni Novanta) avrebbe difficoltà ad essere presa come un prototipo di liberismo. Forse solo l’Albania di Sali Berisha potè in qualche modo avvicinarsi al “liberismo selvaggio”, interpretato secondo l’esperienza storica della regione balcanica. Passando alle repubbliche ex sovietiche, il prototipo delle transizioni “realmente esistenti” fu semmai il caso dell’Uzbekistan, che difficilmente potrebbe essere accostato al modello liberista. Con ciò non si vuole sostenere che non vi siano state catastrofi sociali nelle cosiddette “economie di transizione”, ma solo che tali catastrofi non furono necessariamente legate ad un fantomatico “liberismo selvaggio”, Ma come si spiegano le trasformazioni avviate con le cosiddette “transizioni”? Chi ama le spiegazioni cospiratorie (alla Barruel) o anche solo le spiegazioni accidentali dei percorsi storici (che E. H. Carr sbeffeggiava nel 1961) potrà facilmente costruirsi (con un’ora di lavoro su qualche sito internet) una spiegazione cospiratoria sulla pervasività del “Washington consensus”, che tutto spiega nell’ordine del mondo. Chi invece preferisce un approccio più empirico, in qualche misura basato sull’osservazione, può avanzare una spiegazione 12 Cfr. G. Franzinetti, intervento alla discussione su The West: Meltdown of Capitalism? (World Political Forum, “Twenty Years After: the World(s) beyond the Wall”, Bosco Marengo. 9-10 October, 2009). Venti anni dopo: fu vera gloria? 85 leggermente più articolata (e falsificabile in senso popperiano). A metà degli anni Ottanta, Aleksander Kwaśniewski, esponente di primo piano del Partito operaio unificato polacco (POUP), andò a studiare economia all’Università del Maryland. Tornò con un’ottima padronanza dell’inglese, e certamente con una conoscenza dell’economia capitalistica. Non c’era alcun bisogno, negli anni Novanta, di costringere Kwaśniewski e i suoi compagni ad accettare il “Washington consensus”: ne facevano già parte. Lo stesso vale per Leszek Balcerowicz, il futuro ministro nei primi governi post-1989 in Polonia. In breve, non fu il “Washington consensus” ad essere decisivo, ma piuttosto il “Warsaw consensus”. Come è noto (almeno a quelli che andavano in Polonia senza paraocchi ideologici) la vera privatizzazione “selvaggia” iniziò in Polonia prima della svolta del 1989, in una Polonia ancora socialista. Il caso polacco ha molte sue specificità, ma è indicativo di quel che avvenne all’interno delle diverse classi dirigente degli stati socialisti, e cioè un mutamento generazionale, di una conversione generalizzata ai principi dell’economia di mercato, e di una prassi estremamente variegata. Non è necessario ricorrere, come spesso avviene tra coloro che adesso vedono il 1989 come una “rivoluzione tradita”, ad una ipotesi di complotto delle classi dirigenti dei paesi socialisti per fingere o manipolare una “rivoluzione” allo scopo di coprire le tracce di una privatizzazione strisciante (questa sì, davvero selvaggia): l’affrancamento della nomenklatura. Bastava semplicemente sapere, sapere in anticipo quel che sarebbe avvenuto. Chi guida una macchina sapendo che sta per frenare si mette la cintura di sicurezza e se sopravvive bene; chi non se l’aspetta si fracassa contro il tergicristallo e non ne esce bene. Il mistero delle transizioni sta tutto qua: tra chi sapeva e chi non sapeva. E chi sapeva? Chi aveva potuto viaggiare liberamente, imparare le lingue, studiare? In gran parte, i figli della nomenklatura. E chi non aveva potuto farlo? La maggior parte della popolazione, e in particolare l’opposizione più distante dal sistema, quella di destra. Nel mondo ex socialista, di norma i ricchi erano di sinistra e i poveri di destra. Certo, è una semplificazione, di tipo giornalistico, per l’appunto ma questo è il modo in cui le cose sono viste dalla maggioranza dei cittadini esteuropei. Ed è anche per questo che una rinascita delle sinistre esteuropee è improbabile per almeno 86 G. FRANZINETTI una generazione. “Comandano sempre quelli di prima”: questo è il giudizio frequentemente riscontrato tra il pubblico esteuropeo. Infine, quale è il giudizio storico che si può dare delle transizioni esteuropee? Vi sono due ordini di problemi. Il primo è di ordine prettamente scientifico, e cioè la misurazione della effettiva variazione del tenore di vita in seguito alle transizioni. Negli anni della Guerra fredda vi furono innumerevoli polemiche, spesso strumentali, sulla comparabilità del tenore di vita negli stati socialisti e in quelli delle economie di mercato. Ci furono anche contributi che cercavano di affrontare seriamente (e quindi scientificamente) il problema 13 . A questi studi potrebbero e dovrebbero tornare coloro che sono realmente interessati a misurare gli effetti sociali delle trasformazioni degli anni Novanta. Nel caso degli effetti sulla salute, esiste un dibattito avviato negli anni Ottanta e che dura tuttora14. Detto ciò, esiste un problema insormontabile per questi studi, e cioè la radicale discontinuità dei dati economici e sociali. La discontinuità è stata troppo drastica per permettere la creazione di una serie continua di dati dal periodo socialista a quello 13 Cfr. a titolo esemplificativo, Z. Landau, Comparative Research on teh Long-Range economic Growth of Poland (A roposal concernine the selection of states for comparison), in “Acta Poloniae Historica”, 1974, n. 29, pp. 111-36; E. Ehrlich, Contest between Countries: 1937-1986, in Soviet Studies”, 1990, vol. 43, n. 5, pp. 875-896; E. Ehrlich e G. Révész, Tendenze economiche dell’Est Europa, in P. Anderson et al. (a cura di), Storia d’Europa, Torino: Einaudi, 1993, vol. I (saggio private di una parte dei suoi dati nell’edizione italiana); P. Marer et al., Historically Planned Economies. A Guide to the Data (Washington D.C.: World Bank, 1992); D. F. Good e T. Ma, The economic Growth of Central and Eastern Europe in Comparative Perspective, 1870-1989, in “European Review of Economic History”, vol. 3, ii, August 1999, pp. 103-37. 14 N. Eberstadt, The Health Crisis in the USSR, in “New York Review of Books”, 19 February 1981 (e il successivo scambio con A. Szymanski, 5 November, 198; Id., Commentary: ‘Reflections on the Heath Crisis: the USSR’, in “International Journal of Epidemiology”, 2006, vol. 35, pp. 139497; C. Davis, Commentary: the Health Crisis in the USSR: reflections on the Nicholas Eberstadt review of Rising Infant Mortality in the USSR in the 1970s, in “International Journal of Epidemiology”, 2006, vol. 35, n. 6, pp. 1400-1405; I. Boncz e A. Sebastyén, Letters to the Editor, Economy and mortality in Eastern and Western Europe between 1945 and 1900: the largest medical trial of history, in “International Journal of Epidemiology”, 2006, vol. 35, pp. 796-805; A. Szymanski, On the Uses of Disinformation to legitimize the revival of the Cold War: Health Crisis in the USSR, in “Science & Society”, Winter 1981-1982, pp. 453-74. Venti anni dopo: fu vera gloria? 87 post-socialista. Questo non significa abbandonare il campo ai giornalisti improvvisati e ai Nuovi Maestri del giornalismo. Significa però prendere atto delle difficoltà e degli ostacoli che qualsiasi comparazione storica dei tenori di vita comporta (basti pensare alle discussioni storiografiche sul mutamento del tenore di vita dopo la Rivoluzione industriale, tuttora in corso). Dire che (al limite) «solo l’un per cento dei russi ha beneficiato delle trasformazioni» non vuol dire molto, se non si specifica da chi è composto questo “un per cento”. Se questo un per cento è composto di “nuovi russi”, fa una grossa differenza, soprattutto per gli interessati. Se, al contrario, sono tutti figli della vecchia nomenklatura, anche questo fa una grossa differenza. Bisogna decidersi, e per farlo bisogna proprio studiare e capire questi “nuovi russi” e i loro padri. Più in generale, sarebbe il caso di differenziare il giudizio sui costi sociali delle transizioni per classi generazionali, regioni, e genere15. Cosa è stato il Socialismo? Nel 1918, in un caffè dinanzi all’università di Vienna, Max Weber si sedette con i suoi amici Felix Somary e Joseph Schumpeter per discutere della situazione politica. Cosa pensare della Rivoluzione di Ottobre, e cosa pensare dei bolscevichi? Schumpeter avanzò l’ipotesi che a questo punto il marxismo avrebbe avuto una vera e propria verifica di laboratorio. Weber rispose:«sarebbe stato riempito di cadaveri, dal momento che erano i bolscevichi a condurre l’esperimento». «Le sale di anatomia sono tutte uguali» rispose Schumpeter. Il tono della conversazione si accese e il sociologo della neutralità assiologica rapidamente uscì, lasciandosi dietro il suo strano equivalente austriaco”16. 15 Cfr. le analisi, per nulla apologetiche, di Bernard Lory: La traversée du communisme en Bulgarie par quatre classes d’âge, in “Balkanologie”, I (1997), n. 2, pp. 57-70: e Ouvrir les yeux sur la pauvreté nouvelle, in S. Yérasimos (a cura di), Le retour des Balkans 1991-2001, Paris, Autrement, 2002, pp. 161-73 (entrambi ripresi in Lory, Les Balkans: de la transition post-ottomane à la transitino post-communistes, Istanbul, Isis, 2005. 16 A. Benanav, Kali’s Prophet [rec. di T. McGraw, Prophet of Innovation. Joseph Schumpeter and Creative Destruction, 2007], in “New Left Review”, n. 48, November-December 2007, p. 139. 88 G. FRANZINETTI Non è difficile immaginare quel che Schumpeter avrebbe pensato dei risultati dell’esperimento. Ma uno storico deve cercare di avanzare una qualche spiegazione storica del fenomeno che è andato sotto il nome di socialismo o di comunismo. La forza del socialismo (nelle sue infinite varietà) risiedeva nella sua abilità di fornire una alternativa credibile al capitalismo realmente esistente in termini di modernità (e non alla politica della nostalgia, che sembra l’ambito preferito della sinistra radicale). È improbabile che individui nei diversi continenti siano stati disposti a dedicare le loro energie (e spesso le loro vite) a un obiettivo definito in termini di vaghe utopie, o ad altre aspettative millenaristiche. (Abbiamo bisogno dell’ABC del comunismo di Bucharin e Preobraženskij [1920] per capire la storia dell’Urss?) I sostenitori dei diversi progetti socialisti in tutto il mondo ragionavano in termini di obiettivi semplici e pratici. Cosa portò al fallimento del socialismo? Prendiamo una prospettiva ampia, globale per quanto è possibile. Il socialismo (nelle sue diverse versioni) poteva avere una ampia eco nel periodo che uno storico dell’Asia e dell’Africa ha chiamato il “momento egualitario”: dal 1950 a circa il 1980 . 17Fu ben reale, per milioni, forse miliardi, di individui. Ma in una propettiva storica più ampia, fu solo un momento. Stalin avrebbe detto a Churchill che la collettivizzazione rappresentò «un formidabile sforzo, più formidabile della battaglia di Stalingrado». Come osserva David Low, alla fine (negli anni Ottanta del XX secolo) i kulaki avevano vinto. Questo accadde ben prima della cosiddetta “caduta del Muro”. Il “Washington Consensus” emerse all’inizio degli anni Ottanta. In tutto il mondo, e soprattutto nel Terzo mondo, il socialismo cominciò a perdere la sua attrattiva18. I kulaki avevano vinto. È una epigrafe appropriata per un grande storico determinista, che forse oggi merita di essere riletto senza il senno del poi. 17 D. A. Low, The Egalitarian Moment. Asia and Africa 1950-1980, Cambridge, Cambridge University Press, 1996. 18 Cfr. il caso dell’Angola, T. Hodges, Angola from Afro.Stalinism to Petro-Diamond Capitaism, Bloomington, Indiana University Press, 2001, per il Mozambico, Moçambique [Atlas de Lusofonia, ed. P. Cardoso], Lisboa, Prefacio, 2005. Cfr. inoltre A. O. Westad, The Global Cold War: Third World Interventions and the Making of Our Times, Cambridge, Cambridge University Press, 2005. QUESTIONI NAZIONALI E NAZIONALISMI DOPO IL 1989 André Liebich Lo scrittore americano Mark Twain rimase sorpreso leggendo su un giornale della propria morte. Con il senso dell’umorismo che lo caratterizzava scrisse alla redazione: «La notizia della mia morte è molto esagerata ». Nei paesi dell’est sono cambiate molte cose dal 1989. Ma per quanto riguarda i nazionalismi, la notizia dell’emergenza del nazionalismo nella scia delle rivoluzioni del 1989 è esagerata. Secondo la tesi sostenuta da questo articolo, il nazionalismo rappresenta una delle linee di continuità tra l’esperienza vissuta nei paesi dell’Europa dell’est nell’epoca comunista e la realtà odierna. Questo articolo è diviso in tre parti. Innanzitutto, si analizza il ruolo del nazionalismo nei paesi dell’est nell’epoca comunista. In seguito vengono brevemente rievocate le rivoluzioni stesse sostenendo la tesi che una relativa moderazione di queste rivoluzioni e il loro carattere di velluto sono dovuti proprio al quadro nazionalista che limitava queste rivoluzioni. Infine verrà trattata la questione del nazionalismo postcomunista, cercando di porre in evidenza i numerosi elementi di continuità, secondo l’opinione di certi commentatori, tra il comunismo di quell’epoca e il nazionalismo capitalistico odierno. 1. Durante il periodo comunista, nei paesi del blocco si può osservare una dialettica tra nazionalismo e internazionalismo, ma è stato il nazionalismo che si è imposto, prima o poi, in maniera decisiva. I partiti comunisti che presero il potere nell’Europa dell’est all’indomani della seconda guerra mondiale si presentarono, nei primi tempi, come dei partiti nazionali o addirittura come dei 90 A. LIEBICH partiti patriottici. Questo non fu un caso esclusivamente dell’est. Il Partito comunista francese si dichiarò il partito “dei 75.000 fucilati”. Ovviamente, l’accento non fu messo sui fucilati in qualità di comunisti, ma sui fucilati in qualità di francesi. All’est la prudenza sociale, che si espresse nella concezione iniziale della “democrazia popolare”, trovò la sua contropartita nazionale nei gesti ostentati di patriottismo ed addirittura di sciovinismo da parte dei comunisti recentemente arrivati al potere. I partiti comunisti dell’est furono i più ardenti sostenitori dell’espulsione delle minoranze nemiche, soprattutto dei tedeschi, ma anche degli ungheresi e addirittura degli italiani. La nuova democrazia doveva essere etnicamente pura, utilizzando un termine anacronistico. Dal 1948, durante il passaggio alla stalinizzazione integrale, l’internazionalismo era la parola d’ordine obbligata. L’internazionalismo significò in questo contesto la sovietizzazione e spesso, anche la russificazione. È proprio in questo periodo che si conobbero le vicende ben descritte da Maurice Duverger in “Gli aranci del lago Balaton” .1 Ma lo stalinismo internazionalista fu di breve durata. In Polonia cessò con l’avvento al potere di Gomulka nel 1956. In Ungheria esso finì nel 1956 ma soltanto per qualche giorno, per poi riprendersi in seguito al fallimento della Rivoluzione e svanire gradualmente durante gli anni Settanta e Ottanta. Nei paesi balcanici lo stalinismo internazionalista cedette a quello che si potrebbe chiamare lo stalinismo nazionale. Il caso della Cecoslovacchia è il più complesso. Con una stalinizzazione durata quarant’anni, ad eccezione del breve episodio della Primavera di Praga nel 1968, il regime comunista a Praga non cercò di sfruttare pienamente il sentimento nazionale, salvo sotto la forma di una xenofobia generalizzata ma tiepida. La dualità nazionale della Cecoslovacchia spiega in parte questa reticenza a giocare la carta nazionale che gli altri paesi sfruttavano ad oltranza. Anche nella Germania dell’est, che avrebbe potuto essere considerata inadatta alle manifestazioni del nazionalismo, il regime ha celebrato il personaggio di Martin Lutero – il cinquecentesimo anniversario della nascita è caduto nel 1983 – ovviamente non come riformatore religioso, ma come eroe nazionale. Il personaggio di Bismarck, come alcune tradizioni militari prussiane così come il passo dell’oca, entrarono nel repertorio 1 Maurice Duverger, Les Orangers du Lac Balaton, Paris, Seuil, 1980. Questioni nazionali e nazionalismi dopo il 1989 91 di legittimazione della Germania dell’est. E ancora dall’Albania, che si era dichiarata il primo stato ateo del mondo, Enver Xoxha proclamò orgogliosamente che l’unica religione degli albanesi era quella dell’albanismo2. 2. Cosa succede al nazionalismo quando avvengono i cambiamenti di regime nel 1989 ? Quando i regimi dell’est cominciano a crollare, i partiti al potere non si accontentano più di appoggiarsi semplicemente sul nazionalismo, essi invocano i nazionalismi come punto di riconciliazione con le opposizioni emergenti. A questo proposito possiamo citare il Generale Jaruzelski in divisa militare, con la bandiera e l’inno nazionale in sottofondo, che nel 1981 dichiara 3 la legge marziale nel nome degli interessi della Polonia . Sette anni dopo, inaugurando le trattative della tavola rotonda che portarono ad elezioni libere, i delegati del Generale Jaruzelski annunciarono di voler parlare «jak Polak z Polakiem» ovvero «come un polacco con un polacco» .4 Anche in Ungheria, la versione magiara della tavola rotonda è un dialogo tra compatrioti5. Il primo ministro Miklòs Nèmeth, schernito durante il secondo funerale di Imre Nagy nel giugno del 1989, si riabilita di fronte all’opinione pubblica prendendo la decisione, nel nome degli interessi dell’Ungheria e senza tener conto della solidarietà socialista, di aprire le frontiere con l’Austria per i tedeschi dell’est. In Romania è il Fronte di salvezza nazionale che succede a Ceauşescu, lui stesso un dittatore nazionale. In Bulgaria il 2 La fine dell’epoca comunista in Europa dell’est coincise con lo sviluppo di una letteratura occidentale, essenzialmente anglofona, sulle particolarità della situazione dei Paesi dell’est. Vedi, ad esempio, le collezioni seguenti: Nationalism in the USSR & Eastern Europe in the era of Brezhnev & Kosygin, a cura di George W. Simmonds, Detroit, MI: University of Detroit Press, 1977; Communism in Eastern Europe, a cura di Teresa Rakowska-Harmstone, Bloomington, University of Indiana Press, 1979, 2a edizione, 1984. 3 Il classico racconto della vicenda di Solidarność che finì con la scena sopra descritta, rimane quello di Timothy Garton Ash, The Polish Revolution 1980-1982, Londres, Jonathan Cape, 1983. 4 Wiktor Osiatyński, The Roundtable Talks in Poland, in The Roundtable Talks and the Breakdown of Communism, a cura di Jon Elster, Chicago, University of Chicago Press, 1996, pp. 21-68. Anche, Jacqueline Hayden, The Collapse of Communist Power in Poland, Milton Park, Routledge, 2006. 5 Andràs Sajò, The Roundtable Talks in Hungary, in Elster, op. cit., pp. 69-98. 92 A. LIEBICH regime di Živkov raggiunse parossismi sciovinistici con l’espulsione dei turchi bulgari; il trasferimento del potere assunse la forma di un colpo di stato all’interno del partito, che fu accettato senza sommosse da parte della popolazione poiché il carattere nazionale del partito non fu messo in dubbio6. In alcuni paesi, durante le prime elezioni libere del 1989 e del 1990, le opposizioni cercano di screditare i partiti comunisti ancora al potere associandoli a Mosca. Vengono ricordati i manifesti elettorali ungheresi: Brežnev e Honecker (si, Honecker) si scambiano un bacio affettuoso sulla bocca, mentre nella parte inferiore del manifesto una bella e giovane coppia innamorata si abbraccia teneramente, con la scritta «tessék választani», «A voi la scelta» 7. Oppure, un grasso soldato sovietico visto di spalle con la scritta in cirillico «tovarišči» ed il simbolo che generalmente si vede su una porta chiusa di un negozio o di un teatro, sempre in russo, «konec», ovvero «fine» 8. Ma la tattica della diretta associazione tra comunisti e russi ha i suoi limiti. Anzitutto, nell’Europa dell’est si è coscienti, anche se non si tiene ad ammetterlo, che le rivoluzioni in questi paesi possono aver luogo unicamente perché Mosca mette in pratica la politica di non ingerenza e del lasciar fare. Ma soprattutto, già nel 1989, i partiti comunisti dell’Europa dell’est, compresi i regimi “duri” come quelli della DDR o della Cecoslovacchia che rifiutano le riforme di Gorbaciov, si sono sufficientemente allontanati dalla Unione Sovietica da rendere poco credibili le accuse di intrinseca complicità. Sicuramente, in un secondo momento, i partiti di destra estrapoleranno dal loro arsenale elettorale l’epiteto «servi di Mosca», ma nel 1989 questa accusa è una freccia che non raggiunge il cuore del dibattito politico. Le spiegazioni delle cause delle rivoluzioni del 1989 sono tante. In linea generale ci si divide tra i sostenitori dell’idea della mobilitazione popolare o della nascita della società civile ed i 6 La letteratura sulla caduta dei regimi comunisti è molto ampia. Vedi, tra gli altri, J. F. Brown, Surge to Freedom: The End of Communist Rule in Eastern Europe, Durham, Duke University Press, 1992; Jacques Lévesque, 1989, la fin d’un empire: l’URSS et la libération de l’Europe de l’est, Paris, Presses de Sciences Po, 1995; Gale Stokes, The Walls Came Tumbling Down: The Collapse of Communism in Eastern Europe, New York, Oxford University Press, 1993. 7 Vedi manifesto allegato. 8 Vedi manifesto allegato. Questioni nazionali e nazionalismi dopo il 1989 93 sostenitori dell’idea del suicidio o dell’abbandono volontario del potere da parte delle élites dirigenti. Non ci si interroga invece abbastanza sulle cause per cui le rivoluzioni hanno avuto un carattere pacifico, tanto da poter essere chiamate “di velluto”. La violenza ha avuto luogo soltanto in Romania e anche in Romania essa è stata per un verso spontanea e per l’altro simbolica . 9 L’assenza di un intervento sovietico, o meglio l’impossibilità di poter contare sull’esercito sovietico, rappresenta certamente un fattore importante. Ma tutti questi regimi dispongono di risorse repressive interne che già da sole sono sufficienti a domare il movimento fin dalle prime manifestazioni. Dunque, le forze dell’ordine non soltanto non sono intervenute in maniera decisiva, ma il fatto notevole è che i dirigenti decaduti non sono scappati dal paese come avrebbero fatto gli sconfitti in altre rivoluzioni. La chiave interpretativa di questo fenomeno – delle rivoluzioni che risparmiano le loro vittime – è da cercare nel quadro nazionale comune a tutti i partiti presenti. I comunisti così come gli oppositori si dichiarano tutti patrioti. Questo rappresenta una specie di garanzia: chiunque sia il vincitore, i perdenti non saranno trattati come dei traditori, bensì come dei compatrioti che hanno idee sbagliate o come avversari politici. Questo argomento viene rafforzato, a contraris, da due casi che si differenziano dal modello generale del 1989. Il primo di questi casi è, ovviamente, la Repubblica democratica tedesca 10 . Il nazionalismo della Germania dell’est, l’orgoglio di appartenere al “primo Stato socialista sul suolo tedesco”, si è rivelato incapace di resistere al nazionalismo semplicemente tedesco. Anche in questo caso, il nazionalismo è al centro degli eventi del 1989 ma, nell’escalation dei nazionalismi, uno perde e l’altro vince. Ironicamente è proprio in Germania, tra tedeschi, che le purghe della classe politica nell’epoca postcomunista saranno le più radicali. Ed è ancora più ironico che la severità della repressione in Germania dell’est dopo il comunismo abbia creato un sentimento quasi nazionale all’est. Come 9 Peter Siani-Davies, The Romanian Revolution of December 1989, Ithaca, Cornell University Press, 2005. 10 Sul caso della Germania Est vedi Charles S. Maier, Dissolution: The Crisis of Communism and the End of East Germany, Princeton, Princeton University Press 1997 [Trad. it. Il crollo - La crisi del comunismo e la fine della Germania est, Bologna, il Mulino, 1999]. 94 A. LIEBICH afferma Pierre Hassner, all’epoca della Guerra fredda esisteva una nazione tedesca, ma con due stati tedeschi. Oggigiorno nello stato tedesco ci sono probabilmente due nazioni tedesche. Un’altra eccezione al modello del 1989 è rappresentata dal caso cecoslovacco. All’interno di uno stato binazionale, nessuno dei due campi presenti può appellarsi in modo credibile al nazionalismo. D’altronde, il potere non può superare la sua identificazione con l’occupazione sovietica del 1968. Se in Cecoslovacchia il Partito comunista e l’opposizione non sono riusciti a coesistere sotto l’insegna del nazionalismo, le divergenze nazionali all’interno dell’opposizione non tardarono a manifestarsi con i risultati che sappiamo, ovvero la divisione del paese alla fine del 1992. Attualmente la Repubblica ceca e la Slovacchia sono gli unici stati dell’Europa centrale che non hanno avuto un presidente di formazione politica postcomunista. La Repubblica ceca è l’unico paese dell’Europa dell’est che accoglie un partito che si chiama ancora oggi (ed ha mantenuto lo stesso nome) “comunista”. Il Partito comunista di Boemia e Moravia è il terzo partito politico del paese11. 3. Le rivoluzioni dell’89 sono considerate “miracolose”. Un sistema potente, apparentemente indistruttibile, è crollato come un castello di carte. Ma l’ultimo miracolo dell’89 è il ritorno dei comunisti appena dopo qualche anno. In Polonia, l’eroe di Solidarność e il primo presidente polacco liberamente eletto dopo la seconda guerra mondiale, Lech Walesa, cedette il portafoglio di presidente dopo un solo mandato al candidato della sinistra Aleksander Kwasniewski, un ex ministro comunista e un vero furbacchione. Il governo polacco era già passato nelle mani di ex comunisti due anni prima, nel 1993, sulla base del peso della loro rappresentanza in parlamento. Questo accadde in un paese dove nel 1989 i comunisti non avevano vinto nessun seggio messo liberamente in palio, ad eccezione d’un seggio al senato dove il candidato comunista vinci11 Sul caso cecoslovacco, vedi Miroslav Novák, Une transition démocratique exemplaire? L’émergence d’un système de partis dans les pays tchéques, Prague, Centre français de recherches en sciences sociales, 1997; Frédéric Wehrlé, Le Divorce tchéco-slovaque: vie et mort de la Tchécoslovaquie 1918-1992, Paris, Harmattan 1994; The End of Czechoslovakia, a cura di Jiri Musil, Budapest, Central European University Press, 1995. Questioni nazionali e nazionalismi dopo il 1989 95 tore si vantò dei suoi legami con il cardinale primate della Polonia. Kwasniewski otterrà un secondo mandato e rimarrà al potere per dieci anni; per sette di questi, i suoi governi furono di sinistra, postcomunisti12. In Ungheria il ritorno del Partito comunista, certamente rinnovato e con un altro nome, è ancora più veloce. Se il partito ottiene l’8% dei voti alle prime libere elezioni del 1990, nel 1994 raccolse una maggioranza assoluta del 54% .13L’ultimo ministro degli Affari esteri dell’Ungheria comunista, Gyula Horn, diviene primo ministro. Il suo partito rimarrà al potere fino al 2010 con una sola interruzione di quattro anni. A grandi linee, se si designasse un quadro degli orientamenti politici in Europa centro-orientale di questi ultimi vent’anni, al primo posto (o almeno al secondo) troveremmo i partiti ex comunisti. E sono partiti “normali”, perfettamente integrati nel sistema, che formano ed entrano nelle coalizioni, perfino con i 14 partiti di estrema destra come nella Slovacchia di oggi . D’altronde, non si tratta unicamente dell’ascendenza di ex partiti comunisti riformati, ma anche, come abbiamo visto, del ritorno di personaggi importanti identificabili con il vecchio regime. Ovviamente non si tratta del ritorno dell’ideologia marxistaleninista, e non è grazie a questa ideologia che gli ex comunisti vengono eletti. Tutti, quasi senza eccezione, sono ardenti difensori del libero mercato, a favore dell’entrata del loro paese nella NATO e dell’adesione all’Unione Europea. Dichiarano inoltre, e senza imbarazzo, di non avere mai creduto al comunismo neanche quando erano ministri di governi comunisti e membri dell’ufficio politico del partito comunista. Il fatto di ostentare la loro amnesia selettiva, il loro opportunismo oppure la mancan12 Sulla Polonia, vedi George Sanford, Democratic Government in Poland: Constitutional Politics since 1989, New York, Palgrave Macmillan, 2002. Sulla problematica della “transizione democratica”, nell’Europa postcomunista, vedi Klaus von Beyme, Transition to Democracy in Eastern Europe, New York, Palgrave Macmillan, 1997; Democratic Consolidation in Eastern Europe, vol. 1, Institutional Engineering, a cura di Jan Zielonka, Oxford, Oxford University Press, 2001. 13 Ignác Romsics, Hungary in the Twentieth Century, Budapest: Corvina Osiris, 1999, p. 443. 14 Dal luglio 2006, il governo slovacco è formato da una coalizione diretta dai socialdemocratici di Robert Fico, ma che comprende anche il Partito nazionale slovacco e il Partito popolare-Movimento per una Slovacchia democratica dell’ex primo ministro Vladimir Meciar. 96 A. LIEBICH za di una ferma convinzione, li libera dalle loro responsabilità. Ma ciò che soprende è che l’elettorato li elegge una volta dopo l’altra. Di nuovo, la spiegazione più plausibile sulla quale baso la mia tesi è che i personaggi politici, così come i loro elettori, sono convinti, oggi come ieri e nel periodo comunista come all’epoca presente, che questi dirigenti abbiano sempre agito come patrioti negli interessi della nazione. Chiaramente questa identificazione tra i dirigenti ex comunisti e le masse è controversa e complessa. Dopo il 1989, i nuovi partiti di destra nei Paesi dell’est mettono in pratica la “lustrazione”, ovvero l’esame del passato dei candidati alle cariche politiche ed alle alte funzioni dello Stato 15 . L’obiettivo della pratica della “purificazione” da parte della destra è quello di eliminare gli ex comunisti e di sottolinearne il radicamento in un passato screditato. La purificazione sfugge di mano; il caso più recente è quello di Milan Kundera, accusato di essere stato un collaboratore della polizia segreta all’inizio degli anni Cinquanta 16 . Anche per Lech Walesa è stato “scoperto” un passato da agente comunista, il che provoca lo scherno generale . 17 Insomma, la lustrazione è un fallimento. Più interessante è la tesi della sociologa ceca, Jirina Siklova, che parla della «solidarietà dei colpevoli». Secondo Siklova, tutti (o quasi) hanno collaborato in un modo o nell’altro con i regimi comunisti dell’epoca. In fin dei conti l’unica soluzione alternativa alla collaborazione era la prigione, l’isolamento sociale o l’esilio. Avendo tutti collaborato ed essendosi tutti adattati al nuovo ordine postcomunista, nessuno può rimproverare ai dirigenti di aver fatto la stessa cosa18. Per quanto riguarda il nazionalismo vero e proprio, il suo slancio apparente dopo il 1989 è largamente illusorio. Il più grande incidente di conflitto etnico è avvenuto a Târgu Mures in 15 Kieran Williams, Aleks Szczerbiak, Brigid Fowler, Explaining Lustration in Eastern Europe: A Post-communist politics approach, SEI [Sussex European Institute] Working Paper 62, 2003. 16 Jana Prikryl, The Kundera Conundrum: Kundera, Respekt, and Contempt, “The Nation”, 8 giugno 2009. 17 Adam Michnik, The Polish Witch-Hunt, “New York Review of Books”, 28 giugno 2007. 18 Jirina Siklovà, The Solidarity of the Culpable, “Social Research” 58:4 (1991) pp. 765-774. Questioni nazionali e nazionalismi dopo il 1989 97 Transilvania nel 1990 19 e ha provocato cinque morti. Le tensioni etniche sono numerose, visibili e addirittura lampanti: gli skinheads in Germania dell’est ed altrove, la nuova guardia ungherese in camicie bianche piuttosto che in camicie nere, (il movimento è stato vietato recentemente, ma forse sta per essere rilegalizzato dato il risultato delle elezioni 2010), oppure Radio Maryja in Polonia e il suo antisemitismo. Tutte queste manifestazioni non sono in nome di un nazionalismo nuovo, ma di una società che ammette la libertà d’espressione e che accetta le conseguenze indesiderate di cui questa libertà è portatrice. D’altronde, il nazionalismo più violento si manifesta nel disprezzo e nell’ostilità dimostrata apertamente nei confronti dei Rom. Da questo punto di vista, per ciò che concerne i Rom i Paesi dell’est si trovano in pieno accordo con i paesi dell’Europa occidentale. L’integrazione delle due Europe si è realizzata se non altro su questo piano. Infine, la questione dell’integrazione europea. C’è da chiedersi perché i Paesi dell’est, dopo aver acquisito recentemene la loro indipendenza, si affretterebbero così tanto a sacrificarne una parte per sottomettersi alla disciplina di Bruxelles. Possiamo avanzare l’ipotesi che la risposta a questa domanda sta nel fatto che i Paesi dell’est non intravedevano nessun prezzo da pagare per questa integrazione, che consideravano come dovuta. L’Unione Europea era una madre nutrice che avrebbe porto ai suoi figli trascurati il suo seno generoso, dal quale sarebbe fluito in abbondanza il latte del riconoscimento e dell’aiuto economico. I Paesi dell’est si sentivano offesi dalle condizioni che erano loro imposte, proprio nell’ambito della regolazione dei problemi etnici e nazionali20 . Pensiamo al Piano Balladur, formalmente conosciuto come il Patto di stabilità in Europa, del 1995, con il quale si pretesero dei trattati bilaterali tra paesi che non si amavano per niente, come ad esempio tra l’Ungheria e la Slovacchia o tra l’Ungheria 19 Secondo Tom Gallagher, Theft of a Nation: Romania since Communism, London, Hurst, 2005, pp. 82-89, gli eventi di Târgu Mures furono provocati artificialmente ai fini della lotta di potere interna. 20 Gwendolyn Sasse, The Politics of EU Conditionality: the norm of minority protection during and beyond EU accession, in International Influence Beyond Conditionality: Postcommunist Europe after EU Enlargement, a cura di Rachel A. Epstein e Ulrich Sedelmeir, London, Routledge, 2009, pp. 47-65. 98 A. LIEBICH e la Romania .21Oppure, ricordiamo le condizioni di Copenaghen del 1993 secondo le quali il rispetto e la protezione delle minoranze devono essere il criterio chiave dell’ammissibilità all’Unione europea 22 . I Paesi dell’est si attennero a queste condizioni con grande fatica. Essi le rispettano in modo selettivo da quando sono entrati a far parte dell’Unione. Nell’agosto del 2009 al presidente ungherese è stato vietato di entrare sul territorio slovacco dove aveva intenzione di recarsi per inaugurare una statua di Santo Stefano. È la prima volta che un paese membro dell’Unione offende in questo modo un altro paese membro, rifiutando al capo di stato d’un paese partner nell’Unione, e per di più un paese vicino, la libertà di movimento che è il diritto di ogni cittadino europeo23. 4. In conclusione, bisogna ricordare che molte cose sono cambiate in Europa dopo il 1989. Per constatarlo basta viaggiare nei Paesi dell’est o parlare con i giovani che provengono da essi. I cambiamenti sono avvenuti in due direzioni: se la solidarietà europea d’un tempo voleva dire che gli interessi nazionali dovevano essere messi da parte per dare priorità agli interessi europei, oggi solidarietà europea significa l’appoggio a un membro dell’Unione, più spesso all’est, quando esso si dichiara minacciato, e di solito sempre dall’est. All’epoca del comunismo i Paesi dell’est si dicevano “nazionali nella forma, socialisti nel contenuto”. Ma lo erano solo a metà, come questo intervento ha cercato di dimostrare. Si potrebbe dire che i Paesi dell’est fossero “socialisti nella forma e nazionali nel contenuto”. Qualunque cosa si pensi del passato, oggi bisogna riconoscere che questi paesi sono diventati “europei nella forma, ma nazionalisti nel contenuto”. 21 Victor-Yves Ghebali, L’OSCE dans l’Europe post-communiste 1901996: vers une identité paneuropéenne de sécurité, Bruxelles, Bruylant, 1996, p. 95 e passim 22 Gwendolyn Sasse, EU Conditionality and Minority Rights: Translating the Copenhagen Criterion into Policy, EUI Working Paper No. 2005/16, European University Institute, Robert Schuman Centre for Advanced Studies, Florence, consultato il 23 aprile 2010 su http://ideas.repec.org/p/ erp/euirsc/p0154.html. 23 Slovak-Hungarian Tensions, “Hungarian Spectrum”, 20 agosto 2009, consultato il 23 aprile 2010 al http://esbalogh.typepad.com/hungarianspectrum/2009/08/slovakhungarian-tensions.html. LE NUOVE GENERAZIONI NELL’EPOCA DI GORBAČEV, EL’CYN E PUTIN: TRE DIVERSE FASI Aleksandr Tarasov I veri cambiamenti politici nell’Unione sovietica (quelli conosciuti in tutto il mondo con il nome di perestrojka) hanno avuto inizio nel 1988, mentre nel 1989 hanno assunto un aspetto definitivo e irreversibile (che è giunto a termine con il collasso dell’URSS), come nel resto del blocco orientale. Durante il ventennio successivo l’URSS (e poi la Russia) ha attraversato tre grandi fasi storiche: quella della presidenza Gorbačev, quella di El’cyn ed infine la fase di Putin che di fatto dura fino ad oggi, dato che il presidente Medvedev non è, senza dubbio, un personaggio politico autonomo. A queste tre fasi corrispondono tre generazioni assolutamente diverse l’una dall’altra. Ciascuna di queste generazioni si era formata al termine della fase storica precedente e non assumeva il suo proprio aspetto socio-culturale immediatamente; tuttavia la differenza tra le generazioni è evidente. Convenzionalmente si possono chiamare “generazione di Gorbačev”, “generazione di El’cyn”, “generazione di Putin”. La generazione di Gorbačev si è formata nel periodo precedente alla perestrojka e si distingueva per il rifiuto assoluto dell’ideologia ufficiale sovietica, che era completamente discreditata. Questa generazione prendeva di mira in misura ragguardevole il cambiamento della contemporanea realtà sociale, oppure – il che era un fenomeno altrettanto diffuso – ignorava la realtà sociale ufficialmente riconosciuta, costruendo nello stesso tempo una propria realtà parallela sotto forma di sviluppo di subculture giovanili, della musica rock e di fenomeni simili. Tuttavia, nonostante il rifiuto dell’ideologia ufficiale sovietica, questa generazione, nel suo atteggiamento più profondo, era più “sovietica” che non: una delle sue critiche fondamentali nei con- 100 A. TARASOV fronti del regime era la discordanza tra i principi dichiarati e la vita reale. In primo luogo i giovani non accettavano la disuguaglianza sociale ed economica. Negli ultimi anni dell’Unione sovietica, nonostante le notizie ufficiali abbiano sempre dichiarato il contrario, la società si presentava già con una notevole differenziazione sociale, dove la nomenclatura aveva privilegi importanti (anche se risultano ridicoli al giorno d’oggi). E proprio questi privilegi (in gran parte illegali) suscitavano tra i giovani indignazione, ancora più forte perché tali privilegi erano associati ad una gerontocrazia. Non è un caso che le più importanti organizzazioni di opposizione esclusivamente giovanili che si sono formate in Russia durante la perestrojka si siano rivelate organizzazioni di sinistra, a partire dalla Federazione dei club socialisti (FSOK: Federacija socialističeskich obščestvennych klubov) e finendo con la Confederazione degli anarchicosindacalisti (KAS: Konfederacija anarcho-sindikalistov). Tutte queste organizzazioni mettevano in dubbio il carattere socialista della società sovietica, criticata sia da sinistra che da una destra classicamente socialdemocratica. La generazione di Gorbačev si era formata in condizioni di consapevole rifiuto dell’ideologia sovietica e aveva sviluppato autonomamente, con un processo creativo, le proprie ideologie (più di una). Invece la generazione di El’cyn si è trovata totalmente esposta all’ondata propagandistica e informativa che si è infranta sui giovani di questa generazione durante la perestrojka, e che era controllata dalla nomenclatura sovietica dei mass media. Principalmente questa ondata consisteva nello smascheramento dei crimini dello stalinismo e degli abusi dell’élite sovietica, ma anche nella propaganda religiosa e nell’esaltazione dell’economia di mercato. La generazione di El’cyn non è apparsa sulla scena sociale subito dopo il collasso dell’URSS, ma a metà e nella seconda parte degli anni Novanta. Dalla generazione precedente essa si distingueva per “l’idealismo di mercato”, per l’entusiastica accettazione della disuguaglianza sociale ed economica, considerata come la base dello sviluppo, e per il conseguente interesse verso il neoliberalismo. Per la maggior parte (chiaramente in ciascuna generazione c’erano delle eccezioni) la generazione di El’cyn puntava ad ottenere il successo economico a qualsiasi costo, compreso (e probabilmente anche in primo luogo) l’uso del crimine. Proprio questa generazione ha alimen- Le nuove generazioni nell’epoca di Gorbačev, Elìcyn e Putin 101 tato un accesso di massa alle strutture criminali ed ha contribuito alla crescita di un banditismo mai registrato in Russia dai tempi della guerra civile. Le illusioni di questa generazione si sono infrante contro la vita reale. L’economia di mercato non ha per niente garantito alla generazione di El’cyn la prosperità di massa e una vita da milionari. Ha raggiunto il benessere solo una esigua parte (meno del 5%) della popolazione, per la maggior parte appartenente alla ex nomenclatura sovietica e formata da membri delle sue famiglie. Tra la gente di successo i giovani erano molto pochi, ed ancora meno erano quelli che si erano “fatti da soli” e che non si erano trovati tra le file dei “figli di papà” grazie alle loro origini sociali. Introdotti nel mondo criminale durante la lotta per la privatizzazione della proprietà statale, questi giovani si sono sterminati da soli nelle guerre di gangster, o in parte sono finiti in galera. Perciò la generazione successiva – la generazione di Putin – la cui configurazione si è definita pienamente verso la metà degli anni Duemila, ha dimostrato un atteggiamento diverso nei confronti della disuguaglianza sociale ed economica da quello della generazione di Gorbačev e della generazione di El’cyn. La maggior parte della generazione di Putin si scandalizzava dei privilegi e del tenore di vita della “nuova élite”, ma al tempo stesso lo considerava naturale e non provava nemmeno a mettere in dubbio lo stato delle cose, cercando invece l’occasione per aggregarsi a quelli che si erano trovati “in alto” senza neanche sperare di “farsi da soli”. Se per la generazione di Gorbačev l’ideale dei giovani era rappresentato dai personaggi che esercitavano attività creative, e per la generazione di El’cyn dai businessmen e dai banditi, per la generazione di Putin l’ideale erano i funzionari perché proprio loro avevano la possibilità di arricchirsi velocemente, correndo rischi relativamente bassi grazie alla onnipresente corruzione. Alla generazione di Gorbaciov non era congeniale la percezione di un mondo dominato dalla concorrenza personale tra coetanei. Di fatto, questa concorrenza non esisteva. Le critiche erano piuttosto rivolte ai gruppi di età maggiore, che erano visti come un freno allo sviluppo sociale in generale. I coetanei venivano percepiti come rappresentanti di gruppi diversi dal punto di vista sia politico che ideologico che tuttavia, con uno sforzo solidale, distruggevano il mostro gerontocratico. Però già la ge- 102 A. TARASOV nerazione di El’cyn, trovandosi nel mondo reale della concorrenza di mercato e dovendo affrontare (a differenza della generazione precedente) la disoccupazione di massa, ha cominciato a percepire i vicini, coetanei compresi, come concorrenti, anche se cercava ancora di superare questa concorrenza tramite l’unione in piccoli gruppi (formati sulla base di legami di parentela, di amicizia, di etnia oppure di comunità). La generazione di Putin ha ormai una percezione univoca dei coetanei come concorrenti e conduce, usando le parole di Hobbes, una guerra di tutti contro tutti. La generazione di Putin costruisce compagnie di amici in modo tale che all’interno di esse non ci siano concorrenti (anche potenziali). E se solo si intravede una possibilità di concorrenza, la compagnia si disgrega. Uno dei fattori importanti per i giovani, in quanto categoria sociale che non ha ancora compiuto completamente il processo della socializzazione, è l’istruzione, e più precisamente l’accesso all’istruzione, la sua qualità e la sua assimilazione da parte dei giovani. La generazione di Gorbačev ha avuto la fortuna di usufruire dell’istruzione gratuita, basata sui principi di universalità, mentre la soppressione delle restrizioni ideologiche nel sistema dell’istruzione è stata accolta da questa generazione con entusiasmo. La generazione di Gorbačev si è trovata in una posizione vantaggiosa rispetto alle generazioni successive: oggi possiamo constatare con sicurezza che l’accesso alla istruzione di qualità, priva di limitazioni ideologiche, ha garantito alla maggior parte di questa generazione la possibilità di una socializzazione di successo, di una crescita qualitativa, ed a molti di loro una realizzazione personale. L’ondata più giovane di questa generazione ha visto negli ultimi anni dei suoi percorsi universitari i tentativi del potere di peggiorare radicalmente la qualità dell’istruzione (già nel periodo di El’cyn) e la qualità di vita degli studenti, ma nel complesso è riuscita a respingere con successo questi tentativi. Tuttavia, già la generazione di El’cyn ha affrontato la commercializzazione dell’istruzione e, di conseguenza, il suo accesso limitato per i ceti sociali poveri e meno benestanti (nell’epoca di El’cyn il loro numero ha superato l’80%). Allo stesso tempo, a causa della “fuga dei cervelli” in occidente, dell’invecchiamento dei docenti universitari, della forte riduzione dei finanziamenti nel settore dell’istruzione e del caos nei programmi scolastici, la qualità dell’istruzione è calata drasti- Le nuove generazioni nell’epoca di Gorbačev, Elìcyn e Putin 103 camente. Tutto questo ha peggiorato drammaticamente la situazione della generazione di El’cyn nel mercato del lavoro, ma la maggior parte di essa ha potuto rendersene conto solo nell’epoca di Putin: l’abbassamento della qualità dell’istruzione, il rifiuto della sua universalità e l’imposizione di una rigida specializzazione non hanno permesso alla maggior parte degli studenti della generazione di El’cyn di pronosticare con esattezza il proprio futuro. Una parte notevole di questa generazione, nelle condizioni di quello che più tardi ha assunto il nome di “capitalismo selvaggio”, ha assolutamente rifiutato l’istruzione universitaria dopo essere giunta alla conclusione (in seguito ad osservazioni empiriche) che ci si poteva arricchire anche senza ricorrere all’istruzione. Una parte di loro ci è anche riuscita, ma la precarietà e la breve durata di questo successo si sono rivelate ben presto. La generazione di Putin, basandosi sulla brutta esperienza della generazione precedente, apprezza molto l’istruzione – in misura maggiore rispetto ai tempi sovietici; ma l’istruzione di per sé è diventata assolutamente diversa. Il sistema d’istruzione si è diviso in due parti ineguali: in un segmento piccolissimo di istruzione competitivo e di qualità e in un segmento d’istruzione qualitativamente molto basso per la maggior parte della popolazione. Si è rivelato un chiaro divario tra l’istruzione (in particolare a livello di specializzazione) precedentemente offerta in Russia e le reali domande del mercato, molto più semplificate. Nell’epoca di Putin si è deciso di correggere questo divario grazie all’estrema semplificazione dei programmi universitari e a una stretta specializzazione orientata alle domande concrete dei datori di lavoro. La domanda del “grande business” è stata esplicitata dall’oligarca Vladimir Potanin: noi abbiamo tanta gente intelligente, ma ci mancano dei semplici operai. Il ministro dell’Istruzione russo, Andrej Fursenko, ha dichiarato – durante il suo intervento nell’estate del 2009 nella colonia estiva appartenente al movimento pro-governativo Naši (“I nostri”) creato appositamente dal Cremlino – che il difetto del sistema di istruzione sovietica consisteva nell’obiettivo di formare una personalità creativa, mentre il nuovo sistema di istruzione consiste nella formazione di una massa di esecutori qualificati. Per questo motivo sono stati riesaminati tutti i programmi e i metodi dell’istruzione e le autorità si sono addirittura decise all’aboli- 104 A. TARASOV zione degli esami di ammissione e alla loro sostituzione con un unico esame statale, in altre parole dei test creati con il principio degli “indovinelli”. Questi test andrebbero proposti ad un livello di scuola secondaria, ma non universitario. In seguito all’introduzione totale dell’esame unico sono scoppiati diversi scandali perché è emerso che la maggior parte degli studenti iscritti all’università, sulla base degli alti voti presi all’esame unico, conoscevano poco la grammatica russa, non sapevano scrivere, non leggevano quasi niente, non erano capaci di risolvere problemi matematici di livello scolastico e, addirittura, non erano capaci di formulare le proprie opinioni. Il fatto è che negli ultimi due-tre anni invece di studiare a scuola, imparavano a compilare correttamente le caselle delle risposte dei test. La maggior parte dei giovani della generazione di Putin non è ancora entrata nel mercato del lavoro e ancora non si rende nemmeno conto delle difficoltà che la aspettano. In altre parole noi osserviamo diversi processi: il miglioramento della qualità dell’istruzione senza limite di accesso per la generazione di Gorbačev (anche se l’ultima ondata di questa generazione, che terminava la sua formazione all’epoca di El’cyn, ha affrontato un processo contrario), il peggioramento dell’istruzione e un forte calo della sua accessibilità per la generazione di El’cyn e la drammatica continuazione di questo processo per la generazione di Putin, parallelamente all’aumento del prestigio e alla nascita nel sistema dell’istruzione di un segmento creato apposta per l’autoriproduzione dell’élite sociale. La generazione di Gorbačev è cresciuta nella tradizione sovietica del rispetto dell’alta cultura, ma anzitutto della cultura europea. Quando all’epoca di Gorbačev sono state abolite le limitazioni ideologiche, questa generazione ha potuto disporre di una grande quantità di prodotti culturali, prima poco accessibili o addirittura vietati. Questo fenomeno non ha avuto un grande impatto sui gusti estetici e sulle preferenze di quella generazione, che hanno subito solamente una correzione e diversificazione. Al contrario, la generazione di El’cyn si è imbattuta nell’invasione della “cultura di massa” di modello occidentale all’interno dello spazio culturale russo. Nei primi tempi la cultura di massa occidentale è stata assorbita nel suo aspetto puro, ovvero sotto forma di prodotti realizzati in Occidente (in Russia è passato del tempo prima che si imparasse a fabbricare prodotti di Le nuove generazioni nell’epoca di Gorbačev, Elìcyn e Putin 105 questo genere). Questa cultura di massa ha spostato tutta la cultura precedente al margine dello spazio culturale. Invece, ai tempi di Putin si è disgregato completamente lo spazio culturale unitario, portando alla formazione di una vera e propria cultura a mosaico, la cui venuta era già stata prevista negli anni Sessanta dal sociologo francese, studioso dell’informazione e della cultura, Abraham Moles. Ne consegue che oggi diversi gruppi di giovani non possono trovare una lingua comune di comunicazione culturale. Oggigiorno non esistono autorità culturali così come non esistono unici stereotipi culturali; diventa così ampiamente plausibile la situazione in cui i giovani che vivono gli uni accanto agli altri – letteralmente nella stessa casa e allo stesso piano – possiedono idee opposte sulla cultura: né i nomi dei protagonisti del mondo culturale né i titoli delle opere gli permettono di comunicare tra loro. All’epoca di Gorbačev nel paese aveva luogo una fioritura di subculture giovanili, che infatti sono diventate una parte importante dello spazio culturale nazionale. Nell’epoca di El’cyn le subculture giovanili sono state cacciate nel ghetto. Il loro numero è diminuito, e la maggior parte di esse sono immerse nel mondo delle illusioni, dandosi all’escapismo. Nell’epoca di Putin le subculture giovanili sono diventate oggetto di persecuzioni, spesso senza nessun valido motivo. Il loro prestigio nell’ambito giovanile è stato minato, o quasi. Nell’epoca di Gorbačev per i giovani, in generale, era importante la conquista dell’autonomia, dell’indipendenza. È proprio su questo piano che la generazione di Gorbačev si contrapponeva al precedente sistema sovietico: retrogrado, conservatore, retrivo e tradizionale. Ai tempi di El’cyn è avvenuta semplicemente la demolizione del sistema dei valori. Al primo posto si sono fatti strada l’individualismo e il successo materiale. Nel momento in cui la generazione di Putin si è resa visibile sulla scena sociale, questo processo è arrivato alla sua logica conclusione: una atomizzazione totale. Un mio collega della facoltà di storia dell’Università statale di Mosca “Lomonosov”, che è stato nominato tutor del corso, godeva della fiducia degli studenti, e perciò ha avuto la possibilità di partecipare ai blog studenteschi e alle community in internet. Mi ha detto, con delusione, che gli studenti non sono capaci di mettersi d’accordo sull’andare a bere una birra al venerdì dopo le lezioni, tanto meno di costituire 106 A. TARASOV comunità culturali e difendere insieme i propri diritti culturali ed altri. Le comunità studentesche che ha incontrato su internet l’hanno colpito, citando le sue parole, per la loro schizofrenia. Erano formate, ad esempio, sul principio di unione di quelli a cui piacciono le scarpe da ginnastica rosa. Si è scoperto subito dopo che i partecipanti della comunità non vanno d’accordo su nulla d’altro. Hanno subito litigato tra loro e la comunità si è disgregata. Un fattore importante che ha differenziato una generazione di giovani dall’altra è stata la crescita della xenofobia. Durante tutta la storia dell’Unione sovietica, dal momento della sua fondazione, sono esistite solo tre generazioni delle quali si può dire che erano poco o quasi per niente xenofobiche: la generazione degli anni Venti (che percepiva con entusiasmo l’idea della rivoluzione su scala mondiale), la generazione del “disgelo” e la generazione di Gorbačev. Di quest’ultima si può anche affermare che sia stata una generazione cosmopolitica. Tuttavia all’epoca di El’cyn, con l’inizio della guerra in Cecenia, numerosi traumi psicologici legati al crollo dell’Unione sovietica e ai conflitti etnici sul suo territorio, nonché le ondate di migrazioni di massa coincise con la crisi economica, hanno provocato una crescita veloce della xenofobia presso la popolazione in generale. Nelle condizioni della guerra in Cecenia la crescita di organizzazioni di estrema destra e addirittura fasciste nell’ambito giovanile è stata provocata da una parte dal regime, che incoraggiava questa xenofobia e, anzi, la introduceva (così la propaganda identificava i ceceni con i musulmani, ed i musulmani con i terroristi in generale), dall’altra dalla generazione di El’cyn che, come ho accennato prima, era caratterizzata da un livello di cultura e istruzione molto più basso e generalmente non aveva un atteggiamento critico verso la propaganda del governo. All’epoca di Gorbačev le organizzazioni di estrema destra erano costituite da persone alquanto anziane ed erano orientate sul modello xenofobico pre-rivoluzionario delle “Centurie nere”. Il periodo di El’cyn ha favorito la crescita di teorie e di movimenti abbastanza moderni – neofascisti e neonazisti. Il fenomeno di massa è diventato quello dei nazi-skinhead, che si sono resi famosi per la violenza causata da motivi razziali, nazionali, politici e religiosi, nonché per l’aggressione ai rappresentanti di altre subculture giovanili. Il numero di nazi-skinhead in Russia ha raggiunto Le nuove generazioni nell’epoca di Gorbačev, Elìcyn e Putin 107 all’incirca le 70 mila unità, superando quello di altri paesi del mondo. Circa due-tre anni fa il numero degli skinhead ha cominciato a calare, ed il tramonto di questa cultura ha avuto inizio. Questo è legato principalmente alla nascita in Russia del fenomeno degli “antifa” (antifascisti), che prima non esisteva nel paese ma che raggiunge un sempre più alto livello di popolarità. Dato che l’“antifa” si pone in conflitto rispetto alla subcultura dei nazi-skinhead, anche se non riesce a eliminare gradualmente quest’ultima, comunque la limita rendendola meno attraente agli occhi dei giovani. Gli “antifa” formano i gruppi di combattimento della resistenza alla violenza nazista di strada. Questi gruppi consistono principalmente di redskin, “skinhead rossi”, che sono da tanto tempo conosciuti in Europa, ma fino ad oggi non erano presenti in Russia. La generazione di Putin è stata la prima generazione ad affrontare un fenomeno particolare della nostra società: la paura dei giovani. Attualmente in Russia esistono moltissimi miti negativi che riguardano i giovani. I giovani fanno paura, nessuno vuole avere a che fare con loro. Si notano azioni repressive da parte della polizia, causate da motivi non validi. Se ai tempi di El’cyn, al momento dell’assunzione al lavoro, essere giovani era un vantaggio, adesso è tutto il contrario: oggi sarà assunto più probabilmente il trentenne, e non perché ha più esperienza, ma perché il ventenne è sospettato di essere un drogato, uno skinhead, oppure qualcos’altro di negativo. Un alto grado di attività politica distingueva la generazione di Gorbačev. Come già accennato, l’ultima ondata di quella generazione ha reagito con forza a una “riforma dell’istruzione”, per essa molto negativa, tramite l’organizzazione di una serie di manifestazioni studentesche che hanno portato alle dimissioni del ministro dell’Istruzione. La generazione successiva, orientata al successo individuale, non poteva più opporre resistenza con lo stesso successo. La generazione di Putin è semplicemente intimidita, perché oggi qualunque attività politica non autorizzata dal potere – sia quella di estrema destra, che quella liberale, socialista ed anarchica – è sottoposta a un severo controllo e a una repressione diretta. Questo fenomeno è nato già durante il periodo di El’cyn, ma si è rivelato chiaramente, consolidandosi, ai tempi di Putin. Il potere in Russia si è trasformato in una corporazione chiusa alla società, costruita sul modello della ma- 108 A. TARASOV fia o dei servizi speciali. Per Parte la prima seconda volta dai tempi di Stalin si è ricorsi alle provocazioni politiche. Anche se il livello di istruzione tra i giovani è calato, questo non significa che i giovani siano diventati tutti quanti stupidi. PAESII giovani vedono queste repressioni, capiscono il loro motivo e hanno paura di dimostrare una posizione indipendente. Una breve conclusione. Non voglio nascondere che sono fortemente pessimista. In qualità di persona che studia i movimenti giovanili da più di vent’anni, praticamente non vedo tendenze positive per i giovani del mio paese. La generazione di Gorbačev si è rivelata troppo sviluppata, troppo intelligente, troppo dotata per le condizioni reali del periodo post-sovietico. È entrata in conflitto con il sistema sovietico perché l’ha superato notevolmente. Questo si è ripercosso sullo sviluppo dell’economia: sono stati preparati quadri rivelatisi troppo specializzati per l’economia sovietica. In seguito, la maggior parte di loro è partita per l’Occidente. Sono assolutamente convinto che la nuova classe dirigente in Russia, che è stata prodotta principalmente dalla nomenclatura sovietica (chiamo questa classe burocraticoborghese), ha tratto le conclusioni dell’esperienza storica precedente e ha preso le misure per evitare la ripetizione degli eventi dei 1989-1991. In quel periodo la nomenclatura ha aggiunto la proprietà al potere, sacrificando quella sua piccola parte (meno del 30 %) che ha perso il potere e il suo status sociale. Invece al momento attuale il ripresentarsi di avvenimenti di quel tipo minaccerebbe sia la perdita di potere della nuova classe dirigente, che la proprietà. Perciò la politica della degradazione culturale e formativa è una politica cosciente del potere russo.