Alessandro Portelli

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Alessandro Portelli
Alessandro Portelli
Un lavoro di relazione. Osservazioni sulla storia orale
1. L’espressione storia orale è una specie di stenogramma, un’abbreviazione d’uso per
riferirsi a quello che più propriamente andrebbe designato come uso delle fonti orali in
storiografia. Si tratta, nella sua forma più elementare, di aggiungere alla tavolozza di fonti
di cui lo storico può avvalersi anche quelle che si suol chiamare testimonianze rese
oralmente da parte di protagonisti o partecipanti agli eventi su cui verte la ricerca, e
registrate dallo storico. In questo senso, il concetto di fonte orale si distingue da quello di
tradizione orale: quest’ultima si occupa di forme verbali formalizzate, tramandate,
condivise, mentre le fonti orali dello storico sono narrazioni individuali, non formalizzate,
dialogiche (anche se possono inglobare elementi delle forme tradizionali).
Le fonti orali, come tutte le altre, andranno sottoposte ai normali procedimenti della critica
storiografica per accertarne attendibilità e utilizzabilità, né più né meno dei documenti
d’archivio. Ma il passaggio da fonti orali a storia orale implica trasformazioni più rilevanti.
Significa infatti trattare queste fonti non come materiale aggiuntivo, ancillare, rispetto ad
altre fonti più "canoniche," bensì impostare sulla centralità delle fonti orali un altro tipo di
lavoro storiografico. Infatti l’uso critico delle fonti orali implica procedimenti e atteggiamenti
diversi che derivano dal diverso processo di formazione della fonte orale.
A differenza della maggior parte dei documenti di cui si avvale la ricerca storica, infatti, le
fonti orali non sono reperite dallo storico, ma costruite in sua presenza, con la sua diretta e
determinante partecipazione. Si tratta dunque di una fonte relazionale, in cui la
comunicazione avviene sotto forma di scambio di sguardi (inter\vista), di domande e di
risposte, non necessariamente in una sola direzione. L’ordine del giorno dello storico si
intreccia con l’ordine del giorno dei narratori: quello che lo storico desidera sapere può non
interamente coincidere con quello che le persone intervistate desiderano raccontare. Il
risultato è che l’agenda della ricerca può essere radicalmente trasformata da questo
incontro: a me è successo sistematicamente di dovere non solo ampliare l’ambito della
ricerca ma anche trasformare l’ottica e il punto di vista grazie all’impatto dei narratori. Per
esempio, partito per una ricerca sul movimento operaio a Terni fra il 1949 e il 1953, ho
finito per scrivere una storia della città che cominciava dal 1831, perché tanti narratori
insistevano a collegare gli eventi che mi interessavano che le origini della loro storia
familiare e cittadina, e mi sono convinto che avessero ragione.
Ancora di più: persino sull’argomento della ricerca non è affatto detto che le domande che
lo storico ha in mente siano quelle pertinenti, o tutte quelle pertinenti. Per questo, il lavoro
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con le fonti orali è in primo luogo un’arte dell’ascolto, che va ben oltre la tecnica
dell’intervista aperta. Spesso, infatti, è proprio oltre quelli che gli interlocutori ritengono i
confini dell’intervista e i termini della rilevanza storica che emergono le conoscenze più
imprevedibili. Nel corso della mia ricerca sulla memoria delle Fosse Ardeatine a Roma mi
ero posto la domanda su come i familiari degli uccisi, soprattutto donne, avessero
elaborato il lutto e condotto le proprie esistenze dopo la strage. Ma fu solo per caso che, a
intervista ormai finita, ascoltai la storia più penosa. Avevo intervistato Ada Pignotti, che a
23 anni aveva perso il marito e altri tre parenti alle Fosse Ardeatine, e mi aveva raccontato
la sua vita da allora ad oggi. Per tutti e due il discorso era praticamente finito, stavamo più
o meno chiacchierando, e lei mi parlava delle infinite e umilianti lungaggini burocratiche
subite per ottenere quattro soldi di pensione concessi di malanimo. Poi, quasi di sfuggita,
aggiunse: "Perché dovunque se andava, se sapeva che io avevo perso il marito, io e l’altre,
l’altre donne – allora tutti cercavano che volevano, cercavano, facevano un discorso tutto,
fatto a modo loro, perché, chissà: una stava a disposizione loro. Era ‘na donna, ‘nciaveva
più il marito, quindi poteva benissimo…" Al dolore, al lutto, alla povertà – tutti temi che mi
aspettavo – si aggiungevo ora questa offesa quasi indicibile (come mostra la reticenza
della narratrice) delle molestie sessuali a cui queste vedove erano andate incontro.
Per fortuna, seguendo un antico consiglio di Gianni Bosio, pur considerando chiusa
l’intervista, avevo lasciato acceso il registratore: l’arte dell’ascolto si manifesta anche nel
non dire all’intervistata, con il semplice gesto di spegnere, che da ora in avanti quello che
dirà non ci interessa più. Il tema imprevisto delle molestie ha fatto così irruzione nella mia
ricerca, e ho avuto modo di verificarlo in seguito anche in altre interviste. Nessuno ne
aveva parlato prima, e loro stesse non ne avevano mai parlato che fra loro, per due ragioni:
la prima è che fino a tempi molto recenti né gli storici né le narratrici stesse ritenevano che
questa dimensione così intima potesse costituire materia di rilevanza storiografica; in
secondo luogo, perché nessuno glielo aveva mai chiesto o ci aveva fatto caso.
2. Ne deriva dunque che la storia orale è un’arte, oltre che dell’ascolto, della relazione: la
relazione fra persone intervistate e persone che intervistano (dialogo); la relazione fra il
presente in cui si parla e il passato di cui si parla (memoria); la relazione fra il pubblico e il
privato, l’autobiografia e la storia; la relazione fra oralità (della fonte) e scrittura (dello
storico).
Partiamo dalla prima. Una giovane ricercatrice che sta svolgendo un progetto di ricerca
sull’esperienza delle donne che hanno subito operazioni di tumore al seno mi ha
raccontato di un’intervista con una donna anziana, da poco vedova, che di tutto aveva
parlato meno che del tema dell’intervista, intrecciando la difesa della propria intimità dal
desiderio di sapere dell’intervistatrice, con il desiderio di contatto così importante per una
persona sola. Solo per caso (e a registratore spento) l’intervistatrice ha menzionato che
anche lei aveva avuto la stessa esperienza. Di colpo, il rapporto è cambiato ("ma allora sei
una di noi") e si sono rovesciati i rapporti di autorità: anziché sentirsi soggetta al potere
scrutatore dell’intervistatrice, la donna ha riassunto la sua autorità generazionale ("ma sei
una ragazzina!"). E il concetto di intervista come scambio di sguardi ha subito una drastica
revisione e radicalizzazione nel momento in cui le due donne si sono mostrate a vicenda
le loro ferite.
Sei una di noi \ sei una ragazzina: un terreno comune che rende possibile parlare, ma
anche una diversità che dà senso all’atto di farlo. Sarebbe un errore pensare che è solo la
similarità che permette alle persone intervistate di esprimersi, che fonda la "fiducia" su cui
si dovrebbe fondare il dialogo. Per definizione, infatti, uno scambio di conoscenze ha
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senso solo se queste non sono a priori condivise; se, cioè, esiste fra intervistato e
intervistatrice una differenza che renda lo scambio significativo (in questo caso,
generazionale).
Per esempio, in una ricerca svolta nel 1990 con un collettivo di studenti sulla memoria
storica degli studenti della mia facoltà ho notato che spesso il fatto che intervistati e
intervistatori fossero la stessa figura sociale finiva per paralizzare il dialogo ("perché mi
chiedi queste cose? Le sai già!"), mentre altre volte quando ero io a intervistarli la
differenza gerarchica fra professore intervistatore e studente intervistato finiva non tanto
per mettere in difficoltà i narratori quanto per dargli il senso che avevano delle cose da dire
a chi non le sapeva ("ma che ne sapete voi professori di che pensano gli studenti?") e
quindi a rendere l’intervista significativa. E forse il momento più altro della mia esperienza
di intervistatore è stato quando – a me europeo, bianco, borghese, maschio – una donna
nera, americana, proletaria, ha detto: "I don’t trust you," non mi fido di te. E ha continuato
per due ore di appassionante e appassionata narrazione a spiegarmi perché. E’ il terreno
comune che rende possibile la comunicazione, ma è la differenza che la rende
significativa. E il terreno comune non deve necessariamente consistere in una comune
identità (di classe, di genere, di ideologia…) ma può essere delimitato, anzi deve,
principalmente dalla disponibilità all’ascolto reciproco, alla reciproca accettazione (critica in
quanto fondata sulla differenza). In altre parole: è la disponibilità dello storico all’ascolto
che istituisce dialogicamente la possibilità del narratore di parlare. E, naturalmente, è la
disponibilità del narratore a parlare che permette allo storico di fare il suo lavoro.
3. Passiamo alla seconda relazione, quella fra il pubblico e il privato. Una delle ragioni
fondo per cui la storia sulle molestie non era mai emersa prima era che veniva percepita
come un’esperienza privata, e quindi non di pertinenza della storia. Infatti, ne avremmo
cercato invano le tracce nelle fonti storiche abituali, documenti d’archivio o atti giudiziari.
Le fonti orali, dunque, contribuiscono a rimettere in discussione la distinzione di che cosa
è storico e cosa non lo è. Da un lato, sta la difficoltà di entrambe le parti in dialogo a uscire
da griglie di rilevanza precostituite: lo storico fatica a inoltrarsi in territori imprevisti
dell’esperienza dell’altro; e la difficoltà del narratore a riconoscere importanza alle proprie
vicende personali si intreccia ad una gelosia protettiva, al timore di vedere cose importanti
per sé svalutate da interlocutori che non vi riconoscono autorevolezza o rilevanza. Perciò
"non ho niente da dire" è un classico incipit di interviste, anche da parte di persone che
non solo hanno molto da raccontare ma bruciano dalla voglia di farlo – e hanno solo paura
che il loro prezioso racconto sia disprezzato.
Ma proprio la relazione fra la vicenda personale che forma l’agenda dell’intervistato e le
vicende storiche che formano l’agenda dell’intervistatore – lo scarto fra Storia e storie,
potremmo dire - è uno dei motori dell’incontro dialogico della storia orale. L’argomento
essenziale della storia orale è infine la storicità dell’esperienza personale unita all’impatto
personale delle vicende storiche. E’ proprio nel racconto di come la storia ha fatto irruzione
della propria vita (per esempio: i bombardamenti, irruzione delle Storia nel proprio spazio
domestico) o di come si è andati incontro alla Storia (per esempio: le trincee della prima
guerra mondiale, la campagna di Russia della seconda…) che sta l’essenza, il nocciolo
duro della storia orale.
Ne è un esempio il lavoro sulla memoria delle Fosse Ardeatine: in quel luogo è avvenuta
sia una strage collettiva, sia 335 assassinii individuali. Nella memoria e nel lutto si
intrecciano allora la dimensione pubblica della cerimonia e della commemorazione, e la
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dimensione profondamente personale del lutto privato. Il contatto spesso genera
dissonanza: "Noi non diciamo ‘le Fosse Ardeatine’; diciamo ‘sono andata a portare i fiori a
papà’"…In questo monumento pubblico dove sono le tombe dei familiari, "Una non riesce
mai a sta’ sola." E tuttavia, la dissonanza non si traduce in incompatibilità: è proprio la
memoria personale dei familiari degli uccisi che ostinatamente tiene viva la memoria
pubblica e impone alla città e alle istituzioni di non dimenticare.
Non è casuale che gli esempi che ho fatto poco sopra – i bombardamenti, le trincee, la
Russia – si riferiscano tutti alla guerra, perché è proprio qui che avviene nel modo più
drammatico e memorabile l’incontro fra il privato e la storia ("papà, che cosa hai fatto in
guerra?"). E’ giusto che il grado zero della storia orale, a partire dalla scuola elementare,
siano le interviste dei bambini coi nonni che hanno fatto la guerra (o, in subordine, il
servizio militare), e che sia quasi impossibile impedire a un intervistato che ha fatto la
guerra di mettersi a raccontarla. Ma si tratta di esperienze soprattutto maschili – che ne è
delle donne? Dove avviene per loro l’incontro memorabile con la sfera pubblica?
Mentre lavoravo alla ricerca su Terni, c’erano due tipi di narrazioni che saltavo a priori
quando trascrivevo i nastri: le storie di guerra degli uomini (mi sembravano troppo
scontate, e poi avvenivano altrove), e le storie raccontate dalle donne su quando
assistevano in ospedale i propri familiari (che mi parevano troppo private, poco "politiche").
Ma proprio questa analoga esclusione ha attirato la mia attenzione su questi racconti
femminili. Mi sono reso conto che, come per gli uomini la guerra e il servizio militare, per le
donne era l’ospedale il luogo in cui uscivano di casa, si confrontavano con la sofferenza e
con la morte, e soprattutto si misuravano con la sfera pubblica – l’organizzazione, la
tecnologia, la scienza, la burocrazia, l’autorità, lo Stato. In altre parole, i racconti
d’ospedale delle donne erano il corrispettivo funzionale dei racconti militari degli uomini
(senza dimenticare, naturalmente, che molte donne in guerra ci vanno proprio per lavorare
negli ospedali). La differenza però sta nel fatto che mentre i racconti di guerra si
riferiscono a una vicenda la cui rilevanza storiografica è già riconosciuta, quelli di ospedale
sembrano sempre attinenti solo alla sfera personale e familiare, ed è solo attraverso
l’insistenza delle narratrici che le raccontano e l’analogia con narrazioni già canonizzate
che ci rendiamo conto del loro significato. In altre parole, le fonti orali non soltanto ci
permettono di accedere alla storicità del privato, ma ridisegnano la geografia del rapporto
fra privato e pubblico.
4. La principale obiezione alle fonti orali da parte di una storiografia metodologicamente
conservatrice si è sempre fondata sulla questione dell’attendibilità: non si può prestare
fede ai narratori perché la memoria e la soggettività "distorcono" i fatti. Ora, a parte il fatto
che questo non avviene sempre o necessariamente (né d’altra parte possiamo essere
certi che non ci siano distorsioni altrettanto gravi, sia pure per altre ragioni, nei documenti
d’archivio), tutta la storiografia orale più avvertita ha ragionato esattamente al contrario: le
fonti orali sono importanti e affascinanti precisamente perché non si limitano a
"testimoniare" sui fatti ma li elaborano e ne costruiscono il senso attraverso il lavoro della
memoria e il filtro del linguaggio.
Quando lavoriamo con le fonti orali, dunque, dobbiamo tenere insieme tre fatti distinti: un
fatto del passato, l’evento storico; un fatto del presente, e cioè il racconto che ne viene
fatto dall’intervistato; e un fatto di relazione e di durata, e cioè il rapporto che esiste e che
è esistito fra questi due fatti. Perciò, il lavoro dello storico orale include la storiografia in
senso stretto (la ricostruzione del passato), l’antropologia culturale, la psicologia
individuale, la critica testuale (l’analisi e interpretazione del racconto), e l’applicazione
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della seconda alla prima. La storia orale è dunque storia degli eventi, storia della memoria,
e revisione degli eventi attraverso la memoria.
La memoria infatti non è un mero deposito di dati da cui recuperare informazioni, ma un
processo in continua elaborazione di cui studiare le modalità (non somiglia alla "memoria"
del calcolatore, ma se mai all’elaboratore stesso). Nei nostri anni di ridiscussione
sull’identità della repubblica e di revisionismo storiografico la storia della memoria diventa
altrettanto significativa e necessaria della storia degli eventi – che poi, a pensarci,
diventano tali (o vengono riconosciuti) solo attraverso l’opera di attribuzione di senso
operata dalla memoria selezionando alcuni fatti nell’immensa e informe congerie degli
avvenimenti quotidiani.
Faccio due esempi. Il primo, che è poi quello che mi ha avviato sulla strada della storia
orale, è stato la casuale scoperta del fatto che a Terni quasi tutti i narratori raccontavano
un evento traumatico – l’uccisione dell’operaio Luigi Trastulli nel 1949 durante una
protesta contro il Patto Atlantico – come se fosse avvenuto invece durante gli scontri che
ebbero luogo nel 1953 dopo tremila licenziamenti alle Acciaierie. Un caso da manuale di
inattendibilità della memoria: documenti coevi dimostravano che l’evento era accaduto nel
1949, non nel 1953. Ma allora perché questo errore così diffuso?
Indagare sul ricordo sbagliato, specie quando è così condiviso, permette di rivedere il
significato dell’evento ricordato. Mi resi conto allora che la morte impunita e senza reazioni
di un loro compagno di lavoro aveva costituito per gli operai ternani (a larga maggioranza
comunisti e socialisti) una ferita insopportabile: dopo la Resistenza, le vittorie elettorali, il
sudore gettato nel ricostruire le case e le fabbriche, pensavano che la città appartenesse a
loro, e invece scoprivano che lo Stato poteva ucciderli senza conseguenze, che il potere
stava altrove e loro erano impotenti. Così, nel 1953, molti di loro andarono in piazza sia
per difendere il loro posto di lavoro sia per recuperare una dignità e una stima di sé ferita
dall’uccisione di Trastulli. In altri termini: non ci servivano certo le fonti orali per sapere i
fatti, ma senza queste fonti non ci saremmo avvicinati al loro significato sul piano della
soggettività.
Lo stesso vale per un’altra falsa memoria di cui mi sono recentemente occupato: quella
secondo cui, prima di procedere alla strage delle Fosse Ardeatine i nazisti avrebbero
invitato attraverso manifesti affissi in città i partigiani che avevano compiuto l’attacco di via
Rasella a consegnarsi in modo da evitare la rappresaglia. Come si è sempre saputo (fin
dagli atti dei processi celebrati dagli alleati nel 1945) questo non è mai avvenuto; e forse
per questo nessuno storico si è mai occupato di un altro fatto che invece è avvenuto e
avviene tuttora, e cioè questa persistente memoria sbagliata. In essa confluiscono molti
elementi: le distorsioni e le manipolazioni propagandistiche (di destra ma anche di alcuni
influenti ambienti cattolici e di centro); il pregiudizio ideologico, che trova più soddisfacente
dare la colpa della strage ai partigiani comunisti che non agli occupanti nazisti; e, più in
profondo, la difficoltà per l’immaginazione comune di riconoscere la logica che condusse i
nazisti a punire così sanguinosamente la città senza nemmeno preoccuparsi di cercare i
"colpevoli." Ma è proprio studiando questa falsa memoria, intrecciandola con la dinamica
dei fatti, che capiamo il peso delle Fosse Ardeatine e di via Rasella nell’immaginazione
diffusa: l’errore, l’invenzione, il malinteso, persino la menzogna, specialmente quando
assumono carattere collettivo, diventano un prezioso indicatore del lavoro compiuto d
quegli importanti processi storici che sono la memoria e il desiderio.
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5. Non è solo la memoria che è un atto e un processo anziché un testo e un repertorio, ma
il racconto stesso. Come ha ben scritto lo studioso gesuita Walter J. Ong, l’oralità non
produce testi, ma performances: nell’oralità non siamo di fronte a un discorso compiuto,
ma al compiersi del discorso (per di più, in forma dialogica nel caso dell’intervista).
Quando parliamo di fonti orali, dunque, dovremmo usare non sostantivi ma verbi – non
memoria, ma ricordare; non racconto ma raccontare. E’ anche in questo modo che
possiamo pensare alla fonte orale non come un documento sul passato ma come a un
atto del presente.
Soprattutto, quando guardiamo all’atto e non solo al suo prodotto, ci rendiamo conto che
ricordare e raccontare sono sì intensamente influenzati dal contesto storico dai quadri
sociali della memoria ma in fin dei conti filtrati dalla responsabilità individuale: è nella
mente del singolo che si elabora il ricordo, è attraverso la sua parola che viene
comunicato. Ne deriva quindi che ogni volta i narratori si assumono la responsabilità e
l’impegno dei loro atti di parola. Ricordo un ragazzo ebreo che rifiutò un panino con il
prosciutto prima di un’intervista dicendo "in un altro momento l’avrei mangiato, ma questa
è una mitzvah" – un precetto, un compito. La parola "testimonianza," così inadeguata sul
piano storiografico rientra dunque con un senso assai più vicino al religioso che al
giuridico: "Io feci una promessa quando ero nel campo [di Bergen Belsen], feci una
promessa solenne alle mie cinquanta compagne… Io mi ribellavo, non sapevo se
imprecare Dio o pregarlo, dicevo Signore salvami salvami, perché io debbo tornare e
raccontare." Ma raccontare dipende anche, come mostra l’esperienza di tanti reduci dai
campi di sterminio, dall’esistenza di qualcuno che ascolti: è bene tenerne conto, per
affiancare la responsabilità dello storico come ascoltatore a quella del narratore come
testimone nel dare senso a quello che facciamo.
6. Infine, il rapporto fra oralità e scrittura. La forma della performance del narratore è
quella della narrazione e del dialogo; la forma del testo scritto dallo storico è quella del
saggio e del monologo. Diventa dunque fondamentale che nel presentare i risultati di un
lavoro di storia orale si riesca a lasciare traccia dell’origine dialogica e narrativa dei nostri
materiali. Anche per questo, e non per mero scrupolo documentario, gli storici orali usano
citare più ampiamente le proprie fonti e fare più ricorso al montaggio di quanto non faccia
in generale la storiografia, o anche di quanto non facciano discipline che pure partono dal
lavoro sul campo, come l’antropologia o la sociologia.
Ma c’è dell’altro: l’ampiezza delle citazioni cerca di salvare la polisemia e l’apertura della
forma narrativa, sempre soggetta a una molteplicità di interpretazioni perché
inerentemente attraversata dall’ambiguità e dalla complessità: nella distinzione fra
delineata da Auerbach fra la logica di Atene e la narratività di Gerusalemme, gli storici orali
sono più vicini a Gerusalemme anche se non dimenticano la propria responsabilità verso
Atene. Per cui, non si sottraggono al compito di interpretare le proprie fonti, ma nel
riportarle ampiamente offrono a chi legge i materiali per letture integrative o alternative, a
lasciano spazio anche all’autointerpretazione dei narratori.
L’oralità, insomma, non è semplicemente un veicolo dell’informazione ma anche una
componente del suo significato. La forma dialogica e la forma narrativa che caratterizzano
le fonti orali culminano nella densità e complessità del linguaggio, che già nei toni e nelle
inflessione esprime storia e identità di chi parla, e intreccia e accumula significati ben oltre
le intenzioni e la consapevolezza dei parlanti.
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Vorrei fare due esempi. Il primo risale alla ricerca sulla memoria degli studenti della mia
facoltà, durante l’occupazione del 1990. Uno degli intervistati raccontò che, la prima notte
in cui fu di servizio d’ordine, facendo il giro dell’edificio, "ci fermammo a guardare delle
stelle che prendemmo per due aeroplani [che viaggiavano in formazione], no, perché
abbiamo visto queste due stelle che stavano sempre alla stessa distanza, sembra che si
muovessero, perché c’era una nuvola in realtà che si muoveva." Solo più tardi, guardando
meglio, si rendono conto che "quelli non sono due aeroplani, sono due stelle." Per il
narratore, l’episodio era solo una "storia di ordinaria follia," un segno della scarsa lucidità
di quei momenti. Ma non è difficile vedere in questa nuova percezione delle cose che si
muovono nel cielo anche il rapporto che c’è nella cultura di una generazione fra
l’immaginario tecnologico e la pulsione utopica, riprodotto peraltro negli altri due grandi
simboli di quel movimento – il tecnologico fax e l’esotica pantera – e nel suo incerto
equilibrio fra richiesta di modernizzazione ed efficienza della istituzione universitaria, e
utopia di sua trasformazione in una paritetica comunità del sapere. Solo che questa
complessità non veniva espressa in forma analitica, ma compressa dentro una metafora,
neanche pienamente controllata dal narratore ma talmente carica di senso da venire
comunque raccontata.
L’altro esempio riguarda un’esperienza in una piccolissima chiesa fondamentalista di
Harlan, Kentucky. E’ uno dei territori più poveri, marginalizzati, ecologicamente massacrati
degli Stati Uniti; i fedeli erano una decina di persone, quasi tutti in abiti da lavoro, per lo più
analfabeti o semianalfabeti in grado appena di leggere la Bibbia. Sull’altare campeggia
una scritta: "There’s a better place to go," c’è un posto migliore dove andare. Più tardi, la
predicatrice laica Lydia Surgener spiega che un biglietto con queste parole fu messo nella
bara di sua madre. C’è in questa frase l’essenza di una religiosità emozionale
fondamentalista che sprezza questo mondo e ripone tutte le aspettative in un mondo
migliore. Ma poi ascolto la testimonianza (in senso religioso stretto) di un altro fedele,
Brother Miller, che parla delle sue storie di emigrazione e usa continuamente metafore
automobilistiche – e mi viene in mente che "un posto migliore" sono anche i luoghi dove
tanti di loro sono emgirati in cerca di un’altra vita, Chicago, Baltimore, Cincinnati. E mi
viene in mende che la sera prima ho partecipato a una riunione di famiglia in cui Lydia
Surgener e i suoi parenti parlavano della lotta da condurre contro la distruzione degli alberi
e del patrimonio idrogeologico della loro valle – e allora "un posto migliore" può anche
essere Harlan stessa, trasformata dalla loro azione sociale. Insomma, in quella breve
frase ci sono tutte le alternative che si offrono a queste persone: la religiosità arcaica della
rassegnazione, la soluzione personale (ma di massa) dell’emigrazione, la modernità
radicale della lotta sociale. Anche qui, né Lydia Surgener né i suoi vicini e parenti
formulerebbero questa idea in termini analitici ed espliciti come faccio io qui. Ancora una
volta, hanno fatto di meglio: sono riusciti a comprimerla dentro un’immagine e una frase.
7. Un posto migliore: comunque, un sogno, un desiderio (una certezza per chi ha la fede).
Spesso, questo desiderio di un mondo migliore prende la forma di narrazioni controfattuali
– l’ucronia, che sta al tempo come l’utopia sta allo spazio: avremmo un mondo migliore
se… Quelle con cui sono più familiare sono le ucronie rivoluzionarie: avremmo un mondo
migliore se nel 1921 avessimo fatto la rivoluzione dopo l’occupazione delle fabbriche… se
avessimo resistito l’8 settembre… se non ci avessero fatto sospendere quel determinato
sciopero… Ma è un’ucronia anche il racconto controfattuale sulle Fosse Ardeatine: non ci
sarebbe stato il massacro se i partigiani si fossero consegnati… Ogni volta, il racconto
ucronico controfattuale immagina una svolta mancata, o una svolta sbagliata, nel corso
della storia, e implicitamente esprime un giudizio di condanna o delusione sulla storia
reale, sul mondo come è stato e come è. E ci fa capire con quali pensieri, con quali visioni
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e sogni di mondi possibili le persone con cui parliamo hanno attraversato il tempo della
loro vita e della storia.
Vorrei chiudere allora con l’ucronia suprema, la più globale e la più alta che abbia mai
ascoltato. Era una manifestazione sindacale a Roma, nel 1985, io seguivo un gruppo di
anziane ex operaie tessili venute da Terni. A un certo punto gli chiedo se sono religiose.
Una di loro, Diana, risponde: "No; se volemo crede’ a qualche cosa, credemo. Però ce
vorrebbe che questo facesse le cose giuste. Ognuno è religioso a modo suo. Tocca dìlla a
quel pòro Cristo, che l’hanno impiccato." E la sua amica, che porta un nome pesante,
Maddalena, conclude con la rapidissima visione proletaria di una storia sacra possibile,
fatta di madri e non di padri: "Io s’ero Dio," dice, "s’ero lo padre, impicca’ no’ lo facevo
impicca’, su la croce."
L’uso dell’intervista nella storia orale.
Questo è praticamente un intervento nel dibattito, dato che il quadro che ha dato Bermani
copre molto bene il terreno, per cui io aggiungo solo alcune diramazioni del discorso.
La prima volta che ho sentito parlare di San Pacrazio fu ad Arezzo e poi a Civitella della
Chiana, durante il convegno intitolato "In memory," su,lla memoria delle stragi naziste in
Europa, nel 1994. Teniamo conto del momento storico: la destra aveva vinto le elezioni, e
la sinistra era già convinta che le aveva vinte perché aveva ragione. Si attraversava una
fase di grossa crisi di delegittimazione da parte degli intellettuali di sinistra, democratici,
antifascisti. Quello che trovai sorprendente fu la sorpresa – anzi, lo scandalo
epistemologico, per dirla con Pietro Clemente - con cui i miei colleghi storici e antropologi
accoglievano la scoperta che la gente di Civitella anziché ai nazisti dava la colpa ai
partigiani. Ne ero colpito perché racconti del genere li avevo sentiti per tutta la vita: quasi
nessuno può essere stato esente dalla memoria antipartigiana, e in particolare il mio
pensiero corse ai racconti assorbiti nell’aria sulla responsabilità dei partigiani per la strage
delle FosseArdeatine a Roma, una storia che poi mi ha ossessionato da allora ad oggi.
Ora, il problema era a due livelli. Uno era la questione di che cosa è successo, come sono
realmente andate le cose; e l’altra è che cosa si racconta. Questa è una distinzione
metodologica senza la quale non lavoriamo; ma la dobbiamo comunque complicare un
poco. In primo luogo, perché l’accesso che abbiamo a quello che è successo è comunque
attraverso racconti, compresi quelli conservati nelle fonti scritte o d’archivio – che sono
esse stesse ion larga misura narrative, con la sola differenza che sono per lo più scritte da
persone che non conosciamo, mentre con le fonti orali siamo in presenza della fonte e la
conosciamo personalmente. Ora, dobbiamo decidere se la scelta migliore è depurare le
fonti dalla narratività per arrivare al nocciolo duro dei fatti, oppure approfittare
dell’esistenza della narratività e trattarla come dato ulteriore, ulteriore fonte di
interpretazione e conoscenza da cui trarre vantaggio.
Questa distinzione fra due modalità entrambe legittime a seconda del progetto o delle
circostanze – non possiamo mai ragionare in termini normativi – distingue
tendenzialmente due cose che chiamerei "uso delle fonti orali in storiografia" da un lato e,
per brevità, "storia orale" dall’altro. Chiamo dunque storia orale una modalità che pone al
centro gli aspetti specifici della comunicaziojne orale e mette al centro quel tipo di
informazioni che l’oralità privilegia – sempre tenendo conto che anche fra orale e scritto
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non c’è mai una dicotomia secca ma un continuum che va verso polarità diverse. Chi
abbia visto il casellario politico dell’archivio centrale dello stato sa che le relazioni dei
brigadieri di polizia sui sorvegliati sono piene della soggettività dei loro estensori; chiunque
abbia frequentato un poco Fioucault queste cose le sa. Però direi che la presenza della
dimensione soggettiva della dimensione narrativa è molto più marcata e autorizzata nella
narrazione orale di quanto non lo sia in una documentazione scritta che ha come obiettivo
la fattualità mentre l’oralità contiene anche il fine dell’espressività.
Ora, il caso delle Fosse Ardeatine è quasi un modello scolastico. Io mi sono occupato di
queste cose propriol in seguito alla scoperta dell’importanza dei racconti sbagliati. In
questo caso, ho subito visto che c’erano due cose: una strage, e un racconto. Il racconto
non è una mera rappresentazione degli eventi della storia; è esso stesso un evento della
storia, è qualcosa che le persone fanno nel corso del tempo e che ha poi effetti sui
comportamenti collettivi e personali. Ora, nel caso delle Ardeatine la materialità dei fatti è
talmente chiara e accertata fin da subito dopo che nessuno storico ha mai ritenuto
necessario occuparsene. Uno dei paradossi di questa vicenda è che siccome è troppo
facile raccontare che è successo non c’è una ricerca storica approfondita in cui la cosa
venga affrontata. E allora, siccome nessuno storico se ne è veramente occupato, il
risultato è che circolano incontrollati i racconti falsi ,mimmaginari e leggendari, della
narrazione di destra. E’ proprio un modello: la narrazione per cui alle Fosse Ardeatine la
strage è stata fatta perché i partigiani non si sono presentati è una narrazione falsa ma
egemonica, perché una storiografia attentasolo alla referenzialità dei fatti non si è degnata
di contrastare i racconti. Non lo ha fatto perché ritiene che i racconti sbagliati vadano
semplicemente dismessi ha finito per lasciargli tutto lo spazio, al punto che anche molti
antifascisti lo prendono per vero. Su questo si costruisce quindi un immaginario politico
che comporta poi conseguenze concrete.
Ora, dopo questa scoperta della memoria antipartigiana, io sono andato nella direzione di
cui occuparmi dei racconti sbagliati; altri, per esempio Paolo Pezzino rispetto alla strage di
Guardistallo è stata di cercare di vedere che cosa è successo esattamente. Ho
l’impressione che Pezzino non sia arrivato a conclusioni certe, perché dopo aver esplorato
al meglio delle possibilitàò che cosa è successo a Guardistallo, non è riuscito lo stesso ad
avere alcun impatto sul conflitto etico e politico, ideologico e mitico, che è ancora in corso
sul significato di quello che è successo e sulle responsabilità. Anzi, ho l’impressione che i
racconti ideologici di Guardistallo abbiano influito su Pezzino molto pià di quanto lui ha
influito su loro. Proprio perché un approccio di stampo positivista – assolutamente
meritorio, perché adesso sappiamo su Guardistallo molto più di prima – rischia di essere
indifesa, vulnerabile, di fronte all’immaginazione.
Questo però comporta che per capire che un racconto è immaginario, dobbiamo
comunque cercare di capire che cosa è successo. Altrimenti rischiamo di commettere
l’errore opposto a quello positivistico, e cioè l’errore di un decostruzionismo ingenuo: tutti i
racconti si equivalgono, il mando materiale non esiste (il n’y a pas d’hors texte) e quindi
tutti i testi vanno letti esclusivamente in termini delkla loro dinamica intratesuale.
Naturalmente, questo è falso, anche proprio in termini di teoria letteraria e narratologica,
perché uno dei termini su cui il testo si costituisce in quanto genere è proprio il patto che
stabilisce rispetto alla sua maggiore o minore referenzialità: un’autobiografia si distingue
da un romanzo perche, pur essendo entrambi racconti, l’autobiografia è tale perché
afferma di essere veridica (non perché lo è, ma perché dice di esserlo) mentre il romanzo
dichiara di essere fiction (e tale rimane anche se racconta fatti realmente accaduti). La
distinzione è dunque il patto che il racconto istituisce col suo destinatario: per esempio,
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l’autobigorafia di Richard Wright, Ragazzo negro, non si dichiara tale perché pur narrando
i fatti della propria vita poi ci fa alcune operazioni che appartengono all’immaginazione.
Quindi quando facciamo un’intervista, ci troviamo davanti a un evento – insisto che è un
evento, perché lo creiamo noi: la storia che raccogliamo non esiste in natura ma è il
prodotto di questo incontro – estremamente ibrido. Convivono contemporaneamente nella
narrazione che raccogliamo con l’intervista – uso questa complicata parafrasi per non
usare la parola "testimonianza" – l’intenzione del testimone di raccontare le cose come
sono andate, istituendo un patto di referenzialità e parzialità; dall’altro, però coglie anche
questa occasione quasi unica di parlare di sé, di rappresentarsi. Noi sappiamo quanto
forte sia la necessità di autorappresentarsi, tanto pià in soggetti a cui è stata negata la
possibilità di farlo in pubblico (ma anche in famiglia, perché i figli e nipoti non vogliono più
starli a sentire…). C’è dunque una doppia esigenza di rappresentare e di rappresentarsi.
Faccio un esempio, in cui ci sono di mezzo io. Sto facendo una ricerca su alcune
esperienze salesiane coi ragazzi di strada nel dopoguerra a Roma, e intervistando uno di
loro viene fuori il nome di un altro salesiano che era stato mio professore di religione a
Terni negli anni ’50. Glielo dico – è parte di una dimensione dialogica, in cui fai vedere che
non sei del tutto estraneo al mondo del tuo interlocutore. E lui conferma: sì, questo prete
raccontava le storie di quando i ragazzi del liceo liceo classico di Terni giocavano a
pallone con la testa del crocifisso. E io – formo un attimo, quella era la mia classe. Ora,
non è vero. Cioè, primo non è vero che giocassero a pallone con la testa del crocifisso:
secondo una versione datami recentemente da un ex compagno di scuola, successe che il
crocifisso fu colpito accidentalmente durante la ricreazione da una cinghia di quelle con cui
si legavano i libri e mentre cadeva a terra qualcuno cercò di fermarlo col piede proprio
mentre entrava in classe il prete (è una versione dubbia; d’altra parte, le fonti scritte
giornalistiche e giudiziarie sostengono che al liceo di Terni esisteva un "club della
bestemmia…"). Comunque, la cosa interessante non è la leggenda o l’errore suo, ma il
mio: perché non è vero che era la mia classe, ma era la classe accanto.Perché ho detto
che era la mia classe? Perché qualunque narratore vuole mettersi al centro del racconto,
nel luogo dove accadeva l’evento storico. E’ la stessa reazione per cui a sentire i racconti
si ha l’impressione che il 24 marzo del ’44 tutta la popolazione di Roma passava
casualmente per via Rasella o ci passava un suo parente.
C’è dunque un bisogno di presenza nella storia. Perciò la famosa domanda "nonno che
hai fatto in guerra" è veramente la domanda chiave della storia orale. E’ la domanda che
dice: qual è il rapporto fra la tua biografia e la storia, fra la tua esperienza personale e
privata e la vicenda collettiva che leggo nei libri di storia? Ci mettiamo a un capo della
triangolazione fra storia e biografia. Anche per questo sono importanti i racconti di guerra,
e per questo prende forma il reducismo – per cui eravamo tutti alla prima occupazione di
lettere (io ho l’alibi, ero militare, ma c’erano tutti gli altri) e così via.
Ne deriva anche una modalità narrativa: la centralità del punto di vista. L’evento storico
non è raccontato dall’alto ma da dentro. Faccio sempre l’esempio di questo ex partigiano
ternano che racconta il giorno della dichiarazione di guerra: ci portarono, tutte le
maestranze (e spiega: perché allora le chiamavano maestranza; c’è anche spesso una
grande attenzione metalinguistica) nella piazza principale ad ascoltare il discorso di
Mussolini. E, continua, c’è chi dice che hanno applaudito, dagli altoparlanti si sentiva che
la gente a Roma applaudiva. Ma io, nelle facce3 intorno a me, vidi molta, molta
preoccupazione. Quindi lui mette l’accento sul suo punto di vista: quello che vede stando
dentro la piazza a livello del suolo, anziché quello che si sente dalgi altoparlanti in alto e
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quello che ha raccontato chi stava nel palazzo del governo lì sopra. Ti dice però anche la
complessità dell’evento storico: c’era chi applaudiva e chi era preoccupato, c’era Roma e
c’era Terni. E poi dà questa bellissima nota di iniziazione personale: fu allora, dice, che
scoprii quello che chiama "la serietà operaia."
Ora, il punto di vista circoscritto è uno di quei procedimenti che in letteratura si suol dire
che sono stati introdotti da Henry James, o da Conrad o Ford Madox Ford, ma che è
impossibile estrarre dalla narrazione orale. Ecco quindi una triangolazione di generi
(immaginario e referenziale), di dimensioni storiografiche (storia degli eventi e storia della
memoria), di spazio sociale (dimensione pubblica e dimensione privata, le molte storie
ufficiali e le molte memorie personali).
Faccio un altro esempio di questa triangolazione. In questi giorni si è ricordata a Roma la
storia del bombardamento di San Lorenzo, il 19 luglio del 1943. A San Lorenzo c’era un
monumento, un bene culturale della cultura popolare: una grande scritta sul muro di un
palazzo bombardato, che diceva "eredità del fascismo". Io ero fierissimo di questa
consapevolezza storia e politica, da parte delle vittime dei bombardamenti, rispetto alla
responsabilità storica del fascismo. Poi c’è stato il Kosovo, le bombe su Belgrado. La Nsto
era fermamente convinta che il popolo serbo avrebbe dato a Milosevic la colpa dei
bombardamenti, e si sarebbe ribellato. Ora, a parte la questione della giustezza o meno di
questa guerra, abbiamo visto che questo non è avvenuto che in parte: gran parte delle
persone bombardate davano la colpa dei bombardamenti a chi li bombardava. In Italia,
questo errore di percezione è stato sostenuto anche da una lettura schematica della
memoria di quando siamo stati bombardati noi: semplificando, l’ideqa era che così come il
popolo italiano ha dato ai fascisti la colpa dei bombardamenti della seconda guerra
mondiale, allo tesso modo il popolo serbo ne darà la colpa al suo dittatore Milosevic.
Quando questo non è successo nella misura in cui lo si pensava, abbiamo assistito a
interpretazioni persino razzistiche – è l’indole del popolo serbo, e così via. Il problema è
che la memoria dei bombardamenti ci arriva essenzialmente attraverso memorie
politicamente corrette, memorie antifasciste. Ma poi esistono memorie meno rassicuranti:
quando parlo con Michele Bolgia, il cui padre è stato ucciso dai nazisti alle Fosse Ardatine
e la madre mitragliata per strada dagli alleati al Prenestino, e gli chiedo "tu con chi ce
l’hai?", lui risponde "con tutti e due." Penso alla partigiana Lucia Ottobrini, che ricorda
l’aiuto che gli alleati le davano ma che ricorda di averli "odiati" quando li vedeva
spezzonare i rifugiati e gli sfollati lungo la Prenestina.
Qui la chiave ce la danno, ancora una volta, i racconti falsi. C’è un libro di Cesare Dfe
Simone, Venti angeli sopra Roma, che è un libro molto bello e dettagliato sui
bombardamenti di Roma, ma che sta interamente dentro la memoria politicamente corretta.
C’è un solo scarto, che lui stesso non sa interpretarla: la storia che riporta, senza
analizzarla, secondo cui a San Lorenzo si raccontava che un pilota nero americano aveva
senza saperlo colpito una scuola, e quando viene a saperlo muore di crepacuore. La storia
è poco attendibile – piloti neri di bombardieri erano pochi (anche se ho la "testimonianza"
di uno che dalla cima del Gianicolo vedeva passare i bombardieri e vedeva chiaramente
che i piloti erano "negri"). Ma che cosa significa il fatto che sia raccontata?
Significa: se gli alleati sapessero veramente quello che hanno fatto, gli spezzerebbe il
cuore. Che siano buoni o no, hanno fatto cose da spezzare il cuore. Come c’entra però il
pilota nero? La mia lettura, da studioso politicamente corretto di cose afroamericane, è
stata: perché il nero è ritenuto più umano. Secondo me purtroppo non significa questo:
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significa, ahimé, "hanno mandato i selvaggi a bombardarci". E si aggancia all’altra grande
narrazione che è quella dei marocchini – una narrazione che è legittima perché sono
africani e quindi, anche se stavano dalla parte degli alleati, gli si possono attribuire crimini
di guerra, mentre non è possibile attribuire crimini di guerra agli americani e agli inglesi.
C’entrano le condizioni politiche del dopoguerra: la sinistra non se la prende con gli alleati
anche perché vuole giustamente sottolineare la responsabilità dei fascisti; la DC non lo
può fare perché sono i nostri lleati della NATO (presto insabbierà per la stessa ragione
anche i processi ai nazisti). Ne viene fuori una straordinaria difficoltà ad articolare il
racconto:. Quando itnervistavo sui bombardamenti a Terni, città allora rossa, colpita molto
duramente, la gente inveivacontro i fascisti dando loro la colpa dei lutti familiari e delle
distruzioni subite; ma quando con aria innocente domandavo chi era che bombardava, le
persone cominciavano letteralmente a balbettare. Era lettteralmente una situazioen di
afasia.
Lo dico per sottolineare che quando parliamo di memoria divisa– dal mio approccio a
quello di Pezzino, a un approccio che li tiene entrambi come quello di Giovanni Contini –
parliamo di qualcosa che non è diviso solo fra le persone, fra memoria antifascista e
memoria anti-antifascista, ma di una divisione che passa dentro le persone, in questo caso
fra le ragioni storiche che danno la colpa a Mussolini e l’esperienza diretta che si ricorda,
ma non può dirlo, chi era che premeva il grilletto. Nessuno che non sia interamente
ideologico riesce a separare le ragioni di una memoria dalle ragione di un’altra. Così, è
fortemente divisa anche la memoria di almeno alcuni dei partigiani di via Rasella: così
sono fermamente convinti di avere fatto bene, ma soffrono moltissimo pensando alle
persone uccise alle Ardeatine.
Questo è un segno della grande ricchezza di queste fonti, che ci restituiscono sul piano
linguistico, sul piano narrativo – proprio su quel piano che la storiografia positivistica
vorrebbe togliere di mezzo per andare ai fatti – la dimensione della contraddizione, della
sofferenza, della complessità. Di qui un’ulteriore triangolaz<ione: quella fra presente e
passato. Cesare Bermani ci ricordava che le itnerviste che facciamo sono documenti del
presente, non del passato; del duemila, non del ’44. Ora, io non credo che le fonti "coeve"
siano a priori più attendibili: quella che per le fonti orali è una distanza temporale (sono
passati cinquant’anni), spesso nelle fonti coeve è una distanza spaziale o sociale (non
sono scritte da persone che stavano dentro la piazza di Terni, o che ci stavano in quanto
operai).
Un esempio clamoroso è quello di Aurelio Lepre, che scrive un libro su via Rasella
basandosi sulle intercettazioni telefoniche fatte subito dopo, e afferma che questo dice la
verità sullo stato d’animo dei romani perché si tratta di una fonte coeva. Il fatto che fossero
telefonate – cioè che fosse lo stato d0’animo della piccola percentuale di romani che
avevano il telefono; che fossero state selezionate per essere messe sul tavolo di Mussolini;
che fossero comunque voci di gente che sapeva benissimo che i telefoni erano controllati
– tutto questo lo indebolisce moltissimo: non che non siano documenti veri, ma sono
documenti che danno solo una rappresentazione mediata di un frammento della città.
Tanto è vero che, essendo uno storico e non un linguista, Lepre non si accorge che certi di
quei discorsi sembrano rivolti direttamente al censore che sta ascoltando.
Ora, non è che le telefonate di Lepre non siano documenti veri; ma sono documenti che
segnano una doppia distanza, fra la collocazione sociale di chi parla e il contesto della
resistenza, e fra quello che chi parla ha in mente e quello che sa di dover dire (oltre che
fra quello che è stato complessivamente raccolto e quello che è stato presentato a
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Mussolini). Sono un frammento di verità mediata, non la verità autentica. Allo stesso modo,
davanti alle distorsioni, delle omissioni, delle dimenticanze della memoria, dobbiamo sia
continuare a servircene per ritrovare il nucleo fattualmente credibile, sia lavorare sulle
mediazioni perché è qui che si colloca il rapporto fra gli eventi e il presente per chi parla.
Le distorsioni sono sempre costruzioni di significato. In questo senso, alle cose che diceva
Bermani aggiungerei un’osservazione del linguista William labov: è linguisticamente
impossibile dare una narrazione senza implicare un’interpretazione.
Quindi abbiamo due tempi e la relazione fra loro. Che è successo, e che relazione ha oggi
la persona con cui parliamo con quello che è successo. Perciò chi fa storia orale lavora il
triplo: non solo perché, come ricordava Polibio tramite Cesare Bermani, deve fare lavoro di
gambe, arrampicarsi per strade e campi col registratore in spalla, per trovare le persone,
registrare, trascrivere; ma perché lavora su tre piani: deve sapere che è successo, lo d3evi
sapere che itnercorsero ventidue ore fra via Rasella e le Fosse Ardeatine e che i tedeschi
non ci pensarono nemmeno a mettere bandi invitando i partigiani a consegnarsi; poi devi
sapere che gira per l’Italia un racconto egemonico secondo cui invece trascorse un tempo
variabile fra i tre giorni e i sei mesi, che i tedeschi riempirono Roma di manifesti e quei
vigliacchi di comunisti non si presentarono; e infine devi lavorare sulla relazione fra questi
due piani.
Questo poi ci fa capire perché c’è la dimenticanza, perché c’è la selezione. Come spiega
Juirj Lotman, non c’è memoria senza dimenticanza: non solo perché la memoria ha dei
limiti, ma perché la memoria umana non è come quella del computer dove i dati si
ammassano e restano intatti, ma è come l’elaboratore, che i dati li trasforma
incessantemente, con un continuo scartare materiali che o non hanno senso o ne hanno
troppo per poterne parlare, poi riempire i vuoti (spesso inventando).
In questo senso, farei una nota a margine al termine "invenzione della tradizione".Io trovo
il libro di Ranger e Hobsbawm interessantissimo per le storie che racconta, ma un po’
ingenuo nella sua convinzione che in qualche modo possa esistere una tradizione non
inventata. La differenza fra le tradizioni di cui si occupano loro e quelle precedenti e
semplicemente che poiché queste sono tradizioni che nascono nell’età della stampa e
degli archivi noi abbiamo i dati per triangolare fra la tradizione come arriva a noi e il
momento della sua formazione. Dove il libro rimane ingenuo è nell’idea che, una volta
"sfatata" l’origine, allora hai spiegato tutto; ma la vera domanda è: come mai questa storia
inventata è diventata una tradizione? Non tutte le invenzioni lo diventano. Perciò se noi
scopriamo che il kilt degli scozzesi è stato inventato da un industriale laniero del ‘700, il
lavoro è appena cominciato:perché gli scozzesi se li sono messi? Perché ha inventato dei
gonnellini a quadri anziché, diciamo, dei pantaloni a strisce, che avrebbero usato
altrettanta lana? La tradizione non è una memoria che si trasmette, ma un’elaborazione
che procede; sapere come è stato inventato il kilt è importantissimo, ma non significa che
la tradizione non sia autentica -. Cioè, non significa che non sia una tradizione.
Ho visto un ritaglio, che purtroppo non ho conservato, del New York Times in cui si diceva
che quando gli antropologi hanno spiegato ai Maori che le storie mitiche sul loro arrivo in
Nuova Zelanda erano false, loro hanno risposto dicendo: adesso sono vere. Un popolo la
cui cultura è fondata sulla tradizione sa benissimo che cosa è una tradizione, e cioè un
insieme di significati e non un insieme di fatti.
L’ultima triangolazione di cui vorrei parlare, brevemente perché ne ha parlato Bermani, è
quella fra intervistato e intervistatore. Non avremo mai il medesimo racconto da una
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stessa persona in due momenti diversi, e tanto meno a due persone diverse.
L’intervistatore è in misura non secondaria anche co-autore, e questo pone anche
problemi dal punto di vista dei diritti e della privacy. L’intervista è anche un fatto
affascinante dal punto di vista teorico, proprio perché mette in discussione l’idea
dell’autorialità ottocentesca, di un testo fisso prodotto da un autore unico: qui abbiamo un
testo mutevole e prodotto da almeno due persone alla volta (almeno due, perché in molte
culture tradizionali, come nel caso di Alce Nero, il narratore è sempre accompagnato da
altre persone che verificano o itnegrano il racconto – che poi ci viene presentato sotto
forma di libro come se l’avesse fatto una persona sola).
Questo comporta alcune conseguenze. Secondo me non esiste una tecnica dell’intervista.
Ogni intervista mira a cose differenti. Si va dal reggimicrofono televisivo che recepisce la
dichiarazione dell’onorevole, in cui chiaramente l’intervistato non sta parlando
all’intervistatore ma svolge un atto oratorio di massa verso i telespettatori, all’intervista
fortemente dialogica, allo scambio interpersonale, al piccolo gruppo di autocoscienza:
sono tutte forme legittime, dipendono solo da che cosa si sta cercando di fare, e della
necessità di contemperare esigenze differenti. Così, se è bene non mandare sul campo
una persona che non sappia niente, è pure bene non mandare una che sappia troppo,
perché se l’intervistatore si rende conto che tu sai già le risposte alle domande che gli fai,
si rende conto che lo stai, se non prendendo in giro, sicuramente mettendo alla prova;
l’intervista sfuma in un interrogatorio o un’interrogazione. Cioè, non sei nella situazione in
cui stai imparando dall’intervistato qualcosa che non sai, ma in cui lo stai osservando e,
almeno potenzialmente giudicando.
Questa è una distinzione che mi è stata resa molto chiara in Kentucky. Quando ho
cominciato a intervistare i minatori in Appalachia, mi sono sentito dire: non andarci, lì ai
sociologi gli sparano. Era un’esagerazione – una volta è stato, effettivamente, ucciso un
intervistatore televisivo che non rispettava le buone maniere. Comunque è vero che non
amano essere "studiati". Ricordo di avere chiesto a una amica, una poetessa che lavora in
miera, come mai la gente era così gentile e disponibile con me, lei rispose: perché si vede
benissimo che tu di queste cose non ne sai molto, e perciò le persone sono liete di aiutarti.
Cioè: ne so abbastanza da capire e contestualizzare quello che mi dicono; ho abbastanza
umiltà e pazienza da accettare di non capire subito (la mia personale pratica, che peraltro
non propongo affatto come norma da imitare, è di fare prima le interviste e poi guardare
eventuali archivi; questo perché quello che a me interessa è l’intervista, e l’incrocio con
altre fonti diventa un modo non tanto per verificarla quanto per interpretarla, dando alle
fonti scritte la funzione "ancillare" di cui parlava Ragionieri per le fonti orali nella sua storia
di Sesto Fiorentino). In ultima analisi, l’idea è che uno non può fare un serio lavoro di
intervista se non è animato da un vero desiderio di conoscenza, e non puoi avere un serio
desiderio di conoscenza se parti dall’idea che sai tutto in anticipo.
Poi c’è un problema, se non di potere, almeno di status. Quando facemmo una ricerca di
storia orale sugli studenti della mia facoltà durante l’occupazione della Pantera, mi accorsi
che gli studenti intervistati parlavano spesso più liberamente quando li intervistavo io che
non quando lo facevano i loro pari, studenti anch’essi. Ci accorgemmo che il problema era
che gli sembrava illogico che i loro pari gli chiedessero che cosa era successo durante
l’occupazione, quando c’erano anche loro e avrebbero dovuto saperlo; secondo, più
implicito ma percepibile: chi ti dà il diritto di farmi delle domande, di metterti nel ruolo
dell’intervistatore? Non c’era fra loro abbastanza differenza, di ruolo e di esperienze; in
molte interviste, gli intervistati coglievano l’occasione di quel momento in cui tu dichiari una
utopia di differenza, per dirmi veramente le cose che pensavano che, come professore,
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non potevo sapere e per spiegarmi quelle che non potevo capire. Ovviamente, questo era
possibile perché il momento di utopia dell’intervista avveniva dentro un altro momento di
utopia, l’occupazione. Si tratta dunque di cercare la soglia in cui la tua conoscenza
generale non rende superflue le conoscenze specifiche che ti vengono trasmesse
dall’intervistato.
L’altra tecnica elementare credo che siano le buone maniere: ricordarsi sempre che siamo
nello spazio e nel tempo degli altri. L’intervistatore ucciso in Kentucky è morto perché era
entrato in casa di una persona senza chiedere il permesso – e senza rendersene conto,
perché va una definizione culturalmente diversa di che cosa è "casa": lui è entrato nel
prato davanti alla casa, che per noi urbani è un terreno di mediazione fra privato e
pubblico, ma che lì è già fortemente privato. Bisogna dunque tenere presente che siamo in
casa loro, stiamo usando il loro tempo, recependo le loro informazioni – e soprattutto che
le buone maniere continuano anche dopo, nel modo in cui li rappresenti. Per esempio: io
ho intervistato dei fascisti, ho fatto un libro antifascista, ma mi sono sentito tenuto a farlo in
maniera che i fascisti intervistati non si sentissero insultati. Perché mi avevano, comunque,
fatto un favore.
Per questo, per un certo periodo io mandavo le trascrizioni. Ora, come sappiamo
benissimo dall’aver visto le nostre, le trascrizioni fanno rizzare i capelli alla persona
trascritta: ma veramente parlo così? E gli fa venire la voglia di rivederle, correggerle –
infine, rovinarle. Allora recentemente ho sviluppato un’altra strategia, insieme più corretta
e più strumentale: gli mando la cassetta. Da un lato, la cassetta è meglio, è una cosa che
possono tramandare ai nipoti, una traccia della voce e quindi della persona. Dall’altro, è di
meno, perché sulla cassetta le persone nono sono portate a intervenire, sia perché
ascoltandosi si trovano più naturali e plausibili, sia perché non necessariamente la
riascoltano in modo critico. Infine, se pubblico, mando prima l’estratto di quello che
pubblico; e in questo caso, accetto (magari negoziandole) le proposte di modifica. Spesso
le richieste di modifica derivano da esigenze imprevedibili: come la donna ebrea romana
che, parlando della rapina dell’oro del ghetto da parte dei nazisti, commentava "’sti zozzi
trucidi" – una bellissima espressione romana, che lei mi ha chiesto di togliere perché suo
figlio fa l’ingegnere e se si fosse saputo che sua madre parla così avrebbe perso di status.
Io non sono d’accordo col figlio, ma è nel suo diritto. Quindi abbiamo fatto un lungo
negoziato per trovare i termini accettabili a tutti e due.
Parlo di negoziato perché infine quello che succede è che si incontrano due persone con
due agende, che si incontrano ma non necessariamente coincidono del tutto. Gran parte
della ricchezza di questo lavoro sta nel fatto che l’agenda della persona che racconta ti
rivela cose che tu non ti aspetti, perché le cose che devi sapere non sono
necessariamente quelle che vai chiedendo, e perché tante volte la persona che ti parla
non sa che certe cose sono storia, perché hanno un’idea di storia ancora molto
tradizionale. Allora, un esempio. Dicevo prima che molte delle cose interessanti
cominciano quando l’intervista è finita, cioè quando si chiude la fase formale della
narrazione "storica>" e si comincia a parlare del più e del meno. Io tendo a tenere il
registratore acceso, e grazie a questo ho ascoltato uno dei racconti più dolorosi e
illuminanti di tutta la ricerca sulle Fosse Ardeatine.
E’ stato quando Adas Pignotti, la grande narratrice che fa da filo conduttore al libro, che
racconta da tutta la vita, finisce il racconto che si è costruita nel corso degli anni; io finisco
le domande che avevo in mente; e si parla in modo informale. Lei mi racconta delle
difficoltà che ha con la piccola pensione che riceve, ricorda quanta fatica ha fatto per
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averla, cose che mi interessano piuttosto poco, finché commenta: e poi, dovunque andavi,
negli uffici, nei posti dove lavoravi, pensavano sempre che dovevi stare "a disposizione
loro." Le chiedo – in che senso? E lei: nel senso che pensa lei. E si spalanca l’esperienza
di queste donne, vedove giovani delle Ardeatine, che oltre ad avere avuto i mariti uccisi in
quel modo, si trovano a scontrarsi anche con una cosa che non aveva nemmeno un nome
– oggi la chiamiamo molestie sessuali – e che non hanno mai pensato che fosse "storia".
Perché era difficile parlarne, era una cosa privata, e poi perché la storia finisce col
massacro – e invece l’intervista è importante anche perché tende sempre ad allargare i
termini del discorso, comincia sempre prima e finisce sempre dopo.
Fonte: http://libur.tripod.com/Portelli2.htm
Alessandro Portelli
Chi sono
Sono nato a Roma nel 1942. Di mestiere, insegno letteratura americana alla Facoltà di Scienze
Umanistiche dell’Università la Sapienza. Ho svolto l’incarico di Consigliere delegato del Sindaco di
Roma per la tutela e la valorizzazione delle memoria storiche della città; ho fondato e presiedo il
Circolo Gianni Bosio per la conoscenza critica e la presenza alternativa delle culture popolari;
faccio parte del consiglio direttivo dell’IRSIFAR (Istituto Romano per la Storia d’Italia dal
Fascismo alla Resistenza) e ho la tessera dell’ANPI. Collaboro al manifesto fin dal 1972, e ho
scritto spesso anche su Liberazione e l’Unità.
Ho studiato, insegnato e diffuso la cultura dell’America a cui vogliamo bene – quella di Woody
Guthrie, Pete Seeger, Bob Dylan, Bruce Springsteen, di Malcolm X; Martin Luther King, Cindy
Sheehan; Mark Twain, Don DeLillo, Spike Lee, Woody Allen. Ho raccolto le canzoni popolari e
politiche e la memoria storica orale di Roma e del Lazio, collaborando con il Canzoniere del Lazio,
Giovanna Marini, Sara Modigliani, Piero Brega, Ascanio Celestini. Ho conosciuto i partigiani e le
partigiane di Roma e i familiari degli uccisi delle Fosse Ardeatine, e dai loro racconti ho messo
insieme la loro storia. Ho ascoltato i racconti delle borgate e dei quartieri popolari, dalle
occupazioni delle case degli anni ’70 alla storia orale di Centocelle. Ho cercato di non limitarmi a
studiare e a scrivere, ma anche di organizzare cultura: mettere in piedi strutture (dal Circolo Bosio
alla Casa della Memoria); fondare e far vivere riviste; condividere con gli altri, attraverso dischi e
libri, quello che ho imparato; coinvolgere persone più giovani e aprirgli spazi; organizzare eventi,
concerti, incontri. Ho accompagnato gli studenti romani ad Auschwitz, ho girato decine di scuole
per parlare della memoria, della democrazia, dell’antifascismo. E ho voglia di continuare a farlo.
Le mie passioni sono l’uguaglianza, la libertà, l’insegnamento, la musica popolare, la memoria,
ascoltare i racconti delle persone, i libri e i film, e il rock and roll.
ALCUNI LIBRI DELL’AUTORE
Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo
di Portelli Alessandro - Donzelli – 2007
L' ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria. Con CD Audio
di Portelli Alessandro - Donzelli - 2005
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