Alessandro Portelli
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Alessandro Portelli
Alessandro Portelli Un lavoro di relazione. Osservazioni sulla storia orale 1. L’espressione storia orale è una specie di stenogramma, un’abbreviazione d’uso per riferirsi a quello che più propriamente andrebbe designato come uso delle fonti orali in storiografia. Si tratta, nella sua forma più elementare, di aggiungere alla tavolozza di fonti di cui lo storico può avvalersi anche quelle che si suol chiamare testimonianze rese oralmente da parte di protagonisti o partecipanti agli eventi su cui verte la ricerca, e registrate dallo storico. In questo senso, il concetto di fonte orale si distingue da quello di tradizione orale: quest’ultima si occupa di forme verbali formalizzate, tramandate, condivise, mentre le fonti orali dello storico sono narrazioni individuali, non formalizzate, dialogiche (anche se possono inglobare elementi delle forme tradizionali). Le fonti orali, come tutte le altre, andranno sottoposte ai normali procedimenti della critica storiografica per accertarne attendibilità e utilizzabilità, né più né meno dei documenti d’archivio. Ma il passaggio da fonti orali a storia orale implica trasformazioni più rilevanti. Significa infatti trattare queste fonti non come materiale aggiuntivo, ancillare, rispetto ad altre fonti più "canoniche," bensì impostare sulla centralità delle fonti orali un altro tipo di lavoro storiografico. Infatti l’uso critico delle fonti orali implica procedimenti e atteggiamenti diversi che derivano dal diverso processo di formazione della fonte orale. A differenza della maggior parte dei documenti di cui si avvale la ricerca storica, infatti, le fonti orali non sono reperite dallo storico, ma costruite in sua presenza, con la sua diretta e determinante partecipazione. Si tratta dunque di una fonte relazionale, in cui la comunicazione avviene sotto forma di scambio di sguardi (inter\vista), di domande e di risposte, non necessariamente in una sola direzione. L’ordine del giorno dello storico si intreccia con l’ordine del giorno dei narratori: quello che lo storico desidera sapere può non interamente coincidere con quello che le persone intervistate desiderano raccontare. Il risultato è che l’agenda della ricerca può essere radicalmente trasformata da questo incontro: a me è successo sistematicamente di dovere non solo ampliare l’ambito della ricerca ma anche trasformare l’ottica e il punto di vista grazie all’impatto dei narratori. Per esempio, partito per una ricerca sul movimento operaio a Terni fra il 1949 e il 1953, ho finito per scrivere una storia della città che cominciava dal 1831, perché tanti narratori insistevano a collegare gli eventi che mi interessavano che le origini della loro storia familiare e cittadina, e mi sono convinto che avessero ragione. Ancora di più: persino sull’argomento della ricerca non è affatto detto che le domande che lo storico ha in mente siano quelle pertinenti, o tutte quelle pertinenti. Per questo, il lavoro 1 con le fonti orali è in primo luogo un’arte dell’ascolto, che va ben oltre la tecnica dell’intervista aperta. Spesso, infatti, è proprio oltre quelli che gli interlocutori ritengono i confini dell’intervista e i termini della rilevanza storica che emergono le conoscenze più imprevedibili. Nel corso della mia ricerca sulla memoria delle Fosse Ardeatine a Roma mi ero posto la domanda su come i familiari degli uccisi, soprattutto donne, avessero elaborato il lutto e condotto le proprie esistenze dopo la strage. Ma fu solo per caso che, a intervista ormai finita, ascoltai la storia più penosa. Avevo intervistato Ada Pignotti, che a 23 anni aveva perso il marito e altri tre parenti alle Fosse Ardeatine, e mi aveva raccontato la sua vita da allora ad oggi. Per tutti e due il discorso era praticamente finito, stavamo più o meno chiacchierando, e lei mi parlava delle infinite e umilianti lungaggini burocratiche subite per ottenere quattro soldi di pensione concessi di malanimo. Poi, quasi di sfuggita, aggiunse: "Perché dovunque se andava, se sapeva che io avevo perso il marito, io e l’altre, l’altre donne – allora tutti cercavano che volevano, cercavano, facevano un discorso tutto, fatto a modo loro, perché, chissà: una stava a disposizione loro. Era ‘na donna, ‘nciaveva più il marito, quindi poteva benissimo…" Al dolore, al lutto, alla povertà – tutti temi che mi aspettavo – si aggiungevo ora questa offesa quasi indicibile (come mostra la reticenza della narratrice) delle molestie sessuali a cui queste vedove erano andate incontro. Per fortuna, seguendo un antico consiglio di Gianni Bosio, pur considerando chiusa l’intervista, avevo lasciato acceso il registratore: l’arte dell’ascolto si manifesta anche nel non dire all’intervistata, con il semplice gesto di spegnere, che da ora in avanti quello che dirà non ci interessa più. Il tema imprevisto delle molestie ha fatto così irruzione nella mia ricerca, e ho avuto modo di verificarlo in seguito anche in altre interviste. Nessuno ne aveva parlato prima, e loro stesse non ne avevano mai parlato che fra loro, per due ragioni: la prima è che fino a tempi molto recenti né gli storici né le narratrici stesse ritenevano che questa dimensione così intima potesse costituire materia di rilevanza storiografica; in secondo luogo, perché nessuno glielo aveva mai chiesto o ci aveva fatto caso. 2. Ne deriva dunque che la storia orale è un’arte, oltre che dell’ascolto, della relazione: la relazione fra persone intervistate e persone che intervistano (dialogo); la relazione fra il presente in cui si parla e il passato di cui si parla (memoria); la relazione fra il pubblico e il privato, l’autobiografia e la storia; la relazione fra oralità (della fonte) e scrittura (dello storico). Partiamo dalla prima. Una giovane ricercatrice che sta svolgendo un progetto di ricerca sull’esperienza delle donne che hanno subito operazioni di tumore al seno mi ha raccontato di un’intervista con una donna anziana, da poco vedova, che di tutto aveva parlato meno che del tema dell’intervista, intrecciando la difesa della propria intimità dal desiderio di sapere dell’intervistatrice, con il desiderio di contatto così importante per una persona sola. Solo per caso (e a registratore spento) l’intervistatrice ha menzionato che anche lei aveva avuto la stessa esperienza. Di colpo, il rapporto è cambiato ("ma allora sei una di noi") e si sono rovesciati i rapporti di autorità: anziché sentirsi soggetta al potere scrutatore dell’intervistatrice, la donna ha riassunto la sua autorità generazionale ("ma sei una ragazzina!"). E il concetto di intervista come scambio di sguardi ha subito una drastica revisione e radicalizzazione nel momento in cui le due donne si sono mostrate a vicenda le loro ferite. Sei una di noi \ sei una ragazzina: un terreno comune che rende possibile parlare, ma anche una diversità che dà senso all’atto di farlo. Sarebbe un errore pensare che è solo la similarità che permette alle persone intervistate di esprimersi, che fonda la "fiducia" su cui si dovrebbe fondare il dialogo. Per definizione, infatti, uno scambio di conoscenze ha 2 senso solo se queste non sono a priori condivise; se, cioè, esiste fra intervistato e intervistatrice una differenza che renda lo scambio significativo (in questo caso, generazionale). Per esempio, in una ricerca svolta nel 1990 con un collettivo di studenti sulla memoria storica degli studenti della mia facoltà ho notato che spesso il fatto che intervistati e intervistatori fossero la stessa figura sociale finiva per paralizzare il dialogo ("perché mi chiedi queste cose? Le sai già!"), mentre altre volte quando ero io a intervistarli la differenza gerarchica fra professore intervistatore e studente intervistato finiva non tanto per mettere in difficoltà i narratori quanto per dargli il senso che avevano delle cose da dire a chi non le sapeva ("ma che ne sapete voi professori di che pensano gli studenti?") e quindi a rendere l’intervista significativa. E forse il momento più altro della mia esperienza di intervistatore è stato quando – a me europeo, bianco, borghese, maschio – una donna nera, americana, proletaria, ha detto: "I don’t trust you," non mi fido di te. E ha continuato per due ore di appassionante e appassionata narrazione a spiegarmi perché. E’ il terreno comune che rende possibile la comunicazione, ma è la differenza che la rende significativa. E il terreno comune non deve necessariamente consistere in una comune identità (di classe, di genere, di ideologia…) ma può essere delimitato, anzi deve, principalmente dalla disponibilità all’ascolto reciproco, alla reciproca accettazione (critica in quanto fondata sulla differenza). In altre parole: è la disponibilità dello storico all’ascolto che istituisce dialogicamente la possibilità del narratore di parlare. E, naturalmente, è la disponibilità del narratore a parlare che permette allo storico di fare il suo lavoro. 3. Passiamo alla seconda relazione, quella fra il pubblico e il privato. Una delle ragioni fondo per cui la storia sulle molestie non era mai emersa prima era che veniva percepita come un’esperienza privata, e quindi non di pertinenza della storia. Infatti, ne avremmo cercato invano le tracce nelle fonti storiche abituali, documenti d’archivio o atti giudiziari. Le fonti orali, dunque, contribuiscono a rimettere in discussione la distinzione di che cosa è storico e cosa non lo è. Da un lato, sta la difficoltà di entrambe le parti in dialogo a uscire da griglie di rilevanza precostituite: lo storico fatica a inoltrarsi in territori imprevisti dell’esperienza dell’altro; e la difficoltà del narratore a riconoscere importanza alle proprie vicende personali si intreccia ad una gelosia protettiva, al timore di vedere cose importanti per sé svalutate da interlocutori che non vi riconoscono autorevolezza o rilevanza. Perciò "non ho niente da dire" è un classico incipit di interviste, anche da parte di persone che non solo hanno molto da raccontare ma bruciano dalla voglia di farlo – e hanno solo paura che il loro prezioso racconto sia disprezzato. Ma proprio la relazione fra la vicenda personale che forma l’agenda dell’intervistato e le vicende storiche che formano l’agenda dell’intervistatore – lo scarto fra Storia e storie, potremmo dire - è uno dei motori dell’incontro dialogico della storia orale. L’argomento essenziale della storia orale è infine la storicità dell’esperienza personale unita all’impatto personale delle vicende storiche. E’ proprio nel racconto di come la storia ha fatto irruzione della propria vita (per esempio: i bombardamenti, irruzione delle Storia nel proprio spazio domestico) o di come si è andati incontro alla Storia (per esempio: le trincee della prima guerra mondiale, la campagna di Russia della seconda…) che sta l’essenza, il nocciolo duro della storia orale. Ne è un esempio il lavoro sulla memoria delle Fosse Ardeatine: in quel luogo è avvenuta sia una strage collettiva, sia 335 assassinii individuali. Nella memoria e nel lutto si intrecciano allora la dimensione pubblica della cerimonia e della commemorazione, e la 3 dimensione profondamente personale del lutto privato. Il contatto spesso genera dissonanza: "Noi non diciamo ‘le Fosse Ardeatine’; diciamo ‘sono andata a portare i fiori a papà’"…In questo monumento pubblico dove sono le tombe dei familiari, "Una non riesce mai a sta’ sola." E tuttavia, la dissonanza non si traduce in incompatibilità: è proprio la memoria personale dei familiari degli uccisi che ostinatamente tiene viva la memoria pubblica e impone alla città e alle istituzioni di non dimenticare. Non è casuale che gli esempi che ho fatto poco sopra – i bombardamenti, le trincee, la Russia – si riferiscano tutti alla guerra, perché è proprio qui che avviene nel modo più drammatico e memorabile l’incontro fra il privato e la storia ("papà, che cosa hai fatto in guerra?"). E’ giusto che il grado zero della storia orale, a partire dalla scuola elementare, siano le interviste dei bambini coi nonni che hanno fatto la guerra (o, in subordine, il servizio militare), e che sia quasi impossibile impedire a un intervistato che ha fatto la guerra di mettersi a raccontarla. Ma si tratta di esperienze soprattutto maschili – che ne è delle donne? Dove avviene per loro l’incontro memorabile con la sfera pubblica? Mentre lavoravo alla ricerca su Terni, c’erano due tipi di narrazioni che saltavo a priori quando trascrivevo i nastri: le storie di guerra degli uomini (mi sembravano troppo scontate, e poi avvenivano altrove), e le storie raccontate dalle donne su quando assistevano in ospedale i propri familiari (che mi parevano troppo private, poco "politiche"). Ma proprio questa analoga esclusione ha attirato la mia attenzione su questi racconti femminili. Mi sono reso conto che, come per gli uomini la guerra e il servizio militare, per le donne era l’ospedale il luogo in cui uscivano di casa, si confrontavano con la sofferenza e con la morte, e soprattutto si misuravano con la sfera pubblica – l’organizzazione, la tecnologia, la scienza, la burocrazia, l’autorità, lo Stato. In altre parole, i racconti d’ospedale delle donne erano il corrispettivo funzionale dei racconti militari degli uomini (senza dimenticare, naturalmente, che molte donne in guerra ci vanno proprio per lavorare negli ospedali). La differenza però sta nel fatto che mentre i racconti di guerra si riferiscono a una vicenda la cui rilevanza storiografica è già riconosciuta, quelli di ospedale sembrano sempre attinenti solo alla sfera personale e familiare, ed è solo attraverso l’insistenza delle narratrici che le raccontano e l’analogia con narrazioni già canonizzate che ci rendiamo conto del loro significato. In altre parole, le fonti orali non soltanto ci permettono di accedere alla storicità del privato, ma ridisegnano la geografia del rapporto fra privato e pubblico. 4. La principale obiezione alle fonti orali da parte di una storiografia metodologicamente conservatrice si è sempre fondata sulla questione dell’attendibilità: non si può prestare fede ai narratori perché la memoria e la soggettività "distorcono" i fatti. Ora, a parte il fatto che questo non avviene sempre o necessariamente (né d’altra parte possiamo essere certi che non ci siano distorsioni altrettanto gravi, sia pure per altre ragioni, nei documenti d’archivio), tutta la storiografia orale più avvertita ha ragionato esattamente al contrario: le fonti orali sono importanti e affascinanti precisamente perché non si limitano a "testimoniare" sui fatti ma li elaborano e ne costruiscono il senso attraverso il lavoro della memoria e il filtro del linguaggio. Quando lavoriamo con le fonti orali, dunque, dobbiamo tenere insieme tre fatti distinti: un fatto del passato, l’evento storico; un fatto del presente, e cioè il racconto che ne viene fatto dall’intervistato; e un fatto di relazione e di durata, e cioè il rapporto che esiste e che è esistito fra questi due fatti. Perciò, il lavoro dello storico orale include la storiografia in senso stretto (la ricostruzione del passato), l’antropologia culturale, la psicologia individuale, la critica testuale (l’analisi e interpretazione del racconto), e l’applicazione 4 della seconda alla prima. La storia orale è dunque storia degli eventi, storia della memoria, e revisione degli eventi attraverso la memoria. La memoria infatti non è un mero deposito di dati da cui recuperare informazioni, ma un processo in continua elaborazione di cui studiare le modalità (non somiglia alla "memoria" del calcolatore, ma se mai all’elaboratore stesso). Nei nostri anni di ridiscussione sull’identità della repubblica e di revisionismo storiografico la storia della memoria diventa altrettanto significativa e necessaria della storia degli eventi – che poi, a pensarci, diventano tali (o vengono riconosciuti) solo attraverso l’opera di attribuzione di senso operata dalla memoria selezionando alcuni fatti nell’immensa e informe congerie degli avvenimenti quotidiani. Faccio due esempi. Il primo, che è poi quello che mi ha avviato sulla strada della storia orale, è stato la casuale scoperta del fatto che a Terni quasi tutti i narratori raccontavano un evento traumatico – l’uccisione dell’operaio Luigi Trastulli nel 1949 durante una protesta contro il Patto Atlantico – come se fosse avvenuto invece durante gli scontri che ebbero luogo nel 1953 dopo tremila licenziamenti alle Acciaierie. Un caso da manuale di inattendibilità della memoria: documenti coevi dimostravano che l’evento era accaduto nel 1949, non nel 1953. Ma allora perché questo errore così diffuso? Indagare sul ricordo sbagliato, specie quando è così condiviso, permette di rivedere il significato dell’evento ricordato. Mi resi conto allora che la morte impunita e senza reazioni di un loro compagno di lavoro aveva costituito per gli operai ternani (a larga maggioranza comunisti e socialisti) una ferita insopportabile: dopo la Resistenza, le vittorie elettorali, il sudore gettato nel ricostruire le case e le fabbriche, pensavano che la città appartenesse a loro, e invece scoprivano che lo Stato poteva ucciderli senza conseguenze, che il potere stava altrove e loro erano impotenti. Così, nel 1953, molti di loro andarono in piazza sia per difendere il loro posto di lavoro sia per recuperare una dignità e una stima di sé ferita dall’uccisione di Trastulli. In altri termini: non ci servivano certo le fonti orali per sapere i fatti, ma senza queste fonti non ci saremmo avvicinati al loro significato sul piano della soggettività. Lo stesso vale per un’altra falsa memoria di cui mi sono recentemente occupato: quella secondo cui, prima di procedere alla strage delle Fosse Ardeatine i nazisti avrebbero invitato attraverso manifesti affissi in città i partigiani che avevano compiuto l’attacco di via Rasella a consegnarsi in modo da evitare la rappresaglia. Come si è sempre saputo (fin dagli atti dei processi celebrati dagli alleati nel 1945) questo non è mai avvenuto; e forse per questo nessuno storico si è mai occupato di un altro fatto che invece è avvenuto e avviene tuttora, e cioè questa persistente memoria sbagliata. In essa confluiscono molti elementi: le distorsioni e le manipolazioni propagandistiche (di destra ma anche di alcuni influenti ambienti cattolici e di centro); il pregiudizio ideologico, che trova più soddisfacente dare la colpa della strage ai partigiani comunisti che non agli occupanti nazisti; e, più in profondo, la difficoltà per l’immaginazione comune di riconoscere la logica che condusse i nazisti a punire così sanguinosamente la città senza nemmeno preoccuparsi di cercare i "colpevoli." Ma è proprio studiando questa falsa memoria, intrecciandola con la dinamica dei fatti, che capiamo il peso delle Fosse Ardeatine e di via Rasella nell’immaginazione diffusa: l’errore, l’invenzione, il malinteso, persino la menzogna, specialmente quando assumono carattere collettivo, diventano un prezioso indicatore del lavoro compiuto d quegli importanti processi storici che sono la memoria e il desiderio. 5 5. Non è solo la memoria che è un atto e un processo anziché un testo e un repertorio, ma il racconto stesso. Come ha ben scritto lo studioso gesuita Walter J. Ong, l’oralità non produce testi, ma performances: nell’oralità non siamo di fronte a un discorso compiuto, ma al compiersi del discorso (per di più, in forma dialogica nel caso dell’intervista). Quando parliamo di fonti orali, dunque, dovremmo usare non sostantivi ma verbi – non memoria, ma ricordare; non racconto ma raccontare. E’ anche in questo modo che possiamo pensare alla fonte orale non come un documento sul passato ma come a un atto del presente. Soprattutto, quando guardiamo all’atto e non solo al suo prodotto, ci rendiamo conto che ricordare e raccontare sono sì intensamente influenzati dal contesto storico dai quadri sociali della memoria ma in fin dei conti filtrati dalla responsabilità individuale: è nella mente del singolo che si elabora il ricordo, è attraverso la sua parola che viene comunicato. Ne deriva quindi che ogni volta i narratori si assumono la responsabilità e l’impegno dei loro atti di parola. Ricordo un ragazzo ebreo che rifiutò un panino con il prosciutto prima di un’intervista dicendo "in un altro momento l’avrei mangiato, ma questa è una mitzvah" – un precetto, un compito. La parola "testimonianza," così inadeguata sul piano storiografico rientra dunque con un senso assai più vicino al religioso che al giuridico: "Io feci una promessa quando ero nel campo [di Bergen Belsen], feci una promessa solenne alle mie cinquanta compagne… Io mi ribellavo, non sapevo se imprecare Dio o pregarlo, dicevo Signore salvami salvami, perché io debbo tornare e raccontare." Ma raccontare dipende anche, come mostra l’esperienza di tanti reduci dai campi di sterminio, dall’esistenza di qualcuno che ascolti: è bene tenerne conto, per affiancare la responsabilità dello storico come ascoltatore a quella del narratore come testimone nel dare senso a quello che facciamo. 6. Infine, il rapporto fra oralità e scrittura. La forma della performance del narratore è quella della narrazione e del dialogo; la forma del testo scritto dallo storico è quella del saggio e del monologo. Diventa dunque fondamentale che nel presentare i risultati di un lavoro di storia orale si riesca a lasciare traccia dell’origine dialogica e narrativa dei nostri materiali. Anche per questo, e non per mero scrupolo documentario, gli storici orali usano citare più ampiamente le proprie fonti e fare più ricorso al montaggio di quanto non faccia in generale la storiografia, o anche di quanto non facciano discipline che pure partono dal lavoro sul campo, come l’antropologia o la sociologia. Ma c’è dell’altro: l’ampiezza delle citazioni cerca di salvare la polisemia e l’apertura della forma narrativa, sempre soggetta a una molteplicità di interpretazioni perché inerentemente attraversata dall’ambiguità e dalla complessità: nella distinzione fra delineata da Auerbach fra la logica di Atene e la narratività di Gerusalemme, gli storici orali sono più vicini a Gerusalemme anche se non dimenticano la propria responsabilità verso Atene. Per cui, non si sottraggono al compito di interpretare le proprie fonti, ma nel riportarle ampiamente offrono a chi legge i materiali per letture integrative o alternative, a lasciano spazio anche all’autointerpretazione dei narratori. L’oralità, insomma, non è semplicemente un veicolo dell’informazione ma anche una componente del suo significato. La forma dialogica e la forma narrativa che caratterizzano le fonti orali culminano nella densità e complessità del linguaggio, che già nei toni e nelle inflessione esprime storia e identità di chi parla, e intreccia e accumula significati ben oltre le intenzioni e la consapevolezza dei parlanti. 6 Vorrei fare due esempi. Il primo risale alla ricerca sulla memoria degli studenti della mia facoltà, durante l’occupazione del 1990. Uno degli intervistati raccontò che, la prima notte in cui fu di servizio d’ordine, facendo il giro dell’edificio, "ci fermammo a guardare delle stelle che prendemmo per due aeroplani [che viaggiavano in formazione], no, perché abbiamo visto queste due stelle che stavano sempre alla stessa distanza, sembra che si muovessero, perché c’era una nuvola in realtà che si muoveva." Solo più tardi, guardando meglio, si rendono conto che "quelli non sono due aeroplani, sono due stelle." Per il narratore, l’episodio era solo una "storia di ordinaria follia," un segno della scarsa lucidità di quei momenti. Ma non è difficile vedere in questa nuova percezione delle cose che si muovono nel cielo anche il rapporto che c’è nella cultura di una generazione fra l’immaginario tecnologico e la pulsione utopica, riprodotto peraltro negli altri due grandi simboli di quel movimento – il tecnologico fax e l’esotica pantera – e nel suo incerto equilibrio fra richiesta di modernizzazione ed efficienza della istituzione universitaria, e utopia di sua trasformazione in una paritetica comunità del sapere. Solo che questa complessità non veniva espressa in forma analitica, ma compressa dentro una metafora, neanche pienamente controllata dal narratore ma talmente carica di senso da venire comunque raccontata. L’altro esempio riguarda un’esperienza in una piccolissima chiesa fondamentalista di Harlan, Kentucky. E’ uno dei territori più poveri, marginalizzati, ecologicamente massacrati degli Stati Uniti; i fedeli erano una decina di persone, quasi tutti in abiti da lavoro, per lo più analfabeti o semianalfabeti in grado appena di leggere la Bibbia. Sull’altare campeggia una scritta: "There’s a better place to go," c’è un posto migliore dove andare. Più tardi, la predicatrice laica Lydia Surgener spiega che un biglietto con queste parole fu messo nella bara di sua madre. C’è in questa frase l’essenza di una religiosità emozionale fondamentalista che sprezza questo mondo e ripone tutte le aspettative in un mondo migliore. Ma poi ascolto la testimonianza (in senso religioso stretto) di un altro fedele, Brother Miller, che parla delle sue storie di emigrazione e usa continuamente metafore automobilistiche – e mi viene in mente che "un posto migliore" sono anche i luoghi dove tanti di loro sono emgirati in cerca di un’altra vita, Chicago, Baltimore, Cincinnati. E mi viene in mende che la sera prima ho partecipato a una riunione di famiglia in cui Lydia Surgener e i suoi parenti parlavano della lotta da condurre contro la distruzione degli alberi e del patrimonio idrogeologico della loro valle – e allora "un posto migliore" può anche essere Harlan stessa, trasformata dalla loro azione sociale. Insomma, in quella breve frase ci sono tutte le alternative che si offrono a queste persone: la religiosità arcaica della rassegnazione, la soluzione personale (ma di massa) dell’emigrazione, la modernità radicale della lotta sociale. Anche qui, né Lydia Surgener né i suoi vicini e parenti formulerebbero questa idea in termini analitici ed espliciti come faccio io qui. Ancora una volta, hanno fatto di meglio: sono riusciti a comprimerla dentro un’immagine e una frase. 7. Un posto migliore: comunque, un sogno, un desiderio (una certezza per chi ha la fede). Spesso, questo desiderio di un mondo migliore prende la forma di narrazioni controfattuali – l’ucronia, che sta al tempo come l’utopia sta allo spazio: avremmo un mondo migliore se… Quelle con cui sono più familiare sono le ucronie rivoluzionarie: avremmo un mondo migliore se nel 1921 avessimo fatto la rivoluzione dopo l’occupazione delle fabbriche… se avessimo resistito l’8 settembre… se non ci avessero fatto sospendere quel determinato sciopero… Ma è un’ucronia anche il racconto controfattuale sulle Fosse Ardeatine: non ci sarebbe stato il massacro se i partigiani si fossero consegnati… Ogni volta, il racconto ucronico controfattuale immagina una svolta mancata, o una svolta sbagliata, nel corso della storia, e implicitamente esprime un giudizio di condanna o delusione sulla storia reale, sul mondo come è stato e come è. E ci fa capire con quali pensieri, con quali visioni 7 e sogni di mondi possibili le persone con cui parliamo hanno attraversato il tempo della loro vita e della storia. Vorrei chiudere allora con l’ucronia suprema, la più globale e la più alta che abbia mai ascoltato. Era una manifestazione sindacale a Roma, nel 1985, io seguivo un gruppo di anziane ex operaie tessili venute da Terni. A un certo punto gli chiedo se sono religiose. Una di loro, Diana, risponde: "No; se volemo crede’ a qualche cosa, credemo. Però ce vorrebbe che questo facesse le cose giuste. Ognuno è religioso a modo suo. Tocca dìlla a quel pòro Cristo, che l’hanno impiccato." E la sua amica, che porta un nome pesante, Maddalena, conclude con la rapidissima visione proletaria di una storia sacra possibile, fatta di madri e non di padri: "Io s’ero Dio," dice, "s’ero lo padre, impicca’ no’ lo facevo impicca’, su la croce." L’uso dell’intervista nella storia orale. Questo è praticamente un intervento nel dibattito, dato che il quadro che ha dato Bermani copre molto bene il terreno, per cui io aggiungo solo alcune diramazioni del discorso. La prima volta che ho sentito parlare di San Pacrazio fu ad Arezzo e poi a Civitella della Chiana, durante il convegno intitolato "In memory," su,lla memoria delle stragi naziste in Europa, nel 1994. Teniamo conto del momento storico: la destra aveva vinto le elezioni, e la sinistra era già convinta che le aveva vinte perché aveva ragione. Si attraversava una fase di grossa crisi di delegittimazione da parte degli intellettuali di sinistra, democratici, antifascisti. Quello che trovai sorprendente fu la sorpresa – anzi, lo scandalo epistemologico, per dirla con Pietro Clemente - con cui i miei colleghi storici e antropologi accoglievano la scoperta che la gente di Civitella anziché ai nazisti dava la colpa ai partigiani. Ne ero colpito perché racconti del genere li avevo sentiti per tutta la vita: quasi nessuno può essere stato esente dalla memoria antipartigiana, e in particolare il mio pensiero corse ai racconti assorbiti nell’aria sulla responsabilità dei partigiani per la strage delle FosseArdeatine a Roma, una storia che poi mi ha ossessionato da allora ad oggi. Ora, il problema era a due livelli. Uno era la questione di che cosa è successo, come sono realmente andate le cose; e l’altra è che cosa si racconta. Questa è una distinzione metodologica senza la quale non lavoriamo; ma la dobbiamo comunque complicare un poco. In primo luogo, perché l’accesso che abbiamo a quello che è successo è comunque attraverso racconti, compresi quelli conservati nelle fonti scritte o d’archivio – che sono esse stesse ion larga misura narrative, con la sola differenza che sono per lo più scritte da persone che non conosciamo, mentre con le fonti orali siamo in presenza della fonte e la conosciamo personalmente. Ora, dobbiamo decidere se la scelta migliore è depurare le fonti dalla narratività per arrivare al nocciolo duro dei fatti, oppure approfittare dell’esistenza della narratività e trattarla come dato ulteriore, ulteriore fonte di interpretazione e conoscenza da cui trarre vantaggio. Questa distinzione fra due modalità entrambe legittime a seconda del progetto o delle circostanze – non possiamo mai ragionare in termini normativi – distingue tendenzialmente due cose che chiamerei "uso delle fonti orali in storiografia" da un lato e, per brevità, "storia orale" dall’altro. Chiamo dunque storia orale una modalità che pone al centro gli aspetti specifici della comunicaziojne orale e mette al centro quel tipo di informazioni che l’oralità privilegia – sempre tenendo conto che anche fra orale e scritto 8 non c’è mai una dicotomia secca ma un continuum che va verso polarità diverse. Chi abbia visto il casellario politico dell’archivio centrale dello stato sa che le relazioni dei brigadieri di polizia sui sorvegliati sono piene della soggettività dei loro estensori; chiunque abbia frequentato un poco Fioucault queste cose le sa. Però direi che la presenza della dimensione soggettiva della dimensione narrativa è molto più marcata e autorizzata nella narrazione orale di quanto non lo sia in una documentazione scritta che ha come obiettivo la fattualità mentre l’oralità contiene anche il fine dell’espressività. Ora, il caso delle Fosse Ardeatine è quasi un modello scolastico. Io mi sono occupato di queste cose propriol in seguito alla scoperta dell’importanza dei racconti sbagliati. In questo caso, ho subito visto che c’erano due cose: una strage, e un racconto. Il racconto non è una mera rappresentazione degli eventi della storia; è esso stesso un evento della storia, è qualcosa che le persone fanno nel corso del tempo e che ha poi effetti sui comportamenti collettivi e personali. Ora, nel caso delle Ardeatine la materialità dei fatti è talmente chiara e accertata fin da subito dopo che nessuno storico ha mai ritenuto necessario occuparsene. Uno dei paradossi di questa vicenda è che siccome è troppo facile raccontare che è successo non c’è una ricerca storica approfondita in cui la cosa venga affrontata. E allora, siccome nessuno storico se ne è veramente occupato, il risultato è che circolano incontrollati i racconti falsi ,mimmaginari e leggendari, della narrazione di destra. E’ proprio un modello: la narrazione per cui alle Fosse Ardeatine la strage è stata fatta perché i partigiani non si sono presentati è una narrazione falsa ma egemonica, perché una storiografia attentasolo alla referenzialità dei fatti non si è degnata di contrastare i racconti. Non lo ha fatto perché ritiene che i racconti sbagliati vadano semplicemente dismessi ha finito per lasciargli tutto lo spazio, al punto che anche molti antifascisti lo prendono per vero. Su questo si costruisce quindi un immaginario politico che comporta poi conseguenze concrete. Ora, dopo questa scoperta della memoria antipartigiana, io sono andato nella direzione di cui occuparmi dei racconti sbagliati; altri, per esempio Paolo Pezzino rispetto alla strage di Guardistallo è stata di cercare di vedere che cosa è successo esattamente. Ho l’impressione che Pezzino non sia arrivato a conclusioni certe, perché dopo aver esplorato al meglio delle possibilitàò che cosa è successo a Guardistallo, non è riuscito lo stesso ad avere alcun impatto sul conflitto etico e politico, ideologico e mitico, che è ancora in corso sul significato di quello che è successo e sulle responsabilità. Anzi, ho l’impressione che i racconti ideologici di Guardistallo abbiano influito su Pezzino molto pià di quanto lui ha influito su loro. Proprio perché un approccio di stampo positivista – assolutamente meritorio, perché adesso sappiamo su Guardistallo molto più di prima – rischia di essere indifesa, vulnerabile, di fronte all’immaginazione. Questo però comporta che per capire che un racconto è immaginario, dobbiamo comunque cercare di capire che cosa è successo. Altrimenti rischiamo di commettere l’errore opposto a quello positivistico, e cioè l’errore di un decostruzionismo ingenuo: tutti i racconti si equivalgono, il mando materiale non esiste (il n’y a pas d’hors texte) e quindi tutti i testi vanno letti esclusivamente in termini delkla loro dinamica intratesuale. Naturalmente, questo è falso, anche proprio in termini di teoria letteraria e narratologica, perché uno dei termini su cui il testo si costituisce in quanto genere è proprio il patto che stabilisce rispetto alla sua maggiore o minore referenzialità: un’autobiografia si distingue da un romanzo perche, pur essendo entrambi racconti, l’autobiografia è tale perché afferma di essere veridica (non perché lo è, ma perché dice di esserlo) mentre il romanzo dichiara di essere fiction (e tale rimane anche se racconta fatti realmente accaduti). La distinzione è dunque il patto che il racconto istituisce col suo destinatario: per esempio, 9 l’autobigorafia di Richard Wright, Ragazzo negro, non si dichiara tale perché pur narrando i fatti della propria vita poi ci fa alcune operazioni che appartengono all’immaginazione. Quindi quando facciamo un’intervista, ci troviamo davanti a un evento – insisto che è un evento, perché lo creiamo noi: la storia che raccogliamo non esiste in natura ma è il prodotto di questo incontro – estremamente ibrido. Convivono contemporaneamente nella narrazione che raccogliamo con l’intervista – uso questa complicata parafrasi per non usare la parola "testimonianza" – l’intenzione del testimone di raccontare le cose come sono andate, istituendo un patto di referenzialità e parzialità; dall’altro, però coglie anche questa occasione quasi unica di parlare di sé, di rappresentarsi. Noi sappiamo quanto forte sia la necessità di autorappresentarsi, tanto pià in soggetti a cui è stata negata la possibilità di farlo in pubblico (ma anche in famiglia, perché i figli e nipoti non vogliono più starli a sentire…). C’è dunque una doppia esigenza di rappresentare e di rappresentarsi. Faccio un esempio, in cui ci sono di mezzo io. Sto facendo una ricerca su alcune esperienze salesiane coi ragazzi di strada nel dopoguerra a Roma, e intervistando uno di loro viene fuori il nome di un altro salesiano che era stato mio professore di religione a Terni negli anni ’50. Glielo dico – è parte di una dimensione dialogica, in cui fai vedere che non sei del tutto estraneo al mondo del tuo interlocutore. E lui conferma: sì, questo prete raccontava le storie di quando i ragazzi del liceo liceo classico di Terni giocavano a pallone con la testa del crocifisso. E io – formo un attimo, quella era la mia classe. Ora, non è vero. Cioè, primo non è vero che giocassero a pallone con la testa del crocifisso: secondo una versione datami recentemente da un ex compagno di scuola, successe che il crocifisso fu colpito accidentalmente durante la ricreazione da una cinghia di quelle con cui si legavano i libri e mentre cadeva a terra qualcuno cercò di fermarlo col piede proprio mentre entrava in classe il prete (è una versione dubbia; d’altra parte, le fonti scritte giornalistiche e giudiziarie sostengono che al liceo di Terni esisteva un "club della bestemmia…"). Comunque, la cosa interessante non è la leggenda o l’errore suo, ma il mio: perché non è vero che era la mia classe, ma era la classe accanto.Perché ho detto che era la mia classe? Perché qualunque narratore vuole mettersi al centro del racconto, nel luogo dove accadeva l’evento storico. E’ la stessa reazione per cui a sentire i racconti si ha l’impressione che il 24 marzo del ’44 tutta la popolazione di Roma passava casualmente per via Rasella o ci passava un suo parente. C’è dunque un bisogno di presenza nella storia. Perciò la famosa domanda "nonno che hai fatto in guerra" è veramente la domanda chiave della storia orale. E’ la domanda che dice: qual è il rapporto fra la tua biografia e la storia, fra la tua esperienza personale e privata e la vicenda collettiva che leggo nei libri di storia? Ci mettiamo a un capo della triangolazione fra storia e biografia. Anche per questo sono importanti i racconti di guerra, e per questo prende forma il reducismo – per cui eravamo tutti alla prima occupazione di lettere (io ho l’alibi, ero militare, ma c’erano tutti gli altri) e così via. Ne deriva anche una modalità narrativa: la centralità del punto di vista. L’evento storico non è raccontato dall’alto ma da dentro. Faccio sempre l’esempio di questo ex partigiano ternano che racconta il giorno della dichiarazione di guerra: ci portarono, tutte le maestranze (e spiega: perché allora le chiamavano maestranza; c’è anche spesso una grande attenzione metalinguistica) nella piazza principale ad ascoltare il discorso di Mussolini. E, continua, c’è chi dice che hanno applaudito, dagli altoparlanti si sentiva che la gente a Roma applaudiva. Ma io, nelle facce3 intorno a me, vidi molta, molta preoccupazione. Quindi lui mette l’accento sul suo punto di vista: quello che vede stando dentro la piazza a livello del suolo, anziché quello che si sente dalgi altoparlanti in alto e 10 quello che ha raccontato chi stava nel palazzo del governo lì sopra. Ti dice però anche la complessità dell’evento storico: c’era chi applaudiva e chi era preoccupato, c’era Roma e c’era Terni. E poi dà questa bellissima nota di iniziazione personale: fu allora, dice, che scoprii quello che chiama "la serietà operaia." Ora, il punto di vista circoscritto è uno di quei procedimenti che in letteratura si suol dire che sono stati introdotti da Henry James, o da Conrad o Ford Madox Ford, ma che è impossibile estrarre dalla narrazione orale. Ecco quindi una triangolazione di generi (immaginario e referenziale), di dimensioni storiografiche (storia degli eventi e storia della memoria), di spazio sociale (dimensione pubblica e dimensione privata, le molte storie ufficiali e le molte memorie personali). Faccio un altro esempio di questa triangolazione. In questi giorni si è ricordata a Roma la storia del bombardamento di San Lorenzo, il 19 luglio del 1943. A San Lorenzo c’era un monumento, un bene culturale della cultura popolare: una grande scritta sul muro di un palazzo bombardato, che diceva "eredità del fascismo". Io ero fierissimo di questa consapevolezza storia e politica, da parte delle vittime dei bombardamenti, rispetto alla responsabilità storica del fascismo. Poi c’è stato il Kosovo, le bombe su Belgrado. La Nsto era fermamente convinta che il popolo serbo avrebbe dato a Milosevic la colpa dei bombardamenti, e si sarebbe ribellato. Ora, a parte la questione della giustezza o meno di questa guerra, abbiamo visto che questo non è avvenuto che in parte: gran parte delle persone bombardate davano la colpa dei bombardamenti a chi li bombardava. In Italia, questo errore di percezione è stato sostenuto anche da una lettura schematica della memoria di quando siamo stati bombardati noi: semplificando, l’ideqa era che così come il popolo italiano ha dato ai fascisti la colpa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, allo tesso modo il popolo serbo ne darà la colpa al suo dittatore Milosevic. Quando questo non è successo nella misura in cui lo si pensava, abbiamo assistito a interpretazioni persino razzistiche – è l’indole del popolo serbo, e così via. Il problema è che la memoria dei bombardamenti ci arriva essenzialmente attraverso memorie politicamente corrette, memorie antifasciste. Ma poi esistono memorie meno rassicuranti: quando parlo con Michele Bolgia, il cui padre è stato ucciso dai nazisti alle Fosse Ardatine e la madre mitragliata per strada dagli alleati al Prenestino, e gli chiedo "tu con chi ce l’hai?", lui risponde "con tutti e due." Penso alla partigiana Lucia Ottobrini, che ricorda l’aiuto che gli alleati le davano ma che ricorda di averli "odiati" quando li vedeva spezzonare i rifugiati e gli sfollati lungo la Prenestina. Qui la chiave ce la danno, ancora una volta, i racconti falsi. C’è un libro di Cesare Dfe Simone, Venti angeli sopra Roma, che è un libro molto bello e dettagliato sui bombardamenti di Roma, ma che sta interamente dentro la memoria politicamente corretta. C’è un solo scarto, che lui stesso non sa interpretarla: la storia che riporta, senza analizzarla, secondo cui a San Lorenzo si raccontava che un pilota nero americano aveva senza saperlo colpito una scuola, e quando viene a saperlo muore di crepacuore. La storia è poco attendibile – piloti neri di bombardieri erano pochi (anche se ho la "testimonianza" di uno che dalla cima del Gianicolo vedeva passare i bombardieri e vedeva chiaramente che i piloti erano "negri"). Ma che cosa significa il fatto che sia raccontata? Significa: se gli alleati sapessero veramente quello che hanno fatto, gli spezzerebbe il cuore. Che siano buoni o no, hanno fatto cose da spezzare il cuore. Come c’entra però il pilota nero? La mia lettura, da studioso politicamente corretto di cose afroamericane, è stata: perché il nero è ritenuto più umano. Secondo me purtroppo non significa questo: 11 significa, ahimé, "hanno mandato i selvaggi a bombardarci". E si aggancia all’altra grande narrazione che è quella dei marocchini – una narrazione che è legittima perché sono africani e quindi, anche se stavano dalla parte degli alleati, gli si possono attribuire crimini di guerra, mentre non è possibile attribuire crimini di guerra agli americani e agli inglesi. C’entrano le condizioni politiche del dopoguerra: la sinistra non se la prende con gli alleati anche perché vuole giustamente sottolineare la responsabilità dei fascisti; la DC non lo può fare perché sono i nostri lleati della NATO (presto insabbierà per la stessa ragione anche i processi ai nazisti). Ne viene fuori una straordinaria difficoltà ad articolare il racconto:. Quando itnervistavo sui bombardamenti a Terni, città allora rossa, colpita molto duramente, la gente inveivacontro i fascisti dando loro la colpa dei lutti familiari e delle distruzioni subite; ma quando con aria innocente domandavo chi era che bombardava, le persone cominciavano letteralmente a balbettare. Era lettteralmente una situazioen di afasia. Lo dico per sottolineare che quando parliamo di memoria divisa– dal mio approccio a quello di Pezzino, a un approccio che li tiene entrambi come quello di Giovanni Contini – parliamo di qualcosa che non è diviso solo fra le persone, fra memoria antifascista e memoria anti-antifascista, ma di una divisione che passa dentro le persone, in questo caso fra le ragioni storiche che danno la colpa a Mussolini e l’esperienza diretta che si ricorda, ma non può dirlo, chi era che premeva il grilletto. Nessuno che non sia interamente ideologico riesce a separare le ragioni di una memoria dalle ragione di un’altra. Così, è fortemente divisa anche la memoria di almeno alcuni dei partigiani di via Rasella: così sono fermamente convinti di avere fatto bene, ma soffrono moltissimo pensando alle persone uccise alle Ardeatine. Questo è un segno della grande ricchezza di queste fonti, che ci restituiscono sul piano linguistico, sul piano narrativo – proprio su quel piano che la storiografia positivistica vorrebbe togliere di mezzo per andare ai fatti – la dimensione della contraddizione, della sofferenza, della complessità. Di qui un’ulteriore triangolaz<ione: quella fra presente e passato. Cesare Bermani ci ricordava che le itnerviste che facciamo sono documenti del presente, non del passato; del duemila, non del ’44. Ora, io non credo che le fonti "coeve" siano a priori più attendibili: quella che per le fonti orali è una distanza temporale (sono passati cinquant’anni), spesso nelle fonti coeve è una distanza spaziale o sociale (non sono scritte da persone che stavano dentro la piazza di Terni, o che ci stavano in quanto operai). Un esempio clamoroso è quello di Aurelio Lepre, che scrive un libro su via Rasella basandosi sulle intercettazioni telefoniche fatte subito dopo, e afferma che questo dice la verità sullo stato d’animo dei romani perché si tratta di una fonte coeva. Il fatto che fossero telefonate – cioè che fosse lo stato d0’animo della piccola percentuale di romani che avevano il telefono; che fossero state selezionate per essere messe sul tavolo di Mussolini; che fossero comunque voci di gente che sapeva benissimo che i telefoni erano controllati – tutto questo lo indebolisce moltissimo: non che non siano documenti veri, ma sono documenti che danno solo una rappresentazione mediata di un frammento della città. Tanto è vero che, essendo uno storico e non un linguista, Lepre non si accorge che certi di quei discorsi sembrano rivolti direttamente al censore che sta ascoltando. Ora, non è che le telefonate di Lepre non siano documenti veri; ma sono documenti che segnano una doppia distanza, fra la collocazione sociale di chi parla e il contesto della resistenza, e fra quello che chi parla ha in mente e quello che sa di dover dire (oltre che fra quello che è stato complessivamente raccolto e quello che è stato presentato a 12 Mussolini). Sono un frammento di verità mediata, non la verità autentica. Allo stesso modo, davanti alle distorsioni, delle omissioni, delle dimenticanze della memoria, dobbiamo sia continuare a servircene per ritrovare il nucleo fattualmente credibile, sia lavorare sulle mediazioni perché è qui che si colloca il rapporto fra gli eventi e il presente per chi parla. Le distorsioni sono sempre costruzioni di significato. In questo senso, alle cose che diceva Bermani aggiungerei un’osservazione del linguista William labov: è linguisticamente impossibile dare una narrazione senza implicare un’interpretazione. Quindi abbiamo due tempi e la relazione fra loro. Che è successo, e che relazione ha oggi la persona con cui parliamo con quello che è successo. Perciò chi fa storia orale lavora il triplo: non solo perché, come ricordava Polibio tramite Cesare Bermani, deve fare lavoro di gambe, arrampicarsi per strade e campi col registratore in spalla, per trovare le persone, registrare, trascrivere; ma perché lavora su tre piani: deve sapere che è successo, lo d3evi sapere che itnercorsero ventidue ore fra via Rasella e le Fosse Ardeatine e che i tedeschi non ci pensarono nemmeno a mettere bandi invitando i partigiani a consegnarsi; poi devi sapere che gira per l’Italia un racconto egemonico secondo cui invece trascorse un tempo variabile fra i tre giorni e i sei mesi, che i tedeschi riempirono Roma di manifesti e quei vigliacchi di comunisti non si presentarono; e infine devi lavorare sulla relazione fra questi due piani. Questo poi ci fa capire perché c’è la dimenticanza, perché c’è la selezione. Come spiega Juirj Lotman, non c’è memoria senza dimenticanza: non solo perché la memoria ha dei limiti, ma perché la memoria umana non è come quella del computer dove i dati si ammassano e restano intatti, ma è come l’elaboratore, che i dati li trasforma incessantemente, con un continuo scartare materiali che o non hanno senso o ne hanno troppo per poterne parlare, poi riempire i vuoti (spesso inventando). In questo senso, farei una nota a margine al termine "invenzione della tradizione".Io trovo il libro di Ranger e Hobsbawm interessantissimo per le storie che racconta, ma un po’ ingenuo nella sua convinzione che in qualche modo possa esistere una tradizione non inventata. La differenza fra le tradizioni di cui si occupano loro e quelle precedenti e semplicemente che poiché queste sono tradizioni che nascono nell’età della stampa e degli archivi noi abbiamo i dati per triangolare fra la tradizione come arriva a noi e il momento della sua formazione. Dove il libro rimane ingenuo è nell’idea che, una volta "sfatata" l’origine, allora hai spiegato tutto; ma la vera domanda è: come mai questa storia inventata è diventata una tradizione? Non tutte le invenzioni lo diventano. Perciò se noi scopriamo che il kilt degli scozzesi è stato inventato da un industriale laniero del ‘700, il lavoro è appena cominciato:perché gli scozzesi se li sono messi? Perché ha inventato dei gonnellini a quadri anziché, diciamo, dei pantaloni a strisce, che avrebbero usato altrettanta lana? La tradizione non è una memoria che si trasmette, ma un’elaborazione che procede; sapere come è stato inventato il kilt è importantissimo, ma non significa che la tradizione non sia autentica -. Cioè, non significa che non sia una tradizione. Ho visto un ritaglio, che purtroppo non ho conservato, del New York Times in cui si diceva che quando gli antropologi hanno spiegato ai Maori che le storie mitiche sul loro arrivo in Nuova Zelanda erano false, loro hanno risposto dicendo: adesso sono vere. Un popolo la cui cultura è fondata sulla tradizione sa benissimo che cosa è una tradizione, e cioè un insieme di significati e non un insieme di fatti. L’ultima triangolazione di cui vorrei parlare, brevemente perché ne ha parlato Bermani, è quella fra intervistato e intervistatore. Non avremo mai il medesimo racconto da una 13 stessa persona in due momenti diversi, e tanto meno a due persone diverse. L’intervistatore è in misura non secondaria anche co-autore, e questo pone anche problemi dal punto di vista dei diritti e della privacy. L’intervista è anche un fatto affascinante dal punto di vista teorico, proprio perché mette in discussione l’idea dell’autorialità ottocentesca, di un testo fisso prodotto da un autore unico: qui abbiamo un testo mutevole e prodotto da almeno due persone alla volta (almeno due, perché in molte culture tradizionali, come nel caso di Alce Nero, il narratore è sempre accompagnato da altre persone che verificano o itnegrano il racconto – che poi ci viene presentato sotto forma di libro come se l’avesse fatto una persona sola). Questo comporta alcune conseguenze. Secondo me non esiste una tecnica dell’intervista. Ogni intervista mira a cose differenti. Si va dal reggimicrofono televisivo che recepisce la dichiarazione dell’onorevole, in cui chiaramente l’intervistato non sta parlando all’intervistatore ma svolge un atto oratorio di massa verso i telespettatori, all’intervista fortemente dialogica, allo scambio interpersonale, al piccolo gruppo di autocoscienza: sono tutte forme legittime, dipendono solo da che cosa si sta cercando di fare, e della necessità di contemperare esigenze differenti. Così, se è bene non mandare sul campo una persona che non sappia niente, è pure bene non mandare una che sappia troppo, perché se l’intervistatore si rende conto che tu sai già le risposte alle domande che gli fai, si rende conto che lo stai, se non prendendo in giro, sicuramente mettendo alla prova; l’intervista sfuma in un interrogatorio o un’interrogazione. Cioè, non sei nella situazione in cui stai imparando dall’intervistato qualcosa che non sai, ma in cui lo stai osservando e, almeno potenzialmente giudicando. Questa è una distinzione che mi è stata resa molto chiara in Kentucky. Quando ho cominciato a intervistare i minatori in Appalachia, mi sono sentito dire: non andarci, lì ai sociologi gli sparano. Era un’esagerazione – una volta è stato, effettivamente, ucciso un intervistatore televisivo che non rispettava le buone maniere. Comunque è vero che non amano essere "studiati". Ricordo di avere chiesto a una amica, una poetessa che lavora in miera, come mai la gente era così gentile e disponibile con me, lei rispose: perché si vede benissimo che tu di queste cose non ne sai molto, e perciò le persone sono liete di aiutarti. Cioè: ne so abbastanza da capire e contestualizzare quello che mi dicono; ho abbastanza umiltà e pazienza da accettare di non capire subito (la mia personale pratica, che peraltro non propongo affatto come norma da imitare, è di fare prima le interviste e poi guardare eventuali archivi; questo perché quello che a me interessa è l’intervista, e l’incrocio con altre fonti diventa un modo non tanto per verificarla quanto per interpretarla, dando alle fonti scritte la funzione "ancillare" di cui parlava Ragionieri per le fonti orali nella sua storia di Sesto Fiorentino). In ultima analisi, l’idea è che uno non può fare un serio lavoro di intervista se non è animato da un vero desiderio di conoscenza, e non puoi avere un serio desiderio di conoscenza se parti dall’idea che sai tutto in anticipo. Poi c’è un problema, se non di potere, almeno di status. Quando facemmo una ricerca di storia orale sugli studenti della mia facoltà durante l’occupazione della Pantera, mi accorsi che gli studenti intervistati parlavano spesso più liberamente quando li intervistavo io che non quando lo facevano i loro pari, studenti anch’essi. Ci accorgemmo che il problema era che gli sembrava illogico che i loro pari gli chiedessero che cosa era successo durante l’occupazione, quando c’erano anche loro e avrebbero dovuto saperlo; secondo, più implicito ma percepibile: chi ti dà il diritto di farmi delle domande, di metterti nel ruolo dell’intervistatore? Non c’era fra loro abbastanza differenza, di ruolo e di esperienze; in molte interviste, gli intervistati coglievano l’occasione di quel momento in cui tu dichiari una utopia di differenza, per dirmi veramente le cose che pensavano che, come professore, 14 non potevo sapere e per spiegarmi quelle che non potevo capire. Ovviamente, questo era possibile perché il momento di utopia dell’intervista avveniva dentro un altro momento di utopia, l’occupazione. Si tratta dunque di cercare la soglia in cui la tua conoscenza generale non rende superflue le conoscenze specifiche che ti vengono trasmesse dall’intervistato. L’altra tecnica elementare credo che siano le buone maniere: ricordarsi sempre che siamo nello spazio e nel tempo degli altri. L’intervistatore ucciso in Kentucky è morto perché era entrato in casa di una persona senza chiedere il permesso – e senza rendersene conto, perché va una definizione culturalmente diversa di che cosa è "casa": lui è entrato nel prato davanti alla casa, che per noi urbani è un terreno di mediazione fra privato e pubblico, ma che lì è già fortemente privato. Bisogna dunque tenere presente che siamo in casa loro, stiamo usando il loro tempo, recependo le loro informazioni – e soprattutto che le buone maniere continuano anche dopo, nel modo in cui li rappresenti. Per esempio: io ho intervistato dei fascisti, ho fatto un libro antifascista, ma mi sono sentito tenuto a farlo in maniera che i fascisti intervistati non si sentissero insultati. Perché mi avevano, comunque, fatto un favore. Per questo, per un certo periodo io mandavo le trascrizioni. Ora, come sappiamo benissimo dall’aver visto le nostre, le trascrizioni fanno rizzare i capelli alla persona trascritta: ma veramente parlo così? E gli fa venire la voglia di rivederle, correggerle – infine, rovinarle. Allora recentemente ho sviluppato un’altra strategia, insieme più corretta e più strumentale: gli mando la cassetta. Da un lato, la cassetta è meglio, è una cosa che possono tramandare ai nipoti, una traccia della voce e quindi della persona. Dall’altro, è di meno, perché sulla cassetta le persone nono sono portate a intervenire, sia perché ascoltandosi si trovano più naturali e plausibili, sia perché non necessariamente la riascoltano in modo critico. Infine, se pubblico, mando prima l’estratto di quello che pubblico; e in questo caso, accetto (magari negoziandole) le proposte di modifica. Spesso le richieste di modifica derivano da esigenze imprevedibili: come la donna ebrea romana che, parlando della rapina dell’oro del ghetto da parte dei nazisti, commentava "’sti zozzi trucidi" – una bellissima espressione romana, che lei mi ha chiesto di togliere perché suo figlio fa l’ingegnere e se si fosse saputo che sua madre parla così avrebbe perso di status. Io non sono d’accordo col figlio, ma è nel suo diritto. Quindi abbiamo fatto un lungo negoziato per trovare i termini accettabili a tutti e due. Parlo di negoziato perché infine quello che succede è che si incontrano due persone con due agende, che si incontrano ma non necessariamente coincidono del tutto. Gran parte della ricchezza di questo lavoro sta nel fatto che l’agenda della persona che racconta ti rivela cose che tu non ti aspetti, perché le cose che devi sapere non sono necessariamente quelle che vai chiedendo, e perché tante volte la persona che ti parla non sa che certe cose sono storia, perché hanno un’idea di storia ancora molto tradizionale. Allora, un esempio. Dicevo prima che molte delle cose interessanti cominciano quando l’intervista è finita, cioè quando si chiude la fase formale della narrazione "storica>" e si comincia a parlare del più e del meno. Io tendo a tenere il registratore acceso, e grazie a questo ho ascoltato uno dei racconti più dolorosi e illuminanti di tutta la ricerca sulle Fosse Ardeatine. E’ stato quando Adas Pignotti, la grande narratrice che fa da filo conduttore al libro, che racconta da tutta la vita, finisce il racconto che si è costruita nel corso degli anni; io finisco le domande che avevo in mente; e si parla in modo informale. Lei mi racconta delle difficoltà che ha con la piccola pensione che riceve, ricorda quanta fatica ha fatto per 15 averla, cose che mi interessano piuttosto poco, finché commenta: e poi, dovunque andavi, negli uffici, nei posti dove lavoravi, pensavano sempre che dovevi stare "a disposizione loro." Le chiedo – in che senso? E lei: nel senso che pensa lei. E si spalanca l’esperienza di queste donne, vedove giovani delle Ardeatine, che oltre ad avere avuto i mariti uccisi in quel modo, si trovano a scontrarsi anche con una cosa che non aveva nemmeno un nome – oggi la chiamiamo molestie sessuali – e che non hanno mai pensato che fosse "storia". Perché era difficile parlarne, era una cosa privata, e poi perché la storia finisce col massacro – e invece l’intervista è importante anche perché tende sempre ad allargare i termini del discorso, comincia sempre prima e finisce sempre dopo. Fonte: http://libur.tripod.com/Portelli2.htm Alessandro Portelli Chi sono Sono nato a Roma nel 1942. Di mestiere, insegno letteratura americana alla Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università la Sapienza. Ho svolto l’incarico di Consigliere delegato del Sindaco di Roma per la tutela e la valorizzazione delle memoria storiche della città; ho fondato e presiedo il Circolo Gianni Bosio per la conoscenza critica e la presenza alternativa delle culture popolari; faccio parte del consiglio direttivo dell’IRSIFAR (Istituto Romano per la Storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza) e ho la tessera dell’ANPI. Collaboro al manifesto fin dal 1972, e ho scritto spesso anche su Liberazione e l’Unità. Ho studiato, insegnato e diffuso la cultura dell’America a cui vogliamo bene – quella di Woody Guthrie, Pete Seeger, Bob Dylan, Bruce Springsteen, di Malcolm X; Martin Luther King, Cindy Sheehan; Mark Twain, Don DeLillo, Spike Lee, Woody Allen. Ho raccolto le canzoni popolari e politiche e la memoria storica orale di Roma e del Lazio, collaborando con il Canzoniere del Lazio, Giovanna Marini, Sara Modigliani, Piero Brega, Ascanio Celestini. Ho conosciuto i partigiani e le partigiane di Roma e i familiari degli uccisi delle Fosse Ardeatine, e dai loro racconti ho messo insieme la loro storia. Ho ascoltato i racconti delle borgate e dei quartieri popolari, dalle occupazioni delle case degli anni ’70 alla storia orale di Centocelle. Ho cercato di non limitarmi a studiare e a scrivere, ma anche di organizzare cultura: mettere in piedi strutture (dal Circolo Bosio alla Casa della Memoria); fondare e far vivere riviste; condividere con gli altri, attraverso dischi e libri, quello che ho imparato; coinvolgere persone più giovani e aprirgli spazi; organizzare eventi, concerti, incontri. Ho accompagnato gli studenti romani ad Auschwitz, ho girato decine di scuole per parlare della memoria, della democrazia, dell’antifascismo. E ho voglia di continuare a farlo. Le mie passioni sono l’uguaglianza, la libertà, l’insegnamento, la musica popolare, la memoria, ascoltare i racconti delle persone, i libri e i film, e il rock and roll. ALCUNI LIBRI DELL’AUTORE Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo di Portelli Alessandro - Donzelli – 2007 L' ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria. Con CD Audio di Portelli Alessandro - Donzelli - 2005 16