Argomento: Esclusione e solitudine negli uomini “diversi”

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Argomento: Esclusione e solitudine negli uomini “diversi”
AMBITO ARTISTICO – LETTERARIO
Argomento: Esclusione e solitudine negli
uomini “diversi”
Mi trovai una volta a Parigi nello stesso albergo in cui abitava un ambasciatore di Tunisi, che dopo alcuni anni trascorsi
a Londra tornava a casa passando per la Francia. Un giorno osservavo Sua eccellenza moresca che si divertiva a
contemplare dall'atrio gli splendidi equipaggi di passaggio, quando capitarono per caso alcuni frati cappuccini che non
avevano mai visto un turco; così come lui, dal canto suo, sebbene abituato ai vestiti europei, non aveva mai veduta la
figura grottesca di un cappuccino. La meraviglia che si ispirarono a vicenda è indescrivibile [...]. Così tutti gli uomini si
osservano tra loro con sorpresa, e non è possibile ficcar loro in capo che il turbante dell'africano è un'acconciatura non
migliore né peggiore del cappuccio dell'europeo.
David Hume, Riguardo al dubbio e alla convinzione in Storia naturale della religione (1749-51)
E’ giusto dedurre dalla somma di questi fatti che il genio è sempre una neurosi, una pazzia? Ecco dove comincia
l'errore; - vi sono momenti, è vero, comuni nella tempestosa, e passionata carriera degli uni e degli altri; comune è in
essi l'esaltamento, intermittente, della sensibilità, e il suo consecutivo esaurimento; vi sono individui di genio, che sono
o diventano pazzi; vi furono pazzi che diedero lampi di genio; ma il volere dedurne, che tutti i genî debbano essere
pazzi, è uno storpiare, per troppa fretta, i giudizî, rifacendo l'errore dei selvaggi, che adorano, come esseri inspirati da
Dio, tutti gli alienati. […] Se il genio è sempre un'alienazione, come spiegherete voi che Galileo, Keplero, Colombo,
Voltaire, Napoleone, Michelangelo, uomini che, oltre il genio, ebbero a sopportare grandi e troppo reali sventure, non
dessero il più lieve segno d'alienazione?
Che se noi vediamo parecchi matti far mostra di grande intelligenza - noi, poi, li vediamo, anche più spesso, incapaci di
seria applicazione e di stabilità di carattere, d'attenzione, di memoria, che sono le doti essenziali onde si feconda
l'ingegno. - Dessi vivono isolati, insocievoli, indifferenti, insofferenti della vista degli altri, quasi respirassero una loro,
tutta propria, e speciale atmosfera.
C. Lombroso, Genio e follia (1864)
[…] Là [a Parigi] vidi, una mattina, […] un cigno ch'era fuggito dalla gabbia e che, sfregando coi piedi palmati il
selciato asciutto, strascicava le sue bianche penne sul suolo scabro. Presso un rigagnolo senz'acqua l'animale, aprendo il
becco, tuffava nervosamente le ali nella polvere, e diceva, gonfio il cuore del suo bel lago natio: "Acqua, quando
pioverai? quando tuonerai, fulmine?" Vedo quell'infelice volgere al cielo ironico e crudelmente azzurro, il capo avido
sul collo convulso, come se rivolgesse dei rimproveri a Dio!
Parigi cambia, ma nulla della mia malinconia s'è mosso! palazzi nuovi, impalcature, massi, vecchi sobborghi, tutto
diventa per me allegoria, e i miei cari ricordi son più grevi delle rocce.
Così davanti a questo Louvre m'opprime un'immagine: penso al mio grande cigno coi suoi gesti folli, da esiliato,
ridicolo e sublime, e roso da un desiderio senza tregua! e poi a voi,
Andromaca, caduta dalle braccia d'un grande sposo, vile bestia, sotto la mano del superbo Pirro, china in estasi presso
una tomba vuota; vedova d'Ettore, ahimè! e moglie di Elèno!
Penso alla negra, smagrita e tisica, che scalpiccia nel fango e cerca, con occhio torvo, le assenti palme da cocco
dell'Africa superba dietro l'immensa muraglia della nebbia;
a chiunque ha perduto ciò che non si ritrova mai! mai! a coloro che s'abbeverano di lacrime e poppano al Dolore come a
una buona lupa! ai magri orfanelli che rinsecchiscono come i fiori!
Così nella foresta dove s'esilia il mio spirito un vecchio Ricordo suona a tutto fiato il corno! Penso ai marinai
dimenticati in isola, ai prigionieri, ai vinti! ...e a molti altri ancora!
C. Baudelaire, Il cigno da I fiori del male (1857)
[…] Un po’ di veleno qui, un po’ di veleno là; ciò dona dei sogni gradevoli. E molto veleno infine per morire
piacevolmente.
Si lavora ancora poiché il lavoro è uno svago. Ma si ha cura che lo svago non affatichi troppo.
Non si diventa più né poveri né ricchi, sono delle cose troppo penose.
Chi vuole ancora regnare? Chi ancora ubbidire? Entrambe queste cose sono troppo penose.
Nessun pastore e un solo gregge! Tutti vogliono la stessa cosa, tutti sono uguali: chi sente altrimenti va da sé al
manicomio.
"Una volta erano tutti pazzi" dicono i più astuti, e strizzano l'occhio.
Ora la gente ha gli occhi aperti, e sa bene tutto ciò che accade: se non ne ha di motivi da ridere! Ci si bisticcia ancora,
ma subito ci si riconcilia, altrimenti ci si rovina lo stomaco.
Ci sono piccoli piaceri per il giorno e piccoli piaceri per la notte: ma sempre badando alla salute.
"Noi abbiamo inventato la felicità" - dicono gli ultimi uomini, e strizzano l'occhio.
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1883-85)
“…Adesso, io mi do ai bagordi il più possibile. Perché? Io voglio essere poeta, e lavoro per rendermi veggente: Lei
non comprenderà affatto, e io non sarei quasi in grado di spiegare. Si tratta di pervenire all’ignoto attraverso lo
sregolamento di tutti i sensi. Enormi sono le sofferenze, ma bisogna essere forte, essere nato poeta, ed io mi sono
riconosciuto poeta. Io non ne ho per niente colpa. È falso dire:Io penso. Si dovrebbe dire: Mi si pensa. Perdoni il gioco
di parole.
IO è un altro. Tanto peggio per il legno che si rinviene violino, e alla malora gli incoscienti, che fanno i sofisti su ciò
che ignorano completamente!
Lei non è più insegnante per me. Io Le dono questo: della satira, come direbbe Lei? Della poesia? È la fantasia,
sempre. – Ma, La scongiuro, non sottolinei né con la matita, né troppo con il pensiero…”
A. Rimbaud da una lettera al suo insegnante di letteratura francese (1871).
E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento . . .
È l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
G. Pascoli, Il gelsomino notturno da Canti di
Castelvecchio (1903-1912)
[…]
Il treno? Che treno?
- Ha fischiato.
Ma che diavolo dici?
Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare...
Il treno?
Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo,
signor Cavaliere!
Gli altri impiegati, alle grida del capo ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù
risate da pazzi.
Allora il capo ufficio che quella sera doveva essere il malumore urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e
aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.
Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s'era ribellata, aveva inveito, gridando
sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch'egli aveva sentito fischiare il
treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.
Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti.
Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. […] E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di
solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d'un bambino o d'un uomo felice; e frasi
senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più
stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno
che finora non s'era mai occupato d'altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita:
macchinetta di computisteria.
[…] io accolsi in silenzio la notizia. E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca
contratti in giù, amaramente, e dissi: Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa
dev'essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest'uomo ha
vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò veduto e avrò parlato
con lui.
[…] A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita "impossibile", la cosa più ovvia, I'incidente più
comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti
straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è "impossibile".
Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora
semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se
stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev'essere, appartenendo a
quel mostro. Una coda naturalissima. ''
L. Pirandello, Il treno ha fischiato (1914)
La più alta risposta ideologica di un omosessuale al pogrom strisciante e feroce dei cosiddetti "normali" è il suicidio di
chi si è tolto la vita perché aveva capito che era intollerabile, per un uomo, essere tollerato.
P.P. Pasolini dalla recensione del libro di M. Daniel e A. Baudry, Gli omosessuali (1974)
La solitudine: bisogna essere molto forti
per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori del comune; non si deve rischiare
raffreddore, influenza o mal di gola; non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c'è;
specie d'inverno; col vento che tira sull'erba bagnata,
e coi pietroni tra l'immondizia umidi e fangosi;
non c'è proprio nessun conforto, su ciò non c'è dubbio,
oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte
senza doveri o limiti di qualsiasi genere.
P.P.Pasolini, Versi da testamento in Trasumanar e organizzar (1971)
E' difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l'unico modo per sentire la vita,
l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
P.P. Pasolini, Supplica a mia madre in Poesia in forma di rosa (1964)
Butterò questo mio / enorme cuore / tra le stelle un giorno / giuro che lo farò / e oltre l'azzurro della tenda / nell'azzurro
/ io volerò / quando la donna cannone / d'oro e d'argento diventerà / senza passare per la stazione / l'ultimo treno
prenderà / in faccia ai maligni / e ai superbi / il mio nome scintillerà / dalle porte della notte / il giorno si bloccherà /
un applauso del pubblico pagante / lo sottolineerà / dalla bocca del cannone / una canzone esploderà / e con le mani
amore / per le mani ti prenderà / e senza dire parole / nel mio cuore ti porterò / e non avrò paura / se non sarò bella come
dici tu / e voleremo in cielo / in carne ed ossa / non torneremo più / e senza fame e senza sete / e senza ali e senza rete /
voleremo via / così la donna cannone / quell'enorme mistero volò / tutta sola verso un cielo nero / nero s'incamminò /
tutti chiusero gli occhi / l'attimo esatto in cui sparì / altri giurarono spergiurarono / che non erano mai stati li / e con le
mani amore / per le mani ti prenderò / e senza dire parole / nel mio cuore ti porterò / e non avrò paura / se non sarò bella
come vuoi tu / e voleremo in cielo / in carne ed ossa / non torneremo più / e senza fame e senza sete / e senza ali e senza
rete / voleremo via
Francesco De Gregori, La donna cannone (1983)