Amore e Psiche - Centrum Latinitatis Europae

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Amore e Psiche - Centrum Latinitatis Europae
Lucia Mattera
AMORE E PSICHE:
ECHI E RIFLESSI DI UN MITO
Una rilettura critica dell’antica favola di Amore e Psiche, contenuta, come è noto, nei libri IV, V e VI delle “Metamorfosi”
di Apuleio, consente di fissare quei nodi mitologici forti alla base di ogni produzione immaginifica, rapportabili a singoli
contesti o a più specifiche visioni di vita: la conoscenza e l’inconoscibilità, il divieto e la sua infrazione, il raggiungimento
del piacere come equilibrio ed armonia, la certezza di vita e l’anelito all’immortalità. Dietro il velame allegorico e il
fascino di una favola intessuta di classici stilemi, si scorge, infatti, l’influenza di credenze e tradizioni, di miti che si
incontrano in plurivoche interpretazioni. La linearità della favola, speculare nel suo impianto narrativo alla vicenda
principale di Lucio e alla sua trasformazione, si arricchisce così di echi e suggestioni -mitiche, religiose o anche letterariesi apre a sensi teosofici e a premesse filosofiche, su cui si innestano, a loro volta, le più recenti rappresentazioni.
L’identità di Psiche, il topos del palazzo incantato, il lungo e difficile percorso di sofferenze e di prove sono solo alcuni tra
i motivi passibili per un confronto tra opere di culture diverse e di più generazioni. Un confronto che prende le mosse da
un racconto intitolato “Bocciolo d’oro”, segnalato da Vermondo Brugnatelli 1 e ancora diffuso nella area africana
maghrebina-nordguineana2. Protagonista la giovane Tiziri (propriamente “Chiaror di luna”), ceduta a una creatura
misteriosa3 dal padre taglialegna in cambio di viveri e legname che solo il bosco poteva assicurare. Come la Psiche
apuleiana, sia pure con varianti evidenti, Tiziri si ritrova all’improvviso in un palazzo misterioso, portata in volo da un
uccello che si trasformerà a sua volta in una sorta di bocciolo d’oro 4. Gemme, ori, mense riccamente imbandite
allieteranno da allora l’ignara e innocente fanciulla, legata per sempre a uno sposo misterioso che le dona amore ma le
nasconde la propria identità.5 Similmente, ancora, a Psiche , Tiziri si lascia sopraffare, tuttavia, dalla curiositas o forse
dall’amore e, istigata dalla madre preoccupata o gelosa, viola il patto stipulato con lo sposo. Il lume della fiaccola, accesa
quella notte, desta all’improvviso lo sposo assopito. Questi, deluso dall’amata, l’abbandona disperata, in un diluvio di
pioggia, fulmini e tuoni. Ha inizio, così per Tiziri, un triste peregrinare tra alberi, sorgenti, animali che si dimostrano
anch’essi ostili, fino ad imbattersi, bussando alla sua casa, nell’orchessa Tseriel, che altri non è (come la Venere latina)
che la madre possessiva del rimpianto marito. Tseriel le imporrà tre terribili prove 6, che la fanciulla supererà
puntualmente grazie all’aiuto dello stesso “Bocciolo d’oro”. Tseriel si accorgerà dell’inganno, ma quando si avventa su di
lei, intenzionata a divorarla, è “Bocciolo d’oro”, sotto forma anche stavolta di uccello, a sollevarla in volo per ricondurla
al loro nido d’amore. E dal bocciolo dorato venne fuori un giovane bello come il sole. Evidenti, dunque, dalla breve
sintesi, le analogie ma anche le differenze della fiaba con il racconto apuleiano; sorprende, ad esempio, la stretta
somiglianza della prima delle prove imposte dall’arcigna genitrice, il disporrre, cioè, in mucchi differenti chicchi
infinitesimi di vari cereali (unica variante la sostituzione del miglio con le fave, nella versione africana). Comune alle due
fiabe, nel ruolo di aiutanti, l’intervento di piccoli animali (le formiche, in ambedue i racconti, gli uccelli nella fiaba
africana), in un processo consueto di personificazione che si spinge in Apuleio anche alle piante e a realtà inanimate (la
canna, ad esempio, e la torre negli Inferi), in grado di concorrere a una finale risoluzione. Ben diverse, tuttavia, le origini
di Psiche e di Taziri, di stirpe regale la prima -l’assenza di riferimenti spaziali e temporali risponde, ovviamente, ai
dettami stilistici della fiaba7- figlia la seconda di un modesto taglialegna, che non esita, per inedia e disperazione, a
rinunciare per sempre alla più bella delle sue figliole. Ulteriore differenza tra i racconti è nel ruolo di cattiva consigliera
che, nella favola africana, è ricoperto, come detto, dalla madre di Tiziri, gelosa o forse preoccupata dello “sposo
misterioso”, laddove in Apuleio, come è noto, sono piuttosto le sorelle invidiose a indurre Psiche a violare il suo segreto 8.
E se l’autore della favola africana tralascia di narrare le vicende di sorelle e cugini di Tiziri, a cui si accenna nello scorcio
introduttivo, i parenti della Psiche apuleiana compaiono in più punti della storia in un più organico tessuto narrativo.
Ripreso da Apuleio, sia pur marginalmente, il motivo della compartecipazione di elementi naturali alle alterne vicende
dei due giovani innamorati: fidi alleati, nel concorrere a un lontano lieto fine, presenze ostili con severe funzioni
ammonitrici. L’amore spezzato si riflette così in emblemi di imperfezione naturale (tra le due sorgenti, ad esempio, una è
inaridita; dei due frassini, uno soltanto è ricoperto di gemme; delle due greggi e mandrie di giumenti, una soltanto offre la
1
V. Brugnatelli, “Fiabe del Nordafrica.La fiaba nordafricana come elemento di conoscenza della società e come veicolo di lingue e
culture”, Appunti sulla parte monografica del corso di Dialettologia Berbera 2005-2006, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” in
Wikipedia, alla voce “Amore e Psiche”.
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Una variante del topos, riscontrabile in una fiaba popolare africana, prevede che sia l’uomo a sostenere prove insidiose per rendersi
degno di una donna e dimostrare la sincerità del proprio amore. Così quando la giovane principessa finge di esser morta per saggiare la
lana ed il latte), nel negare ogni solidarietà all’infuori di un difficile percorso di consapevolezza ed espiazione. Ecco allora
il pastore che non può e non vuol concedere a Tiziri rifugio e protezione, e così ancora, in Apuleio, Pan e la dea Hera 9,
che neppure si accontenta della ligia devozione della donna, dovendo dare conto dei suoi atti alla più forte divinità
dell’amore. Quanto alla identità di Cupido-Bocciolo d’oro, la presenza delle ali leggere, che lo rendono accostabile a un
uccello o alla corolla di un fiore, ne sancisce la natura divina o sovrannaturale, umanizzata a sua volta da un amore –sulle
prime- terreno e passionale. Un amore che si appaga di se stesso, nella favola africana, e che ancora si arricchisce in
Apuleio del dolce dono della maternità10.
fedeltà dei suoi ammiratori, il solo pretendente che non rivendica i suoi doni, che chiede solo di deporre nella tomba vesti e ornamenti
perché l’amata sia bella anche da morta, commuoverà il cuore della donna e celebrerà con lei le agognate nozze.
3
Nel racconto africano il padre della fanciulla, intento, come sempre a tagliare della legna da vendere al mercato, avverte un giorno, nel
bosco, un vento improvviso; una strana pioggia inizia quindi a cadere., e poco tempo dopo, una voce incollerita , gli intima di
allontanarsi. L’uomo, disperato, risponde di dover mantenere, tagliando gli alberi, la moglie e le sette figlie, e così la voce gli offre in
dono un piatto magico che si riempie di cibo ad ogni pasto. Ma la cognata, invidiosa, lo fece e pezzi e il taglialegna fu costretto a tornare
nel bosco come prima. La voce, impietosita, gli donerà ancora una macina, ma anche questa finirà nelle mani della sorella della moglie
che non esiterà a farla a pezzi. A questo punto, la voce rivendica, per sfamare il contadino “con un raggio di sole”, la più giovane delle
sue figlie e il taglialegna, suo malgrado, la cederà l’indomani.
4
<<Quando venne la sera, il padre disse a Chiaror-di-luna: “Figlia mia cara, potresti andare a cercare un po’ della legna depositata in
cortile?” Essa aprì la porta e uscì, senza sospettare nulla. Un uccello di fiaba si abbatté su di lei e la portò via tra cielo e terra, senza che
essa avesse il tempo di gridare “O mamma cara, mamma mia!”>>.
5
Il τόπος del divieto come ineludibile condizione alla stabilità matrimoniale si incontra in diverse leggende di varie epoche e nazioni ,
dalla favola indiana di Urvaci e Pururava, dove la sposo non deve veder nudo il proprio consorte, a quella celtica di Melusine, la donna
serpente che scompare quando l’uomo una notte ne osserva le anomale e segrete sembianze. Temi simili anche nella fiaba cinese del
bifolco e della tessitrice, che per troppo amore trascurano le loro mansioni sicché vengono obbligati a vivere separati dal Fiume
d’argento, e infine in quella giapponese di Toyotamabine, figlia del dio del mare. La donna aveva pregato lo sposo Ho-wori di non
guardarla al momento del parto, ma Ho-wori, vinto dalla curiosità, ne scorge la natura di mostro marino, per cui Toyotambine si ritrasse
per sempre nelle onde dell’Oceano (cfr. Encicl. Ital. Treccani, v. III, p. 32, alla voce Amore e Psiche).
La prima prova imposta dall’orchessa consiste nel ripulire il pavimento da ogni granello di polvere. Con l’utilizzo dell’acqua sotto una
stuoia la fanciulla riuscirà nel suo intento; la seconda, simile a quella narrata in Apuleio, consiste nel dividere diversi cereali in mucchi
ben distinti; anche in questo caso”schiere” di formiche l’aiuto necessari. L’orchessa impone allora a Tiziri di spiumare cuscini e poi
ancora di riempirli di piume: uccelli, chiamati da Bocciolo d’oro, compiranno per l’amata le ingrate fatiche. Infine, Tseriel minaccerà di
dare in pasto Tiziri alle sue ingorde figlie, ma sarà Bocciolo d’oro a salvarla, dando loro, che son cieche, dei cosciotti di agnello.
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Apul., Met: IV l., 28, 1:<<Erant
in quadam ciuitate rex et regina…>>.
8
Apul., Met., Vl.,15-18.:<< "Quid, soror, dicimus de tam monstruoso fatuae illius mendacio? (2) Tunc adolescens modo florenti lanugine
barbam instruens, nunc aetate media candenti canitie lucidus. Quis ille quem temporis modici spatium repentina senecta reformauit? (3) Nil
aliud repperies, mi soror, quam uel mendacia istam pessimam feminam confingere uel formam mariti sui nescire; quorum utrum uerum est,
opibus istis quam primum exterminanda est. (4) Quodsi uiri sui faciem ignorat, deo profecto denupsit et deum nobis praegnatione ista gerit.
Certe si diuini puelli quod absit - haec mater audierit, statim me laqueo nexili suspendam. (6) Ergo interim ad parentes nostros redeamus et
exordio sermonis huius quam concolores fallacias adtexamus."(1) Sic inflammatae, parentibus fastidienter appellatis et nocte turbata uigiliis,
percitae matutino scopulum peruolant et inde solito uenti praesidio uehementer deuolant lacrimisque pressura palpebrarum coactis hoc astu
puellam appellant: (2) "Tu quidem felix et ipsa tanti mali ignorantia beata sedes incuriosa periculi tui, nos autem, quae peruigili cura rebus tuis
excubamus, cladibus tuis misere cruciamur. (3) Pro uero namque comperimus nec te, sociae scilicet doloris casusque tui, celare possumus
immanem colubrum multinodis uoluminibus serpentem, ueneno noxio colla sanguinantem hiantemque ingluuie profunda, tecum noctibus latenter
adquiescere. (4) Nunc recordare sortis Pythicae, quae te trucis bestiae nuptiis destinatam esse clamauit. Et multi coloni quique circumsecus
uenantur et accolae plurimi uiderunt eum uespera redeuntem e pastu proximique fluminis uadis innatantem. Nec diu blandis alimoniarum
obsequiis te saginaturum omnes adfirmant, sed cum primum praegnationem tuam plenus maturauerit uterus, opimiore fructu praeditam
deuoraturum. (2) Ad haec iam tua est existimatio, utrum sororibus pro tua cara salute sollicitis adsentiri uelis et declinata morte nobiscum
secura periculi uiuere an saeuissimae bestiae sepeliri uisceribus. (3) Quodsi te ruris huius uocalis solitudo uel clandestinae ueneris faetidi
periculosique concubitus et uenenati serpentis amplexus delectant, certe piae sorores nostrum fecerimus.">>.
9
Cfr. Met.,VI, 30-31:<< Tunc genu nixa et manibus aram tepentem amplexa detersis ante lacrimis sic adprecatur: IV (1) "Magni Iouis germana
et coniuga, siue tu Sami, quae sola partu uagituque et alimonia tua gloriatur, tenes uetusta delubra, siue celsae Carthaginis, quae te uirginem
uectura leonis caelo commeantem percolit, beatas sedes frequentas, (2) seu prope ripas Inachi, qui te iam nuptam Tonantis et reginam deorum
memorat, inclitis Argiuorum praesides moenibus, (3) quam cunctus oriens Zygiam ueneratur et omnis occidens Lucinam appellat, sis meis
extremis casibus Iuno Sospita meque in tantis exanclatis laboribus defessam imminentis periculi metu libera. Quod sciam, soles praegnatibus
periclitantibus ultro subuenire." (4) Ad istum modum supplicanti statim sese Iuno cum totius sui numinis augusta dignitate praesentat et protinus:
"Quam uellem" inquit "per fidem nutum meum precibus tuis accommodare. (5) Sed contra uoluntatem Veneris nurus meae, quam filiae semper
dilexi loco, praestare me pudor non sinit. Tunc etiam legibus quae seruos alienos perfugas inuitis dominis uetant suscipi prohibeor>>.
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Cfr. Met.,VI, 12: << Nuntio Psyche laeta florebat et divinae subolis solacio plaudebat et futuri pignoris gloria gestiebat et materni nominis
dignitate gaudebat. crescentes dies et menses exeuntes anxia numerat et sarcinae nesciae rudimento miratur de brevi punctulo tantum
incrementulum locupletis uteri>> e VI,24: <<Sic rite Psyche convenit in manum Cupidinis et nascitur illis maturo partu filia, quam
Voluptatem nominamus>>.Un quadro sintetico dei motivi apuleiani che trovano corrispondenza in racconti africani è nel citato saggio di
Brugnatelli alle note 11-16: il ricorso al consiglio di un oracolo, un’alta montagna come luogo particolarmente legato al sacro, voci
misteriose e ancelle incorporee, il rifiuto del cibo (la formula di rito in Cabilia è wer itess wer itett , ossia “non beveva più, non mangiava
più”); il fiele dell’invidia (la sostanza amara che simboleggia questo sentimento sarebbe oggi piuttosto ilili “l’oleandro”; l’invidia, tusmin,
è peraltro piuttosto frequente nelle fiabe); colloquio con la persona amata che parla dall’albero come un uccello; il fiume che si mostra
gentile verso l’eroina della fiaba; il corpo che precipita per punizione, si smembra e non arriva neppure a terra (come accade alle sorelle
di Psiche); il grande ruolo svolto dagli uccelli (per esempio, il gabbiano che funge da uccello messaggero, i molti altri uccelli che
costituiscono la scorta di Venere si potrebbero accostare alla “Sublime Assemblea”di antiche poesie cabile; i rapporti spesso problematici
tra moglie e marito o tra suocera e nuora (i discorsi dellle sorelle di Psiche circa i loro matrimoni sembrrano uscite pari pari da un
moderno izli cabilo, dove le donne danno libero sfogo ai loro sentimenti, al di fuori dei limiti rigorosi imposti dalla società, attinente, al
La graduale evoluzione del sentimento che accomuna, in Apuleio, Psiche e il suo invisibile sposo doveva prestarsi alle
molteplici interpretazioni maturate soprattutto in ambiente neoplatonico 11. La stessa idea aristotelica dell'anima
come “facoltà” di crescere, di nutrirsi, di muoversi e di sentire giustificava l’identificazione di Psiche,
riscattata dalle prove, con il “pensiero puro” (νοΰς, in greco) a contatto con gli aspetti "sensibili" dell'esistere,
laddove Cupido starebbe invece indicare il corpo, la fisicità assoluta, la quale gode della stessa dignità
dell'anima. Il principio della “emanazione” -centrale, come è noto, nella dottrina neoplatonica come in
Marsilio Ficino12- porta invece a interpretare le vicende di Psiche come il degrado dell'entità emanata nella
materialità che coincide, platonicamente, con l'assenza dell'Uno. Ma l'anima, che è immortale (per Plotino13,
infatti, “nulla muore o si rigenera dal momento che tutto è essere”), è riassorbita con l’ “estasi” nell'Uno di
cui fa parte per cui Psiche può salire finalmente con Cupido nell'Olimpo degli Dei. L’“estasi” plotinica
diviene così l’estasi dell'amante, il ritorno attraverso le ali e la visione della bellezza alla patria celeste, oltre
l’intervento di Venere, ovvero della libido, contro l’illusoria corruzione della materia, ovvero delle due
sorelle. E' possibile, altresì, ipotizzare che Ficino, in sintonia con il simbolismo tipico del Platonismo
rinascimentale, vedesse realizzata nel romanzo di Apuleio la doppia essenza della dea Venere: da una parte la
Venere celeste, esotericamente identificabile con Iside, la quale, riconducendo Lucio (il protagonista
dell’intero romanzo) alla “humanitas” (l'affabilità e l'appagamento di sé), innalza l'uomo dalla degradazione
alla salvezza spirituale; dall'altra la Venere materiale (la “libido”), che, invidiosa di Psiche e animata da
pensieri malvagi, è la causa dei patimenti umani. In ogni caso, l'estasi dell'amante è definita da Ficino come
“furor amatorius”, il più potente e sublime, perché chi ama cerca di riunirsi a Dio, creando un “circuitus
spiritualis”da Dio all'anima e da essa a Dio. Non è infine mancato chi ha colto nel racconto apuleiano impliciti
riferimenti a riti di iniziazione isiaca, ipotesi, quest’ultima, avvalorata dal ruolo rilevante della dea egizia
nella vicenda di Lucio imbestialito, nonché da particolari di stretta analogia, che fanno di Psiche una μύστης
umile e devota. L’iniziazione avviene, infatti, con le nozze, evento ambiguo di unione e morte; la segretezza
con i parenti più prossimi era un obbligo per tutti i membri della comunità; il gettarsi nel fiume alluderebbe
al bagno di purificazione dai peccati e ancora le punizioni corporee erano previste per chi contravveniva ai
doveri preposti. Analogie sarebbero altresì riscontrabili tra lo Stige e il fiume Nilo, nelle figure di Ocno e delle
zitelle (presso i quali Psiche non può fermarsi), “esitanti”di fronte alla iniziazione, e perciò costretti a una
pena senza fine, e ancora il banchetto conclusivo, a coronare una mistica unione, consacrata rispettivamente
dalla fede e dall’amore.
riguardio, anche la realistica descrizione di Mouloud Feraoun nel cap. III di “La terre et le sang”, a proposito delle vedove). Tra gli altri
elementi caratteristici della società nordafricana :la festa nuziale (tameÌra); le lamentazioni funebri (agejdur); l’uso frequente di cereali
tipici del Nordafrica, quali grano e orzo; gli “alberi sacri” e le “credenze sui sogni”.
11
Fondata ad Alessandria d'Egitto da Ammonio Sacca nel II secolo d.C., tale corrente di pensiero, pur configurandosi come una forma
di sincretismo misterico-filosofico, evidenziò i suoi tratti principali nel tentativo di conciliare le idee di Platone con quelle di Aristotele.
L'esponente più illustre della scuola fu Plotino (III secolo d.C.).
12
Marsilio Ficino aveva senza dubbio letto l’ “Asino d’oro” di Apuleio, sia perché la favola era generalmente nota all' interno degli
ambienti colti del Rinascimento (vedi l'edizione del Beroaldo, che la pubblicò nel 1501 in "Commentarii a Philippo Beroaldo conditi in
Asinum aureum Lucii Apuleii"), sia perché il filosofo stesso, in qualità di consigliere del Botticelli, aveva suggerito di persona al pittore la
descrizione apuleiana di Venere (Met.X,31,32) per la composizione della celebre "Primavera”.
13
2.”Figurata ποίησις”: forme e colori di un mito
A partire dalle immagini pittoriche in alcuni degli affreschi pompeiani o da più rare attestazioni musive,
prima fra tutte quella custodita a Saragozza (fig.1), il mito degli amanti divini, ritratti come putti o come
giovani nel fiore dell’età, attraversa le stagioni artistiche e le temperie spirituali di più generazioni e di
diverse nazionalità. Singoli passi apuleiani si fissano su tele in efficaci rese cromatiche, nell’intensa
drammaticità di penombre o chiaroscuri, nella limpida luminosità di paesaggi indeterminati. La fedeltà al
dettato apuleiano può cedere a contesti culturali che ridisegnano tratti e costumi, in un gioco di rimandi
allusivi a figure o peculiari ideologie. Se nelle prime figurazioni è di prassi l’ambientazione ellenica del mito –
dalle sobrie contestualizzazioni dei primi dipinti agli scenari ibridi e spesso artificiosi di manieristiche
rappresentazioni- si insiste, nelle opere seguenti, nell’attualizzazione della vicenda o dei suoi singoli episodi
(in particolare, il disvelamento di Amore e il suo conseguente allontanamento), in un intreccio di simboli e
personali rielaborazioni. Riflesso evidente delle diverse interpretazioni del mito, in particolare di quella
neoplatonica, è negli affreschi realizzati a Mantova da Giulio Romano 14 nelle sale del Palazzo del Te. Se
qualcuno ha voluto, infatti, vedere, nel ciclo pittorico incentrato sul mito, l'ascesa dell' Anima dal mondo
terreno a quello spirituale, l’evoluzione da un amore bestiale ad una unione mistica e divina, altri, invece, vi
hanno soltanto riscontrato una esaltazione paganeggiante degli amori “illeciti e mondani”. Entrambe le
interpretazioni, del resto, potrebbero convivere nell’equilibrio polisemico del Manierismo, in una più
complessa e dialettica visione. In quest'ottica, la scena rappresentante il bagno di Marte e Venere
rientrerebbe nella serie degli amori “divini”, in contrapposizione a quelli “bestiali” celebrati nella scena
contigua, dove compare Mercurio ad impedire le nozze sacrileghe.
Indiscutibile, in ogni caso, la sostanziale fedeltà al racconto di Apuleio, sia pure adattato figurativamente
ai nuovi canoni estetico-espressivi. Così nella scena del disvelamento di amore, composizione, Psiche,
raffigurata come una fanciulla di giunoniche proporzioni, appare nell’atto di avvicinarsi al dormiente avendo
alle spalle una parete liscia: con la mano sinistra stringe una lucerna, con la destra brandisce un coltello.
14
Tra i principali collaboratori di Raffaello Sanzio, ne ereditò la bottega e le commissioni nel 1520 assieme al collega Giovan Francesco
Penni. I suoi primi progetti di architettura furono, entrambi a Roma, la Villa Lante sul Gianicolo per Baldassarre Turini da Pescia
(1518-1527) e il palazzo Stati-Maccarani (1521-1524). Fu chiesto a Mantova da Federico II Gonzaga a cui era stato indicato da
Baldassarre Castiglione, letterato e suo ambasciatore a Roma. Pur accettando l'invito, attese a Roma il completamento dei lavori che
Raffaello non aveva avuto modo di terminare, per reggiungere la città lombarda nel 1524. Si racconta che, al suo arrivo, il marchese
Federico II lo accolse calorosamente e, donatogli un cavallo, lo condusse fuori delle mura della città per recarsi in una località chiamata
Te ove erano delle stalle e dove in seguito Federico II chiese a Giulio Romano di realizzare una villa, il celebre Palazzo Te. Nel 1526 venne
nominato prefetto delle fabbriche dei Gonzaga (1526) e “superiore delle vie urbane”, che gli davano la qualifica di sovrintendere a tutte
le produzioni artistiche locali. Poté così iniziare un'ampia opera come pittore e architetto, improntata a un fasto decorativo e un'estrosità
sempre in bilico tra classicismo e manierismo
Il bagliore della lampada illumina, nell’oscurità, il volto di Amore coricato, il corpo di Psiche e una sezione
del soffitto a cassettoni, resa in forte prospettiva. La postura, con la gamba sinistra avanzata, tradisce la sua
incauta determinazione, ma l’espressione del volto è già di stupore, in contrapposizione al riposo sereno e
abbandonato di Amore. Il volto di Psiche ha caratteri pronunciati, enfatizzati dallo scorcio prospettico del
punto di vista ribassato; i suoi capelli sono sciolti e una ciocca scende lungo la spalla destra a sfiorare il seno.
La lucerna dalla quale emana la luce rivelatrice presenta un dettaglio di squisita fattura: sulla sommità di un
pomello possiamo scorgere i lineamenti di un viso che sembra guardare in direzione della fiamma che brucia.
La scena induce a riflettere sulla contrapposizione tra diritto di conoscenza e salvaguardia dell’invisibile e
indicibile. Malgrado si stia compiendo un atto sacrilego, ovvero la disobbedienza di Psiche ad Amore,
all’osservatore sembra richiesto di vivere il cammino di Psiche e di carpire, unitamente a lei, il segreto di
Amore per comprendere meglio il percorso dell’anima tra curiositas, pietas e speranza di redenzione.
Come in altri episodi, l’artista dilata i volumi, enfatizza i caratteri prospettici dell’ambiente in cui colloca
la scena, usa colori bruni e luci radenti che acuiscono gli effetti chiaroscurali delle superfici, dando rilievo e
luminosità ai singoli profili. La presenza di colori accesi e netti si limita a pochi elementi, ad esempio la rossa
faretra e le ali di Amore che virano dal rosso, al giallo, verde e azzurro. Toni rosati, biancore lunare
sembrano quasi avvolgere ambienti e figure in un vago scenario di fiaba.
Ancora, negli ultimi due decenni del Settecento, Felice Giani (San Sebastiano Curone, 15 dicembre 1758 –
Roma, 11 gennaio e Benigne Gagneraux (1756-1795) offrono una simile versione in una sala di Palazzo
Altieri. Per dipingere lo stesso mito in Palazzo Laderchi il primo era stato chiamato a Faenza, mentre già
anni prima, nel 1789, Andrea Appiani15aveva fornito la sua interpretazione negli affreschi della Villa Reale di
Monza. La raffigurazione da parte di tutti e tre gli artisti del momento nel quale Eros, sul punto di ferire
Psiche con la freccia, viene a sua volta folgorato dalla bellezza della fanciulla, offre l'opportunità di condurre
interessanti confronti stilistici. Nonostante l'aggiornamento classicista, appare chiara in Appiani l'ascendenza
naturalistica della tradizione lombarda, particolarmente nella realistica positura della dormiente, insieme
alla persistenza di una grazia rococò che fa camminare Eros in punta di piedi con eleganti avvitamenti. Non
immune dal “grazioso” è anche Gagneraux, certamente non dimentico dello styl grec del suo maestro Vien,
ma la concentrazione con cui restringe la composizione alle sole due figure, la caratterizzazione e la marcata
resa espressiva dei personaggi, ottenuta anche con il recupero degli esempi della statuaria antica, e ancora la
levigata brillantezza del colore ne denunciano tutta la modernità. Un'estrema sapienza compositiva emerge
infine dall'immagine inventata da Giani, il cui dinamismo è esaltato dalla disposizione del corpo di Eros lungo
la diagonale del quadro. Il rischio dello sbilanciamento che ne potrebbe derivare è corretto da un’altra
diagonale formata dall'ala sinistra e dal braccio di Eros che afferra la veste della fanciulla, mentre il centro è,
non a caso, occupato dalla punta della freccia. Si comprende davanti a tanta calibrata attenzione l’utilità delle
esercitazioni di composizione tenute nell’Accademia dei Pensieri, ma nello stesso tempo si avverte la spinta
verso l'accentuazione fantastica e la resa concitata, che obbligava l'artista a un serrato controllo sul proprio
processo creativo. Marcate differenziazioni emergono infine, nell’arco di più secoli, tra dipinti ed altre forme
di rappresentazione: se è Psiche talora a focalizzare l’attenzione dell’autore, è Eros, altrove, il protagonista
motore dell’azione (figg. 7-11, 14 e 15); da ingenua fanciulla, Psiche può assumere, talvolta, fattezze di più
morbida e matura femminilità (figg. 9-11), fin quasi a tramutarsi, in una edipica sovrapposizione, nella stessa
Venere, madre del dio e ispiratrice di ogni forma di amore (fig. 2). Rivisitazioni moderne, improntate talora a
modi pittorici antichi16 o a tipici stilemi compositivi, tendono ad un’attualizzazione del mito e a una insistita
umanizzazione degli amanti divini, in scenari classicheggianti policromi e decorativi (figg. 4, 12-14) o nella
morbida luminosità di fantasie preraffaellite (fig. 15). Il mito finirà in ultimo per assolutizzarsi in ritratti o
figure sfuggenti, immerse in suggestivi chiaroscuri (fig. 16) o in sfondi astratti di avvolgente dinamicità (fig.
17).
Andrea Appiani nasce a Milano nel 1754. Risale al 1777 la sua prima opera documentata, gli affreschi nella parrocchiale di Caglio.
Dal 1779 al 1782 si occupa di scenografia a Milano con i fratelli Bernardino e Ferdinando Galliari, e dal 1783 al 1784 è a Firenze per
frequentare la scuola di Domenico Chelli. Nel 1789 riceve dall'arciduca d'Austria Ferdinando la commissione di affrescare la Storia di
Amore e Psiche per la Rotonda delle Serre nella Villa Reale di Monza. Il 9 giugno 1796, dopo l'entrata dei francesi a Milano, il 15 maggio
1796, il "Corriere Milanese" descrive il suo ritratto di Napoleone alla battaglia di Lodi. In questo stesso anno è nominato "Commissario
superiore", incaricato di scegliere le opere d'arte lombarde e venete da spedire a Parigi. L'11 novembre 1804 è a Parigi, per
l'incoronazione di Napoleone a imperatore dei francesi e il 26 maggio 1805, a Milano, insieme con lo scultore Pietro Canonica, partecipa
alla cerimonia di incoronazione di Napoleone come Re d'Italia: due settimane dopo, il 7 giugno 1805, è nominato primo pittore del Re
d'Italia.attesta di aver dipinto in quel solo anno 16 ritratti di Napoleone e della famiglia Beauharnais; tra l'agosto e il settembre 1811
dipinge il Parnaso nella Villa Reale di Monza ed entra a far parte dell'Accademia romana di san Luca. Nel 1812, dopo la disfatta
napoleonica in Russia, interrompe a Palazzo Reale l'affresco della Caduta dei Giganti. Il 28 aprile 1813 è colpito da un infarto che lo
lascia paralizzato, impedendogli per il resto della sua vita di lavorare, lasciando incompiute le opere per il Palazzo Reale. Muore nella
sua casa milanese di corso Monforte nel 1817.
15
16
Ai sobri colori e alla linearità compositiva degli affreschi pompeiani sembra ispirarsi volutamente il dipinto Psyche risvegliata di
Dorothy Mullock (1914).
Fig. 1: “Eros e Psiche”, Museo di Saragozza
Fig.2: “Eros e Psiche” del Ghirlandaio
17
Fig. 3: “Amore e Psiche” in due celebri versioni di Canova18. Nella versione (1800-1803) conservata all'Ermitage di San
Pietroburgo, i due personaggi sono raffigurati in piedi; nelle altre due, esposte al Louvre, la coppia è stante.
17
Domenico Bigordi detto il Ghirlandaio nasce a Firenze nel 1449. Prima del 1475 realizza gli affreschi per la cappella di Santa Fina nel
duomo di San Gimignano con Storie di Santa Fina. Dopo il suo viaggio a Roma lo stile del Ghirlandaio assume determinate
caratteristiche che rimarranno sostanzialmente immutate: descrizione dettagliata dei particolari, figure aggraziate, colori accesi,
composizioni affollate. A Roma esegue la decorazione per la Biblioteca Vaticana oggi andata perduta, e la scena della Vocazione di Pietro
e Andrea nella cappella Sistina. Lavora a Firenze a partire dal 1482 quando gli viene commissionata la decorazione della Sala dei Gigli di
Palazzo Vecchio e la decorazione della cappella Sassetti in Santa Trinità dove ambienta le scene nella Firenze del tempo; per esempio
nella Resurrezione del fanciullo di Casa Spini la scena si svolge a piazza Santa Trinità. Ancora decora la cappella Tornabuoni in Santa
Maria Novella con Storie della Vergine e di San Giovanni Battista. Altri dipinti: il tondo con l'Adorazione dei Magi del 1487 e l'Adorazione
dell'Ospedale degli Innocenti. Esegue anche alcuni ritratti come il Vecchio con bambino e Giovanna Tornabuoni. Morì nel 1494.
Scultore neoclassico per antonomasia, Canova nacque a Possagno nel 1757. Formatosi all’Accademia di Venezia, si stabiliva a R oma
nel 1781. A questa prima fase risalgono il Monumento funebre di papa Clemente XIV e il gruppo Venere e Adone. Dopo una serie di
riconoscimenti e commissioni per conto della Repubblica Veneta, di Maria Cristina d’Austria e dello stesso Napoleone, che dichiarò
Canova sotto la protezione dell’Armata d’Italia, fu nominato Ispettore Generale delle Antichità e delle Belle arti nel 1802. Nello stesso
anno si recava a Parigi per ritrarre Napoleone primo console. Tra le opere successive, composte a Parigi, Vienna, Venezia e Roma, i
Monumenti funebri di Alfieri e Maria Cristina, la Pace, le Tre Grazie. Nominato marchese d’Istria nel 1816, moriva sei anni dopo a
Venezia. Si deve alla scultura, di Amore e Psiche giacenti il primo contatto ra Canova e Napoleone: il gruppo fu acquistato nell’Ottocento
dall’olandese Enrico Hoppe e ceduto quasi subito a Gioacchino Murat, che lo portò a Neully, dove suscitò l’ammirazione del primo
console.
18
Fig. 4: “Amor et Psiche”di Jacopo Zucchi19
Fig. 5: “Cupido e Psyche”di Giulio Katari (?), fine 17° secolo, al “Giardino estivo” di San Pietroburgo.
Fig. 6: “Cupido e Psiche”, di Giovanni Battista Foggini (1710).
19
Jacopo Zucchi, o Iacopo di maestro Pietro Zucca (Firenze ?, 1542 c.ca – Roma ?, 1596 c.ca), è stato un pittore italiano. Allievo di
Giorgio Vasari, divenne il suo principale collaboratore: partecipò alla decorazione del Salone dei Cinquecento e dello Studiolo di
Francesco I in Palazzo Vecchio a Firenze; nel 1572 si stabilì a Roma, dove eseguì gli affreschi per il palazzo e la villa del cardinale
Ferdinando de' Medici. Numerose anche le opere a soggetto sacro realizzate per le chiese della capitale (Santissima Trinità dei Pellegrini,
Santo Spirito in Sassia). Zucchi si trasferì stabilmente a Roma nella primavera del 1572 ed entrò al servizio del cardinale Ferdinando,
figlio cadetto del granduca Cosimo I: lo seguì il fratello minore Francesco, anch'egli pittore. Il primo incarico affidato dal cardinale
all'artista fu la decorazione della sua residenza cittadina (oggi Palazzo Firenze), nel Campo di Marte, già appartenuto ai famigliari papa
Giulio III. Zucchi realizzò alcuni fregi con storie dell'Antico Testamento, le decorazioni della sala di Diana e soprattutto quella della sala
degli Elementi, permeata di riferimenti cosmogonici. Desideroso di indipendenza, diversamente dal Vasari, il pittore non ricorse a un
autore umanista (come il Borghini) per la concezione programmatica delle immagini: si servì della sua conoscenza dei modelli recenti (i
dipinti di soggetto simili di Palazzo Farnese a Caprarola e dello Studiolo di Palazzo Vecchio) e degli scritti mitografici di Annibal Caro,
Boccaccio e Vincenzo Cartari.. Realizzò anche numerosi quadretti di soggetto allegorico, su tavola o rame, per lo studiolo in noce del
cardinale, che costituiscono la parte più suggestiva della sua produzione. A partire dalla seconda metà degli anni '70 del '500 iniziò a
ottenere numerose commesse per chiese e conventi, soprattutto grazie al suo potente mecenate; realizzò una Messa di san Gregorio per la
chiesa di Trinità dei Pellegrini, degli affreschi per la cappella Ghisleri in San Silvestro al Quirinale, per l'abside di Santo Spirito in Sassia
e per Santa Maria in Via, un polittico per la chiesa di Vallecorsa, due pale per la basilica di Santa Maria Maggiore e altri dipinti per la
cattedrale di Sutri, per la chiesa di Santa Maria della Pace, per San Clemente. Tra il 1584 e il 1587 realizzò la decorazione
dell'appartamento nobile e della galleria di Villa Medici. Agli inizi degli anni '90 risale la sua ultima grande fatica: gli affreschi per la
galleria di Palazzo Rucellai (ora Ruspoli) a Roma.
Fig. 7: “L’Amour et Psiche” di Picot20
Fig. 8: “Psyche e Amore” di Medard
Fig. 9: “Amore risveglia Psiche” di A. Appiani, 1789, affresco. Monza, Villa Reale
Fig. 10: Benigne Gagneraux, “Amore risveglia Psiche”, 1790, olio su tela, 116x147. Roma, Palazzo Altieri
20
François-Édouard Picot, nato a Parigi il 17 ottobre 1786 e ivi morto il 15 marzo 1868, allievo di FrançoisAndré Vincent e di Jacques-Louis David, fu un pittore francese di stile neoclassico.
Fig. 11: “Amore e Psiche” di Felice Giani, 1794, tempera su muro. Faenza, Palazzo Laderchi
Fig.12: “Cupido e Psiche”, orologio del 1810
Fig. 13: “Cupido e Psiche”, piatto Westmoreland
Fig. 14: “Cupido e Psiche” e “Cerbero e Psiche”di Edmund Dulac21.
21
Edmund Dulac (Tolosa, 22 ottobre 1882 -Tolosa, 1953), è stato un disegnatore francese naturalizzato inglese, fra i più importanti
artisti del cosiddetto Periodo d'oro dell'illustrazione (a cavallo fra la fine del XIX ed il primo quarto del XX secolo), lavorando per
moltissimi libri e lasciando un’ impronta molto influente nel campo della grafica editoriale.
Fig. 15: “Eros si innamora di Psiche” di Denis Maurice22
Fig. 16: “Amore e Psiche” di E. Munch (1907)23.
22
Maurice Denis nacque a Granville il 25 novembre 1870. Il periodo nel quale cominciò la sua attività artistica coincise con la nascita del
movimento simbolista. I temi della sua pittura, di carattere religioso o situazioni della vita quotidiana, sono portati in una dimensione
ideale ed irreale, in un'atmosfera di calda e serena intimità, ottenuta con un tratto estremamente delicato. Nel 1890 espose al Salon, a
partire dal 1891 partecipò con gli altri artisti Nabis al Salon des Indépendants e nel 1892 presentò le sue opere alla IX rassegna del
gruppo "Les XX" a Bruxelles.Verso la fine degli anni Novanta il suo stile si evolve verso la ricerca di un ideale classico, in una pittura di
impianto monumentale: lo spinsero a questa novità il viaggio del 1898 a Roma, l'amicizia con lo scrittore André Gide e l'influenza di Paul
Cézanne.Nel 1909 ottenne un incarico come insegnante all'Accademia Ranson, dove rimase fino al 1919. In questi anni eseguì le
decorazioni del teatro degli Champs Elysées e del Petit Palais di Parigi e si dedicò a numerose grandi pitture murali per chiese.Il suo
fervore religioso lo portò a fondare, nel 1919, gli Ateliers d'Art Sacré. Denis dedicò molto tempo alla preghiera, tanto da diventare
terziario di San Domenico, ma nello stesso tempo non si isolò dal mondo e partecipò alla vita sociale del tempo. Fino alla sua morte
continuò a dipingere in un'interpretazione moderna della grande pittura antica, supportato dalla sua forte vena artistica, continuamente
alimentata dai suoi viaggi, molti dei quali in Italia, che lo portarono ad entrare in contatto diretto con i preraffaelliti ed i neoclassici. Si
dedicò anche alle arti pplicate, segnando vetrate, vasi, arazzi, ventagli e perfino una banconota da 500 franchi. Morì il 13 novembre 1943
a Saint-Germain-en-Laye.
23
Edvard Munch (Løten, 12 dicembre 1863 – Ekely, 23 gennaio 1944) è stato un pittore norvegese. Tra i massimi esponenti del
Decadentismo e dell'espressionismo, visse fra l'Ottocento ed il Novecento. L'uso dei colori, la potenza dei suoi rossi, la lucidità violenta
con cui tratta i suoi temi, lo porteranno ad essere il precursore, se non il primo degli espressionisti.La fama non gli concede la felicità;
cerca di attutire la sensibilità con l'abuso di alcool; il periodo è travagliato, e si ricovera in una casa di cura per malattie nervose. Nel
1914 i tempi sono ormai maturi affinché la sua arte, anche se mai del tutto compresa, venga accettata anche dalla critica. Membro
dell'Accademia tedesca delle Arti e socio onorario dell'Accademia bavarese di Arti figurative, nel 1937 Munch conosce le prime
persecuzioni naziste. Quando morì, nel 1944, lasciò tutti i suoi beni e le sue opere al municipio della capitale che nel 1963, in occasione del
centenario della nascita, gli dedica un apposito museo: il Munch Museet. La collezione più importante del suo lavoro si trova al Museo
Munch a Tøyen.
Fig. 17: “Amore” di A. Andrew Gonzalez (2002)
Un’ampia narrazione del mito, per bocca (non senza arguta compiacenza) della stesso Amore-Cupido, è
contenuta nel IV libro dell’ “Adone” di Giambattista Marino 24, di cui si offre più oltre una sintesi esaustiva.
Fedele al racconto originale, a prescindere dalla diversa impostazione narrativa, il poeta vi inserisce notazioni
psicologiche e inserti descrittivi, ora caratterizzanti ora solo esornativi. Tra i pochi tratti discordanti,
l’annuncio, nell’ultima sequenza, della nascita di Diletto, frutto dell’unione completa dei due giovani ormai
sposi: a suggerire il cambiamento di sesso (nel testo di Apuleio nasceva, infatti, una bambina, dal nome
Voluttà), il diverso genere dei due nomi, che pure alludono alla medesima entità.
24
Giambattista Marino (Napoli, 14 ottobre 1569 – Napoli, 26 marzo 1625), si dedicò quasi subito alla poesia come poeta cortigiano
presso il duca Ascanio Pignatelli e poi (1592) presso il principe Matteo di Capua, dopo un primo avvio agli studi giuridici. Nel 1600 entrò
al servizio del cardinale Pietro Aldobrandini a Roma. Pubblicate le “Rime” (1602), cominciò a lavorare alla stesura del poema Adone,
che nel progetto iniziale avrebbe dovuto essere di tre libri. Nel 1606 seguì Aldobrandini a Ravenna e in altre città del Nord. Giunto a
Torino (1608), scrisse per Carlo Emanuele I un panegirico Il ritratto del serenissimo don Carlo Emanuele duca di Savoia (1608),
ottenendone in cambio una generosa ospitalità dal 1610 al 1615. A corte si scontrò con l'invidia del segretario del duca, il poeta Gaspare
Murtola, autore del poema sacro La creazione del mondo (1608) deriso da Marino. Nel 1608 Marino aveva stampato la raccolta lirica
“La lira”. Gli anni torinesi furono particolarmente fecondi: riprese e ampliò il progetto dell'Adone; nel 1614 stese le Dicerie sacre, tre
orazioni fittizie (La pittura, La musica, Il cielo) che dimostrano un'abilità virtuosistica straordinaria nel modellare la lingua nel genere
"oratoria sacra". Nel 1615 fu chiamato alla corte di Francia dalla regina Maria de' Medici, a cui dedicò il poemetto encomiastico Il
tempio (1615). A Parigi scrisse alcune delle sue cose migliori: gli “Epitalami” (1616), poesie per nozze, “La galeria” (1619), rassegna di
opere di scultura e pittura di artisti contemporanei. Nel 1620 diede alle stampe La sampogna, composta da 12 poemetti, 8 di contenuto
mitologico e 4 di tipo pastorale. Il trionfo giunse con l'”Adone” (1623), poema in 20 canti la cui lussuosa edizione fu finanziata dallo
stesso re Luigi XIII. Poco dopo Marino decise di tornare in Italia, accolto con grandi onori a Torino, a Roma e soprattutto a Napoli.
Nella sua città si dedicò alla composizione di un poema religioso in ottave, “La strage degli innocenti”, già iniziata vent'anni prima;
l'improvvisa morte non gli consentì di concludere quest'opera, pubblicata postuma nel 1638. Anche le Lettere (uscite a partire dal 1627)
sono postume.
ADONE, (canto IV,VII ottava ss.):
Amore narra ad Adone la sua avventura sentimentale
In real patria e di parenti nacquer tre figlie,
d'ogni grazia ornate.
Natura l'arricchì di quanti pregi
possa in un corpo accumular beltate.
Ma versò de' suoi doni e de' suoi fregi
copia maggior nela minore etate,
peroché la più giovane sorella
era del'altre due troppo più bella.
[…] Sì di Psiche la Fama intorno spase
tal era il nome suo, celebre il grido,
che questa opinion si persuase
di gente in gente in ogni estremo lido.
Pafo d'abitator vota rimase,
restò Citera abbandonata e Gnido;
nessun più vi recava ostia, né voto
orator fido o passaggier devoto. […]
Impaziente (Venere) a sostener più l'ira […]
il carro ascende e d'impiegar disegna
del figlio in quest'affar le forze e l'armi;
ma convien ch'i suoi cigni a fren ritegna,
ché dubbiosa non sa dove trovarmi.
Il racconto prosegue quindi con l’accenno al viaggio di Afrodite tra le contrade del mondo fino a ritrovare il figlio, circondato da ninfe alle
rive del fiume Sebeto .
Distinto alfine il suo desir dichiara
e quanto brama ad esseguir m'accende.
Vuol che di stral villano il cor le punga,
e ch'a sposo infelice io la congiunga.
[…]Amore va alla ricerca di Psiche, la trova sulla rupe dove è stata abbandonata e ne resta affascinato.
Quantunque le sue più che celesti
forme, ben degne degli altrui desiri,
da mille lingue e da quegli occhi
e questi vagheggiate e lodate, il mondo ammiri,
alcun non v'ha però di genti tante,
che cheggia il letto suo, cupido amante.
Le suore, ancorché fussero appo lei
vie più d'età che di beltà fornite,
a grandi eroi con nobili imenei
per giogo maritale erano unite.
Ma Psiche, unico sol degli occhi miei,
parea dal'olmo scompagnata vite
e ne menava in dolorosi affanni,
sterili e senza frutto i più verd'anni.
Il miser genitor, mentr'ella geme
l'inutil solitudine che passa,
perché l'ira del ciel paventa e teme,
che spesso ai maggior re l'orgoglio abbassa,
pensoso e tristo infra sospetto e speme
la cara patria e'l dolce albergo lassa
e va per esplorar questo secreto
dal'oracolo antico di Mileto.
Là dove giunto poi, porge umilmente
incensi e preghi al chiaro dio crinito,
da cui supplice chiede e reverente,
al'infeconda sua, nozze e marito.
Ed ecco intorno rimbombar si sente
spaventoso fragor d'alto muggito
e col muggito alfin voce nascosta
dale cortine dar questa risposta:
“La fanciulla conduci in scoglio alpino
cinta d'abito bruno e funerale.
Né genero sperar dal tuo destino
generato d'origine mortale,
ma feroce, crudele e viperino,
ch'arde, uccide, distrugge e batte l'ale
e sprezza Giove ed ogni nume eterno,
temuto in terra, in cielo e nel'inferno”.
Torna ne' patrii tetti a far sollenne
di quelle pompe il tragico apparecchio,
accinto ad ubbidir, quantunque afflitto,
del decreto d'Apollo al sacro editto.[…]
Di velo avolti tenebroso e e d'arnesi lugubri in vesta nera,
van padre e madre il nuzzial feretro
accompagnando e le sorelle in schiera.
Segue la bara il parentado e dietro
vien la città, vien la provincia intera;
e per tale sciagura odesi intanto
del popol tutto un publico compianto.
Ma più d'ogni altro il re meschin piangendo
sfortunato s'appella ed infelice,
e gli estremi da lei baci cogliendo
la torna ad abbracciar, mentre gli lice.
[…] La sconsolata e misera donzella
vede ch'ei viva a sepelir la porta
e tal sollennità ben s'accorg'ella,
ch'a sposa nò, ma si conviene a morta;
magnanima però non men che bella,
l'altrui duol riconsola e riconforta,
e i dolci umori, onde il bel viso asperge,
col vel purpureo si rasciuga e terge[…].
Restò la giovinetta abbandonata
su la deserta e solitaria riva
sì tremante, sì smorta e sì gelata,
ch'apena avea nel cor l'anima viva.
Segue quindi la preghiera a Nettuno.
<<Deh! dammi pria ch'un tanto
mal succeda, padre Nettuno, ale tue fere in preda.
Se provocò del ciel l'ira severa
da me commesso alcun peccato immondo
e da te deve uscir l'orrida fera,
che me divori e che distrugga il mondo,
fia ventura miglior,
ch'absorta io perada questo ingordo pelago profondo>>.
Il cavo scoglio mormorar percosso
per gran pietà fu d'ognintorno udito
e, rispondendo in roche voci e basse,
parea che de' suoi casi il mar parlasse.
Per risguardar chi sia che si consuma
in note pur sì dolorose e meste.
Psiche dalla rupe è condotta alla reggia misteriosa.
Mentre là dove il vertice s'estolle
del'erta rupe, è posta in tale stato,
novo sente spirar di lungo il colle
di mill'aure sabee misto odorato,
indi d'un aere dilicato e molle
sibilar, sussurrar placido fiato,
che, dolcemente rincrespando l'onde,
fa tremar l'ombre e sfrascolar le fronde.
Era Zefiro questi. Io già, che'ntento
altrove non avea l'occhio e'l pensiero,
volsi far quel benigno amico vento
dele mie gioie essecutor corriero.
Gonfia la mobil gonna e, piano e lento,
col suo tranquillo spirito leggiero,
dala scoscesa e ruinosa balza
senz'alcun danno ei la solleva ed alza,
e colà presso, ove di fior dipinta
fa sponda al mar quella valletta erbosa
e di giovani allori intorno è cinta,
soavissimamente alfin la posa.
Qui da novo stupor confusa e vinta
su'l fiorito pratel siede pensosa,
che fresco insieme e morbido le serba
tetto di fronde e pavimento d'erba.
Poiché'l dolor, che de' suoi sensi è donno,
satollato ha di pianti e di lamenti,
stanca omai sì, che le palpebre ponno
apena sostener gli occhi cadenti,
viensene il sonno a torla in braccio, il sonno,
tranquillità dele turbate menti.
Dal sonno presa al fremito del'acque
su'l verde smalto addormentossi e giacque.
[…] Così posava; e vidi a un tempo istesso
liev'Aura, Aura vezzosa, Aura gentile
scherzarle intorno e ventilarle spesso
il crespo dela chioma oro sottile.
[…] Poich'assai travagliato e poco queto
in più pezzi ha carpito un sonno corto,
destasi e da quel loco ameno e lieto
piover si sente al cor novo conforto.
Sorge dal'odorifero roseto
e qua ne vien, dove'l mio albergo ha scorto.
Questo istesso palagio, ov'ora sei,
come raccoglie te, raccolse lei.
Nel limitar dela gemmata soglia
mette le piante e va mirando intorno;
mira il bel muro e di pomposa spoglia,
di fulgid'oro il travamento adorno,
sì che può far, quantunque il sol non voglia,
col proprio lume a sé medesmo il giorno.
Mira gli archi, le statue e l'altre cose,
che senza prezzo alcun son preziose.
Senza punto inchinar le luci al basso
del tetto ammira le mirabil opre,
ma pur del tetto il rilucente sasso
la superbia del suol chiara le scopre;
stupisce il guardo e si trattiene il passo
al bel lavor, che'l pavimento copre,
perché tante ricchezze in terra vede,
che di calcarle si vergogna il piede.
[…] Vaga con gli occhi e'l vago piè raggira,
tutto insomma possiede e nessun mira.
Voce incorporea intanto ode, che dice:
“Di che stupisci? o qual timor t'ingombra?
sappi cauta esser sì, come felice,
omai dal petto ogni sospetto sgombra;
non bramar di veder quelche non lice,
spirito astratto ed impalpabil ombra.
Gli altri beni e piacer tutti son tuoi,
ciò che qui vedi o che veder non puoi”.
Da non veduta man sentesi in questa
d'acque stillate in tepida lavanda
condur pian piano, indi spogliar
la vesta e i bei membri mollir per ogni banda.
Dopo i bagni e gli odor, mensa s'appresta
coverta di finissima vivanda;
e sempre ad operar pronte e veloci
son sue serve e ministre, ignude voci.
Dato al lungo digiun breve ristoro
con cibi, che del ciel foran ben degni,
entra pur ala vista occulto coro,
sceso quaggiù da' miei beati regni,
concordando lo stil dolce e canoro
ala facondia degli arguti legni.
Benché né di cantor né di stromenti
scorga imagine alcuna, ode gli accenti.
Con l’arrivo della notte, avviene il primo incontro tra i due futuri amanti.
Allor mi movo al dolce assalto e tosto
ch'entro la stanza ogni lumiera è spenta,
invisibile amante, a lei m'accosto,
che dubbia ancor, ciò che non sa paventa.
Ma se l'aspetto mio tengo nascosto,
le scopro almen l'ardor che mi tormentae, da lagrime rotti e da sospiri,
[…] Tornan da capo ala medesma guisa
l'ascose ancelle ed aprono i balconi
e dela sua virginitate uccisa
motteggian seco; ed ecco i canti e i suoni.
Si leva e lava ed ode, a mensa assisa,
epitalami in vece di canzoni
e le son pur non conosciute genti
camerieri, coppier, scalchi e sergenti.
Così dal'uso assecurata e fatta
più coraggiosa omai dala fidanza,
già meco e co' miei conversa e tratta
con minor pena e con maggior baldanza.
Alla felicità di Psiche si contrappone l’invidia delle due sorelle, che mettono a punto il diabolico piano. Invano Amore mette in guardia la
fanciulla.
Su que' sassi colà ruvidi ed erti
onde campata sei, son già tornate.
Io farò, se tu vuoi, per compiacerti
che sieno a te da Zefiro portate.
Ma ben t'essorto, a quant’io dico averti,
fuggi le lor parole avelenate.
[…] Con un tardo pentir, se ciò non fai,
ti soverrà del'avertenza mia.
A me sarai cagion di grave affanno,
ed a te porterai l'ultimo danno."
Taccio ed ella ascoltando i miei ricordi,
promette d'osservar quanto desio.
Già dando volta al bel timon dorato
e de' monti indorando omai le cime,
il carro di Lucifero rosato
dale nubi vermiglie il giorno esprime,
quando a quel dir svanitole da lato,
volo per l'aure e fo portar sublime
l'indegna coppia innanzi ala mia vita
dal bel signor dela stagion fiorita.
Le'ncontra e bacia e'n dolci atti amorosi
Elle di quel velen tutte bollenti,
che sorbito pur dianzi avea ciascuna,
borbottavan tornando e'n tali accenti
con l'altra il suo furor sfogava l'una.
[…] <<Non ti sovien con qual superbia e quanto fasto,
poiché n'accolse, ambizioso vanto
si diè di tante sue glorie e grandezze?
E pur a noi, benché n'abondi tanto,
poca parte donò di sue ricchezze
e poiché fastidita ne rimase,
subito ne scacciò dale sue case.
Quando a farla pentir di tanto orgoglio
vogli tu, come credo, unirti meco,
esser detta mai più donna non voglio,
s'a mortal precipizio io non la reco.
Per or, tornando al solitario scoglio,
nulla diciam d'aver parlato seco;
non facciam motto del suo lieto stato,
per non farlo col dir vie più beato.
Assai noi stesse pur visto n'abbiamo
e di troppo aver visto anco ne spiace.
A que' poveri alberghi omai torniamo,
dove mai non si gode ora di pace>>[…]
Tosto che la stagion serena e fosca
l'aere abbraccia dintorno, io l'ali spiego
e qual velen quelle due furie attosca
racconto ala mia Psiche e la riprego
a voler, bench'apien non mi conosca,
contentarsi del più, se'l men le nego.
Le scopro il cor, coprendole il sembiante,
e può veder l'amor, se non l'amante.
[…] Ella giura e scongiura e'nsomma vole
pur riveder quella sorella e questa;
nulla alfin so negarle e tosto quando
s'apre il ciel mattutino ai primi albori,
risorgo e lieve insu lo scoglio
mando il padre fecondissimo de' fiori.
Già l'empie, che stan pur quivi aspettando,
delo spirto gentil senton gli odori;
ed ei pur quasi a forza insu le spalle
le ritragitta ala fiorita valle[…]
Psiche accoglie con gioia le sorelle in un ricco banchetto, ma ciò accresce la loro invidia..Cominciano così a farle domande sul suo sposo
misterioso.
La semplicetta garrula e leggiera,
cui non sovien ciò che lor disse in prima,
perch'accusar del fatto il ver non vole,
aviluppa e compon novelle fole;
dice che ricco d'or per varie strade
con varie merci a traficar intende
e che la neve dela fredda etade
già già le tempie ad imbiancar gli scende.
Poi, perché ratto ale natie contrade
le riconduca, a Zefiro le rende
che, come suole, ale paterne spiagge
di novi doni onuste indi le tragge.
<<Deh! che ti par dele menzogne insane,
(l'una al'altra dicea) di questa sciocca?
Tempo è, comunque sia, da far cadere
tutte le gioie sue disperse e rotte>>.
Con sì fatto pensier vanno a giacere
e'n vigilia crudel passan la notte.
Col favor di favonio indi leggiere
a Psiche insu'l mattin son ricondotte,
che gode pur d'accarezzar le due,
sorelle non dirò, vipere sue.
<<Dolce (presero a dirle) amata spene,
tu secura qui siedi e lieta stai
e, malcauta al periglio e trascurata,
l'ignoranza del mal ti fa beata.
Ma noi, noi che sollecite ala
dela salute tua siam sempre intente,
convien ch'a parte d'ogni tua sciagura
abbiam del commun danno il cor dolente.
Sappi che quel, che'nsu la notte oscura
giacer teco si suole, è un fier serpente;[…]
d'un verde bruno e d'un ceruleo fosco
mostra l'ali fregiate e'l dorso tinto.
Vibra tre lingue e nele fauci aguzza
un tripartito pettine di denti.
Sanguigne schiume dala bocca spruzza
ed ammorba co' fiati gli elementi;
l'aure corrompe, mentre l'aria lecca,
strugge i fior, l'erbe uccide e i campi
S'a noi non credi, ed oh, queste parole
sparse sien pur al vento e non al vero!
credi a quel che mentir né può né suole,
del'oracol febeo presagio fiero.
[…] Sentesi Psiche a quel parlar, d'orrore va
tremare i polsi ed arricciare i crini;
sudan l'estremità, palpita il core,
spariscon dal bel volto ostri e rubini,
[…] Dimenticata già d'ogni promessa,
tutto il secreto a buona fè rivela.
[…] Contro il tenero core allor
si scaglia dele donne malvage il furor crudo
e, con aperta e libera battaglia,
stringon già dela fraude il ferro ignudo.
<< Chi t'inganna ingannar non è tradire,
giusto è che sia lo schernitor schernito,
ché, quando ad opra rea vien che consenta,
la fede sceleragine diventa.
Sotto il letto vogliam che tu nasconda
un ferro acuto ed una luce accesa,
e come pria la creatura immonda
nel'usato covil si sia distesa
e nel colmo del'ombra alta e profonda
sarà dal maggior sonno avinta e presa,
sorgi pian piano e tuo ministro e duce
sprigiona il ferro e libera la luce.
La luce il modo allor fia che ti scopra
ben oportuna e consigliera e guida.
Non temer no, che d'ambe noi nel'opra
avrai, s'uopo ti fia, l'aita fida.
Senz'alcuna pietà, giuntagli sopra,
fa che del fier dragone il capo incida,
perché con bestia sì feroce e strana
qualunque umanità fora inumana>>.
E, così detto, l'una e l'altra prende
commiato e parte; ella riman soletta,
senon sol quanto agitatrici orrende
seco le Furie in compagnia ricetta.
Segue, a questo punto, il racconto del disvelamento di Amore e del suo allontanamento da Psiche.
Già nel'occaso i suoi corsier chiudea, giunto a corcarsi,
il gran pianeta errante, quand'io men venni ingiù precipitando il volo.
Psiche mia con lusinghe mi riceve,
l'apparecchio crudel dissimulando.
[…] Nela destra ha il coltel, nel'altra il lume,
d'orrore agghiaccia e di paura imbianca.
Ma non sì tosto il curioso raggio
del lume esplorator venne a mostrarse,
dal cui chiaro splendor del cortinaggio
ogni latebra illuminata apparse,
che, sbigottita del'ingiusto oltraggio,
stupì repente e di vergogna n'arse.
Non sa s'è sogno o ver, ché, quando crede
veder un drago, un garzonetto vede.
Gran villania le parve aver commessa
e di tanta follia forte le'ncrebbe.
Spegner la luce perfida e con essa
l'arrotato coltel celar vorrebbe.
Fu per celarlo in sen quasi a sestessa
e senza dubbio alcun fatto l'avrebbe
se dala man tremante il ferro acuto
non le fusse in quel punto al suol caduto.
Mentr'ella in atto tal si strugge e langue
di toccar l'armi mie desio la spinge
e con man palpitante e core essangue
le prende e tratta e le tasteggia e stringe.
Tenta uno strale e di rosato sangue
l'estremità del pollice si tinge;
mirasi punto incautamente il dito
e si sente in un punto il cor ferito.
Così si stava e romper non ardiva
la mia quiete placida e tranquilla.
Ed ecco allor la liquefatta oliva
del'aureo lucernier scoppia e sfavilla,
e, vomitando dala fiamma viva
di fervido licor pungente stilla,
al'improviso con tormento atroce
su l'ala destra l'omero mi coce.
Desto in un tratto io mi risento e salto
fuor dela cuccia, ed ella a me s'apprende,
m'abbraccia i fianchi e con vezzoso assalto
per vietarmi il partir pugna e contende.
M'afferra il piè fugace, io meco in alto
la traggo a volo ed ella meco ascende.
Così pendente per l'aeree strade
mi segue e tiene, alfin mi lascia e cade.
\ Io mi volsi a que' pianti e del suo duolo
in mezzo al'ira la pietà mi prese,
onde l'ali arrestai, fermando il volo,
a sì tristo spettacolo sospese,
e mi posi a mirarla intento e fiso
d'un cipresso vicin tra i rami assiso.
"Ingrata (a dirle indi proruppi) ingrata,
sì tosto in Lete un tanto ardore è spento?
Così dala memoria smemorata
l'aviso mio ti cadde in un momento?
Quest'è l'amor? quest'è la fè giurata?>>. […]
Tanto le dissi; ed ella, a cui più dolse
che la caduta sua la mia salita,
levando afflitta e bassa
tra sospiro e sospir ruppe un “ahi lassa”.
Il racconto procede, in conformità alla versione di Apuleio, con le peripezie di Psiche dopo l’incontro con Pan e il negato aiuto da parte di
Cerere e Giunon.e. La fanciulla arriva infine alla dimora di Venere che, infuriata, non esita a maltrattarla, imponendole dure prove.
Superata anche l’ultima prova con la discesa nel regno di Ecate, Psiche, vinta ancora una volta dalla curiosità, apre il bossolo recuperato con
l’acqua dell’immortalità.
[…] Lascio di raccontar con qual consiglio
scese d'abisso ale profonde conche,
con quai tributi senz'alcun perielio
passò di Pluto al'intime spelonche e,
de' mostri d'Averno al fiero artiglio
le forze tutte rintuzzate e tronche,
per via, che'ndietro mai non riconduce,
ritornò salva a riveder la luce.
E taccio come poi le venne audace
di quel belletto d'Ecate desio,
indi il pensier le riuscì fallace,
ché'l Sonno fuor del bossoletto uscio,
onde d'atra caligine tenace
le velò gli occhi un repentino oblio
e, da grave letargo oppressa e vinta,
cadde immobile a terra e quasi estinta.
Terminato il racconto delle prove, la vicenda si avvia al lieto fine.
Io, sano già dela ferita e molto da sì lunga prigion stancato omai,
per un picciol balcon libero e sciolto
fuor dela chiusa camera volai,
e, vago pur di riveder quel volto
bramato, amato e sospirato assai,
parvi, battendo le veloci piante,
stella cadente o folgore volante.
Là dove senza mente e senza moto
giace, mi calo ed a' begli occhi volo,
ne tergo il sonno e nel'avorio voto
di novo il chiudo, e ben n'ha sdegno e duolo;
con l'aurea punta delo stral la scuoto,
pria la riprendo e poi la riconsolo […]
Amore espone alla madre l’intenzione di sposare Psiche.
La dea l'ascolta e di stupore impetra,
che'n tanti rischi indomita la trova;
ma'l petto a quel parlar l'apre
e penetra un non so che di tenerezza nova.
[…] In questo mezzo io pur temendo in vero
il minacciato mal, con tanta fretta
rivolo inverso il ciel, che men leggiero
di mal pieghevol arco esce saetta.
Quivi al monarca del celeste impero
espongo ogni ragion, ch'a me s'aspetta;
narro di lei gl'ingiusti oltraggi, e come
grava ognor Psiche d'indiscrete some.
Prego, lusingo il suo gran nume eterno
e gli fo del mio cor la fiamma nota.
Sorrise Giove e con amor paterno
mi prese il mento e mi baciò la gota.
<<Seben (disse) il tuo ardir con tanto scherno
sovente incontr'a me gli strali arrota,
sich'a tor forme indegne anco m'ha mosso,
a' tuoi preghi però mancar non posso>>.
Gli dei convoca e quest'affar consiglia
e le mie nozze celebrar comanda;
essorta a contentarsene la figlia,
poscia il suo fido nunzio in terra manda.
Rapita già tra l'immortal famiglia,
gusta il cibo divino e la bevanda,
e meco dopo tante aspre fatiche
nel teatro del ciel sposata è Psiche.
L'Ore, spogliando de' lor fregi i prati
tutto di rose imporporaro il cielo;
sparser le Grazie aromati odorati,
cantar le Muse la mia face e'l telo;
le corde d'oro e i calami cerati
toccar lo dio d'Arcadia e quel di Delo;
resse Imeneo la danza e volse in essa
ballar con l'altre dee Venere istessa.
Così di tanti affanni a riva giunsi
e per sempre il mio bene in braccio accolsi,
con cui, mentre ch'alfin mi ricongiunsi,
tanto mi trastullai, quanto mi dolsi;
né dal'amato sen più mi disgiunsi,
né dal nodo gentil più mi disciolsi,
e del mio seme, entro il bel sen concetto,
nacque un figliuol che si chiamò Diletto.
Una più rara versione del racconto, in una sorta di mosaico narrativo di in cui si intrecciano mito e filosofia,
ci viene da uno studioso tedesco del secolo successivo, il cui nome originario, Johannes Ludwig Prasch,
compare nella forma latinizzata di Ludovicus Praschius 25. Varie, in “Psiche Cretica”- questo appunto il titolo
dell’opera- sono le fonti a cui attinge l’erudito: prevale naturalmente il racconto di Apuleio, da cui riprende
gli episodi salienti (l’unione misteriosa dei due amanti, il consiglio nefasto delle sorelle, il brusco risveglio di
Amore e il suo allontanamento dal palazzo, il peregrinare di Psiche fino al ritrovamento dell’amato), ma non
mancano diffusamente echi virgiliani (in particolare dal IV libro dell’Eneide, o ancora ovidiani. Come in
Apuleio, l’intera storia è una digressione, narrata dalla vecchia della grotta per confortare Carite rapita con
Lucio da predoni, così nel corso del banchetto che il principe ateniese Teofrasto offre a Psiche, salvata da
Cosmo, si inserisce, per bocca di un cantore, la storia di Ilpandro e dei suoi tristi amori. La scena seguente
vede Psiche, nel giardino del palazzo di Teofrasto, alle prese con prodigi e mirabili visioni, che rimandano
inevitabilmente al ricordo ancora vivo di Amore: il dio compare infatti, nelle vesti di un putto scolpito, su
una brocca preziosa da cui Psiche, sensualmente, beve del vino; e ancora, alla fanciulla, addormentata nel
giardino, Amore donerà un drappo rosso, simbolo (come la veste che Teofrasto le consegna) di amore e di
regalità. Congedatasi dal generoso Teofrasto, Psiche tornerà alla sua Creta, dedita, nel tempio da lei fatto
costruire, al culto assoluto dell’Amore, finchè il dio, avvolgendola in una nuvola rosa, la condurrà nei regni
celesti come sua eterna sposa. Di non facile interpretazione, il racconto va sostanzialmente inteso come una
favola allegorica in cui si inneggia alla mistica unione di Cristo e dell’anima, ascesa alla contemplazione. A
una prima “vocazione”, quando Psiche sposa è chiamata al palazzo d’Amore, segue l’
“illuminazione”attraverso la lucerna che disvela Amore. Si passa poi alla “giustificazione”, quando è sottratta
dalle mani di Cosmo, ovvero del mondo, e infine alla “santificazione”, di cui è simbolo la porpora preziosa. L’
“unione mistica” nel giardino durante la notte prelude infine a un connubio spirituale che legittima l’amore
anche fisico come assoluta esperienza salvifica.
Degna di nota nella sua grazia e levità arcadica la versione di Ludovico Savioli Fontana26 in una canzone di
127 versi liberi, pubblicata nel 1759 in occasione delle nozze Aldrovandi-Barbazzi, poi aggiunta alla raccolta
degli "Amori" nell'edizione del 1782. Oltre alla libera traduzione del Firenzuola, l’autore si ispirò al ciclo
pittorico di Amore e Psiche presente nel palazzo dei conti Savioli. La canzone è dedicata ad Amore a cui il
poeta promette i suoi carmi con versi che ripercorrono il mito di Psiche e Cupido. Le peripezie dei due amanti
si sono ormai felicemente concluse –“or ella è teco...” (v.8) - e il poeta intende celebrarle col canto. Ne
ripercorre quindi la storia con rapide sintesi e idilli manierati. Ai versi 55-65 è descritto, ad esempio, il
25
Iohannes Ludwig Prasch nasce a Ratisbona da una nobile famiglia nel 1637 . dopo gli anni del ginnasio, si iscrisse alla Facoltà
Tecnica della Università di Iena, e più tardi alla Facoltà di giurisprudenza di Strasburgo. Tornato a Ratisbona, ottenne la carica di
senatore, dedicandosi al contempo alla stesura di opere in lingua tedesca (ad es., “Lobsingende Harffe) e latina Tra queste ultime, i
drammi “Comoedia Amici”, “Tullia tragedia”, “Die getreue Alcestis”; opere giuridiche e “Facetiae”, destinatte ad un uso scolastico,
oltre al breve romanzo “Psiche Cretica”. Muore nel 1690.
26. Ludovico Savioli Fontana (1729-1804), appartenente a una famiglia aristocratica di Bologna, venne mandato a compiere i primi studi
nel Collegio per nobili dei Gesuiti, e poi venne affidato alle cure di Ferdinando Ghedini, che gli fu maestro di belle lettere, e di Francesco
Maria Zanotti. Coltivò anche gli studi giuridici, che gli dovevano consentire, nella sua qualità di conte e di senatore per titolo ereditario,
di partecipare attivamente alla vita pubblica di Bologna. Ed effettivamente Savioli partecipò alla vita pubblica di Bologna con varie
cariche (nel 1770 fu nominato senatore, nel 1772 gonfaloniere di giustizia) alternando alle cure politiche studi di storia patria. Svolse
infatti anche una importante attività di storico della sua città: gli "Annali bolognesi", incompiuti, in tre volumi, sul modello di Tacito (di
cui Savioli aveva intenzione di tradurre l'opera in italiano), vanno dal 390 a.C. al 1220. Nel 1790 ottenne la cattedra di Storia,
all'Università di Bologna, che mantenne fino all'arrivo dei francesi e a cui venne reintegrato nuovamente con decreto 25 dicembre 1802
per la cattedra di Storia e Diplomazia .Come senatore bolognese si oppose al cardinale Ignazio Gaetano Boncompagni Ludovisi che, sia
pure con metodi "poco urbani", aveva tentato di limitare i privilegi dell'aristocrazia. Fu invece un fautore della Rivoluzione Francese.
Nel 1796 fu deputato della Repubblica Cispadana. Nel 1802 divenne membro dell'Istituto Nazionale di Scienze Lettere ed Arti, fondato da
Napoleone. E a Napoleone avrebbe dedicato la traduzione del primo libro "Annali" di Tacito, edita lo stesso anno della sua morte. Le sue
prime composizioni poetiche furono sonetti e canzoni d'occasione che gli acquistarono l'ingresso nella colonia "Renia" di Bologna
dell'Accademia dell'Arcadia, col nome di Lavisio Eginetico. Poco dopo, nel 1750 dava miglior prova della propria cultura in un'opera di
tipo sannazariano, il "Monte Liceo", composta di dodici prose e di altrettante egloghe, nelle quali veniva narrando varie vicende amorose
ambientate nel mondo pastorale.
momento in cui Psiche, infrangendo il divieto, scopre che lo sposo non ha “spoglie anguine ed omicida
artiglio” (v. 44), ma la chioma bionda, il volto e le ali di Cupido. Il luogo è imprecisato e i personaggi vi si
muovono con delicatezza e leggerezza. Il rincorrersi delle “e” dei versi 60-61 crea un effetto di sospensione e
attesa, poi la scena si anima nella descrizione di un evento di cui non sono precisate le modalità e che ci
appare, anche per il prezioso accostamento di “incauta” a “lucerna”, un caso fatale. L'aggettivazione
manierata accresce più l'armonia dell'immagine e del verso che l'intensità dei concetti. Nei versi 70-76 l’enfasi
melodrammatica, tanto meno emozionante per il lettore quanto più accentuata nel crescendo di “sconsolata ...
lagrimando... dolore....furore... morte”, si esaurisce nella rima finale “tacque... acque”, risolvendo, nel verso, la
stessa situazione narrativa. Con una immagine di rapida sintesi, il Savioli chiude anche l'intera vicenda
(vv.125-127).
Primi s'offriro ai desiosi sguardi
sovra l'estrema sponda,
Amor, gli aurei tuoi dardi:
Psiche li tocca appena, e n'è ferita.
Scorge la chioma bionda,
il volto e l'ali; Amor conosce ed ama,
e cade il ferro, e la lucerna incauta
coll' ardente liquor l'omero impiaga.
Fuggiva il sonno; a lei vergogna e duolo
l' alma pungean. Tu rapido movevi
per l'aure lievi a volo. (vv.55-65)
Psiche li tocca appena..." (v.58)
Tu rapido movevi
per l'aure lievi a volo.(vv. 64-65)
Amor conosce ed ama
e cade il ferro, e la lucerna incauta
coll' ardente liquor l' omero impiaga...(vv. 59-61)
desiosi sguardi.... estrema sponda....
aurei dardi.... chioma bionda....
ardente liquor.... aure lievi....
mentre la sconsolata
te richiamava lagrimando invano.
Parlò a lungo il dolore,
poscia il furor non tacque,
e invocò morte e si lanciò nel fiume:
cara un tempo ad Amore,
la rispettaron l'acque. (vv.70-76)
e l'ambrosia celeste Ebe, ministra
dolce, a Psiche porgea.
Ella bevve e fu dea. (vv.125-127)
Ben diversa per tono e impostazione la versione di Giovanni Pascoli in uno dei “Poemi Conviviali”, intitolato appunto
“Psiche”. Partendo dal mito apuleiano, il poeta ne modifica la “fabula”, innestandovi diverse componenti romantiche e
decadenti, di stampo, a tratti, psicoanalitico. Nella giovane Psyche, come scrive Maurizio Perugi 27, << tenzonano due voci
opposte e complementari, l’una che apparentemente non ama e l’altra che ama; l’una che dice: “Non devi!”, l’altra che la
esorta a passare lo Stige […]. La conclusione è un sorprendente ritorno nella dimenticata fanciullezza>>, in un “panismo”
che nasconde la vita ma ne preserva le potenzialità. La nuova sensibilità del periodo e le concezioni dell'autore sono
evidenziate da alcuni elementi fondamentali :

la presenza di Pan, dio greco figlio di Ermes e di una donna mortale. Nella sua figura l'elemento fallico si unisce
ad attributi che ricordano sia l'abbandono orgiastico, sia il terrore, l'oscurità, gli Inferi. Collegato alle feste
pastorali, che si potevano concludere con l'orgia, egli rappresenta, quindi, la vita naturale, le forze della natura,
la procreazione, l'abbondanza, la violenza e la morte. Si tratta del ciclo nascita-vita-morte-rinascita presente in
natura e, come si è visto, anche in questo mito;

le voci. Se nel mito originario erano esse a servire Psiche, ora è il contrario. Risultano, inoltre, voci interiori,
provenienti dall’animo ovvero dalla coscienza della giovane donna. Esse sono due : quella che compiange
(autocompatimento) e che in realtà tiene prigioniera la persona (“tu credi a volte che sia meschina prigioniera
Si veda, del citato critico, l’introduzione alla lirica in “Giovanni Pascoli, Opere”, vol. 61, tomo 1, della collana “La letteratura italiana.
Storia e testi”, ed. Riccardo Ricciardi, Milano- Napoli, alle pagine 971-974.
27
anch’ella”); quella che vuole farci reagire e che noi avvertiamo, a torto, come ostile. Le parole “Esci per poco e
torna” significano che per sconfiggere l'autocommiserazione occorre prendere coscienza della situazione anche a
costo di provare paura e dolore (il drago, l'oscura acqua di morte, il vortice del nulla). Non trovando conforto
dall'esterno (i semi di papavero = il sonno), Psiche non può che obbedire alle voci a cui è asservita, le quali
spingono la fanciulla a ritrovare l'amore perduto nel vagheggiamento fantastico della morte. La voluttà di
ricongiungersi all'amore fisico, però, è tanto profonda da concretizzare il proposito del suicidio per passione. Ma
il richiamo della vita, una volta che Psiche ne è uscita, supera addirittura quello dell'amore perduto, così che
Pan (una sorta di salvatore paganeggiante) riconduce Psiche a nuova vita, ovvero alla Natura immanente che il
Dio stesso rappresenta (similmente, Cristo, nell'ortodossia cristiana, innalza le anime beate nel Regno del
Padre).

l'inconscio. Una delle voci che parlano a Psiche può essere vista come quella dell'inconscio; essa, infatti,
mormora: “Povera Psyche, io so dov'è Amore. Oh l'Amore aspetta dopo la morte”. Probabilmente la morte è
intesa come viaggio nel subconscio alla ricerca del nostro essere più interiore, delle nostre passioni e dei nostri
desideri. Al termine di questo viaggio, potremo, quindi, vivere meglio con noi stessi e con ciò che ci circonda. Ma
Psiche non riesce ad addormentarsi e, cadendo nel “morto fiume”, non riesce a realizzare il desiderio di
ritrovare Amore, né quello di ritrovare se stessa. Psiche termina la sua esistenza come singolo individuo con un
proprio essere e un proprio passato (“gelida, o Psyche, immemore”), per rinascere come vitalità all’interno della
Natura : “ti corca nuda così”, nuda, quindi, come alla nascita.

“il quieto vortice del nulla" appare per due volte all'interno della poesia. Esso può essere considerato l'ignoto, il
misterioso che produce il terrificante senso d'impotenza che si prova quando non si è in grado di controllare e
capire razionalmente la situazione. Lo stesso sentimento è provocato in noi dalla morte ed è uno dei temi
fondamentali che Pascoli tratta in molte delle sue opere.
Pur ispirandosi alla favola narrataci da Apuleio, Pascoli, dunque, ha voluto sicuramente sottendere alla poesia significati
più profondi. A dimostrarlo l’assenza di precise caratteristiche somatiche: l’aspetto fisico di Psiche non compare mai in
maniera diretta, ma tutt'al più in maniere frammentata (gli occhi, le labbra...); le numerose variazioni che si riscontrano
confrontando la Psiche pascoliana con la vicenda narrataci da Apuleio, variazioni che propendono verso una generale
interiorizzazione (ad esempio, le voci da cui è circondata non provengono, come detto, da fonti esterne, ma dall’animo
stesso di Psiche). Diversa è, inoltre, l’angolazione da cui vengono narrati gli eventi : in questo caso, ogni azione viene
filtrata dalla mente di Psiche. Il senso di angoscia, delusione e tristezza è palese fin dall’inizio, quando viene sottolineata la
condizione servile di Psiche. Questo stato d’animo s’acuisce quando sente il canto di Pan da cui è tenuta prigioniera (ed
infatti egli viene definito “selvaggio, bicorne e irsuto”). Psiche si sente ancora affettivamente legata a Cupido e questo
amore riemerge proprio in concomitanza del canto. La mancanza del suo oggetto d’amore è motivo d’ulteriore angoscia.
Il rimando all'area semantica del sonno, oltre che attuarsi con la ripetizione della parola stessa, si compie tramite l’uso di
altri vocaboli (quale papavero), mentre, con la ripetizione della parola “canne”, Pascoli insiste sul concetto di canto.
L'obiettivo di questa scelta è, forse, il voler ricreare un’atmosfera onirica, in cui emozioni, sentimenti contrastanti ed a
volte contraddittori e l’impotenza di poter reagire razionalmente a pulsioni interiori sono le caratteristiche principali.
Un’ultima versione del mito, piegato a una ricerca esistenziale e a un controverso rapporto con fedi e istituzioni religiose,
ci giunge infine da Clive Staples Lewis28 con il romanzo “A viso scoperto”. Preceduto da una lunga premessa, che si
28
Clive Staples Lewis, in breve C. S. Lewis (Belfast, 29 novembre 1898 – Oxford, 22 novembre 1963), è stato uno scrittore e filologo
irlandese. Fu docente di lingua e letteratura inglese all'Università di Oxford, dove divenne amico di J. R. R. Tolkien col quale - insieme
anche a Charles Williams ed altri - fondò il circolo informale di discussione letteraria degli Inklings.È noto al grande pubblico
soprattutto come autore del ciclo di romanzi Le cronache di Narnia. Come scrive lo stesso Lewis in una lettera del 1959 a Peter Milward i
temi principali di A viso scoperto sono due:<< Gli affetti naturali se lasciati alla mera naturalità diventano una forma particolare di odio;
d'altro canto lo stesso Dio, dal punto di vista della nostra affettività naturale, finisce per essere l'oggetto principale della nostra gelosia». La
successiva conversione al cristianesimo di Lewis cambia le coordinate del problema, ma non semplifica il compito di cercare una risposta.
L'interrogativo sulla vita, sugli affetti e sulle passioni diviene se possibile ancora più drammatico e mantiene nel corso di tutta la vita di
Lewis un significato esistenziale tragicamente personale, sia in relazione al trauma subito a dieci anni in seguito alla morte della madre,
sia per la malattia della moglie Joy ( cui è dedicato “A viso scoperto”) che morirà nel 1960. La seconda parte del romanzo è il tentativo di
dare una risposta alla domanda formulata nella prima parte. Lo stile della narrazione diventa simbolico e i concetti si rivestono della
forma propria del mito. Le peculiarità della visione religiosa mitopoietica di Lewis emergono prepotentemente. Gli elementi che Lewis
ritiene importanti nella rivelazione cristiana vengono rappresentati attraverso i miti di un paganesimo primitivo e brutale, dove il
sacerdote di Ungit/Afrodite porta la maschera come uno sciamano ed Tra le altre opere di Lewis, le celebre saga de Le cronache di
Narnia. E Sorpreso dalla gioia, una autobiografia che ripercorre la sua vita dall'infanzia fino all'età adulta e che rappresenta una fonte
fondamentale per comprendere la sua visione del mondo (il titolo con il termine "gioia" rappresenta anche un (forse) involontario
omaggio a Joy Gresham, la donna che diverrà sua moglie nel 1957 e il libro I quattro amori , pubblicato nel 1960 che fornisce una chiave
di lettura per il tema della natura degli affetti umani. Importante infine è l'opera autobiografica Diario di un dolore (A Grief Observed),
scritto nei giorni antecedenti e seguenti il lutto per la morte della moglie Joy. In una sorta di dialogo con se stesso e con Dio, C.S. Lewis,
frequenta i luoghi della disperazione umana di fronte alla perdita di una persona cara. Da una totale e comprensibilissima ribellione
pone come un atto di accusa contro gli dei tacciati di ingiustizia e di invidia, il racconto prende le mosse
dall’autopresentazione di Orual, protagonista e alter ego dell’autore, figlia non bella –come essa stessa
afferma- di un re di un paese barbaro ai confini del mondo ellenistico. La donna descrive quindi la nascita
della sorella minore, Psiche. Orual si affeziona a lei, affascinata dalla bellezza straordinaria della bambina.
Quando Psyche diviene adulta, i sacerdoti della divinità femminile Ungit chiedono al padre di sacrificarla al
dio della montagna, figlio della dea Ungit. Il precettore di Orual, un greco di nome Volpe, spiega alla donna
che Ungit è una versione barbara e primitiva della greca Afrodite, e quindi il dio della montagna è quello che
i greci chiamano Eros. Dunque Psyche viene portata in cima alla montagna per essere offerta al dio e Orual,
come il padre, si dispera per la sua perdita. Poco tempo dopo, però, scopre che Psyche non è stata divorata
dalle fiere, ma vive all'aperto in cima alla montagna sacra, apparentemente esposta alle intemperie. Orual
cerca allora di convincerla a scendere e fuggire assieme a lei e Volpe. Ma Psyche rifiuta dicendo di essere
ormai la sposa del dio. A questo punto, il racconto non si discosta di molto dalla versione apuleiana, se non
fosse per il diverso atteggiamento di Orual, antitetico a quello delle due sorelle. Psyche afferma, infatti, di
vivere in un palazzo meraviglioso, invisibile agli altri mortali, dove ogni notte visita dello sposo ogni notte.
Deve solo rispettare una sola condizione, riceverlo al buio senza mai vedere il suo volto. Credendola
impazzita, Orual minaccia di uccidersi se non scenderà dalla montagna, per poi convincerla, almeno, a fare
luce con la lampada per scoprire il vero aspetto del marito. Psiche accetta piangendo le condizioni di Orual
per impedirne il suicidio. Nella notte Orual vede da lontano Psiche che accende la lampada, poi assiste all'ira
del dio e all'allontanamento di Psiche, condannata a vagare per il mondo. La storia prosegue narrando la vita
di Orual negli anni successivi. Divenuta una regina guerriera che governa il suo popolo con saggezza, in tutti
gli anni del suo regno Orual continua a pensare alla causa della perdita di Psiche e accusa gli dei di falsità e
doppiezza. Per questo scrive la sua storia in greco nella speranza che qualche viaggiatore la porti un giorno in
Grecia, dove gli uomini discutono liberamente di ogni cosa. La seconda parte, molto più breve della prima,
contiene la narrazione delle visioni e dei sogni di Orual, ormai vecchia e vicina alla morte. Orual vuole
integrare la sua storia con le rivelazioni che crede di avere avuto nel corso dei sogni, dove ha assistito ai
compiti assegnati a Psyche (separare una montagna di semi in mucchietti di diverse specie, procurarsi la lana
d'oro degli arieti sacri, riportare l'acqua dal regno dei morti), a cui lei stessa ha dovuto adempiere. Al
termine dell'ultima prova, Orual si trova di fronte ad un'aquila sacra. Viene portata davanti al giudice e alla
corte, composta dalla moltitudine degli spettri di coloro che sono già morti. In un lungo discorso, Orual ripete
le sue accuse e termina ribadendo il suo risentimento per la perdita di Psyche:« Ecco perché io dico che non fa
nessuna differenza se siete belli o ripugnanti. Che ci debbano essere degli dèi, questa è la nostra infelicità e
l'amaro sopruso che dobbiamo subire. Voi siete un albero alla cui ombra ci è impossibile crescere sani. Vogliamo
appartenere a noi stessi. Io appartenevo a me stessa e Psyche era mia, e nessuno aveva dei diritti su di lei. Vi è
mai venuto in mente di chi era quella ragazza? Era mia. Mia. Sapete cosa significa quella parola? Mia. Siete
ladri, seduttori ». Si rende conto che ha continuato a leggere la sua accusa per dozzine di volte di seguito e la
voce che la legge le è estranea. L'ultimo capitolo si conclude con il giudizio del dio su Orual, ma Orual si
sveglia dal sogno prima di poter vedere il dio. A conclusione dell’opera, le parole del sacerdote di Afrodite
che racconta di come la regina sia morta tenendo in mano quel libro di accuse da consegnare allo straniero
che si impegnerà a portarlo in Grecia.
3. Dal testo al palco
Adombrata in molti temi della novellistica popolare e in varie opere letterarie (dovute, fra gli altri, al
Boccaccio, al Boiardo, al Firenzuola, al Marino, al Pindemonte, allo Zanella, a W. Morris, al Pascoli, a La
Fontaine), la favola ha ispirato anche molte opere teatrali. Fra queste si distinguono l'“auto” Psyquis y Cupido
di José de Valdivielso, la commedia Ni amor se libra de amor (1662; Né l'amore si libera dell'amore) di
Calderón de la Barca, la tragedia-ballo Psyché di Molière-Corneille musicata da G. B. Lulli, la commedia
Psiche di Th. Shadwell musicata da M. Locke e una tragedia forse di Th. Corneille (1678), pure musicata dal
Lulli. Fra le riprese più strettamente musicali si citano un'opera di A. Scarlatti, un intermezzo di B. Marcello
e, soprattutto, un poema sinfonico (Psyché) di C. Franck. Sintesi di danza e pittura, infine, l’originale
coreografia di Massimiliano Pironti, dal titolo “Collezione privata”, messa in scena nel novembre del 2005 al
Teatro “Orione” di Roma: quadri e sculture, tra cui “Amore e Psiche” di Canova, prendono vita in
movimenti di danza lenti e sinuosi, sostituiti man mano da più energiche movenze o veri e propri tumulti e
palpitazioni.
verso il Creatore (sfiorando persino la blasfemia), si giunge a un ripensamento del rapporto con Cristo, figlio di quel Dio che non ha
esitato a mandare il proprio unigenito sulla croce per salvare il mondo. Quanto all’opera in questione, è probabile che i milioni di lettori,
affascinati dalle storie solari del mondo di Narnia e dai saggi apologetici del brillante autore delle “Lettere di Berlicche”, siano rimasti
spiazzati e sorpresi da questa storia oscura e terribile, tanto da non saperla apprezzare.
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Regia di Silvio Peroni
Coreografie Umberto Bianchi
Musiche Originali Zizzed
Scenografia Wolf
Costumi Rossana Pellicciari
Effetti Audio Domenico Laddaga
Infine, ne “La Favola di Amore e Psiche”, con la regia di Silvio Peroni, si rinuncia a un classicismo troppo
legato al tempo ed ai luoghi in cui venne scritto, per una versione che enfatizzi la musicalità e l’aspetto visivo.
La scenografia è stata infatti curata da un giovane pittore (Wolf), in uno stile fra classico e moderno, ad
esprimere al meglio l’ a-temporalità della favola. L’impianto musicale, affidato al d.j Zizzed, risulta anch’esso
un elemento descrittivo, che, come in un melodramma, si attiva con la voce recitante, per poi evolversi e
trasformarsi, sconfinando qualsiasi limite di genere: arrangiamenti jazz alla Keith Jarrett, ritmiche Trip
Hop, archi classicheggianti, rumorismi noise. Infine, la voce recitante-cantante del racconto Terry
Paternoster, microfonata attraverso l’ausilio di effetti vocali fa rivivere i personaggi della favola.