Femminile e saperi illeciti. La necromanzia nel Mediterraneo antico

Transcript

Femminile e saperi illeciti. La necromanzia nel Mediterraneo antico
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di Laurea in Lettere Classiche
TESI DI LAUREA
IN
STORIA DELLE RELIGIONI
FEMMINILE E SAPERI ILLECITI:
LA NECROMANZIA NEL MEDITERRANEO ANTICO
Laureando:
Alberto Cecon
Relatore:
Chiar.ma Prof.ssa Ileana Chirassi Colombo
Correlatore:
Chiar.mo Prof. Ezio Pellizer
Anno Accademico 2004-2005
INDICE
1. AMBIGUITÀ LESSICALE, AMBIGUITÀ SEMANTICA
pag. 04
1.1 Nomi diversi, un concetto simile
pag. 05
1.2 Necromanzia e Psychagogía
pag. 07
1.3 Dalla “necromanzia” alla “negromanzia”
pag. 11
2. LA NECROMANZIA COME DIVINAZIONE
pag. 18
2.1 Il mondo come scrittura
pag. 19
2.1.1 Segni, simboli, saperi
pag. 21
2.1.2 Sorti, sogni, santuari
pag. 25
2.2 Divinazione e necromanzia
pag. 29
3. INGRESSI PER GLI INFERI. I NEKUOMANTEÍA
pag. 37
3.1 Acheron in Tesprozia
pag. 40
3.2 Avernus/Aornos
pag. 44
3.3 Tainaron
pag. 47
3.4 Herakleia Pontica
pag. 50
4. LA NEKYIA OMERICA
pag. 53
4.1 Premessa
pag. 53
4.2 Odysseus, l’evocatore d’ombre
pag. 54
4.3 Una divina consigliera. La “dea” Circe
pag. 61
4.4 Conclusioni parziali
pag. 67
2
5. UN CASO DI NECROMANZIA BIBLICA. LA “PITONESSA” DI EN-DOR
pag. 69
5.1 Il testo: I Samuele 28, 3-25
pag. 70
5.2 Il contesto
pag. 71
5.3 Pitoni e ventriloqui
pag. 73
5.4 Problemi testuali
pag. 77
Appendice: i testi dei “LXX” e della “Vulgata”
pag. 85
6. UN’ANOMALA EVOCAZIONE. I PERSIANI DI ESCHILO
pag. 88
6.1 Gli “attori”
pag. 88
6.2 Le azioni
pag. 92
6.3 Come piangere il morto
pag. 96
6.4 Parlare ai morti, parlare da morti
pag. 99
7. IL “FORNO” E LE “API” DI PERIANDRO. NECROMANZIA E NECROFILIA
pag. 105
7.1 Periandro il tiranno
pag. 107
7.2 Giochi testuali, giochi di potere
pag. 108
7.3 Assassino e Sapiente
pag. 112
7.4 L’ape, il miele, la morte
pag. 114
7.5 Possibili interpretazioni
pag. 118
8. UNA MALVAGIA SAPIENTE. LA “STREGA” ERICTHO
8.1 Pericolosi precedenti
pag. 120
pag. 120
8.1.1 Una potente straniera. L’herbaria Medea
pag. 121
8.1.2 Elena, divina sposa e assassina
pag. 123
8.1.3 Italiche veneficae
pag. 125
8.2 Mode e modelli in Lucano
pag. 128
8.3 Eritòn cruda e altre triste
pag. 133
9. CONCLUSIONI
pag. 135
3
1. AMBIGUITÀ LESSICALE, AMBIGUITÀ SEMANTICA
Da dove partire per una analisi che si propone di essere breve ma non superficiale di
quell’esperienza d’interesse storico-religioso denominata “necromanzia”, se non da
una semplice ma necessaria osservazione linguistica?
Innanzitutto, ci potremmo chiedere, “necromanzia” o “negromanzia”? La
distinzione non sembri del tutto oziosa. L’ “empia” e “scomoda” pratica di evocare le
“anime” o “spiriti” dei defunti a scopo divinatorio, testimoniata – e forse
effettivamente attestata, secondo alcune interpretazioni di fatti archeologici,1 fin
dall’età protostorica – in diversi contesti geografici e storico-culturali, si presenta fin
da subito, nel suo aspetto prettamente lessicale e semantico, come decisamente
ambigua. I due termini, “necromanzia” e “negromanzia”, spesso usati in modo
sinonimico nel più semplice e banalizzante significato di “arte magica”, conoscenza
di tecniche non necessariamente divinatorie o “demoniache”, hanno origine
dall’unione del termine greco mantei/a (divinazione) preceduto, rispettivamente, da
nekro/» (morto, defunto), oppure dalla sua “variante” parzialmente omofona
“negro-”, deformazione del latino niger (nero, scuro):
«There is also a linguistic basis for the expanded use of the word: the term
black art for magic appears to be based on a corruption of necromancy (from
Greek necros, “dead”) to negromancy (from Latin niger, “black”)».2
Non solo i due termini sono spesso confusi nelle testimonianze antiche così come in
alcuni commenti recenziori, ma la stessa idea di utilizzo di agenti “sovrannaturali”
(“spiriti” di persone decedute, ma anche potenze “demòniche” come i
nekudai/monej, divinità o “dèmoni” dei morti)3 si innesta e si mescola, secondo
1
Laffineur 1991.
2
Bourguignon 1987: 345.
3
Si vedano, a titolo puramente esemplificativo, le iscrizioni su tavolette di piombo riportate in SEG
XXVI 1717 (dalla zona di Antinooupolis, Egitto, III-IV sec. d.C., ora al Louvre) e SEG XXXVIII
4
tragitti mentali e percorsi culturali spesso difficili da rilevare, nel più generico e
banalizzante concetto di “magia”, secondo una “definizione ricorrente” (di incerta
attribuzione) riportata nell’Enciclopedia Virgiliana, in un saggio che tratteggia il
profilo di Virgilio “mago “ e “negromante” sorto a partire dal XII sec., la quale in
parte anticipa quanto diremo nelle pagine seguenti:
«Mantia enim graece divinatio dicitur et nigro quasi Nigra, unde Nigromanzia
nigra divinatio, quia ad atra daemoniorum vincula utentes se adducit».4
1.1 Nomi diversi, un concetto simile
Dal punto di vista prettamente lessicale, se il termine “negromanzia” rappresenta,
come vedremo, un’evoluzione e una deformazione (non solo in senso grafico) da
“necromanzia”, quest’ultimo è invece in diretta relazione al prolungato e
documentato utilizzo del termine nekuomanteiªon (neut. sing.: “oracolo dei morti”),
attestato almeno dal V sec. a.C.,5 e delle correlate forme nekuomantei/a (fem. sing.:
“necromanzia”, nel senso della pratica vera e propria) e ne/kuia, attestate non prima
del III sec. a.C.
La prima attestazione del termine ne/kuia è costituita dal titolo del
“resoconto” di tale rituale scritto dal cinico Menippo di Gàdara, vissuto nella prima
metà del III sec a.C., che molto più tardi offrirà lo spunto al suo “imitatore” (o
continuatore) Luciano di Samosata (ca. 120-dopo il 180 d.C.) in opere quali
l’Icaromenippo o la Necromanzia, divenendone protagonista. È probabile che lo
stesso Menippo abbia ripreso il termine, usato forse fin d’allora, per denominare l’XI
Libro dell’Odissea, benché tale denominazione (tuttora in voga) non sia
1837 (da Ossirinco, Egitto, III-IV sec. d.C.) le quali costituiscono degli “incantesimi d’amore”
contenenti “scongiuri” ad un nekudai/mwn o nekude/mwn.
4
Bronzini 1987: 684: l’Autore rimanda alla Chronique rimée de Ph. Mouskes, publiée par le Baron de
Reiffenberg I, Bruxelles 1836, 628.
5
Ogden 2001: XX e sgg. (Introduction).
5
esplicitamente riferita prima di Diodoro Siculo, nel I sec. a.C. Secondo Anne-Marie
Tupet, «the meaning of nekuia should be confined to “descent to the dead”»,6 con
una sensibile riduzione, o delimitazione, del campo semantico.
Necyomantia, la forma latinizzata di nekuomantei/a, è invece il titolo di un
mimo sempre del I sec. del cavaliere e mimografo Decimo Laberio (106-43 a.C.).
Nello stesso periodo Cicerone attribuisce ad Appio Claudio la pratica della
nekuomanteia (divinazione per mezzo dei morti),7 riservando al suo trattato Sulla
Divinazione la variante psychomantia (divinazione per mezzo delle “anime”)8 in un
passo il cui parallelismo con quello precedente ci autorizza a pensare che fossero
usati come sinonimi; ed ancora nelle Tuscolane, I 115, troviamo l’uso di
psychomantíum come luogo preposto a tali riti. Ritroveremo ancora il femminile
astratto psuchomanteia nel lessico del cristiano Enea di Gaza (V-VI sec.).9
Ancora, Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) conosce la forma latinizzata
necyomantea in riferimento ad Odissea XI, anche se la lettura del passo è incerta.10
Nel secolo seguente, lo stesso termine designa il titolo alternativo del Menippo
lucianeo sopra citato. La forma nekromantei/a (con “r”), che si trova come glossa a
nekuomanteia in Esichio di Alessandria (V-VI sec.), è invece relativamente rara,
benché già all’inizio del III sec. a.C. (o al II sec. a.C., a seconda dell’attribuzione)
risalga il termine nekroma/ntij, nel probabile senso di “necromante”, nel poema
Alessandra di Licofrone di Calcide o Pseudo-Licofrone.11
1.2 Necromanzia e Psychagogía
6
Ogden 2001: XXXI (Introduction). Il testo citato è A.M. Tupet, La magie dans la poésie latine, vol.
I, Paris 1976.
7
Cicero Tusc. Disp. I, 37.
8
Cicero De Div. I, 132.
9
Ogden 2001: XXXII (Introduction).
10
Plinio Hist. Nat. XXV, 132.
11
Ogden 2001: XXXII (Introduction).
6
Semanticamente simile, ma di diversa costruzione etimologica (e forse concettuale),
è il termine yuxagwgi/a, “evocazione delle anime” (da yuxh/, “anima” in quanto
distinta dal corpo, “ombra”, in riferimento ai defunti;12 e da a)na/gw, condurre su, far
salire), attestato per la prima volta, sembra, in Filostrato – probabilmente Flavio
Filostrato, il più noto dei tre omonimi autori ricordati dal lessico Suda, nato verso il
160-70 d.C., e autore di una Vita di Apollonio di Tiana in otto libri13 – nel dialogo
Eroico ((HRWIKOS), sebbene il nome che designa l’operatore di tale prassi, lo
psycagogós, sia decisamente anteriore: Yuxagwgoi/ è il titolo di un frammento
recentemente pubblicato di Eschilo (ca. 525-456/5), interpretato da A. Henrichs
come «a dramatised version of the Homeric Nekyia»;14 nell’uso del termine si
potrebbe cogliere la sottile ma sostanziale differenza tra “evocazione” vera e propria
(genericamente “necromantica”) e “discesa agli inferi” (kata/basij), differenza
che proprio nell’episodio omerico sembra a tratti venir meno ponendo non pochi
problemi interpretativi: è nota infatti la discordanza (“logica”, più che testuale)
presente nell’XI libro dell’Odissea, secondo la quale Odysseus inizialmente vede
apparire le “anime” nei pressi della “fossa” da lui scavata, mentre a partire da un
certo punto (v. 568) sembra che egli stesso scenda, fisicamente, nelle profondità della
terra.15 Johnston sottolinea inoltre la frequenza del verbo a)na/gw, usato sia in età
classica che nei periodi successivi nel senso di “evocare, condurre su le anime”,
anche in senso metaforico, come in Simonide (556-468 ca.), dove è usato in
riferimento ai soldati caduti in battaglia, il cui valore ne mantiene vivo il ricordo,
facendolo salire, innalzare, dall’Ade.16
12
Impossibile dar conto in questa sede dell’ampio campo semantico e della lunga storia del termine.
Sempre in riferimento alla sfera mortuaria, oltremondana, numerosissime e appositamente studiate
sono le ricorrenze del termine psyché in Omero: si veda, solo a titolo d’esempio, il classico studio di
E. Rodhe, Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci (1890-94), cit. in
bibliografia.
13
Rossi 2003: 753.
14
Voutiras 1999: 79.
15
Johnston 1999: 85: «[…] it seems likely that Aeschylus presented Odysseus not as journeying to
meet the dead at the entrance to Hades but as calling up into his presence».
16
Anth. Pal. VII 251, 4: a)na/gei dw/matoj e)c )Ai/dew, cit. in Johnston 1999: 85.
7
Interessante può essere il parallelo, suggerito dalla stessa studiosa, con la figura ed il
lessico del filosofo “guaritore”, discepolo di Pitagora, Empedocle (ca. 480-ca. 420) al
quale, coerentemente con una biografia presentata come “straordinaria” e in qualche
modo “eccessiva”, tra gli altri aneddoti prodigiosi veniva attribuita la “resurrezione”
di una donna morta, ovvero rimasta “senza respiro”.17 Considerato da Aristotele nel
Sofista [fr. 65 Rose] l’inventore della retorica, e nelle fonti definito “filosofo della
natura” e “poeta”, uomo dai costumi singolari e dai tratti “divini”, 18 la sua fama è
legata in modo non secondario all’episodio della guarigione “miracolosa”: «Della
donna rimasta senza respiro Eraclide [Sulle malattie, fr. 72 Voss] dice che si trattava
di questo, e cioè che passò trenta giorni senza respirare e senza battiti di polso: onde
chiama Empedocle medico e indovino».19 Stando al lessico Suda (X sec.), anche il
medico Acrone di Agrigento, autore di un’opera Sulla medicina e che «dava
dimostrazione della sua sapienza contemporaneamente ad Empedocle», era «uno di
quelli che diagnosticarono un certo tipo di respiro».20 È forse di un certo interesse
ricordare come il filosofo agrigentino si fosse guadagnato l’appellativo di “domatore
(o trattenitore) dei venti” (Kwlusane/maj) per aver liberato, frenandone la corrente
con una serie di pelli d’asino opportunamente disposte, la propria città da un vento
particolarmente violento che rovinava i raccolti ed era causa di sterilità nelle donne.21
L’interesse di questo personaggio per l’elemento “ventoso”, etereo – uno dei
quattro elementi (fuoco, aria, terra, acqua) dai quali, nella sua dottrina, hanno origine
tutte le cose – e l’insistenza delle fonti sulle sue capacità “straordinarie” di gestire,
manipolare, in qualche modo incanalare l’aria, il respiro, il soffio vitale (o mortifero,
nel caso del vento pestilenziale) può essere oggetto di riflessione, anche in rapporto
con il tema qui esaminato della “resurrezione” – meglio, “rianimazione” – dei corpi.
Diog. Laert. VIII 61, Emped. 31 B 111 DK, line 9: a)/ceij d マ e)c )Ai/dao katafzime/nou me/noj
a)ndro/j., cit. in Johnston 1999: 85.
17
18
Per le notizie biografiche riguardanti Empedocle cfr. Giannantoni 1983, tomo I: 323-36.
19
Diog. Laert. VIII 60-61, cit. in Giannantoni 1983: 326; ma cfr. la traduzione di Marcello Gigante, in
Diog. Laert., Vite dei filosofi, Milano, Laterza, 1983: «[…] il caso della donna svenuta ed esanime era
tale che egli per trenta giorni mantenne il suo corpo senza polso e senza respiro» (corsivo nostro), che
sembra attribuire ad Empedocle la capacità di “sospendere” il respiro, suggerendo un diverso tipo di
“controllo” su di esso.
20
Suda, s.v. )/Akron, cit. in Giannantoni 1983: 332.
21
Diog. Laert. VIII 60, Clem. Alex. Strom. VI 30, Suda s.v., cit. in Giannantoni 1983: 326-34.
8
La questione si inserisce nel più vasto problema della gestione, manipolazione
dello “pneuma”, soffio, respiro, espressione sostanziale del “divino maschile” trattato
nel Problema XXX dei Problemata Physika di Aristotele. Ricordiamo come la
conoscenza e l’utilizzo di poteri “altri” in grado di guarire dalla morte, nell’ambito di
una “scienza” medica, di una te/xnh terapeutica (i)atrikh\ e)pisth/mh, in Diodoro
Siculo, IV 71, 1) avvertita come “estrema”, che la cultura greca tratta con grande
sospetto, ha un riferimento mitico nella figura di Asklepios. Generato da Apollo, egli
viene allevato dal centauro Cheiron dal quale apprende la medicina (i)atrikh/),
divenendo abile (xeirourgiko/j) al punto da “resuscitare” anche i morti (a)nh/geire
kai\ tou\j a)poqano/ntaj). Zeus lo punirà, fulminandolo, temendo che gli uomini
possano apprendere questa sua “sapienza”.22
Non si dimentichi come lo stesso Empedocle per molti versi anticipi,
figurandone tra i precursori, quella schiera di figure di “uomini divini”, “maghi” e
taumaturghi, possessori e manipolatori di conoscenze altre, “superiori”, che operano
e si spostano predicando le loro dottrine in tutto il bacino del Mediterraneo nella
tarda antichità.23
Contemporanea è anche un’interessante prova archeologica proveniente dalle
tavolette oracolari del santuario di Zeus a Dodona (Inv. M166) datata fine del V sec.
a.C. (420-410 ca.), sulla quale un gruppo di persone, forse rappresentanti di una
comunità, interrogano la divinità riguardo la necessità di utilizzo dello “psycagogo”
Dorios (…h)= mh\ xrhuªntai Dwri/wi twª[i] yuxagwgwªi; – trad. ingl.: “should
they really use Dorios the necromancer?”). L’uso della particella “mh\” – sottolinea
l’editore del testo – che dimostra come gli interroganti si aspettassero una risposta
22
Apollodoro, Biblioteca III 10, 3-4. Molto importante è il ruolo del culto iatromantico organizzato
attorno alla figura di Asklepios; cfr. ad es. Ustinova 2002: 275-76.
23
Cfr. a questo proposito Dzielska 1988: l’articolo, incentrato in gran parte sulla rimarchevole figura
di Apollonio di Tiana, andrebbe forse preso con una certa cautela per l’uso acritico di termini come
“magia”, “santità”, “religiosità” e simili che sembrano usati come categorie date a priori; citiamo a
titolo d’esempio il paragrafo finale: «Un altro capitolo della santità greco-romana verrà scritto
dall’epoca degli uomini divini neoplatonici del basso impero romano. La loro santità, anche se
arricchita di nuovi elementi, sarà sempre basata sulla filosofia e sulla magia come fondamento
archetipico della divinità umana e ancorata alle esperienze degli uomini divini del passato: Pitagora,
Platone, Apollonio di Tiana e tutti quelli che li veneravano» (corsivo nostro).
9
negativa, può significare che essi considerassero come straordinario l’impiego di un
“necromante”.24
Troviamo un’accezione decisamente negativa del termine in Frinico, il
grammatico atticista (seconda metà del II sec. d.C.): nella sua Preparazione sofistica
(Sofistikh\ Proparaskeuh/, in 37 libri) yuxagwgo/j vale, in sintonia con il
senso “moderno” dell’uso, “rapitore di bambini”, che sembra quasi anticipare la
figura del “negromante” inteso come operatore negativo, come maleficus, termine
tecnico che farà la sua comparsa e avrà un suo uso preciso nel lessico legislativo
romano a partire dall’età imperiale.25
Dobbiamo infine giungere al commentatore virgiliano del IV sec. Servio per
incontrare una distinzione “tecnica” piuttosto marcata tra il termine sciomantia
(latinizzazione di skiomanteia), “divinazione per mezzo delle ombre”, ed il già noto
necromantia inteso ora quale “divinazione attraverso la rianimazione di cadaveri”,
sulla scorta del noto episodio di Lucano, Pharsalia VI. Può essere incidentale, ma
giova segnalarlo, che il grammatico, allievo di Elio Donato, si situa in quella fase di
“rinascita pagana” contraddistinta da uno «sforzo sostenuto per diffondere
largamente fra tutte le classi sociali ed in tutte le terre dell’impero la cultura
classica», ed inoltre «si può constatare come Servio nutrisse anche interessi
filosofico-religiosi, orientati nella direzione del neoplatonismo, allora in voga fra
l’intellettualità romana».26
Ad ogni modo, è degno di nota – conclude Ogden nella sua Appendice dedicata
alla storia dei termini (e relative varianti) indicanti la “necromanzia” presenti tanto
nella lingua greca quanto in quella latina – che il latino sembra non aver mai
sviluppato un termine astratto per “necromanzia” dal proprio vocabolario, quali che
siano le possibili implicazioni di tale affermazione.27
24
Christidis 1999: 71.
25
Sull’uso e l’evoluzione semantica della coppia di termini “maleficus/veneficus” si veda l’apposita
Appendice al saggio di D. Grodzynski 1982 (1974), e naturalmente l’indispensabile studio di R.
Garosi 1976 (1974), entrambi citati in bibliografia, che prendiamo come punti di riferimento. Per l’uso
“moderno” del femminile “malefica”, cfr. nota 40.
26
Lana 1987: 360-62.
27
L’Autore sembra quasi suggerire, implicitamente, che la “necromanzia” non è di origine latina; dal
punto di vista linguistico, ciò sarebbe tautologico: il termine necromanteia (o comunque lo si voglia
scrivere) è a tutti gli effetti greco. Che poi il concetto, l’insieme delle credenze legate a tale pratica,
sia di origine non latina (greca? orientale?), è assunto superficiale, anche se non ovvio; nelle pagine
10
1.3 Dalla “necromanzia” alla “negromanzia”
Cerchiamo di risalire per quanto sia possibile alla fonte dell’ “equivoco” linguistico
che ha dato luogo alla doppia forma “necro-/negro-” e relative varianti, con tutto il
carico di ambiguità formale e concettuale che ne deriva. Utile strumento d’indagine
si rivela essere il Glossarium Mediae Latinitatis che ci offre una panoramica sull’uso
dei principali termini latini tra l’800 e il 1200, dal quale ricaviamo le seguenti
informazioni.28
Per il periodo in questione rileviamo l’uso della voce “necro-/nicromantia” e
relativo aggettivo (anche sostantivato) “necro-/nicromanticus” alternata in modo
apparentemente indifferenziato a “nigromantia” (o “nigromancia”), aggettivo “negro/nigromanticus”. La prima forma è attestata, per citare solo gli autori più notevoli,
nelle opere del teologo e abate francese Radbertus Paschasius (785-860 ca.),
Expositio in Evangelium Matthei, del teologo agostiniano Ugo di San Vittore (1096
ca.-1141), autore di un Didascalion e di un De sacramentis christianae fidei, nella
Chronica sive Historia de duabus civitatibus del vescovo Ottone di Frisinga (1114
ca.-1158), nel Policraticus di Giovanni di Salisbury (1115/20-1180), e nel lexicon di
Ugutio Pisanis († 1210) s.v. “manthos”; la seconda variante è invece presente nei
Sermones del vescovo Ivo di Chartres (1040 ca.-1115), nelle Epistole di Papa
Paschalis I (817-824), e nelle Gesta regnum Anglorum del monaco benedettino
Guglielmo
di
Malmesbury
(1090/96-dopo
1142).
Interessanti
i
lemmi
“nichromanticus”, “nicromanthicus” e “nychromanticus”, dove l’etimologia originale
sembra essere stata travisata se non addirittura dimenticata. Si segnala infine il meno
seguenti, con l’esplorazione anche di “modelli” estranei o non direttamente legati al mondo romano, si
cercherà di interpretare alcune fasi della storia di tali credenze, senza la pretesa di spiegarne le origini,
ammesso che sia possibile farlo.
28
Novum Glossarium Mediae Latinitatis ab Anno DCCC usque ad annum MCC, Hafniae, Ejnar
Munksgaard, 1959-69, vol. M-N, pp. 1165-66. Per i dati biografici degli Autori citati: Mourre 1973
(1968).
11
comune sostantivo “necromantius” nel De Universo di Rabano Mauro (784 ca.-856),
arcivescovo di Magonza.
Il termine “negromanzia” e le forme correlate sono inoltre da mettere in relazione
con la valenza negativa di “negro” come sinonimo di “scuro” in riferimento alle
popolazioni d’origine africana, termine che alle soglie dell’età moderna ed in seguito
alle grandi scoperte geografiche entra prepotentemente a far parte, con un duraturo
strascico di diffidenza, nel lessico e nell’immaginario europeo che assiste alla nascita
della pratica dello schiavismo coloniale. È a partire dalla scoperta dell’America che
segna, antropologicamente, l’«incontro più straordinario della storia occidentale»,
quello con l’«altro assoluto», con il «diverso» per eccellenza, 29 che assistiamo al
regolare sfruttamento lungo le rotte mercantili di schiavi “neri”, la cui inferiorità era
naturalmente accettata o addirittura promossa anche dagli stessi “difensori” delle
popolazioni indigene soggette alle cruente conquiste degli Europei.30
Non va trascurato, in linea sincronica, che lo stesso 1492 segna, con la presa di
Granada ed il crollo della (tollerante) dominazione musulmana, la data della
massiccia espulsione – che non poche ripercussioni avrà sullo sviluppo storico delle
stesse culture respinte – da parte della cattolica Spagna degli Ebrei (i cosiddetti
29
Todorov (1982) 1992: VII (citato dalla Nota introduttiva di Pier Luigi Crovetto).
30
Indicativo l’atteggiamento ambivalente nei confronti dei “neri” dimostrato da chi si dedicò alla
“causa” dei popoli conquistati, come il domenicano Bartolomé de Las Casas (al quale tra l’altro
dobbiamo la trascrizione del Diario di bordo di Cristoforo Colombo). Citiamo ancora da Todorov
(1982) 1992: 207: «[…] è un fatto che Las Casas non ebbe, inizialmente, lo stesso atteggiamento nei
confronti degli indiani e nei confronti dei neri: egli accettò che questi ultimi, a differenza dei primi,
fossero ridotti in schiavitù. Va ricordato che la schiavitù dei neri era allora un fatto acquisito, mentre
quella degli indiani cominciava appena sotto i suoi occhi. […] È noto, tuttavia, che nel 1544 egli
possedeva ancora uno schiavo nero (aveva rinunciato agli schiavi indiani nel 1514); e nell’Historia si
trovano ancora espressioni come questa: “È una cecità inconcepibile quella di coloro che vennero in
queste terre e trattarono i loro abitanti come fossero degli africani” (II, 27)» (corsivo nostro).
12
“marrani”) e degli Arabi, i “mori” (o “moriscos”), cioè “scuri”, appunto. 31
Segnali culturali che indicano come fosse in atto, nel coevo pensiero europeo tardomedioevale/rinascimentale, un processo di messa in sospetto, o di aperto rifiuto,
quasi di “demonizzazione”, di tutto ciò che si presenta come non cristiano, non
occidentale, pericoloso. In particolare, l’accusa di “stregoneria” o “magia nera” era –
significativamente – associata alle pratiche “straniere” e “oscure” tanto degli Ebrei
quanto dei musulmani: citando un saggio di Norman Cohn,32 l’antropologo Marc
Augé ricorda come «la dottrina cristiana del X secolo sull’Anticristo, che fece testo
per tutto il medioevo, ne faceva un ebreo della tribù di Dan, figlio di una prostituta
penetrata dal diavolo al momento del concepimento; la sua educazione, veniva
precisato, “in Palestina sarebbe stata diretta da maghi e stregoni, che lo avrebbero
iniziato alla magia nera e a ogni sorta di iniquità” (trad. it. p. 88). Nel medioevo» –
prosegue Augé – «l’odio verso gli ebrei si nutrirà della ripetuta identificazione tra
l’Anticristo e Satana, gli ebrei e i diavoli, la stregoneria e la diavoleria: “Il popolino
era convinto che nella sinagoga gli ebrei adorassero Satana sotto forma di gatto o
rospo, invocando il suo aiuto con pratiche di magia nera” (ibid.)».33
31
“Moro”, in origine, designava gli abitanti della Mauritania; il termine fu poi esteso ad altre
popolazioni africane (per es. gli Etiopi), e in particolare ai musulmani che nel sec. VIII invasero la
Spagna: cfr. Vocabolario Treccani 1989, s.v. Più correttamente, i “marranos” (cioè “porci”,
probabilmente dall’arabo “màhram”, “cosa proibita”) e i “moriscos” erano rispettivamente gli Ebrei e
i musulmani che rimasero in Spagna dopo il 1492 accettando una forzata (e apparente) conversione al
cristianesimo. Dei primi, circa 200.000 abbandonarono in seguito il Paese, dando luogo alla “dinastia”
dei “Sefarditi”, mentre i rimasti (circa 100.000) furono oggetto di continue persecuzioni da parte
dell’Inquisizione; i secondi subirono una serie di espulsioni e confische, seguite da una possente
sollevazione araba repressa soltanto nel 1570, alla quale seguì una più definitiva espulsione di massa
con la confisca dei beni immobili, mentre i bambini al di sotto dei quattro anni furono trattenuti per
essere allevati nella religione cristiana. Cfr. Mourre 1973 (1968) s.v. “Marrani”, “Moriscos”;
Vocabolario Treccani 1989 s.v. “Marrano” (qui riferito anche ai musulmani), “Morisco”. Si noti che
«Nella prospettiva cattolica i marrani, essendo battezzati, rientrarono nella giurisdizione del tribunale
dell’inquisizione, il quale invece non era competente rispetto agli ebrei non battezzati»: Stefani 1997:
97.
32
Cohn Norman, The Pursuit of the Millennium, London, Secker & Warburg 1957, trad. it.: Milano,
Comunità 1965, cit. in Augé 1981.
33
Augé 1981: 689-90. Come tali pregiudizi fossero tutt’altro che nuovi ed occasionali, è precisato in
Stefani 1997: 92-3: «Durante i secoli delle crociate si sviluppò un altro tenace stereotipo antigiudaico:
l’accusa di omicidio rituale. Con questa espressione ci si riferisce alla presunta uccisione, attuata per
scopi religiosi, di un cristiano per mano di ebrei. Le prime comparse di quest’accusa sono, in realtà,
molto remote, trovandosi già nel retore greco Apione, vissuto ad Alessandria nel I sec. d.C. […] Nel
sec. XV l’accusa, spesso collegata all’altro stereotipo antigiudaico della profanazione dell’ostia, si
diffuse verso l’Oriente europeo».
13
Alla luce di tali fatti, certo non esaustivi per comprendere i complessi fenomeni
che agiscono alla base degli scontri tra realtà culturali diverse, ma sicuramente
indicativi di una certa temperie culturale che trova puntuale riscontro nell’uso
linguistico, il passaggio ideologico e quindi anche strumentale, funzionale, dalla
“necromanzia” intesa come pratica “pagana” (in senso storico-religioso) alla magia
“negra”, tenebrosa, in qualche modo altrettanto “pagana” (in senso dispregiativo),
risulta facilmente comprensibile.34
Segnaliamo che “negro-/nigromanzia” è glossa ben attestata nella lingua italiana
almeno a partire dal XIII sec. o al più tardi XIV sec.;35 sempre nel XIII e XIV sec. si
riduce anche a “gramanzia”, in relazione con “scaramanzia” (dall’incrocio di
chiromanzia e negromanzia), di cui rimane «traccia d’una evoluzione semipopolare
della voce nel corso gramanti, folletti della montagna»,36 ma presente anche nella
prosa della fine del Duecento-inizi Trecento, come nell’anonima Tavola Ritonda.37
Altri esempi sono nel Novellino, la raccolta di novelle composta nell’ultimo
ventennio del XIII sec. (novella XXI: Come tre maestri di nigromanzia vennero alla
corte dello ’mperadore Federigo), e in autori come Ricordano Malispini (ca. 1220ca. 1290, autore della Cronica Fiorentina, una delle principali fonti di Dante), Cecco
d’Ascoli (ca. 1267-1327, accusato di magia e necromanzia e messo al rogo), e più
34
Può essere utile ricordare, in merito all’espulsione del 1492 e all’escalation dell’“attacco”
ecclesiastico nei confronti del “diverso”, la quasi coincidenza di alcune date fondamentali di questo
processo: nel 1478 viene fondata con la benedizione di Papa Sisto IV (1471-1484) l’istituto
dell’Inquisizione spagnola, sotto il diretto controllo della Corona; al 5 dicembre 1484 data la bolla
papale di Innocenzo VIII (1484-1492) Summis desiderantes affectibus che ispirerà direttamente il noto
“manuale” (oltre che l’operato) dei domenicani tedeschi Heinrich von Kräus (Institoris) e Jacob
Sprenger (sul cui contributo si discute), il Malleus Maleficarum (Strasburgo, 1487), e l’altrettanto
fondamentale e di poco successivo “trilogus” (dialogo a tre) di Ulrich Molitor († 1501), De lamiis et
pythonicis mulieribus (Costanza, 1489), la fortuna e diffusione dei quali – dovuta anche alla recente
invenzione della stampa – ebbero una vastissima portata nel fenomeno della “stregoneria” europea.
Cfr. Bonomo 1985 (1959), in partic. pp. 165-200; Castelli/Bosco 1994, pp. 107-11; Chirassi Colombo
1994/95.
35
Per Battisti-Alessio 1954: “negromante/-ico/negromanzia”: XIV sec., “negromantesco”: XVII sec.;
per De Mauro 2000: “negromante/negromanzia”: 2^ metà del XIII sec., “negromantico”: 1351,
“negromantesco”: 1711, “negromantica” (sost. femm., non agg.): sec. XX.
36
Battisti-Alessio 1954 s.v. “negromante”.
37
Prati 1951 s.v. “negromante”.
14
tardi Bernardo Bibbiena (1470-1520), Torquato Tasso (1544-1595), fino ai poeti e
prosatori moderni e contemporanei (Leopardi, D’Annunzio…).38
Interessante è il femminile “negromantessa” attestato in Fra Giordano da Pisa
(1260-1311),39 che richiama sinistramente quel femminile plurale maleficae del
manuale di Institoris e Sprenger.40
La glossa è naturalmente frequente nel Decameron di Giovanni Boccaccio
(1313-1375), ad esempio nella giornata X, novella V (ambientata a Udine, dove si
ricorre ad uno che «dove ben salariato fosse» realizza l’incantesimo richiesto «per
arte nigromantica») e novella IX (dove il “negromante” di turno è al servizio del
Saladino); a queste si aggiunga la «nigromantica operazione» della giornata VIII,
novella VII e l’ancor più significativa beffa dai toni scatologici della novella IX, in
cui si fa esplicito riferimento, pur nel tono scherzoso, alla pratica dell’ “andare in
corso”, costituita da licenziose riunioni notturne, sull’effettivo valore delle quali si è
discusso.41
Nonostante la moltitudine di questi esempi, è forse nella letteratura epicocavalleresca che l’uso del termine diventa oltremodo frequente, inducendoci a
supporre come tale “ridondanza” in ambito letterario possa aver contribuito non poco
a rendere il vocabolo di uso comune, in parte svuotandolo del significato originario.
Nell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (1441-1494) Atalante è il
«grande incantatore e nigromante» (I, 76) che conosce «de l’erbe la natura / E le
virtute e l’opre tutte quante» (XVII, 36); nel Morgante (XII 81-83) di Luigi Pulci
(1432-1484) un «antico e sottil nigromante… ch’era maestro di somma dottrina»
38
Ampio repertorio di citazioni ordinate per singola voce in Battaglia 1981.
39
Battaglia 1981 s.v., e Prati 1951 s.v. “negromante” (masch. o femm.).
40
Per la stretta associazione tra i «soggetti dotati di facoltà stregoniche» – lamiae, striges, maleficae,
pythonicae – e la sfera del femminile, cfr. Castelli/Bosco 1994: 108-9 e Bonomo 1985 (1959): 187212. Per la distinzione tra donne “pythonicae” (superstiziose) e “maleficae” (malvagie, le “streghe”
vere e proprie), cfr. Bonomo 1985 (1959): 197 sgg., dove si insiste sulla vasta diffusione nella
letteratura e nell’immaginario medioevale delle (false) etimologie negativizzanti tese a spiegare
l’intrinseca “malvagità” della donna: «Femina dicitur a fe et minus, quia sempre minorem habet et
servat fidem… Mala ergo mulier ex natura cum citius in fide dubitat, etiam citius fidem abnegat, quod
est fundamentum in maleficiis», e ancora, «maleficae dictae sunt a male de fide sentiendo» (cit. dal
Malleus Maleficarum, in Bonomo 1985 (1959): 203-4).
41
«Che in questa tipica novella municipale il Boccaccio descriva non la tregenda delle streghe, come
dice il Graf [A. Graf, Miti leggende superstizioni del Medio Evo, Torino, 1925], ma la notturna
riunione della “società di Diana”, è fuori di dubbio»: Bonomo 1985 (1959): 62, che dedica un
apposito capitolo del suo libro all’argomento (La «società di Diana» nel Boccaccio e nella tradizione
popolare).
15
impiega le proprie arti al servizio del Soldano; in Ludovico Ariosto (1474-1533),
Orlando Furioso, “negromante” ricorre non meno di una quindicina di volte nei
primi ventiquattro canti (nel resto del poema è quasi del tutto assente; “negromanzia”
ricorre un paio di volte in tutto), e due volte è designato come “moro” (VIII 18, XXII
24).
Il Negromante è anche il titolo di una commedia ariostesca scritta tra il 1509 e
il 1520 su insistenza di Papa Leone X e rappresentata a Ferrara durante il carnevale
del 1528: tipica “commedia degli equivoci” di derivazione plautina (non senza spunti
boccacceschi)42 e ricca di situazioni salaci, ritrae una figura di “negromante” –
ripetutamente detto anche “astrologo”, senza alcuna distinzione di senso – caricata
negativamente nei suoi aspetti più beffardi e ridanciani. Si tratta di qualcuno «che
mal sapendo leggere e mal scrivere / faccia professione di filosofo, / d’alchimista, di
medico, di astrologo, / di mago, e di scongiurator di spiriti» (vv. 528-31); è dunque
un imbroglione, un impostore. Il testo è particolarmente interessante, in base a
quanto detto qui sopra, in quanto questo “mago”, ritratto nel Negromante di Ariosto,
«è, per dire il ver, giudeo d’origine, / di quei che fur cacciati di Castilia» (vv. 55152), precisazione eloquente della consolidata identificazione dell’ebreo con il
lestofante avido e bugiardo, nonché “sapiente” nell’arte dell’inganno, che grande
peso avrà ancora nel pensiero moderno e contemporaneo.
Segnaliamo per mera curiosità (ma senza discostarci troppo dall’argomento)
l’uso nella prosa garibaldina di “negromantismo” come sinonimo di «azione negativa
e oscurantistica che, secondo l’anticlericalismo ottocentesco, la religione attuerebbe
nei confronti dei fedeli»43: il “negromante”, con un vistoso ribaltamento di
prospettiva, non è più il “Saracin crudele” nemico della cristianità, ma il vertice
politico della stessa Chiesa.
Notiamo infine, en passant, che – ad eccezione del Battaglia, affatto esauriente da
questo punto di vista – ben tre su quattro tra i dizionari etimologici consultati,
compreso il recente De Mauro, non riportano la voce “necromanzia”, se non come
42
Per il testo e le relative note: L. Ariosto, Commedie, a cura di Cesare Segre, Torino, Einaudi 1976
(ristampa parziale dell’edizione Commedie, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954).
43
Battaglia 1981 s.v. “Negromantismo”.
16
semplice variante sotto la glossa “negromanzia” e derivati. Il termine è invece
presente nel Vocabolario Treccani, dove però figura sempre come «variante di
negromanzia, ma usato solo nella sua accezione specifica» (corsivo nostro): tale
“accezione specifica” («evocazione dei defunti a scopo divinatorio») viene quindi
riportata sotto la voce “negromanzia”, stabilendo così una precisa dicotomia
semantica tra una forma “generica” ed una più “tecnica”, specializzata; le ragioni
storiche di tale netta divisione non sono tuttavia palesate.44
Per toglierci subito dall’imbarazzo, d’ora innanzi utilizzeremo, tra le due
forme, quella con il prefisso “necro-” preferendola, arbitrariamente, alla seconda che
ci sembra aggiungere imprecisione ed inesattezza ad un concetto già di per sé
sufficientemente confuso nel suo uso storico e nei suoi possibili significati.
44
Vocabolario Treccani 1989: vol. III*, s.v. “Necromanzia”, “Negromanzia”.
17
2. LA NECROMANZIA COME DIVINAZIONE
In apertura dell’importante volume da lui curato, Divinazione e razionalità, lo
studioso J.-P. Vernant nota a proposito della divinazione, facendo suo un assunto che
fu già di Cicerone,45 come non vi sia «Nessuna società, nel corso della storia umana,
che non l’abbia a suo modo conosciuta e praticata».46 Per quanto scontata possa
sembrare tale affermazione, essa racchiude due fondamentali concetti: la
“universalità” delle pratiche divinatorie avvertite come esigenza nelle più diverse
culture di ogni tempo e paese, e al contempo la peculiarità con la quale tale esigenza
si manifesta, dando luogo nei diversi contesti storico-culturali a molteplici e spesso
non equiparabili (se non nelle loro linee generali) sistemi di gestione del sapere
divinatorio, con tecniche, strumenti, presupposti concettuali – ed eventuali
interdizioni, come si cercherà di evidenziare a proposito della divinazione
necromantica – affatto caratteristici e differenti da società a società.
Tale differenziazione induce a diffidare della tentazione di costruire modelli
universali, onnicomprensivi, in cui inserire, secondo categorie tipologiche
(ideologiche) date e definite una volta per tutte, i singoli “casi” di pratica divinatoria
che la documentazione antichistica ed etnografica ci mettono a disposizione: si rende
quindi necessario ricondurre il concetto di divinazione alla cultura che lo ha prodotto,
che lo riconosce, che lo usa. Bisogna «relativizzarlo, cioè, ad un determinato sistema
di valori».47 Proprio seguendo tale criterio, nei successivi capitoli cercheremo di
analizzare alcune tra le più notevoli sequenze letterarie di consultazione
necromantica a scopo divinatorio collocandole, pur nella brevità della nostra
esposizione, nel contesto storico o storico-letterario che le ha prodotte, interpretate,
diffuse, presentandole come modelli – o meglio, “anti-modelli”, modelli di valenza
negativa, illegittima – di un sistema culturale storicamente definito.
45
Cic., De Divinatione I 2.
46
Vernant 1982 (1974): 5.
47
Sabbatucci 1999 (1994): 39.
18
A tale fine, facciamo un passo indietro, puntando l’attenzione sul concetto di
divinazione e sulle sue possibili definizioni, il suo lessico, le sue azioni.
2.1 Il mondo come scrittura
Prendendo a prestito la terminologia di un illuminante saggio di D. Sabbatucci
sull’argomento, Divinazione e cosmologia, potremmo definire la divinazione come il
tentativo di “descrivere” il mondo sulla base di un determinato e storicamente
definito sistema culturale: «Un sistema di valori determina una altrettanto sistematica
concezione del mondo, ovvero una cosmologia. A livello più elementare la
cosmologia sembra equivalere ad una “descrizione” del mondo; potrei dire: una
rappresentazione del mondo in termini di “scrittura”».48 Qualora si assuma tale
impostazione metodologica, che tra l’altro presenta il merito – tutt’altro che
accessorio: anzi auspicabile e necessario in una valutazione di tipo storico – di
«neutralizzare il giudizio negativo che la nostra cultura attribuisce alle pratiche
divinatorie»,49 ci si accorgerà che tale modello, la metafora delle pratiche divinatorie
come “scrittura”, presenta un duplice aspetto: come alla “scrittura” si contrappone (in
modo complementare, non antitetico) la “lettura”, analogamente ad una visione
cosmologica di un “mondo da scrivere” si affianca quella di un “mondo da leggere”:
«In verità, restando ai termini della divinazione, si tratta in entrambi i casi di un
“mondo da indovinare”: nel primo caso lo si indovina scrivendo, come una
realtà sempre mutevole da fissare per iscritto ogni volta che la si debba
contattare; nel secondo caso lo si indovina leggendo, come una realtà fissata una
volta per sempre con cui si entra in contatto mediante l’osservazione diretta».50
48
Sabbatucci 1989: VII.
49
Sabbatucci 1989: VIII.
50
Sabbatucci 1989: VIII.
19
Qualunque sia la civiltà presa in esame, e indifferentemente dal tipo di concezioni
cosmologiche ad essa relative, la finalità (ma anche la difficoltà) dello studioso è
quella di riuscire a ricondurre, relativizzandolo, il nostro concetto di divinazione –
moderno, “occidentale” (e cristiano) – al sistema di valori preso in esame. Analogo
problema si posero gli antichi, a partire dai filosofi greci le cui principali scuole di
pensiero di volta in volta attribuirono alla divinazione, intesa come comunicazione
tra l’umano e il divino, grande attendibilità (come gli stoici) oppure completa
sfiducia (come gli accademici), assumendo in questo modo un giudizio morale sulla
natura della divinazione, ovvero su coloro che dovrebbero renderla possibile: gli dèi.
Troviamo così delineato nella speculazione antica il problematico rapporto tra
divinazione e religione, che trova puntuale riscontro nelle spiegazioni etimologiche
adottate dalla cultura greca e riprese – polemicamente – da quella romana: lo stesso
termine latino divinatio (dal quale il vocabolo moderno deriva) implica infatti l’idea
della divinitas, il concetto di un mondo che non può rinunciare al “divino”. I Greci
invece, «pur mettendo anch’essi la divinazione in connessione con gli dèi, la
considerarono soprattutto proprio quale forma di conoscenza; la chiamarono mantica
(manteia) da una radice che ha forse prodotto anche il verbo manthanein,
“apprendere”».51 Platone, dal canto suo, in un passo del Fedro (244a-d) citato non a
caso da Cicerone in apertura al proprio saggio,52 faceva derivare la mantikh/,
appunto l’arte divinatoria, dalla manikh/, lo stato “maniacale”, che possiamo definire
antropologicamente come “stato alterato di coscienza”, che secondo Platone è
sempre all’origine del sapere divinatorio.53
A prescindere dalle etimologie, più o meno probabili, e trasportando il discordo
dal mondo greco a quello romano – di cui Cicerone è ottimo e qualificato interprete
51
Sabbatucci 1989: 197-98.
52
Si può considerare il De Divinatione ciceroniano «l’unico grande trattato sull’argomento che ci sia
giunto completo dall’antichità, composto nel 45 a.C. a Roma ma con alle spalle l’esperienza diretta di
una varia trattatistica, soprattutto greca, sull’argomento»: Chirassi Colombo 1990: 47.
53
Chirassi Colombo 1990: 48; Encicl. d. Religioni 1970: 729. Celebre il passo di Cicerone, De Div. I
1: «Itaque ut alia nos melius multa quam Graeci, sic huic praestantissimae rei nomen nostri a divis,
Graeci, ut Plato interpretatur, a furore duxerunt» («E come in altri casi noi romani ci esprimiamo
molto meglio dei greci, così anche a questa straordinaria dote i nostri antenati dettero un nome tratto
dalla divinità, mentre i Greci, come spiega Platone, derivarono il nome corrispondente dalla follìa»: la
trad. dei passi citati è di S. Timpanaro, ed. Garzanti, 2001; l’ampio commento al testo di questa
edizione è curato dallo stesso Timpanaro, che riprende – spesso contestandolo – il “classico”
commento di A.S. Pease, University of Illinois Studies, Urbana, 1920-23, rist. Darmstadt, 1963).
20
(anche in virtù della propria esperienza personale di àugure) – la dicotomia si traduce
nell’opposizione tra ars e furor, tra un genus divinandi artificiosum ed un genus
naturale: in altre parole, secondo una terminologia tuttora valida anche se non
universalmente accettata, si distingue tra una mantica “tecnica” ed una “non
tecnica”.54
2.1.1 Segni, simboli, saperi
Campo privilegiato della mantica “tecnica”, e sistema di primaria importanza nelle
culture antiche per accedere alla conoscenza divinatoria è l’extispicina,
l’osservazione delle viscere (exta) degli animali sacrificali. Benché in Grecia il suo
ruolo sia meno rilevante rispetto al modello babilonese (che ne ha fatto la forma di
divinazione “per antonomasia”, presente com’è fin dall’epoca sumerica, documentata
già all’inizio del II millennio a.C.)55 ed alla prassi etrusca che troviamo largamente
impiegata presso i Romani (i quali, ritenendola “non romana”, marginalizzarono la
figura degli indovini incaricati, gli aruspici, ma non il suo impiego), l’extispicina
deve la propria rilevanza alla connessione con quell’istituto che ricopre un ruolo
centrale nel mondo antico, il sacrificio: così come questo è il mezzo per comunicare
con gli dèi, i segni contenuti nelle interiora animali sono, in un reciproco e inverso
scambio comunicativo, il modo con cui gli dèi comunicano con gli uomini. 56 La
lettura dei segni presenti negli organi delle vittime, dei messaggi cifrati che la
divinità trasmette agli uomini e che vanno interpretati da appositi specialisti, è parte
di un più complesso sistema semiotico che vede come “interpretabile” e quindi
traducibile in linguaggio umano l’intero rito sacrificale: la stessa uccisione della
vittima, il modo in cui essa cadeva, in cui si dimenava, la cottura stessa e addirittura
54
Cic., De Div. I 11: «Duo sunt enim divinandi genera, quorum alterum artis est, alterum naturae»
(«Due sono i generi di divinazione, l’uno che riguarda l’arte, l’altro la natura»). Cfr. Chirassi
Colombo 1990: 48.
55
Sabbatucci 1989: 201-2.
56
Sabbatucci 1989: 202.
21
la direzione e la forma assunta dal fumo che ne derivava. 57 Un suggestivo parallelo
con la cultura moderna può aiutarci a comprendere l’importanza dell’extispicina (e
dell’epatoscopia, l’osservazione del fegato, hÂpar h/patoj, in particolare) nel
mondo antico, e la sua funzione “cosmologica”, di “lettura” del mondo: «Il fegato
veniva inteso come il vero e proprio “mondo da leggere”. Si costruirono modelli di
fegato, così come noi ci costruiamo mappamondi, modelli del mondo; in essi si
ricomponeva la settorialità politeistica così come nei nostri mappamondi si
ricompone la settorialità geografica».58
Si citerà inoltre, a questo proposito, non tanto per la sua dubbia importanza
storica quanto per gli inquietanti collegamenti che potrebbe offrire con l’argomento
del nostro lavoro, l’esistenza di una antropomantica, una divinazione con uso di
esseri umani, nella fattispecie cadaveri di vittime umane, dalle fonti «prudentemente
attribuita a popolazioni non greche, i Lusitani ad ovest, e gli Albanesi del Caucaso ad
est (Strabone XI 4.7)».59
L’extispicina tuttavia è solo una parte del vastissimo sistema interpretativo dei
simboli – intesi, etimologicamente, come ogni occorrenza fortuita (evento, oggetto,
suono, persona: genericamente, ogni circostanza) che divenendo segno acquista
valore significante – messo in atto dalle culture antiche dando luogo ad altrettanti
mezzi divinatori. A titolo d’esempio si possono ricordare la libanomanzia (da
li/banoj, incenso), l’osservazione delle spirali di fumo (dell’incenso), la
phyllomanzia (da fu/llon, foglia), l’osservazione del modo in cui cadono le foglie,
la piromanzia e l’empiromanzia (da puªr puro/j, fuoco), rispettivamente
l’osservazione del movimento delle fiamme e del comportamento di oggetti gettati
nel fuoco; ricco di implicazioni è il caso della palmica (da palmo/j, agitazione,
pulsazione, movimento ondulatorio etc.), l’osservazione dei movimenti involontari
del corpo umano, che trova riscontro nella prognostica medica inaugurata dalla
scuola ippocratica60: esempio non privo di riscontri letterari è lo starnuto, segno che
già in Omero (Od. XVII 541) troviamo associato al presagio di un evento futuro
57
Sabbatucci 1989: 202. Per un’ampia panoramica sul sacrificio nel mondo antico, cfr.
Grottanelli/Parise (a cura), Sacrificio e società nel mondo antico, Roma-Bari, Laterza, 1988.
58
Sabbatucci 1989: 203.
59
Chirassi Colombo 1990: 49.
22
dall’esito positivo, e i cui significati convenzionali la cultura moderna non ha del
tutto scordato.61
Grande importanza riveste l’osservazione effettuata mediante superfici
riflettenti – acqua o altri liquidi,62 specchi, cristalli – che prende il nome di
lecanomanzia (leka/nh, piatto, bacino): l’immagine che vi si vede riflessa può
essere un “fantasma” o “spirito” il quale, opportunamente invocato, può essere
interpellato per riceve il messaggio (divino, oltremondano: in ogni caso extraumano)
che si desidera conoscere; curiose, ma non di meno interessanti, possono apparire ai
nostri occhi moderni alcune “applicazioni pratiche” di tale diffusissimo metodo
presenti in un ambito cultuale pubblicamente riconosciuto, “ufficiale”.63 Non è
difficile scorgere i possibili rimandi all’agire necromantico, con il quale spesso la
lecanomanzia è associata, quando si pensi che la “figura” evocata può essere, oltre
che quella di uno spirito “anonimo” di defunto, anche di tipo “demonico”, di
un’entità di natura extraumana o addirittura divina, come la dea Hecate o Apollo.
Svariatissime sono le tecniche che prevedono l’osservazione e l’interpretazione
dei segni in vari modi connessi al mondo naturale: importantissima l’oionistica o
ornitomanzia (da oÃrnij o/rniqoj, uccello), l’insieme delle conoscenze che si
ricavano dal comportamento degli uccelli – la direzione del volo, ma anche il modo
in cui si posano sugli alberi, in cui dispiegano le ali, etc. – alla quale può essere in
60
Chirassi Colombo 1990: 49. Ricordiamo di passaggio che la disciplina della scienza medica che
studia i segni del corpo prende tuttora il nome di semeiotica, da non confondersi con la semiotica, con
la quale condivide, più che la semplice etimologia, l’origine.
61
Per curiosità folkloristica si riporta che «Lo starnuto, che i Calabresi chiamano “segnale”, è fra i
segni infausti; onde non solo si scongiura esclamando: Evviva! salute! Felicità! ecc., ma si osserva
quante volte si ripete, la direzione in cui avviene (verso occidente è buon segno; alle spalle di una
persona è cattivo), il giorno (di giovedì è triste annunzio), e perfino l’ora»: Treccani 1950 (1932) s.v.
“Divinazione”. Per i diversi tipi di classificazione dei sistemi divinatori: Encicl. d. Religioni 1970.
62
Può trattarsi di semplice acqua o di olio, ma più significativo è l’incontro dei due liquidi: assumerà
valore semantico la conformazione delle gocce d’olio in un bacile d’acqua o, al converso, delle gocce
d’acqua in un bacile d’olio; anche il vino può servire allo scopo; si segnala l’uso, per il mondo
ebraico, di una mistura di olio e miele all’interno di un recipiente di vetro per un particolare rito di
evocazione da compiersi nei pressi di una tomba, in cui la miscela viene definita come “offerta” al
morto invocato (con interessante parallelo con il mondo greco: cfr. capitolo 6): Treccani 1950 (1932)
s.v. “Divinazione”.
63
Esempi sono offerti dal santuario di Demetra a Patrasso, dove si poteva conoscere l’esito di una
grave malattia per mezzo di uno specchio fatto oscillare sopra una fontana sacra, in cui appariva
l’immagine del malato; a capo Tenaro, invece, una fonte permetteva di “visualizzare” tutti i porti e le
navi del Mediterraneo (Pausania III 25): la proprietà fu per sempre annullata quando una donna vi
lavò i panni sporchi; cfr. Chirassi Colombo 1990: 49.
23
qualche modo associata la conoscenza del “linguaggio degli uccelli”, prerogativa di
molti personaggi speciali, uomini “divini”, a partire dalle paradigmatiche figure di
indovini mitici quali Tiresia o Melampo, ma riscontrabili anche in contesti
perfettamente storici lungo le rotte culturali del Mediterraneo antico.64 Al medesimo
ambito potremmo attribuire anche tutti quei segni che, prodotti dalla natura, ne
sembrano violare le leggi interrompendo o modificando il corso consueto degli
eventi: stiamo parlando dei numerosi te/rata, prodigi, eventi portentosi, la cui
straordinarietà indica l’imminenza di un fatto notevole, non necessariamente
negativo; fenomeni meteorologici inconsueti, nascite mostruose, movimenti tellurici,
statue trasudanti umori,65 ma anche l’intervento “miracoloso” da parte di animali
inviati dagli dèi, come nel II canto dell’Iliade, dove il serpente che divora i nove
passeri preannunzia, dietro spiegazione del mantis Calcante – l’indovino “ufficiale”
della spedizione troiana66 – i nove anni che separano gli Achei dalla presa di Troia.67
2.1.2 Sorti, sogni, santuari
Una netta distinzione tra mantica che richiede l’applicazione di una particolare
“tecnica” (te/xnh, ars) interpretativa e mantica “ispirata”, che si esplica mediante
messaggi che la divinità invia a persone particolari, diverse, “naturalmente” ricettive
a questo tipo di comunicazione per così dire “diretta”, è tuttavia di impiego
64
Si veda quanto accennato alla nota 22, su Empedocle e Apollonio di Tiana, ai quali andrebbe
aggiunto lo “pseudoprofeta” (così definito da Luciano) Alessandro di Abonuteichos: per un
inquadramento storico del personaggio, cfr. Nock 1928; G. Sfameni Gasparro, “Alessandro di
Abonotico ovvero come crearsi un'identità religiosa. II. L'oracolo e i misteri”, in Colloque
international sur "Les Syncrétismes religieux dans le monde mediterraneén antique", Roma 25- 27
settembre 1997, Roma 1999, 275-305. La comprensione della “lingua degli uccelli” possiede una
certa rilevanza anche nel mondo ebraico, dove, analogamente alla Grecia, particolarmente significativi
sono i messaggi del corvo (negativi), della colomba (positivi) o di altri particolari tipi di volatili:
Encyclopaedia Judaica 1972: s.v. “Divination”; cfr. Chirassi Colombo 1990: 48.
65
Cfr. Cic. De Div. I 36 e 97-99, II 58 (nascite mostruose, piogge di pietre, di sangue, di latte etc.), I
78 (terremoti).
66
Il fatto che Calcante, pur «possedendo uno statuto sacerdotale ben definito (è sacerdote di Apollo)»,
debba «continuamente provare la sua abilità» indica eloquentemente la diffidenza che il mondo
omerico nutre per la mantica in generale, riconoscendo – con riserva – quasi esclusivamente quella
“tecnica”, interpretativa, ed ignorando (tranne qualche allusione) quella “estatica”, ispirata: Chirassi
Colombo 1994 (1983): 72-3.
67
Episodio puntualmente discusso da Cicerone (II 63-65); sempre nel De Div. (I 36) si veda, per una
possibile analogia in chiave storica e “domestica”, l’episodio dell’apparizione di una coppia di
serpenti (maschio e femmina) a Tiberio Gracco, forieri di morte per lui o la sua sposa, a seconda di
quale dei due serpenti egli avesse scacciato.
24
disagevole quando si affrontino tipologie che sembrano possedere caratteristiche
comuni ad entrambe le categorie. Gli esempi più notevoli sono rappresentati dalla
cleromanzia, il ricorso alle sortes, i segni prodotti dal caso (xlhªroj, sorte,
sorteggio, anche “oracolo”) e dall’oniromanzia (da oÃnar o)nei/ratoj, sogno), con le
quali si entra nell’ambito di tutta una serie di pratiche divinatorie complesse e
largamente attestate nel mondo antico.
L’esigenza di brevità ci induce a citare rapidamente la prima delle due
categorie, la mantica che affida il responso alla sorte, all’ambiguità del caso che
«contrappone alla fatica spesso non premiata della deduzione ed agli inganni del
credere l’affidabilità del probabile. Anche lasciando da parte il ricorso ad una guida
divina, il sorteggio contiene la possibilità effettiva di ottenere l’indicazione migliore
in assoluto».68 La casualità tuttavia non esclude la possibilità di poter – o dover –
interpretare i risultati ottenuti: possediamo notizie relative a santuari della Grecia in
cui si praticavano consultazioni cleromantiche effettuate per mezzo di fave (utilizzate
tra l’altro nella democratica Atene per la scelta dei suoi rappresentanti pubblici),
sassolini, dadi etc., i cui risultati, ottenuti dalla gamma di possibili combinazioni
numeriche, trovavano rispondenza in apposite tabelle esplicative prestabilite a
disposizione dei consultanti; il passaggio a «quella numerazione convenzionale del
cosmo che, iniziata dai Pitagorici, porta alle sofisticate previsioni della aritmomanzia
e della cabbala» non è lontano.69 Opportuno ci sembra il rimando alla pratica ebraica
della consultazione degli
Urim e Tummim, la sola permessa (assieme
all’interpretazione dei sogni, di valenza però molto più ambigua) e istituzionalizzata
dall’ortodossia veterotestamentaria: basata su un polarismo rigidamente binario,
permetteva di ottenere una risposta che ammetteva due sole possibilità (si/no,
vero/falso) ad una domanda precisa.70
68
Chirassi Colombo 1990: 53.
69
Chirassi Colombo 1990: 53.
70
Encyclopaedia Judaica 1972: s.v. “Divination”. Merita una citazione anche la balomanzia,
divinazione per mezzo delle frecce (be/loj, dardo, giavellotto), attestata in ambito ebraico (Ezechiele
21:26) ma praticata, stando al Corano (che naturalmente la proibisce, Sura 5:4, 92), anche dalle tribù
arabe pre-islamiche: dal lancio o dall’estrazione da una serie di frecce incise con parole “chiave” (di
cui rimangono punte di bronzo di XI-X sec.) di una di esse si otteneva il responso: Encyclopaedia
Judaica 1972: s.v. “Divination”.
25
Più complesso è il discorso sulla gestione – produzione, interpretazione, utilizzo –
dei saperi derivanti dai sogni. La cultura greca li studia, li classifica, li ordina in
schemi interpretativi che li rendano fruibili a scopi anche (non solo) divinatori,
distinguendo due distinte forme di produzione onirica: l’enypnion (qualcosa che sta
dentro al sogno), di natura essenzialmente patologica, utile per individuare le
affezioni del corpo; e l’onar, che si presenta come sostanza quasi materiale, o essere
consistente, “persona” sovrannaturale la cui “apparizione” è motivata, finalizzata ad
uno scopo. L’inizio del XXIV canto dell’Odissea cita il “paese dei Sogni” (dhªmon
'Onei/rwn) che confina e si confonde, nell’immaginaria topografia omerica, con le
regioni dei morti; la ripartizione tra sogni veri e sogni falsi è presente in una famosa
pagina di Virgilio (Eneide VI 893-96), ripresa da Ovidio (Met. XI 592 sgg.), che
descrive con la consueta eleganza la “caverna dei sogni” situata presso il paese dei
Cimmeri: originando da essa, i due tipi di sogni escono rispettivamente dalla porta
“di corno” e da quella “d’avorio”. A discapito di ogni infruttuoso tentativo
(analogico, etimologico) d’interpretazione di tale sfuggente simbologia, risulta
quanto mai chiaro come gli antichi (ma noi moderni non siamo da meno) situassero il
messaggio onirico sotto il segno dell’ambiguità.
Di notevole interesse è il discorso sulle implicazioni terapeutiche del sogno:
all’interno di un sistema di santuari iatromantici, uno dei cui centri era rappresentato
da Epidauro, ci si affidava alla pratica del sonno incubatorio che garantiva, previa
accurata purificazione, l’intervento del dio guaritore per eccellenza, Asklepios, con il
quale si stabiliva in questo modo – attraverso le immagini da lui inviate nel
sonno/sogno – un contatto, una comunicazione: il corpo diventa così ricettacolo,
destinatario del messaggio divino, quale che sia il mittente – dio, daimon, potenza
superiore inequivocabilmente extra-umana.71 Pur nella diversità dei mezzi e delle
applicazioni pratiche, la ricerca di una comunicazione con il sovraumano tramite
un’immagine, un’esperienza prevalentemente visiva, avvicina il sogno alla già viste
pratiche lecanomantiche, e con queste all’esercizio necromantico, in quanto le
“sembianze” che appaiono in sogno possono essere quelle di un defunto, di un morto
“sapiente”, al quale rivolgersi per acquisire una determinata conoscenza,
71
Cfr. Chirassi Colombo 1990: 52-53.
26
informazioni precise: in un campo d’indagine quanto mai scivoloso, refrattario a
schematizzazioni nette e prestabilite, si nota come tecniche anche molto diverse tra
loro si confondano e si sovrappongano, rifuggendo aprioristiche distinzioni tra
pratiche lecanomantiche o cleromantiche, tecniche incubatorie e terapeutiche, e
istituti di non facile o immediata collocazione nella gamma del simbolico religioso,
come i cosiddetti “oracoli dei morti”.
Il termine oracolo rimanda ad una serie di modelli cultuali ampiamente utilizzati e
diversamente organizzati nell’ambito dei politeismi antichi (ma anche moderni: si
pensi alle culture indiana e cinese, e all’importanza da esse accordata ai sistemi
oracolari)72: la consultazione avviene in appositi santuari, i quali, anche quando
situati in posizione periferica rispetto ai centri urbani, si inseriscono in modo
funzionale nel tessuto comunitario, cittadino, del quale sono parte integrante;
l’appartenenza al corpo sacerdotale non implica quasi mai un isolamento o tanto
meno una marginalità sociale rispetto alla vita quotidiana, pubblica,73 come si
potrebbe pensare per certe forme particolari, in qualche modo speciali, quali i
santuari “di guarigione” o i luoghi destinati al culto funerario di particolari categorie
(eroi, morti in battaglia) di defunti di interesse collettivo, in senso lato “politico”.74
Discorso parzialmente diverso andrebbe fatto per Delfi, il grande santuario
panellenico e “sopranazionale” dell’antichità, miticamente fondato dal dio Apollo sul
cadavere “in putrefazione” del pitone di sesso femminile da lui ucciso, Pytho (da
pu/qein, imputridire).75 Fulcro e signore di un grande “progetto semiologico” nel
quale il cosmo si configura come un “libro da leggere”,76 il dio che “non rivela né
nasconde il suo pensiero, ma lo segnala (shmai/nein)”77 si propone quale garante di
una comunicazione privilegiata, che può attuarsi anche mediante la parola umana, il
72
Si rinvia per l’argomento al citato volume di Sabbatucci 1989.
73
Chirassi Colombo 1994 (1983): 64 sgg.; sul tema in generale, cfr. l’intero cap. terzo
(“L’organizzazione del sacro: sacerdoti, riti, feste”).
74
Chirassi Colombo 1994 (1983): 69-70.
75
Per l’etimologia del “pitone”, cfr. paragrafo 5.3.
76
Chirassi Colombo 1990: 50-51 e 1996: 430.
77
Secondo la famosa asserzione di Eraclito (fr. Diels-Kranz 93).
27
suono disarticolato ma “traducibile” – in verso esametrico78 – della sua profetessa, la
Pythia: “posseduta” in uno stato di transe dal dio, che la “ispirava”, rendendola cioè
“piena” del suo “spirito”, la portavoce del messaggio di Apollo (la quale poteva
essere di umili condizioni, incolta)79 si faceva docile strumento del dio, partecipando
per così dire “passivamente” alla trasmissione del sapere divino.80 Giova insistere
ancora sui due aspetti dell’oracolo delfico che ne hanno decretato l’importanza: la
centralità, il suo ruolo «funzionale al mondo delle poleis» in quanto «centro di potere
come luogo privilegiato di manipolazione delle tecniche mantiche e come punto di
riferimento obbligato delle relazioni interpolitiche»,81 e la sua azione immediata,
concreta nel divenire storico, anche quotidiano; entrambi gli aspetti distinguono
nettamente l’agire del dio e della sua messaggera da quello, da un lato, dei tanti
“profeti” itineranti, incontrollati e incontrollabili che la Grecia delle po/leij conosce
e tratta con cautela se non proprio ostilità,82 e dall’altro da quelle figure (ancora
femminili) di “profetesse” a-storiche ovvero operanti in un tempo mitico, del tutto
passato,
qualitativamente
diverso
da
quello
attuale,
che
propongono
«un’enunciazione decentrata, discontinua, atemporale»83. Sono le Sibyllai, le signore
della profezia ispirata alle quali, in un lungo arco di tempo che vede il loro numero e
i loro nomi moltiplicarsi assumendo identità e “nazionalità” diverse, è affidato il
messaggio divino che, originato nell’ambito del politeismo greco, sarà ripreso e
rielaborato dal monoteismo giudaico, infine cristiano.
78
Sui versi della Pizia (e sulla possibilità di un controllo su di essi da parte del clero delfico) cfr.
anche le osservazioni di Dodds 1997 (1951): 97-98, che cita anche esempi di moderni
“improvvisatori” di versi (un profeta greco “pazzo” ed una donna cinese “ossessa”), con ripetuti
riferimenti alle esperienze dello spiritismo, al quale l’Autore sembra prestare un certo interesse.
79
Cfr. Dodds 1997 (1951): 91-92 (basandosi su Plutarco, De Pyth. Orac. XXII 405 c): «[…] la Pizia
dei tempi di Plutarco era figlia di un povero agricoltore, donna onesta e rispettabile, ma non molto
istruita e senza esperienza».
80
Sul ruolo “passivo” della Pizia, si veda l’articolo di Seidel 2002 (sulla “Prassi necromantica nel
Midrash”): 102 (n. 16), che mette in relazione lo “spirito che parla dall’ascella” dei testi ebraici con la
nozione ellenistica che le donne “oracolari” parlino attraverso i loro “orifizi”: «Tale funzione
corporale va distinta ma non separata dai meccanismi della vergine pizia di Delfi» (trad. nostra);
l’Autore cita il saggio di G. Sissa, Greek Virginity, Cambridge, Harvard Univ. Press, 1990 (trad. it. La
verginità in Grecia, Roma-Bari, Laterza, 1992), la quale punta l’attenzione «to the nature of the
possession and the portrait of the body of the virgin».
81
Chirassi Colombo 1994 (1983): 84.
Si tratta degli eÃnqeoi, “posseduti dal dio”, dei quali si occupa specificamente il XXX dei
Problémata Physiká di attribuzione aristotelica: cfr. Chirassi Colombo 1996: 430.
82
83
Chirassi Colombo 1996: 431.
28
2.2 Divinazione e necromanzia
Alla luce di quanto detto nelle precedenti pagine non sarà troppo difficile
comprendere il senso di una pratica – di una serie di pratiche – che
convenzionalmente definiamo “necromantiche” collocandole, spesso indistintamente,
in una zona liminale, al confine tra i grandi e documentati modelli di interpretazione
del cosmo, e quel territorio in parte inesplorato nel quale confluiscono confusamente
le definizioni, i concetti, le teorie relative al “magico”, inteso nella sua valenza
negativa di “illecito”.
Ma ricordiamo ancora una volta che queste schematizzazioni (o tentativi di
schematizzare) corrispondono ad interpretazioni moderne (occidentali) di fatti e idee
antichi o etnograficamente distanti che, estrapolati dal contesto – storico, culturale,
linguistico – perdono di valore, ovvero ne acquistano uno nuovo, ma fuorviante,
anacronistico, metodologicamente discutibile; capita così di riscontrare – non solo in
ambito divulgativo – l’uso di termini o categorie relativamente “moderni” in
riferimento
a
concetti
e
comportamenti
cronologicamente
anteriori
o
antropologicamente “diversi”: esempio banale ma indicativo (e molto frequente) può
essere l’utilizzo acritico di vocaboli come strega o magia, che tanti equivoci hanno
generato e continuano a generare, nonostante i molti tentativi di classificazione
lessicale anche da parte di illustri studiosi.84
Da questo punto di vista è forse utile insistere ancora sull’appartenenza di ciò
che chiamiamo “necromanzia” ad un complesso sistema simbolico, divinatorio, cioè
in senso lato “cosmologico” (secondo la suddetta accezione) che non trova riscontro
diretto nei nostri attuali (occidentali) sistemi culturali.
84
Si pensa soprattutto al “classico” testo di Evans-Pritchard, Stregoneria, oracoli e magia tra gli
Azande (Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande, London, Oxford Univ. Press, 1937, trad.
it.: 1976), le cui distinzioni tra “Witchcraft”, “Sorcery”, “Magic”e simili (almeno per il mondo
anglofono: l’ed. italiana riporta la tabella delle corrispondenze tra i termini azande, inglesi e relative
traduzioni – interpretazioni? – italiane) hanno fatto scuola, pur senza eliminare il problema.
29
Indubbiamente interessanti, anche se non sempre pertinenti o tipologicamente
confrontabili, sono i paralleli con pratiche relativamente recenti quali lo spiritismo
che, nato ufficialmente in America, in un sobborgo dello stato di New York, nel 1848
ad opera delle sorelle Fox, ha dato origine a tutta una serie di “tecniche”, talora con
pretese “scientifiche”, mentre un caso di sincretismo complesso investe la
Macumba, rituale di evocazione dei morti, contaminazione molto interessante tra i
culti di transe o SMC (Stati Modificati di Coscienza) afrobrasiliani tipo Candomble e
lo spiritismo di importazione europea.
Nel caso dello spiritismo, il “contatto” con il defunto solitamente assume la
forma di un’interrogazione sull’“aldilà” finalizzata alla conoscenza, da parte del
vivo, dello stato di “salute” e del tipo di “vita” del defunto stesso (laddove nelle
testimonianze antiche la consultazione del morto avviene, in modo inverso e
significativo, per ottenere informazioni su questa vita, su eventi futuri o azioni che la
riguardano);85 negli altri casi, una serie di culti “di possessione” di importazione
africana, “sincretisticamente” influenzati e condizionati dallo spiritismo, e
mescolandosi a varie credenze (non ultime cristiane) – culto degli antenati, culto dei
santi – ha dato origine a tipi diversi di prassi cultuale in cui l’aspetto divinatorio,
rilevante ma non sempre esclusivo, prevede il “richiamo” dello “spirito” di
determinati defunti all’interno di un corpo, che diventa così “recipiente”86 e
strumento di conoscenza “superiore”, con suggestive – ma talora pericolose –
analogie formali con alcuni dei modelli antichi finora esaminati.87
85
Si obietterà che in alcuni casi, come quello di Periandro (capitolo 7), lo scopo della consultazione
non è il futuro di per sé, ma l’ottenimento di un’informazione pratica (l’ubicazione di un deposito di
denaro): ammesso che simili distinzioni fossero negli interessi degli antichi, si può argomentare che
l’azione – e le eventuali conseguenze – derivanti dalla notizia ricevuta avranno luogo, effettivamente,
nel futuro.
86
Il corpo, ricevendo lo “spirito” evocato, perde la propria individualità: si ricorda la curiosa pratica di
creare “zombi”, corpi viventi ma privi di “anima”, il cui utilizzo non è privo di connotazioni sociali o
addirittura politiche; sul Vodu, cfr. Métraux 1971 (1958): 282-85. L’uso di cadaveri (non
documentabile ma sospettato) avvicinerebbe alcuni culti afro-americani alla “necromanzia” nella sua
accezione più negativa, del tipo “per rianimazione”.
Il pensiero va al “corpo” della Pizia, che si fa oÃrganon, strumento della divinità (paragrafo 2.1.2);
ma le suggestioni, anche quando utili a livello comparativo, sono da prendersi con cautela.
87
30
Sull’aspetto divinatorio, sullo scopo dell’agire necromantico – «la rivelazione delle
cause sconosciute del futuro corso degli eventi» – punta subito l’attenzione l’efficace
definizione contenuta nell’Encyclopedia of Religion:
«Necromancy, the art or practice of magically conjuring up the souls of the
dead, is primarily a form of divination»88
La conoscenza non solo, e non sempre, del futuro, quindi, ma anche delle cause che
hanno prodotto un certo evento presente può fornire la “giustificazione” di tali
pratiche, almeno nella loro rappresentazione letteraria; in questo modo si spiegano
alcuni esempi di evocazioni “anomale”, come il divertente ma problematico episodio
descritto in Apuleio;89 tuttavia, come si è cercato di evidenziare nelle pagine
precedenti, il ricorso alla sapienza “oltremondana” rispecchia una certa visione del
mondo, risponde ad esigenze di organizzazione (o controllo) del “cosmo”: anche
quando sia determinato da necessità contingenti, esprime un modo di “essere al
mondo”, e di relazionarsi mediante atti simbolici con la sfera dei morti, che di ogni
cultura costituisce parte integrante e la cui gestione – la sistemazione dei valori e dei
concetti relativi ai propri defunti: la natura, i modi e i termini del loro agire in
relazione alla società dei vivi – accomuna e al tempo stesso diversifica ogni cultura
dalle altre.
In quest’ottica è possibile comprendere l’esistenza di particolari classi di
defunti, per i quali la lingua greca conosce un lessico preciso, la cui suddivisione
corrisponde alla natura ed al “comportamento” loro attribuiti. Particolarmente
funzionali e “utilizzabili” sono gli aÃtafoi, gli insepolti, gli aÃwroi, i morti di morte
prematura, e i biaioqa/natoi, i morti di morte violenta, a loro volta distinguibili in
quattro categorie: i condannati, i suicidi, le vittime di Eros (Amore) e i morti in
88
Bourguignon 1987: 345, che sembra riprendere, in qualche modo aggiornandola, la “classica”
definizione dell’Oxford English Dictionary: «The pretended art of revealing future events, etc., by
means of communication with the dead, more generally, magic, enchantment, conjuration»: Oxford,
The Clarendon Press, 1933, vol. VII, 67 (cit. in Ritner 2002: 89). Cfr. anche la definizione di Kleine
Pauly 1949, che insiste sull’origine orientale della necromanzia, e le forme da essa assunte in ambito
romano.
89
Apuleio Metam. II, 28-30, dove il cadavere rianimato dall’egizio Zatchlas è tenuto a svelare
l’infedeltà della moglie, causa del proprio decesso; l’intento parodistico lo rende però un caso isolato.
31
guerra, secondo la dettagliata descrizione che troviamo in Virgilio, Eneide VI (la
catabasi o “discesa agli inferi” di Enea), e nella “discesa” (Kata/plouj h)\
tu/rannoj 5-6) di Luciano; schema che sarà ripreso quasi invariato, pur nel cambio
di prospettiva, dagli autori cristiani come Tertulliano (De anima).90
Una tale “specializzazione” dei defunti (o di alcuni defunti) è facilmente
immaginabile anche per culture precedenti quella greca, come quella assira, dove
troviamo «tracce non equivoche, ma poco numerose» di consultazioni agli “Spiritidei-morti” (etemmu) fin dall’inizio del II millennio come la lettera paleoassira
databile attorno al 1800 a.C.:
Qui consultiamo indovine-šâ’ilâtu, indovine-bâriâtu e Spiriti-dei-morti per
sapere se il dio Aššur continuerà a curarsi di te.91
Anche l’Egitto conobbe delle forme “necromantiche”, benché le testimonianze, di
natura prevalentemente letteraria, non offrano situazioni paragonabili a quelle – per
rimanere in un contesto storico-geografico non troppo lontano – del mondo ebraico,
come il noto episodio della “necromante” di En-dor.92 Accenni si trovano in testi
papiracei quali la cosiddetta Storia di Setna Khamuas o L’insegnamento di Re
Amenemhat I al figlio Sesostris, e nelle numerose Lettere ai morti, nei quali gli
“spiriti” di persone decedute (anche in modo violento) sono interrogati in merito agli
eventi futuri. È nota anche l’esistenza di una necromanzia “istituzionalizzata”, a
carattere “statale”, della quale lo stesso faraone defunto costituiva il fulcro, e che
90
Cfr. Bidez/Cumont 1973 (1938): 180-81; per Virgilio: insepolti (325 sgg.), bambini (426-9),
condannati ingiustamente (430-3), suicidi (434 sgg.), morti in battaglia (477 sgg.); in Luciano:
neonati, “non pianti” (vecchi), “morti per ferite”, suicidi per amore, “quelli dei tribunali”, naufraghi.
A ogni “categoria” di morti corrisponde una precisa collocazione “geografica”, la quale può essere
determinante ai fini dell’evocazione necromantica, come accade nell’episodio lucaneo di Erictho
(capitolo 8), dove si ricerca un’“anima” che non sia ancora “sprofondata nel Tartaro” (Pharsalia VI
712-16).
91
Bottéro 1982 (1984): 103-4, dove si legge: « Non è impensabile che l'attività dei negromanti,
almeno negli ambienti ufficiali, fosse in genere confusa, più o meno, con quella di stregoni,
fattucchieri e altri tenebrosi e inquietanti personaggi, e, come tale, o riservata a circoli chiusi e poco
loquaci, o, ritenuta funesta e pericolosa, utilizzata soltanto in caso di estrema necessità – e passata
prudentemente sotto silenzio».
92
Ritner 2002: 89, prendendo spunto dalle osservazioni di Schmidt 1995, che nega l’esistenza di una
“comparable necromancy” nell’antico Egitto.
32
solo in epoca ellenistica fu estesa a “spiriti non regali”;93 non desta eccessiva
sorpresa la presenza, in molte tombe private, di graffiti relativi a consultazioni
oracolari rivolte ad animali (ibis, falchi, gatti etc.) imbalsamati, con l’effetto di un
vero e proprio “necromantic zoo”.94
Si fa presente però che la “scena” di En-dor assume, come si vedrà più sotto
(capitolo 5) un preciso valore paradigmatico in senso negativo. Dobbiamo comunque
tener presente che nel modello religioso del monoteismo (il primo, quello ebraico,
ma non solo) la conoscenza può derivare solo da Dio, il Dio unico (Yahweh), che
non ammette il ricorso personale, privato, a forme di acquisizione di sapere diverse,
“altre”; quelle forme culturalmente riconosciute e considerate “tecnicamente”
possibili nei sistemi simbolici altri, nei politeismi. La grande insistenza dei testi
biblici sulla proibizione, l’assoluta condanna di ogni pratica divinatoria – eccezion
fatta per quella “ufficiale” degli Urim e Tummim, in cui il responso ricevuto è quello
divino – si spiega fondamentalmente in questo modo, anche tralasciando altri aspetti
pur importanti, come il concetto di identità nazionale/religiosa, genericamente
culturale.95 La necromanzia biblica, con la sua connotazione fortemente “illecita”,
“illegale”, in quanto la Legge stessa è emanazione di Dio (chi agisce contro la Legge,
agisce contro Dio) va collocata in questo ordine di problemi, piuttosto che in
banalizzanti e storicamente inadeguate spiegazioni basate sulla “naturale” avversione
o repulsione che ogni cultura avrebbe provato e proverebbe nel “commercio” con i
defunti, associandolo ad un aspetto “demoniaco” che è interno alla nostra cultura96:
93
Ritner 2002: 94: sotto il regno di Ramses II vi era ad Abydos un oracolo di Amhose, fondatore della
XVIII Dinastia; lo stesso Ramses II divenne poi “spirito” preposto alle procedure oracolari di Egitto e
Nubia. Sullo stretto rapporto tra istituto oracolare (divinazione) e regalità, si rinvia ancora a
Sabbatucci 1989 (nota 250).
94
Ritner 2002: 94.
95
Sulla questione delle proibizioni intese a distinguere, separare nettamente Israele dalle popolazioni
confinanti (dalle quali tuttavia dovette ricevere non pochi apporti), si veda il capitolo di Douglas 1975
(1966): “Gli abominî del Levitico”; cfr. più sotto, n. 224.
96
Pur nella diversità del tema trattato, è utile notare come un’“idea immaginaria” possa influire sui
processi culturali, come dimostra Cohn 1980 (1970): 35-6: «Nella sua qualità di maggiore oppositore
di Dio e supremo simbolo del male, Satana è meno antico di quanto si potrebbe pensare. Nel Vecchio
Testamento egli non appare affatto con tali caratteristiche. Per gli antichi ebrei Yahveh era un dio
tribale; essi consideravano nemiche loro e di Yahveh le divinità dei popoli circostanti, e non sentivano
il bisogno di altre personificazioni del male. Più tardi, naturalmente, la religione tribale evolse in
monoteismo; ma il monoteismo è così assoluto, l’onnipotenza e l’onnipresenza di Dio sono ribadite
così incessantemente, che le potenze del male appaiono, al confronto, insignificanti. In tutti i libri del
Vecchio Testamento si fa allusione a queste potenze soltanto in pochi passi scoordinati». Si veda
33
gli esempi provenienti da realtà diverse, anche se geograficamente (talvolta anche
storicamente) vicine – il bacino del Mediterraneo – sembrano dimostrare il contrario.
La comprensione dello scarto qualitativo (non in senso morale, ovviamente) tra
i modelli monoteistici, centrati sull’idea di un dio unico, onnipotente e onnisciente,
«costruttore continuo di storia», e i vari politeismi del mondo antico, nei quali gli dèi,
immaginati come potenti ma non onnipotenti né onniscienti, «non si trovano nella
posizione di avere con l’umano un rapporto di guida diretta, di comandoesecuzione», e sono anzi «continuamente in contatto con l’umanità, ma senza un
progetto preciso»,97 è condizione necessaria per poter affrontare e in qualche modo
spiegare un “fenomeno” complesso quale quello delle pratiche definite
(convenzionalmente, lo ripetiamo) “necromantiche”.
L’elenco di esempi storico-etnografici potrebbe essere lungo e dispersivo; citeremo
ancora, esulando completamente dal contesto “mediterraneo” che ispira il presente
lavoro, soltanto il caso delle due classi di indovini peruviani dei tempi della
Conquista, specializzati a “trattare”, rispettivamente, con le mummie di defunti e con
vari “spiriti” (dagli Spagnoli considerati “idoli”).98 Si dimostra così ancora una volta
l’estrema varietà e complessità di un fenomeno refrattario a schemi interpretativi
definiti e collocabili in tipologie “universali”: se è vero – per riprendere l’assunto con
il quale abbiamo aperto il presente capitolo – che tutte le società umane hanno
conosciuto e praticato la divinazione, e che tutte (o molte di esse) hanno praticato
particolari forme di divinazione dei morti (che la cultura greca ha chiamato
“necromanzia”, condizionando tutto il lessico posteriore, fino a noi), sembra
altrettanto veritiero il fatto che ogni società l’ha conosciuta e praticata in forme
sempre nuove e diverse, rielaborandola e adattandola ad esigenze peculiari,
difficilmente ascrivibili (se non in un’ottica comparativa) a categorie “universali” o,
per usare una terminologia vicina ad approcci “fenomenologici”, ad “archetipi”
originari ed assoluti.
anche, per l’evoluzione in senso “peggiorativo” del concetto di “dèmone”, Détienne 1978.
97
Chirassi Colombo 1998 (1994): 86 e 88.
98
Bourguignon 1987: 346; i resoconti – nota l’Autrice – sono scritti con la prospettiva degli Spagnoli
del XVI secolo, epoca in cui, nel loro Paese, l’Inquisizione perseguitava i “necromanti” e gli “eretici”.
Si veda quanto detto al paragrafo 1.3.
34
L’uso di definizioni categoriche spesso ideologicamente orientate in senso
confessionale è tuttavia frequente. Riconoscendo la sua funzione divinatoria, ma
puntando il dito sulla dicotomia “magia bianca/magia nera” e sulla natura degli
operatori, sovrumani o umani – in ogni caso malevoli – e dunque colpevolizzandola
a priori, la necromanzia è ad esempio associata dalla nota e diffusa Catholic
Encyclopedia con quell’aspetto “demoniaco” qui sopra accennato.99
Non stupisce quindi la presenza anche in testi recenti e non esplicitamente
confessionali di affermazioni che puntano l’attenzione sull’aspetto morale
(“spirituale”) della questione: «La divinazione non è mai una procedura astratta
utilizzata per svelare un futuro oggettivo, ma una consultazione sempre personale e
interessata […]. Il pronostico fornito permetterà di sapere se l’azione progettata
dall’uomo ha o meno delle possibilità di riuscita: in questo senso la divinazione tende
a escludere il caso» (corsivo nostro).100
Simili asserzioni sembrano in parte contraddire o voler ignorare la portata
storica dei profondi significati simbolico-religiosi delle pratiche divinatorie, ad
alcuni dei quali si è cercato, pur nella limitatezza del presente lavoro, di accennare
nelle pagine precedenti.
99
Dubray 2003 s.v. “Necromancy”: «Necromancy is a special mode of divination by the evocation of
the dead. […] the term suggests “black” magic or “black” art, in which marvellous results are due to
the agency of evil spirits, while in “white” magic they are due to human dexterity and trickery».
100
Meslin 2001: 462. Eloquente, dello stesso Autore, schierato comunque sul fronte non laico, anche
La magia, le sue leggi e il suo funzionamento, in cui le “leggi” della magia sono spiegate in termini di
“transfert psicologico”, riproponendo la vecchia opposizione tra “magia e religione”: «Per costringere
la divinità, il mago manipola alcune forze numinose per mezzo di una selva di azioni simboliche […],
trasgredendo anche alcune regole sociali»; ancora: «[…] l’atto magico va inserito nel campo del
sacro, ma non del religioso. […] Ci si può chiedere se il politeismo, nel quale la trascendenza divina
non è affermata (o lo è meno nettamente), non costituisca un terreno particolarmente favorevole per
la magia […]» (corsivo nostro). Più utilmente, cfr. Versnel 1991.
35
3. INGRESSI PER GLI INFERI. I NEKYOMANTEIA
Le numerose attestazioni linguistiche relative alla “prassi” necromantica che
abbiamo cercato, in una rapida e certo non esaustiva carrellata, di esplorare nei
precedenti capitoli trovano conferma in una serie di dati di natura letteraria, ai quali
si affiancano alcuni controversi riscontri di tipo archeologico. I dati convergenti
sembrano indicare come la presunta pratica (o le presunte pratiche) di consultare i
defunti in luoghi appositamente destinati non fosse un semplice topos. Numerosi
sono infatti negli autori antichi le citazioni e i riferimenti diretti o indiretti – quando
non delle vere e proprie descrizioni del funzionamento di alcuni di essi101 – ai luoghi
in cui la divinazione di un morto (solitamente un morto “speciale”, una figura mitica,
un eroe eponimo etc.) era considerata possibile, ed anzi ufficialmente riconosciuta, se
non addirittura in qualche modo “istituzionalizzata”, controllata cioè da un potere
centrale e gestita da un’apposita “casta sacerdotale” che ne garantiva il
funzionamento.102 Ciononostante, i tentativi moderni di individuare fisicamernte tali
“oracoli”, soprattutto sulla spinta degli scavi e delle suggestive ipotesi
dell’archeologo greco Dakaris (concretizzate in una serie di pubblicazioni tra il 1958
e il 1993), si sono però rivelati a più riprese infruttuosi o quantomeno poveri di dati
concreti, originando annosi dibattiti tra “sostenitori” ed “avversatori” dell’effettiva
esistenza dei nekromantei/a, con un coinvolgimento che desta interesse più che
meraviglia.
Anche prescindendo dall’oggettiva difficoltà di localizzare in modo
inequivocabile tali siti, un ulteriore svantaggio è dato dalla possibile confusione tra
almeno due concetti che nelle fonti sovente sembrano sovrapporsi, quasi integrandosi
101
Esemplare in questo senso la descrizione del “funzionamento” dell’oracolo di Trofonio in Pausania
IX 39, al quale si riferisce in termini ironici Luciano nel Menippo o La necromanzia 22 (MENIPPOS H
NEKUOMANTEIA): al termine della sua catabasi (discesa agli inferi) – una parodistica citazione della
nekyia omerica – Menippo è invitato dal magos Mithrobarzanes ad infilarsi nella stretta imboccatura
che porta – direttamente dalle profondità dell’Ade! – a Lebadea, in Beozia, nel “tempio di Trofonio”.
102
Sembra si possa parlare di un ruolo “istituzionale” per il solo “oracolo” di Tainaron (cfr. pagg.
seguenti), integrato in un santuario “statale”, quello di Poseidon, controllato da Sparta: Ogden 2001:
22.
36
e completandosi a vicenda, ma che è utile distinguere nei loro tratti essenziali, e che
rendono difficoltoso per lo studioso moderno il tentativo di ricostruire il sistema di
credenze – in termini di reali aspettative, di eventuali speranze o timori – relativi a
tali luoghi. Spesso non è infatti agevole distinguere, nella percezione antica, il ruolo
di nekuomanteiªon inteso come “oracolo” destinato ad una funzione divinatoria, ma
in ogni caso legata alla evocazione di defunti, da quello di “ingresso” al mondo
infero, di cavità ipogea comunicante con l’“aldilà”, sotto forma di fenditura nel
terreno, tunnel, pozzo, ma anche di lago, palude, o più genericamente di incavo –
anche artificiale – non di rado connesso all’elemento acquoreo, liquido,
preferibilmente di natura sulfurea, vaporosa, miasmatica.
Le “entrate” alle “case ammuffite di Ade” (Od. X 512) erano notoriamente
numerose,
apparentemente
interscambiabili,
comunicanti,
costituivano
una
complessa e confusa geografia sotterranea i cui accessi – conosciuti con i nomi di
ploutw/nia e xarw/nia, i luoghi di Plou/twn (Plutone) e di Xa/rwn (Carone,
Caronte) – mettevano in comunicazione il mondo soprastante, dei vivi, con le regioni
dei morti: attraverso di essi erano entrati ed usciti, nelle loro ripetute catabasi, gli dèi
e gli eroi del mito, Herakles, Orpheus, Dionysos, spesso legando il proprio nome a
quello dei luoghi di culto locali, che trasmettevano il ricordo delle loro gesta.
Ancora una volta scegliamo di partire dall’esame dei fatti linguistici. Più sopra
abbiamo visto come le varianti del termine indicante la “pratica” – la
nekromantei/a – siano molteplici e facilmente confondibili; noteremo un’analoga
varietà nell’uso delle voci indicanti gli “oracoli dei morti”. Nekuomanteiªon si
trova in Erodoto (V sec.), nell’episodio di Periandro (capitolo 7), che ne fa una delle
attestazioni più antiche del termine.
Teofrasto conosce la forma yuxagwgi/on;103 yuxomanteiªon è invece usato,
nello stesso IV sec. a.C., da Crantor di Soli in un passo confrontabile con Plutarco
(Consol. ad Apoll. 109 bd: la storia di Euthinos, di ambientazione italica); ancora
Plutarco usa anche yuxopompeiªon (De Sera Num. Vind. 555c); meno consueto è
103
Si ricorda come la forma appartenga propriamente al lessico del V sec.: Psychagogoí è il titolo di
un dramma frammentario di Eschilo, Psychagogós compare nella tavoletta di Dodona.
37
infine Nekuor(i)on, che figura, alla voce omonima, nel lessico di Esichio (V-VI
sec.).
È interessante notare che queste voci, quando sono usate in modo specifico,
riferendosi ad un oracolo preciso, identificano sempre uno dei “quattro grandi”
oracoli: Acheron in Tesprozia, Averno in Campania, Herakleia Pontica sulla costa
del Mar Nero e Tainaron, presso l’attuale Capo Matapan.104
Ciò non esclude i riferimenti letterari ad altri siti. Tuttavia se vogliamo
identificarli in mancanza di riscontri precisi, si deve ricorrere ad emendazioni
congetturali che li assimilano ad uno dei “quattro”. Indicativo è il caso di Phigalia:
Plutarco (De Sera Num. Vind. 555c) riferisce di come il re di Sparta Pausania si fosse
recato a consultare lo “spirito” di Cleonice presso il nekuomanteiªon di Herakleia;
Pausania (III 17, 9) colloca la consultazione a Phigalia, in Arcadia; in uno scolio ad
Euripide, Alcesti 1128, il commentatore, forse suggestionato dall’ambientazione
tessalica del dramma, interpreta il termine yuxagwgo/j come sinonimo di go/hj,105
chiamando in causa Plutarco. La “svista” ha creato non poca confusione anche tra gli
studiosi moderni che, basandosi sull’assonanza dei possibili siti (Figali/aj¡Itali/aj-Qessali/aj), hanno cercato di risolvere un errore forse solo apparente;
la mancanza di riscontri archeologici per Phigalia ha di certo avuto il suo peso
nell’equivoco.106
Anche limitando l’esame ai “quattro” più noti oracoli, e a quei riferimenti che
sembrano coinvolgerli in modo inequivocabile, i problemi non sono pochi. I tentativi
di comparazione tesi a riscontrare, attraverso possibili analogie formali o affinità
“ideologiche” (il modo in cui si riteneva funzionassero), uno schema generale, un
“modello” di nekuomanteiªon, sono piuttosto deludenti: non solo il modus
operandi, ma la stessa natura di “oracolo” attribuita a tali siti è stata oggetto di
speculazioni teoriche, o di vere discussioni accademiche, a partire dalle suggestive e
interessanti – ma tuttora indimostrate in modo definitivo – ricerche di Dakaris presso
104
Ogden 2001: 17.
105
Solitamente reso in italiano con “stregone”; cfr. Liddell-Scott 1983 (1843): “sorcerer, wizard…
juggler”; Stephanus 1954: “Incantator, Praestigiator… generaliter etiam Impostor”.
106
Ogden 2001: 23.
38
il presunto nekuomanteiªon di Acheron.107 L’equivoco di fondo è alimentato
dall’idea, comune già agli antichi, che un “vero” nekuomanteiªon debba
identificarsi con una caverna, cavità o recesso, naturale o artificiale che sia.
Iindicativo il caso della “grotta” o “antro” della Sibilla Cumana, che ha generato
molte identificazioni fantasiose ed è stato archeologicamente demolito. L’evidenza
archeologica non incoraggia una simile associazione: lo dimostrano la massiccia
costruzione a pianta “labirintica” dell’Acheron e la sua “cripta” sotterranea (o
cisterna?) scavata da Dakaris,108 ma anche la struttura di Tainaron, costituita da una
modesta cavità naturale il cui ingresso è ricavato in un’opera di muratura, affiancata
da un cordolo (o recinto) artificiale, che scoraggia frettolose immagini “ipogee”.
Proviamo a dare uno sguardo più da vicino ai quattro siti principali per
verificare la loro situazione.
3.1 Acheron di Tesprozia
Le fonti che fanno esplicito riferimento al nekuomanteiªon di Acheron sono quattro:
Erodoto (nel già citato episodio di Periandro), Pausania (IX 30, 6), uno scoliasta
dell’Odissea e Lucio Ampelio (Liber Memorialis 83). Il fatto che molti autori vi
abbiano visto, assieme a Pausania, l’effettiva sede della nekyia omerica non è
casuale: si spiega con il riferimento, nella dettagliata descrizione fatta da Circe a
Odysseus (Od. X 513-15), ai nomi dei fiumi “infernali”, effettivamente attestati nella
toponomastica locale:
107
Ogden 2001: 19-21 (dove si riporta la pianta dell’edificio).
108
Ogden 2001: 19-20: «a square structure with walls over three meters thick». Privo di qualsiasi
pretesa scientifica, Vandenberg 1982 (1979) si segnala per la dettagliate piantina disegnata (e
interpretata) dallo stesso Dakaris, e per le foto della “cripta” ripiena di “sangue stratificato” («degli
animali sacrificati») e delle ruote dentate del macchinario con cui le “apparizioni” venivano fatte
calare, scenograficamente, dal soffitto (più verosimilmente appartenute a catapulte difensive: Ogden
2001: 21).
39
«e)/nqa me\n ei)j 'Axe/ronta Puriflege/qwn te r(e/ousi / Kw/kuto/j q', o(\j
dh\ Stugo\j u(/dato/j e)stin a)porrw/c, / pe/trh te cu/nesi/j te du/w
potamwªn e)ridou/pwn!»
«Sboccano lì in Acheronte il Piriflegetonte / e il Cocito, che è un ramo
dell’acqua di Stige; / c’è una roccia e l’incontro dei due fiumi tonanti»109
Serve appena sottolineare come il Piriflegetonte, l’unico dei tre fiumi citati che non
trova un reale riscontro geografico,110 occupi assieme allo Stige una posizione non
trascurabile nel ricco immaginario “oltremondano” del mondo antico, che va ben
oltre il mero dato topografico particolare.111 A ciò si aggiunga l’assonanza tra
“Cimmerii” (Kimmeri/wn), il favoloso popolo che abitava “ai confini dell’Oceano
profondo”, avvolti da una nebbia perenne (Od. XI 13 sgg.), nei pressi dei quali
Odysseus deve svolgere il rito prescritto, e la lettura del possibile etnonimo
“Cheimerii” (Xeimeri/wn), che ha ulteriormente incoraggiato anche tra i moderni la
tendenza a intendere in modo letterale le indicazioni “geografiche” di Circe, anche
sulla base di suggestioni topografiche.112
La questione, tuttavia, se la finzione letteraria (di Omero, o di chi ne ha seguito
le tracce) abbia preso spunto dai luoghi – ciò che indicherebbe la presenza di un
nekuomanteiªon in epoca pre-omerica113 – o se questi, al contrario, abbiano ricevuto
il loro nome sulla scorta del testo in virtù di una sorprendente “coincidenza” nella
loro conformazione geografica/idrografica, è aperta e, almeno se posta in questi
109
Le traduzioni dei passi omerici citati sono di G. A. Privitera, ediz. Classici A. Mondadori
(Fondazione Valla, 1981), 2004.
110
Ogden 2001: 46: «[…] like the Styx from which the Cocytus is said to flow, Pyriphlegethon only
existed at the mythological level».
111
Per una breve ma utile precisazione sul Flegetonte o Piriflegetonte, e la sua connessione con la
sfera della piromanzia (che chiama in causa la scena di necromanzia in Stazio, Tebaide IV 425 sgg.),
cfr. Chirassi Colombo 1985 (b): s.v. Flegetonte.
112
Cfr. Huxley 1958, il quale situa sicuramente la nekyia in Tesprozia, spostandone però la
collocazione in una vicina valle scoscesa nei pressi di una cascata (la “roccia” del testo omerico), ciò
che spiegherebbe l’oscurità e la nebbia attribuite al “paese dei Cimmeri”. È indicativa, in questo
senso, la risposta di Dakaris, quando fu interrogato sul motivo della sua certezza nell’identificare
l’oracolo di Acheron con il luogo della nekyia: «Ho semplicemente prestato fede a Omero»:
Vandenberg 1982 (1979): 12.
113
Ogden 2001: 43-44.
40
termini, forse non risolvibile. Anche i riferimenti al “lago” e al “recinto” presso i
quali ha luogo la nekromantei/a, presenti nella frammentaria opera di Eschilo
Yuxagwgoi/ – una sorta di “drammatizzazione” dell’episodio omerico114 – si
possono spiegare con l’elaborazione (una delle tante rielaborazioni) del modello
omerico: il dio Hermes, citato da Eschilo e presente anche nella commedia I
Tesprozi (Qesprwtoi/) di Alexis (ca. 370-270) nel ruolo di psicopompo
(“conduttore di anime”),115 pur non apparendo nel rito di Odysseus, è citato nella
cosiddetta deutero-nekyia (Od. XXIV 1-14), quando trasporta al “prato asfodelio”
(a)sfodelo\n leimwªna) le yuxai/ dei Pretendenti uccisi da Odysseus:
«[…] h)=rxe d' a)/ra sfin /
(Ermei/aj a)ka/khta kat' eu)rw/enta
ke/leuqa. / pa\r d' i)/san )Wkeanouª te r(oa\j kai\ Leuka/da pe/trhn, /
h)de\ par' )Heli/oio pu/laj kai\ dhªmon )Onei/rwn / h)/i+san! […]»
«[…] il benefico Ermete / le conduceva lungo i sentieri ammuffiti. / Superarono
le correnti di Oceano e la Candida Rupe, / superarono le porte del Sole e il
paese dei Sogni, […]»
I luoghi ed i nomi di questa geografia “acherontica” diventeranno topici per ogni
rivisitazione del tema, anche in chiave comica, come nella spassosa kata/basij di
Dionysos nelle Rane di Aristofane, dove vengono nominati (vv. 465-78) le “rocce
nere di Stige” (Stugo/j... melanoka/rdioj pe/tra) e lo “scoglio insanguinato” di
Acheronte ('Axero/ntio/j te sxo/peloj ai)matostagh\j); segue un elenco di
mostri “infernali” – i cani di Cocito, Echidna, la murena di Tartesso, le Gorgoni di
Titrante – che mescolano, nell’esuberante linguaggio aristofanesco, aspetti ridanciani
a motivi che dovevano suonare molto familiari ad un pubblico avvezzo a
114
Voutiras 1999: 79.
Kassel/Austin 1991: fr. 93 (89): « (Ermhª qewªn prorompe\ kai\ Filippi/dou / klhrouªxe,
Nukto/j t' o)/mma thªj melampe/plou».
115
41
udire/vedere (se non leggere) varianti più o meno “serie” di “evocazioni” e “discese
agli inferi”.116
Il gioco è ancora più scoperto negli Uccelli dello stesso Autore, dove troviamo
Socrate (bersaglio prediletto del comico ateniese) nelle inconsuete vesti di
“necromante”, intento ad “evocare anime” (yuxagwgeiª, v. 1555) nel paese degli
“Skiapodi” (“Piedi d’ombra”, gustoso pendant dei “Cimmerii”), in un esplicito
contesto “omerico” (w(/sper ou(dusseu\j, v. 1561). Il riferimento alla “palude” (o
lago: li/mnh) rende questa parodia degli Yuxagwgoi/ di Eschilo l’ennesima
variante di un motivo che forse poteva essere sentito come consueto.117
L’accostamento dell’“oracolo” di Acheron (ma non solo di quello, come si
vedrà qui sotto) all’elemento acquoreo – fiume, lago, palude – è destinato a divenire
indissolubile. Un passo di Clemente Alessandrino, noto autore della patristica di
lingua greca (Protrept. 10 P), cita il “lebete tesprozio”. Questo dato ha indotto alcuni
a pensare che presso l’“oracolo” di Acheron si praticasse la lecanomanzia, cioè
quella particolare tecnica divinatoria che interpreta le immagini riflesse. In questa
prospettiva è interessante osservare che il commentatore bizantino Tzetzes (Exeg. in
Iliadem 110, 5), ha voluto vedere nella kata/basij di Odysseus al regno di Ades
l’allegoria di un’originaria consultazione lecanomantica, spiegando come questa, in
origine, consistesse nell’osservazione di sangue – animale o umano – contenuto in
una pozza.118 Il dato rimanda ancora una volta all’idea di un oracolo organizzato,
dotato di un apposito personale; la vicinanza con il santuario oracolare di Dodona ci
riporta di nuovo alla tavoletta che abbiamo riportato sopra nella quale si cita uno
yuxagw/goj. L’impressione è di muoversi, quasi in un circolo vizioso, in una serie
di dati di difficile valutazione, tesi a dimostrare in modi diversi come in Tesprozia –
nella communis opinio, dall’età omerica e per un lunghissimo arco di tempo – fosse
ritenuta possibile (plausibile) la consultazione dei morti.
116
Alla località di Tartesso, nella penisola iberica, uno scolio a questo passo di Aristofane associa un
nekuomanteiªon: Ogden 2001: 26.
117
Ogden 2001: 51.
118
Ogden 2001: 54.
42
3.2 Avernus/Aornos
Il gioco delle interpretazioni del “luogo” utilizzato nel testo mitico ovviamente non si
esaurisce. Il testo omerico non viene messo in relazione soltanto con il sito di
Acheron. La sua associazione con il “lago” Averno risale almeno alla fine del VI sec.
a.C., quando la colonia di Circeii, tradizionalmente fondta al tempo del regno di
Tarquinio il Superbo (543-510), è menzionata nel trattato cartaginese del 508.119
Il nome la collegava a Circe, identificando l’isola della “dea” con il
promontorio situato tra Roma e Cuma, coerentemente con la lunga tradizione –
tuttora prevalente in ambito divulgativo – che colloca parte della “topologia omerica”
ad ovest dell’Egeo, nella penisola italica.120 Il primo autore ad aver collocato la
nekromantei/a di Odysseus presso l’Averno è Eforo (ca. 405-330 a.C.), in un passo
citato in Strabone (64 a.C.-ca. 24 d.C.), che assegna al luogo la residenza dei
Cimmerii: essi vivono in abitazioni sotterranee ricavate nell’argilla, comunicanti tra
di loro attraverso una serie di tunnel, non vedono mai la luce del sole in quanto
escono soltanto di notte (e non a causa della “nebbia”, quindi), e la loro sussistenza si
basa sul profitto derivante dalle miniere e da coloro che vengono a consultare
l’oracolo situato presso di loro, nelle profondità della terra. Strabone,
razionalizzando in qualche modo la storia, narra come la presenza di una serie di
tunnel effettivamente attestati nella zona, soprattutto in seguito a lavori di
disboscamento fatti eseguire da Agrippa, possa essere all’origine di tali racconti.121
Lo stesso Autore si sofferma inoltre sulla natura vulcanica, sulfurea del terreno e
delle acque locali, che sembra essere all’origine della toponomastica: non solo nel
caso, riferito da Strabone, di Puteoli (da puteo, riferito ai miasmi provenienti dalle
acque dell’intera zona), ma anche dello stesso termine latino Avernus, indicante, con
un presunto gioco di parole di sapore ironico, un “luogo degli uccelli” (avis), che
119
Ogden 2001: 61.
120
Moderni tentativi di collocare parte del viaggio di Odysseus molto più a nord, nell’Adriatico o
addirittura nel Mar Baltico, o di identificare questa o quella precisa località omerica (come l’isola dei
Feaci in Sardegna), sono tuttora proposti e divulgati sulla scorta dei più illustri tentativi antichi; cfr.
Pellizer, Skheríe, l’Isola che non c’è…, cit. in bibliografia. Si veda anche l’ironico commento di
Eratostene, cit. alla n. 160.
121
Ogden 2001: 64-66.
43
trova un corrispettivo nella falsa etimologia del greco Aornos, che vale, al contrario,
“luogo senza uccelli” (a-ornis); si riteneva infatti che i gas miasmatici, provenienti
da questo o altri simili “laghi” (o stagni, bacini, pozze d’acqua) sprigionanti vapori
“mefitici”;122 fossero fatali ai volatili che li avessero sorvolati. Così leggiamo in
Virgilio (Eneide VI 237-42):
«Spelunca alta fuit vastoque inmanis hiatu, / Scrupea, tuta lacu nigro
nemorumque tenebris, / Quam super haut ullae poterant inpune volantes /
Tendere iter pinnis: talis sese halitus atris / Faucibus effundens supera ad
convexa ferebat. / [Unde locum Grai dixerunt nomine Aornon]»
«C’era una grotta profonda, per vasta voragine orrenda, / difesa dal lago nero e
dall’ombra dei boschi. / Su quella nessun uccello impunemente poteva / tender
sull’ali la via: tale fiato esalando / dalla nera voragine al cielo convesso saliva. /
[Da ciò i Greci chiamarono il luogo col nome d’Aorno]»123
L’Averno – che Virgilio, rifacendosi ad una tradizione precedente,124 mette in diretta
relazione con la Sibilla Cumana – è un caso tutt’altro che isolato.
Sono noti attraverso Strabone (XIII 4, 14) – ma sembra fossero conosciuti già
al poeta Alcmane, nel VII sec. a.C.125 – altri luoghi simili. Un’analogia diretta si
stabilisce con gli effetti del ploutw/nion di Hierapolis, in Frigia. Il centro cultuale
qui è dedicato alla Mega/lh Mh/thr, Kube/lh.126 Qui una stretta apertura,
contraddistinta da una spessa caligine e circondata da un recinto artificiale. Le sue
esalazioni nocive che sono fatali a qualunque essere venga introdotto all’interno del
recinto stesso; ne sono immuni, almeno per il lasso di tempo in cui riescono a
122
Sul termine “mefitico”, e il suo uso innovativo da parte di Virgilio (Eneide VII 84), oltre che, in
generale, sull’importanza delle “acque solforose”, cfr. Chirassi Colombo 2004: 310-12: «[…] ci si
deve chiedere perché nella Roma di fine repubblica la Mefitis dell’Irpinia nella prospettiva del poeta
augusteo Virgilio viene proposta come un’entità infernale […]».
123
Traduzione di R. Calzecchi Onesti, ediz. Einaudi, (1967) 1989.
124
Già Nevio (ca. 275-200) collegava la visita di Enea all’Averno e alla Sibilla Cimmeria, in
Strzelecki, Cn. Naevii Belli Punici Carminis Quae Supersunt, 1959, fr. 12.
125
Ogden 2001: 26.
126
Sul tema, si veda ad es. Sfameni Gasparro 1985.
44
trattenere il respiro, i Galloi, gli eunuchi, “castrati cultuali” della dea.127 La loro
resistenza si spiega, per Strabone, con la loro mutilazione, o con il loro rapporto con
il tempio, o ancora in virtù di una sorta di “provvidenza” divina (qeiªa pro/noia);
non è escluso però che si tratti di una «tecnica speciale che utilizza le modalità
dell’intossicazione controllata per ottenere particolari effetti».128
A prescindere da etimologie più o meno plausibili e dai singoli casi, un’analisi
attenta dei luoghi d’interesse vulcanico, sulfureo, eventualmente termale, rivelerebbe
la relazione – già nota agli antichi, studiata e interpretata da vari autori (in Probl.
Phys. XXX, De mirab. 102, di scuola aristotelica, ma anche da Plinio, Nat. Hist. II
207 sgg., Apuleio, De mundo, etc. – tra particolari siti di natura “gassosa”, fenditure
del terreno da cui fuoriescono getti d’acqua, soffi, esalazioni, e le loro proprietà o
capacità di tipo “oracolare”, profetico, che permettono (quando non siano letali) di
conoscere il fatum, il futuro, la volontà divina: «Non si tratta solo di acque ma di
situazioni fluide gassose in movimento, i ges stomia della terra che lasciano sfuggire
pneumata che provocano stati modificati di coscienza, qualche volta spingono
all’enthousian (agitazione da possessione) o all’atrophein (svenimento), ma altre
volte a chresmodein, pronunciare oracoli».129 In un’interpretazione “razionalistica”,
Cicerone cita a questo proposito gli esempi – di grandissima rilevanza nel mondo
antico nella costruzione di modelli di mantica legata ad esperienze di tipo visionario,
“estatico” o “entusiastico” – dell’oracolo apollineo di Delfi e di quello “ad
incubazione” di Trofonio, a Lebadea in Beozia,130 adducendo per entrambi i casi
cause “naturali”.
Le notizie che ci informano, per quanto inadeguatamente, sul “funzionamento”
del presunto nekuomanteiªon di Avernus sono di valore eterogeneo: ancora da
Strabone si desume che i consultanti raggiungessero l’“oracolo” direttamente dal
mare, navigando fin dentro il lago (diversamente da Enea…), mentre da Massimo di
127
Ogden 2001: 26, e soprattutto Chirassi Colombo 2004: 306.
128
Chirassi Colombo 2004: 306.
129
Chirassi Colombo 2004: 305-6.
130
Si veda anche, per Trofonio, il viaggio “sciamanico” (ovvero, che utilizza modelli “sciamanici”)
compiuto da Timarco, descritto da Plutarco nel De Genio Socratis: Chirassi Colombo 1996: 437-39.
45
Tiro (metà del II sec. d.C.) apprendiamo il consueto schema dell’apparizione dello
“spirito” (eiÃdwlon) o anima (yuxh/) resa possibile dagli evocatori (yuxagwgoi/)
dopo gli usuali riti sacrificali e libatori.
Ancora una volta il contributo dell’archeologia, per quanto importante, può
portare a risultati fuorvianti qualora i dati vengano interpretati solo sulla base di
consolidate suggestioni letterarie, senza coinvolgere una prospettiva storico religiosa.
Una mancanza più volte sottolineata da Angelo Brelich soprattutto attraverso il suo
lungo contributo di recensore sulla sua rivista, la pettazzoniana Studi e Materiali di
Storia delle Religioni131. Tali suggestioni sono tanto più tenaci nei casi dell’Acheron
e dell’Avernus di quanto non lo siano per gli altri nekuomanteiªa.
Lo dimostra ampiamente il fatto che la lunga galleria artificiale scavata nei
pressi di Cumae nel 1932 risulta essere qualche cosa d’altro. Le caratteristiche in
effetti presentano di primo acchito stimolanti analogie con l’“antro” virgiliano 132 – le
aperture nella roccia che ricordano i “cento aditi” e le “cento porte” (aditus centum,
ostia centum: VI 43 e 81) e la camera interna, a pianta cruciforme, che “sembra”
quella della Sibilla. Tutto questo fa sì che il sito sia tuttora indicato come l’antrum
immane visitato da Enea, pur essendo per lo più riconducibile ad epoca romana o
addirittura al periodo tardo-imperiale.
3.3 Tainaron
Alle problematiche inerenti il sito di Tainaron, presso Capo Malea (attuale Capo
Matapan) si è brevemente accennato. L’identificazione del sito con un
nekuomanteiªon – nonostante la sua “fama” di “ingresso agli inferi”, che avrebbe
visto il passaggio di Herakles,133 Orpheus e Theseus – è difficoltosa sia che lo si
voglia collocare nella piccola caverna naturale adiacente la baia oppure nel recinto
131
132
Chirassi Colombo 2005.
Ogden 2001: 71.
133
Cfr. ad es. Apollodoro, Biblioteca II 12; ma altre versioni conoscono la discesa di Herakles ad
Herakleia Pontica, come in Senofonte, Anabasi VI 2, 2.
46
rettangolare antistante la sua entrata, sia che lo si voglia collegare in qualche modo al
limitrofo tempio di Poseidon, tra i cui resti figurano tra l’altro elementi architettonici
di età ellenistica.134 Lo stesso Pausania fu colpito dalla mancanza di passaggi o
sentieri che mettessero in comunicazione l’Ade con il mondo soprastante; il luogo
difficilmente avrebbe potuto ospitare una dimora (oiÃkhsij) sotterranea in cui gli dèi
potessero radunare le anime dei defunti.135 La proposta di alcuni studiosi moderni di
“spostare” la sede dell’“oracolo” nella vicina ed effettivamente più ampia grotta
marina, oggi chiamata (forse senza troppa fantasia) “Caverna di Ade”, non trova
alcun riscontro letterario.136
Di qualche interesse sono invece i resoconti di consultazioni ambientate nel
nekuomanteiªon del Tainaron.
Il passo che instaura con più evidenza un nesso tra il sito di Tainaron ed una
consultazine necromantica è quello contenuto nel lessico Suda, alla voce
“Archiloco”: vi si apprende di come Calondas, soprannominato “Corax” (Ko/rac,
“Corvo”), dopo aver ucciso il poeta Archiloco (vissuto nella prima metà del VII sec.
a.C.) si recasse a consultare la Pizia, ma questa, riconoscendo l’impurità dell’uomo,
lo respinse; mosso a pietà dalle sue suppliche, il dio lo inviò allora a Tainaron, luogo
di sepoltura di Tettix (Te/ttic, “Cicala”), per propiziarsi lo “spirito” del poeta
defunto. Così fece, liberandosi dalla collera divina.
Il riferimento alla figura di Tettix, presente anche nella versione plutarchea
della storia e in Esichio (s.v.) – il quale spiega che il cretese Tettix aveva colonizzato
il promontorio di Tainaron – ha indotto a pensare a questo nome come ad un
“mediatore”, colui che introduce ai consultanti dell’“oracolo” gli “spiriti” richiesti;137
anche un’interpretazione figurata, nella quale il “corvo” si rivolge alla “cicala” –
epiteto con il quale lo stesso Archiloco si era identificato nella sua opera (fr. 223
West) – è possibile.138 La ricca simbologia che la cultura greca associa a questo
134
Ogden 2001: 35.
135
Pausania III 25, cit. in Ogden 2001: 35.
136
Ogden 2001: 35.
137
Ogden 2001: 38.
138
Ogden 2001: 39: «The battle between Corax and Archilochus had, accordingly, been a battle
between the crow and the cicada, and again we draw near the world of Aesop».
47
insetto rischia però di conferire a tali osservazioni un valore limitato.
Indissolubilmente legata alla musica – cioè alle Muse, di cui è “profetessa” 139 – la
cicala è una creatura “sacra” (i(ero/j),140 simile agli dèi, simbolo nel Fedro platonico
dell’anima che perviene, liberata dal legame con la materia, alla contemplazione
suprema; ma la sua natura “terrena”, al contempo, la inserisce in una dimensione
ctonia che la accomuna a molti altri animali (ad es. talpe, topi, serpenti e rettili in
genere, ma anche le api),141 ritenuti essere di origine sotterranea: «[…] la cigale s’est
imposée d’abord comme l’agent intermédiaire, ensuite comme le symbole des forces
vivifiantes que Gaia, mère commune et généreuse, partage entre tous ceux qu’elle a,
originellement, engendrés».142 Lo stesso Platone (Simposio 191 c) la definisce
ghgenh/j, nata dalla terra, ma il termine rimanda ad un altro ordine di significati
simbolici, l’importante concetto di autoctonia, «l’étroite et riche corrélation qui a été,
si soigneusement, cultivée entre la Terre, les Athéniens et l’insecte […]».143
Come ciò possa collegarsi in modo costruttivo al nekuomanteiªon di
Tainaron, anche a prescindere dai singoli episodi di consultazione ad esso legati,
fornendo di senso la menzione da parte di molti autori di un sito tradizionalmente
associato alla prassi necromantica, è da dimostrare, a patto che si rifletta sulla
possibilità di rinvenire, nelle scelte linguistiche e concettuali dei medesimi autori,
significati profondi e complessi, che una lettura “allegorica” o superficialmente
simbolica rischia di trascurare.
139
Platone, Fedro 262 d: «oi( twªn Mouswªn profhªtai».
140
Plutarco, Quest. conv. VIII 7, 3.
141
Sulla simbologia dell’ape, cfr. paragrafo 7.4.
142
Bodson 1975: 18; più ampiamente, sulla simbologia della cicala, cfr. pp. 16-20.
143
La “musicalità” della cicala si inserisce inoltre in un circuito molto interessante di comunicazione
sonora dalle varie implicazioni: si rinvia ancora a Bodson 1975: 18.
48
3.4 Herakleia Pontica
Un altro luogo di “passaggio” è il sito, ubicato presso la costa meridionale del Mar
Nero. Si tratta di Herakleia Pontica, una colonia fondata dai Megaresi nella metà del
VI sec. a.C. (ca. 560) nel territorio dei Mariandini, in uno dei vari luoghi associati ad
una delle tradizionali mitiche imprese dell’eroe eccellente Herakles, la cattura del
cane infernale Kerberos, secondo quel procedimento (cui si è solo vagamente
accennato) che tende a “moltiplicare” le sedi legate ad un’impresa mitica adattandole
di volta in volta alle circostanze (topografiche, linguistiche) locali.
Il luogo è citato più volte in rapporto a consultazioni divinatorie per le quali
possiamo ricostruire anche date precise. Una datazione è fornita dal resoconto di
Plutarco (Cimone VI) che vi situa la consultazione del re spartano Pausania, che
sarebbe avvenuta nel 479-77; Il commentatore Ammiano, nel IV sec. d.C., riferisce
che ai suoi giorni il nekuomanteiªon esisteva ancora.144 Una bella e relativamente
accurata (tenendo conto delle peculiarità del linguaggio poetico) raffigurazione del
luogo è quella presente nel II libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio (vv. 727
sgg.), che nel descrivere la “grotta di Ade” (spe/oj 'Ai/dao), circondata da rocce e
foreste, e dalla quale spira un soffio gelido, vi colloca naturalmente anche il fiume
Acheronte e la profonda voragine (koi/lh fa/ragc) attraverso la quale scorre.
Comunque la descrizione poetica è lontana dalla visione “reale” dell’accesso
agli inferi di Herakleia. Almeno da come ce lo descrive un altro poeta, Quinto
Smirneo (IV o III sec. d.C.), nei suoi Posthomerica (VI 469 sgg.): una vasta caverna
dall’aspetto almeno parzialmente artificiale, dotata di molti oggetti ed elementi
decorativi ricavati nella pietra; vi sono, è vero, due “sentieri” che permettono la
“salita” e la “discesa” e vi è la presenza di acqua. Tuttavia il sito, studiato da
Hoepfner negli anni ’60 e attualmente identificato con il nekuomanteiªon delle
fonti, non rispecchia che in parte le descrizioni. La notizia di Senofonte (Anabasi VI
2,2), secondo la quale la cavità era profonda più di due stadi, getta ulteriore
incertezza su quella che rimane un’ipotesi interpretativa.145 Ancora una volta la
144
Ogden 2001: 29-30.
145
Ogden 2001: 32-33.
49
“realtà” dell’archeologia sembra non tradurre i suggerimenti della ricerca storica
letteraria.
Il racconto plutarcheo è l’unico resoconto letterario di consultazione
ambientato a Herakleia. La storia, che l’Autore riferisce anche in un’altra versione
(De sera num. vind. 555 c), narra di come il re Pausania, dopo aver inavvertitamente
ucciso la giovane moglie Cleonice, fosse in seguito tormentato dal “fantasma” di lei,
che soleva visitarlo durante la notte, in sogno. Il re va al nekuomanteiªon di
Herakleia per placare la sua collera, e Cleonice – la sua “ombra” – risponde
ricorrendo al linguaggio enigmatico; al marito interrogante risponde con un
“indovinello”, relativo alla morte che lo attendeva.146
La vicenda, che ricorda “stranamente” l’episodio di Calondas e Tettix
(paragrafo precedente) e, per altri versi, quello di Periandro e Melissa (capitolo 7),
può trovare varie interpretazioni; anche in questo caso, ad esempio, abbiamo dei
“nomi parlanti”: quello di Cleonice (“dalla vittoria gloriosa”) può trovare riscontro
nelle recenti imprese belliche di Pausania, mentre quello del padre di lei, Coronide
(“figlio del corvo”) potrebbe riferirsi alla natura “spettrale” di questi volatili. 147
Segnaliamo di passaggio che i corvi sono uccelli divinatori per eccellenza.
Questi dati rispecchiano una parte delle considerazioni che si possono trarre da
tali problematici testi. Un riesame dei testi stessi può farci capire come si costruisce
una tradizione. Accenniamo solo al fatto che il riferimento al “sogno” potrebbe far
sospettare un nesso con la pratica dell’incubazione; se aggiungiamo l’incoerenza
(almeno dal nostro punto di vista) da parte di Plutarco nell’uso dei termini riferiti
all’“oracolo” – nekuomanteiªon nel Cimone, yuxopompeiªon nei Moralia – non è
difficile comprendere come si sia giunti a proposte esegetiche come muxopo/ntion
(“cavità, insenatura marina”), forma non attestata altrove ma che ha il non
disprezzabile pregio di far collimare le “insenature” (o “recessi”, muxo/j) di
Apollonio Rodio con quelle di Quinto Smirneo. Perché rinunciare alla possibilità di
avere, con un accorgimento linguistico, non un semplice nekuomanteiªon, ma
146
Ogden 2001: 30-31.
147
Ogden 2001: 32, citando Plinio, Nat. Hist. VII 174.
50
proprio quello di Herakleia Pontica, dal quale nel mito lo stesso Herakles trasse il
guardiano degli inferi, Kerberos?
51
4. La Nekyia omerica
Molte sono le testimonianze letterarie che non solo citano o riferiscono esempi di
consultazioni “estreme” come quelle di consultazione dei morti, e di tali pratiche
offrono una descrizione talvolta non avara di particolari. E tuttavia dobbiamo
ammettere che è difficile ricavare schemi coerenti, omogenei, regole valide per tutti i
casi, tali da indurci a supporre l’esistenza effettiva, rituale, di una pratica omologata.
È difficile cioè supporre l’esistenza della necromanzia come pratica riconosciuta in
qualche modo “lecita” mentre sicuramente è documentata la sua esistenza come
pratica diversamente illecita.
4.1 Premessa
La Nekya omerica – al contrario dei casi dei quali ci siamo sino a qui occupati – ci
propone una pratica di consultazione dei morti collocata tutta nel tempo del “mito”,
cioè in quella dimensione tutta altra, in quel passato sentito come “mitico”, cioè
totalmente diverso dall’attuale. La prospettiva omerica propone infatti l’esperienza di
Odysseus eroe greco, quindi essere extra-umano mitico per eccellenza, che agisce
«non in un passato qualsiasi, bensì in un tempo che era differente da quello presente:
vi erano condizioni differenti da quelle che nel tempo della narrazione si ritengono
normali […]», per dirla con il Brelich.148
In questa prospettiva la cosiddetta “nekyia” omerica (Odissea, XI) si propone
come emblematico evento mitico. Come tale da confrontare con il noto passo biblico
della “necromante” di En-dor (Samuele I 28, 3-25) nella contrapposizione del mito e
della storia.
4.2 Odysseus, l’evocatore d’ombre
148
Brelich 1966: 9.
52
L’arrivo di Odysseus alle “ammuffite” dimore (do/mon eu)rw/enta, Od. X 512)149 di
Ade e la successiva evocazione dello “spirito” dell’indovino Tiresia non è, come
sappiamo, frutto di una libera scelta, né uno dei tanti espedienti dell’“astuto” e
“multiforme” principe acheo, ma un penoso dovere, una tappa dolorosa e dovuta.
Con una battuta, saremmo tentati di dire che il protagonista dell’epos omerico ad un
certo punto diventa, si improvvisa quasi, necromante suo malgrado. All’uomo del
no/stoj, al guerriero sulla via del ritorno, al viaggiatore infaticabile, dopo aver
vagato in lungo e in largo, e prima di altrettante peregrinazioni che si sviluppano in
un ampio arco di tempo e di spazio, tocca il difficile compito di affrontare e
confrontarsi con le schiere dei trapassati, le “stirpi illustri dei morti” (kluta\ eÃqnea
nekrwªn, Od. X 526) in un contesto “favoloso”, cupamente tratteggiato, dalle
coordinate geografiche e temporali incerte, ambiguamente tracciate. Ne deduciamo
che la consultazione dei defunti, il loro richiamo in “vita” – ad una “vita” illusoria in
una forma inconsistente, fugace e sempre transitoria150 – nell’immaginario omerico è
dunque un atto increscioso, sgradevole, e in quanto tale non ricercato se non in vista
di una reale, o presunta tale, necessità.
È forse lecito interrogarci, a questo punto, sulla funzionalità della nekyia
all’interno della struttura del poema: l’“evocazione” di Odysseus è proprio
necessaria? Tra gli studiosi vi è chi lo ha negato in questi termini:
«Circe comanda ad Ulisse di andare all’Ade, affinché laggiù Tiresia «gli mostri
la via ed il modo del ritorno e come possa tornare in patria sul pescoso mare»
(Od., 10, 539 sg.). Tiresia, rintracciato nel regno delle ombre, soddisfa a questa
domanda in modo affatto incompleto e molto alla sfuggita; quando poi Ulisse
ritorna da Circe, ella lo informa più completamente e gli dà anche informazioni
più chiare su un certo punto già toccato da Tiresia, sui pericoli che lo aspettano
149
Le traduzioni dei passi omerici citati sono di G.A. Privitera, ediz. Classici A. Mondadori (su
licenza Fondazione Valla, 1981), 2004.
150
Si veda a proposito la curiosa “fretta” di Dario, evocato da Atossa (meglio, da Atossa e dal Coro
dei Persiani), in Eschilo, Persiani 692 sgg. (paragrafo 6.4).
53
ancora nel ritorno. Il viaggio nel regno dei morti non era dunque necessario;
non c’è nessun dubbio che in origine mancava assolutamente»151
Tralasciando qualsiasi conclusione di natura filologica o testuale, dal passo citato
ricaviamo due assunti interessanti per il nostro argomento.
In primo luogo, Odysseus compie il suo viaggio all’ingresso del regno dei
morti di malavoglia, su inderogabile ordine e dietro le precise indicazioni di Circe, la
dea “esperta di filtri” (Ki/rkhj... polufarma/kou, Od. X 276), conoscitrice di
“astuzie funeste” (o)lofw/i+a dh/nea, Od. X 289), “maga” potente, consigliera
sapiente, e tuttavia contraddistinta da tratti tipicamente umani, che la pongono quasi
in una zona d’incontro tra l’umano e il divino, in un ambiguo statuto tra donna e dea,
rendendola partecipe di entrambe le nature.152
Inoltre Tiresia, il cieco veggente, l’indovino per antonomasia la cui sofferta
figura appare in molteplici vicende dell’immaginario mitico greco, al quale
Persefone ha permesso di mantenere i suoi dolorosi saperi anche da morto (Od. X
492-5), è chiamato a dare un responso incompleto, insufficiente, inferiore per qualità
– e quantità – a quello che la stessa Circe, molto più esaustivamente, fornirà in
seguito. In numeri, la “profezia” di Tiresia si limita a 38 versi: Od. XI 100-137 – più
la stringata e insoddisfacente risposta alla precisa domanda di Odysseus “come può
[mia madre] riconoscere che sono io?” – contro i 100 versi esatti di Circe (Od. XII
37-110 e 116-141). Gli ultimi ripetono, in modo formulare, gli stessi dell’indovino –
o viceversa, quelli riprendono questi). Portando l’idea alle estreme conseguenze, si
potrebbe forse affermare che l’evocazione necromantica di Tiresia sia, se non del
tutto inutile, funzionalmente inefficace.
Le “vere” ragioni dell’inserimento dell’episodio in questione nel testo omerico sono
al di là degli interessi (oltre che delle possibilità) del presente lavoro. Riportiamo la
tesi del Rohde, autore di Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i
151
Rohde 1970: 52 (corsivo nostro).
152
Al riguardo, si veda più oltre, paragrafo 4.3.
54
Greci, solo per completezza, limitandoci a sottolineare come il dialogo con il defunto
indovino serva «soltanto minimamente a far conoscere lo stato e la disposizione degli
spiriti»: a fronte del notevole disagio di dover compiere, con una sensibile deviazione
del proprio percorso, un rito sentito (descritto) come pericoloso – quasi una vera e
propria “discesa agli inferi” o kata/basij153 – relativamente poche, secondo lo
studioso, sono le informazioni che Odysseus ricava non solo su ciò che più gli sta a
cuore, il futuro, l’esito del proprio viaggio, ma anche sullo stesso mondo infero.154
«[Omero] si servì della (superflua) informazione da richiedersi a Tiresia,
soltanto come di un pretesto, in vero poco saldo, per avere un’occasione esterna
di inserire il suo racconto nell’Odissea. Il vero scopo del poeta ed il reale
motivo della poesia si deve cercare in qualche cosa che non sia la profezia di
Tiresia, che è poi così stranamente breve ed insignificante […]. Si vede allora
che il nucleo originario del componimento non è altro che una serie di dialoghi
di Ulisse con le anime di quei morti, con cui egli ha avuto stretti rapporti
personali […]. Queste conversazioni nel regno de’ morti […] servono soltanto
minimamente a far conoscere lo stato e la disposizione degli spiriti
nell’enimmatico al di là, poiché domande e risposte si riferiscono puramente a
fatti che riguardano il mondo di su. Esse congiungono spiritualmente Ulisse,
che da tanto tempo erra solitario, lontano dai regni dell’umanità operosa, colle
sfere della realtà, cui tendono i suoi pensieri, in cui egli ha operato un giorno, ed
in cui tornerà ad operare nella pienezza delle sue forze»155
Il senso della nekyia, del dialogo oltremondano di Odysseus va ricercato, secondo il
Rohde, non tanto nella ricerca di un sapere escatologico, di una conoscenza
“sovrumana” naturalmente preclusa ai vivi, ma nella funzione di “legame”
Si veda l’eloquente appellativo usato da Circe al ritorno di Odysseus e compagni: disqane/ej,
“mortali due volte” (Od. XII 22).
153
154
In realtà, si vedano le dettagliate ed istruttive informazioni di Anticlea sul processo di
“disfacimento” dei corpi al momento della morte (Od. XI 216-224), con la curiosa avvertenza: “tutto
questo tu sappilo, per dirlo anche dopo a tua moglie”. Un indiretto resoconto del mondo infero ci
viene anche dalla problematica descrizione dei tormenti di Tizio, Tantalo e Sisifo, Od. XI 576-600.
155
Rohde 1970: 52-53 (corsivo nostro).
55
(“magico”? psicologico?) dello stesso Odysseus con il mondo che ha abbandonato e
al quale il suo viaggio tende, la propria dimensione umana, familiare (della quale
l’incontro con la madre defunta sembra quasi essere un’anticipazione), come se le
“rivelazioni” di Tiresia non servissero tanto ad anticipare i futuri pericoli del viaggio
– a questo penserà Circe con maggior precisione di dettagli – quanto a confermare la
sua possibile riuscita, il presumibile ritorno. Tiresia non dà certezze, ma una serie di
ammonimenti o indicazioni presentate sotto forma di alternativa: “Ma anche così
potresti arrivare […] se sai trattenere l’animo tuo…; Se queste le lasci illese […]
potrete ancora arrivare ad Itaca…; se però le molesti…; e tu, seppure ne scampi…”
(Od. XI 104-113); le “parole veraci” (nhmerte/a eiÃpw, Od. XI 96) promesse
all’inizio dall’indovino tebano in cambio del sangue versato da Odysseus si
concludono, dopo un breve accenno (veritiero) alla strage dei pretendenti, con la
celebre e discussa “profezia del ventilabro” il cui assunto finale – “Per te la morte
verrà fuori dal mare…” (qa/natoj de/ toi e)c a(lo\j [...] e)leu/setai, Od. XI 1345) – è quanto mai ambiguo e tuttora oggetto di discussione, nonostante la rinnovata
dichiarazione di veridicità: “Questo senza errore ti annunzio” (ta\ de/ toi
nhmerte/a eiÃrw, Od. XI 137).156
Ma quali sono le condizioni, le modalità in cui avviene il rito descritto nella nekyia?
Una prima osservazione ci viene offerta dal luogo. Odysseus giunge per mare, dopo
un giorno di viaggio, “ai confini dell’Oceano profondo” (e)j pei/raq' iÀkane
baqurro/ou 'Wkeanoiªo, Od. XI 13), nella misteriosa terra dei Cimmeri, nebbiosa,
perennemente buia, dalla vegetazione sterile (Od. X 510), sede, tra l’altro, del luogo
nel quale hanno origine i sogni157: qui vi sono le selve di Persefone e le dimore di
Ade, e qui va consumato il rito. L’indicazione di Circe non manca di precisione,
156
Devo a E. Pellizer molte riflessioni sulla composizione e la struttura narrativa dell’Odissea; segnalo
qui solo l’idea dell’ambiguità della “profezia del ventilabro”, e i numerosi, irrisolti problemi sulla
“spazialità” dei viaggi omerici, più sotto appena accennati. Si veda a tale riguardo anche: E. Pellizer,
“Skheríe…” (inedito, cit. in bibliografia). Sulla “morte dal mare” inflitta a Odysseus dal figlio
Telegono (avuto da Circe) con un’asta avente “come punta la spina di una tracina”, si veda
Apollodoro, Biblioteca, Epitome VII 36 e relative note nel commento di J.G. Frazer: ediz. Adelphi,
1995, a cura di G. Guidorizzi, oppure A. Mondadori-Fond. Valla, 1996, a cura di P. Scarpi, trad. di
M.G. Ciani. Anche Pellizer 1982(b).
157
Cfr. più sopra, paragrafo 2.1.2.
56
segnalando il punto preciso nella confluenza dei fiumi Piriflegetonte e Cocito (un
ramo dello Stige) nell’Acheronte. Non fa meraviglia che gli stessi antichi abbiano
voluto identificare lo scenario della nekyia. Una proposta chiama in causa l’odierno
sito presso Ammoudià, nell’Epiro, Tesprozia, caratterizzato dagli omonimi fiumi,
fino alle identificazioni moderne, come quella di Dakaris (a partire dal 1958),
dell’edificio ivi presente con un nekuomanteiªon (in seguito riconosciuto come una
“tower-farm” di epoca ellenistica),158 puntualmente riprese anche a livello
divulgativo.159
Tralasciamo i numerosi, improbabili benché spesso ingegnosi tentativi di
localizzare geograficamente il luogo, che si susseguono fin dall’antichità (e che già
Eratostene di Cirene derideva).160 Nel poema si nota subito l’ingresso in uno spazio
diverso, totalmente altro, negativamente delineato (mancanza di luce/di vita – posto
di tenebre/di morte) rispetto allo spazio “civile”, “politico” – e contrapposto quasi
simmetricamente alla po/lij “perfetta” dei Feaci, luminosa, accogliente – dei vivi. È
il luogo più adatto – l’unico, forse, almeno nell’epos omerico – in cui l’evocazione
dei morti sia non solo permessa, ma facilmente eseguibile.161
Più articolata è la riflessione riguardo il modo, cioè sulla prassi rituale che richiede
l’attenzione scrupolosa “religiosa” nel senso dell’etimo latino, di ogni singolo atto.
Secondo le prescrizioni di Circe, Odysseus scava una fossa “di un cubito” per ogni
lato, versa la triplice offerta “per tutti i defunti” (pa/sin neku/essi) di latte e miele,
158
Sulla teoria di Dakaris e la sua demolizione, vedi Ogden 2001: 19-21.
159
Polacco 2003, dove l’Autore, accettando senza riserva l’interpretazione di Dakaris, accosta il
presunto nekyomanteion «all’idea di un ombelico negativo del cosmo, di una specie di anti-Delfi.
Nulla che sia più lontano da Apollo da tutto ciò», secondo l’antitesi Delfi/nekyomanteion (oracolo
solare/oracolo dei morti) priva di giustificazioni storiche, che ricorda l’annosa questione della
contrapposizione – tutta moderna – “apollineo/dionisiaco” (sul tema, cfr. C. Isler-Kerényi, “Mitologie
del moderno: «apollineo» e «dionisiaco»”, in S. Settis (a cura), I Greci. Storia Cultura Arte Società,
vol. 3, Torino, Einaudi, 2001).
Eratostene (III sec. a.C.) nei suoi GEWGRAFIKA contestava l’accanimento nel voler considerare
Omero una fonte storica, sostenendo che scopo dei poeti è dilettare, non insegnare: sua la battuta per
la quale “qualcuno potrà scoprire dove vagò Odysseus se troverà il cuoiaio che cucì l’otre dei venti”
(Rossi 2003: 30; 570).
160
161
Il pensiero va, per contrasto, alle numerose attestazioni di riti “magici” dei più tardi papiri, che
sembrano calati in una dimensione “quotidiana”, quasi domestica, privata, come sembra
indirettamente suggerire anche lo studio di Eitrem 1991.
57
vino e acqua cospargendola di farina bianca di orzo (troveremo la stessa tipologia in
molti casi di necromanzia: si veda ad esempio l’“offerta funebre” nei Persiani di
Eschilo). Dopo aver assicurato il sacrificio, una volta tornato a Itaca, di una vacca
sterile e, soltanto per Tiresia, di un montone nero, avviene il sacrificio vero e proprio
(quasi replica e promessa, non mantenuta, di quello futuro): Odysseus immola
(r¸e/cein) un montone nero ed una pecora nera “piegandoli giù verso l’Erebo” (ei)j
ÃEreboj stre/yaj, Od. X 528) ovvero verso la fossa nella quale il sangue scorre
“fosco come nube” (Od. XI 36). Quindi, appena giungono, accalcandosi, le “anime
dei morti defunti” (yuxai\ [...] neku/wn katateqneiw/twn, Od. X 530 e XI 37), i
compagni di Odysseus devono scuoiare e bruciare le bestie sgozzate, pregando “Ade
possente e la tremenda Persefone” (i¸fqi/m% t¡ ¡Ai+/d$ kai\ e)pain$ª Persefonei/$,
Od. X 534 e XI 47). Così ci descrive la scena un grande studioso e “narratore di
miti”:
«[Odysseus] Vede allora avanzare verso di lui la folla di coloro che sono
nessuno, outis, come lui stesso ha preteso di essere, i senza nome, i nonymoi,
coloro che non hanno più un volto, che non sono più visibili, che non sono più
nulla. Formano una massa indistinta di parvenze, di esseri che sono stati un
tempo individui, ma di cui adesso non si sa più niente. Da tale massa che sfila
compatta di fronte a lui, sale un rumore spaventoso e indistinto. Gli esseri non
hanno nome, non parlano, un rumore caotico li circonda. Ulisse è assalito da un
terrore fortissimo di fronte a uno spettacolo che presenta ai suoi sensi la
minaccia di una dissoluzione totale in un magma informe. La sua parola così
accorta è sommersa in un rumore non udibile, la sua gloria, la sua fama, la sua
celebrità sono dimenticate, con il rischio di perdersi in questa notte. Appare nel
frattempo Tiresia»162
162
Vernant 2000: 107-8 (“I senza nome, i senza volto”).
58
Allora, tratta la spada, Odysseus impedirà alle anime di avvicinarsi al sangue prima
che ne abbia bevuto Tiresia.163 Si tratta dell’ai¸makouri/a, offerta di sangue ai (o
libagione da parte dei) morti (da kore/nnumi, saziare, saziarsi), che dovrebbe
restituire alle “teste senza forza dei morti” (neku/wn a)menhna\ ka/rhna, Od. X 536
e XI 49) la perduta capacità (propria dei vivi) di riconoscere e ricordare cose persone
ed eventi – non necessariamente quelli futuri: Tiresia viene richiesto ed interrogato
non in quanto morto, ma in quanto “sapiente” (indovino/veggente) già in vita: il
sangue non dovrebbe essere necessario per la sua predizione in quanto, lo si è visto
sopra, anche da morto ha mantenuto i suoi “saperi”. Ciò dovrebbe valere,
analogamente e a maggior ragione, per tutti gli altri conoscenti che Odysseus
incontra, pur non “reclamati”, che non hanno posseduto in vita simili capacità e che
dimostrano, com’è prevedibile, scarsa o nulla conoscenza delle cose “mondane”: la
madre Anticlea, informata degli eventi recenti (ma non del futuro) ed i vecchi
compagni d’arme come Agamennone, il quale si dilunga sul racconto della propria
morte, ed Achille, che esprime l’amarezza della nuova condizione. Costoro, quasi
con un ribaltamento di ruoli, chiedono a Odysseus, che da interrogante si fa
interrogato, notizie su lui stesso o sui loro cari ancora vivi. Sembra quasi che
l’ai¸makouri/a sia un espediente consueto, tipico, associato a tale genere di riti: se
non proprio un topos letterario, quantomeno un accorgimento o “ingrediente”
tradizionalmente accolto nella descrizione – letteraria o documentaria – delle
pratiche di “evocazione”.
Un’ultima osservazione, a proposito dell’ efficacia del sangue, che può farci riflettere
se non riconsiderare quanto appena detto, è legata alla prescrizione di Circe di
voltare lo sguardo durante lo sgozzamento degli animali. Citando ancora da Ogden:
«Odysseus holds his gaze back toward the river of Ocean. Clearly at the moment of
sacrifice the gaze creates a devotional bond with its object, so that Odysseus must
163
Notevole in questo senso l’irrisolta, e irrisolvibile, contraddizione tra l’“inconsistenza” delle
“anime” e la possibilità (necessità) di tenerle lontane dal sangue tramite un oggetto fisico, la spada,
quasi potessero esserne danneggiate. Sul “potere” del bronzo o del ferro sugli “spiriti” vedi però
Ogden 2001: 180; ancora, sulla spada di Odysseus quale “controparte” della bacchetta di Circe o del
bastone di Tiresia, Ogden 2001: 183; in modo più incisivo, per una analisi approfondita in chiave
strutturalista dell’“incontro/scontro” tra Odysseus e Circe (di cui si tratterà nel seguente paragrafo),
cfr. Pellizer 1982 (b).
59
look back to the land of the living if he wishes to return to it».164 Il concetto è ancora
una volta quello del “legame” che si instaura tra l’officiante (o gli officianti, visto
che i compagni partecipano attivamente al rito) e le “potenze” – i morti, o più
ragionevolmente le divinità preposte, Ade e Persefone – che vengono evocate
affinché il rito abbia buon fine. In altre parole, e in un certo senso, il sangue della
ai¸makouri/a sembra essere più importante, più funzionale, per chi lo versa, che per
chi lo riceve e ne fa uso.
4.3 Una divina consigliera. La “dea” Circe
Se Odysseus è l’involontario “officiante” del rito, colui che fa, che agisce
attivamente sulla “scena”,165 Circe è colei che lo guida, anche se a distanza, con le
parole, che indica la via e descrive gli atti necessari: se Odysseus è l’“attore” (per
usare ancora la metafora teatrale), Circe è la sua “regista”. Ma qual è il suo ruolo,
ovvero quali sono le caratteristiche che la legano e la collegano alla nekyia omerica?
Non si tenterà certo di delineare il profilo di una figura complessa come questa, ma
solo di mettere in evidenza alcune sue caratteristiche: dea, donna, tradizionalmente
“maga” – anche se non viene mai definita così nel testo: il termine ma/go» non è
ancora noto al lessico di Omero – Circe è la figlia di Helios (il Sole), il cui statuto
“marginale” sembra non impedire l’accostamento (semmai favorirlo), in apparente
contraddizione, tra la propria natura “solare” e la sfera ctonia, terrena, “mortale” nel
senso di connessa alla morte e alla dimensione dei morti. K. Kerényi sottolinea per
Kirke:
«L’elemento arcaico affiora attraverso lo stile omerico-classico e ci trasporta
nell’atmosfera di un mondo selvaggio, senza tempo, proprio di un’antichissima
164
Ogden 2001: 172 (corsivo nostro).
165
Usiamo il termine pensando ancora al dramma eschileo Psycagogoi sopra citato, e al parallelo con i
Persiani del medesimo Autore: per i possibili adattamenti scenografici – passaggi sotto il
palcoscenico o “tumuli” al di sopra per la “salita” dello “spirito” evocato – vedi Broadhead 1960: 309
e Ogden 2001: 3; cfr. n. 276.
60
poesia di miti». «[…] questa divina incantatrice ha da fare anche con la sfera
ctonia, come Demetra e Persefone, i cui animali sacri sono i porci»166
Tentiamo di evidenziare alcuni dei tratti che la definiscono, confinandola nel mondo
del “mito” (del tempo “senza tempo”), del “selvaggio”,167 e al tempo stesso
accomunandola ad alcuni aspetti del vivere umano, “civile”: «Il mitologema di
questa donna solare ha il fascino del favoloso. È la storia di una dea “dalle belle
trecce, terribile, dalla voce umana”, in virtù del suo canto seducente e forse più
stridulo che melodico».168
Il riferimento è all’espressione li/g¡ aÃeiden (“voce spiegata”, Od. X 254)
messa in relazione con il ligur$ª... a)oid$ª (“limpido canto”, Od. XII 44) che la
stessa Circe attribuisce alle Sirene e che Odysseus puntualmente riprende nel proprio
racconto (Od. XII 183), laddove liguro/j può ambiguamente definire anche un
suono stridente o sibilante (nello stesso Omero, Il. XXIII 215 è associato al vento) –
mentre le Sirene, astutamente, definiscono la propria voce meli/ghrun, “suono di
miele”, Od. XII 187. Si noterà solo di passaggio che il termine li/ga, ammesso che
effettivamente possieda un qualche valore negativo, è utilizzato dal solo Euriloco –
che ha assistito alla trasformazione dei compagni e desidera sfuggire, anziché
incontrare, Circe – nel suo resoconto, che ha il presumibile scopo di metterla per così
dire in cattiva luce presso Odysseus e gli altri; i primi che la incontrano, quasi
fossero già sotto l’effetto di un incantesimo sonoro (come avverrà per le Sirene!),
trovano anzi che “con voce bella cantava” (a)eidou/shj o)pi\ kal$ª, Od. X 221) e
che “canta in modo perfetto” (kalo\n a)oidia/ei, Od. X 227).
L’ambivalente connessione di Circe con le Sirene (anch’esse definite, non a
caso, qespe/siai, “divine”, ma anche “dalla voce divina, profetica”, 169 Od. XII
158), da un lato, e dall’altro con la sfera umana è suggerita anche in relazione al suo
166
Kerényi 1991: 66-67.
167
Frontisi-Ducroux 2003: 67: «Dans l’Odyssée, l’île de Circé est située en marge de la civilisation,
dans ce monde de Nulle Part où Ulysse erre longuement avant de retrouver Ithaque».
168
Kerényi 1991: 65.
169
Con questa valenza, il termine ricorre ad es. in Eschilo, Agamennone 1154 ed Euripide,
Andromaca 296.
61
agire, ai suoi gesti ed azioni: «Ma Circe, […] rimane in tutte le sue azioni umana.
[…] E umana è anche quando canta intenta “alla grande tela”, benché a questo
seducente canto ci ricordiamo sinistramente della voce mortalmente incantatrice
delle Sirene».170 Un nesso non trascurabile ci sembra intercorrere tra Circe e le
Sirene, il ruolo delle quali è stato evidenziato in modo suggestivo da J.-P. Vernant:
«[…] Le Sirene rappresentano insieme il richiamo del desiderio di sapere,
l’attrazione erotica – la seduzione stessa –, e la morte. Ciò che dicono a Ulisse,
in un certo senso, è ciò che si dirà di lui quando non ci sarà più, quando avrà
superato la frontiera fra il mondo della luce e quello delle tenebre, quando sarà
diventato l’Ulisse dei racconti che gli uomini hanno creato e del quale io sto qui
rammentando le avventure. Le Sirene gliele narrano mentre è ancora vivo, come
se fosse già morto»171
È forse lecito chiedersi se il canto di Circe – che forse spiega in parte l’impellente
necessità che spinge Odysseus ad andare da lei172 – non abbia analoghi intenti. La
“dea tremenda con voce umana” (deinh\ qeo\j au)dh/essa, così definita in Od. X
136, XI 8, XII 150) viene dunque presentata, fin da subito, come intenta in due
attività significative: il canto, l’impiego della voce – sul quale ci soffermiamo ancora
un attimo – e l’atto del tessere, tipicamente femminile, familiare, domestico:
«Ora, a parecchie riprese, l’Odissea parla di una theòs audéessa: così, a fianco
di Ino, figlia di Cadmo, con la morte innalzata agli onori divini ma che, durante
la vita, era mortale e dunque normalmente dotata di voce (brotòs audéessa),
Circe e Calipso – la prima tre volte, la seconda una sola – sono qualificate deinè
theòs audéessa: “terribile dea dalla voce umana”. […] Bisogna dunque
cimentarsi con il testo, visto che l’espressione giustappone in un superbo
oxymoron l’essere dio, la voce umana e il femminile. Così in due dee minori si
affrontano il divino e la donna, in una contiguità il cui disaccordo tra i generi
170
Kerényi 1991: 70-71.
171
Vernant 2000: 110 (“I senza nome, i senza volto”)
172
Pellizer 1982 (b): 85: «[…] una necessità cogente, anànke, lo spinge. Non si tratta, si può supporre,
soltanto di sollecitudine per la sorte dei compagni. L’eroe deve, in un modo o nell’altro, affrontare il
pericolo che si cela nell’incontro con la bella incantatrice».
62
(una terminazione femminile, deinè/una di forma maschile, theòs/un femminile,
audéessa) suggerisce che essa dissimuli qualcosa d’inconciliabile»173
Prendendo atto di tale inconciliabilità, notiamo ancora come la dea, con medesima
voce e senza bisogno di intermediari o intercessori, parli direttamente, dialoghi e si
faccia chiaramente capire da Odysseus e compagni, in linguaggio “naturalmente”
umano, immediatamente comprensibile, che non dev’essere tradotto o interpretato,
come solitamente avviene nei frequenti ma non semplici rapporti di comunicazione
tra uomini e dèi, tra sfera umana e divina. Circe è una dea-donna che dispensa
consigli, ma lo fa in modo da essere facilmente compresa, non equivocata: le sue
istruzioni “di viaggio” – nekyia compresa – devono essere, e sono, chiare ed efficaci.
La seconda attività in cui si rivela la sua doppia natura – divina e umana (solare
e notturna?) – è quella della tessitura, del lavoro al “grande ordito” (me/gan i¸sto\n,
Od. X 226) che sembra accostarla per analogia (o simmetrica inversione) al lavoro di
Penelope,174 collegando entrambe alle Tessitrici per eccellenza, le Moire, anche se la
sposa di Odysseus, «colei che in apparenza è la tessitrice puramente umana
dell’Odissea, è a un tempo quella che disfa il proprio lavoro. Il suo tessere
corrisponde a questo riguardo al filare delle Moire»;175 la “trama” di Circe, invece,
vogliamo immaginarla ininterrotta e imperitura.
Dea dalle parole (e dalle attività) umane, donna dai saperi (e relativi poteri) divini: in
questa inconciliabile ma funzionale (e affascinante, ci permettiamo di aggiungere)
contraddizione giace forse il segreto e la natura del suo ruolo “magico”, di grande
incantatrice. I suoi saperi, facilmente comprensibili in quanto extra-umani, nel campo
della farmacopea e della preparazione di fa/rmaka (filtri, unguenti, più
genericamente preparati ad uso “magico”)176 – contrastati ed annullati soltanto
173
Loraux 1990: 23.
174
Sul rapporto tra le tre grandi figure femminili dell’Odissea – Circe, Penelope, Calipso – e
sull’opposizione simmetrica tra l’immortalità donata da Circe a Penelope («la moglie saggia e
paziente») e ai figli di Ulisse e il rifiuto di quest’ultimo dell’immortalità offertagli da Calipso, cfr.
Pellizer 1982 (a): 74 sgg.
175
Kerényi 1991: 73.
176
Altra grande herbaria e “maga” del mito è Medea, la cui sapienza è in qualche modo tanto più
notevole – e pericolosa – in quanto lei è prevalentemente (rispetto alla “zia” o “sorella” Circe) donna
63
dall’intervento salvifico e (narrativamente) antitetico di Hermes, messaggero e
mediatore tra gli dèi e l’uomo177 – vengono impiegati e trovano effettivo compimento
(tranne che con Odysseus) in quanto preparati ed “offerti”, nel senso letterale del
termine, con l’“arte”, la “tecnica” cioè, ingannatrice, tipicamente femminile, della
seduzione, che ha già nel canto, verrebbe da dire, il suo avvio. Si stabilisce infatti «in
una specie di prova di forza fra una maga, zia di Medea, e Ulisse – e, attraverso lui,
Hermes, dio mago e artefice di fantasmagorie –, una sorta di scontro e, alla fine, di
accordo»178 che prevede uno “scambio” di tipo erotico: «Resi innocui i phàrmaka
dall’erba môly, e la bacchetta magica (rhàbdos) dalla spada sguainata, l’infida
seduttrice gli offrirà allora all’istante di dividere il suo letto, esortandolo nel
contempo a “mettere la spada nel fodero”, con un’allusione che appare fin troppo
palese».179 C’è chi si è spinto più in là, accostando la figura di Circe a quella
dell’“etéra”,180 indagando l’etimologia del nome:
«Il cerchio, quella delimitazione essenziale nell’interno della quale la potenza
incantatrice crea il suo particolare mondo magico, è per così dire intorno al
palazzo di Circe, e anche nel suo stesso nome. Kirkos, foneticamente
corrispondente al latino circus, che sta alla base di circulus, si chiama in greco
un volteggiante uccello da preda, e anzi una volta una specie di lupo aggirante
in cerchio, in Omero un falco».181 Inoltre: «Nell’incantesimo d’amore i Greci
impiegarono un piccolo uccello con voce di sparviero: il torcicollo, che però
nell’azione incantatrice facevano volteggiare in cerchio»182
mortale, umana, e non esplicitamente dea. Si veda più sotto, paragrafo 8.1.1.
Sull’erba mwªlu donata da Hermes a Odysseus, si veda Scarborough 1991, ma anche, per una
possibile identificazione con la ruta selvatica, o pèganon àgrion, pianta “maleodorante”
dall’interessante simbologia, Pellizer 1982 (b): 85-88.
177
178
Vernant 2000: 105 (“Idillio con Circe”).
179
Pellizer 1982 (b): 92. Frontisi-Ducroux 2003: 67 punta l’attenzione sul rapporto “gerarchico” che si
instaura tra i due: «L’union sexuelle ne s’effectuera que lorsque le héros se sera assuré de conserver la
position dominante du mâle, lui dont la supériorité virile s’est manifestée dès la premièr séquence,
lorsqu’il a, contre la baguette inefficace, tiré son epée. Cette arme, aussi phallique que guerrière,
comme le souligne sa position sur plusieurs images, a fait trembler la déesse».
180
Kerényi 1991: 74 sgg.
Kerényi 1991: 69-70; cfr. Od. XV 525-26: «ki/rkoj, 'Apo/llwnoj taxu\j a/)ggeloj […]» («un
falcone, il celere nunzio di Apollo»): cfr. Bodson 1975: 95.
181
Kerényi 1991: 70. Sulla i)/ugc, lo strumento utilizzato nella “magia amorosa” (gli esempi più noti,
la IV Pitica di Pindaro e il II Idillio di Teocrito), e la sua relazione con il “torcicollo”, cfr. Pirenne182
64
Dea, donna, incantatrice, etéra, donna-lupo (“lupa aggirante”)183: potrebbe sembrare
quasi una regressione morale, un’involuzione peggiorativa se non si trattasse di
un’interpretazione necessariamente parziale, una forzata schematizzazione che
attinge all’iconografia moderna non meno che alle possibili interpretazioni che gli
stessi Greci – creatori e fruitori ad un tempo del racconto mitico184 – potevano o
volevano fornire. Ciò che interessa, pur nei limiti evidenti del presente discorso, è
rilevare come lo statuto ambiguo, anomalo di Circe – e tuttavia perfettamente
coerente con le istanze mitiche, “favolose”, decisamente non storiche della
narrazione – si delinei anche nel suo aspetto meno evidente ma non meno importante
di consigliera, “istruttrice” del rito necromantico: Circe è colei che insegna, indica i
luoghi e i modi, detta le direttive del rito; la sua parola è diretta ed efficace 185 e, cosa
non secondaria, veritiera, soprattutto dopo che ha formulato il “gran giuramento”
(me/gan oÀrkon, Od. X 299 e 343) di non nuocere a Odysseus, ed aver riconosciuto
che l’arrivo di lui le era stato anticipato, predetto, dallo stesso Hermes che contrasta,
rendendole vane ed inefficaci, le sue “arti”.
All’insegna dell’ambivalenza, quindi, di quell’ambiguità che sembra essere
una costante di chi opera nella sfera del “magico” e a maggior ragione in quella
ctonia – di cui dimostra di possedere determinati saperi/poteri – si colloca non solo la
natura di Circe, la dea «che tesse e di nuovo scioglie nascite e morti – l’etéra
immortale che procura il piacere e divora gli uomini», ma anche le sue azioni: «ella
non accompagna Ulisse agli Inferi, ve lo manda soltanto. Ella relega soltanto i
compagni di Ulisse nella condizione terrestre di porci, ve li tieni quasi in una specie
d’inferno, ma lei né condivide la loro condizione, né assume una corrispondente
Delforge 1993.
183
«[…] l’etéra viene in latino chiamata lupa, mentre l’Ade etrusco compare in una celebre pittura
funeraria come dio Lupo»: Kerényi 1991: 75.
184
«[…] il mito greco, cioè l’insieme dei racconti, mythoi, che i Greci in vario modo hanno inventato
per costruire la propria immagine autoidentificante innestando una successiva, vasta produzione di
narrazioni e interpretazioni»: Chirassi Colombo 2001: 341.
185
Sul “buon funzionamento” della comunicazione tra Circe e Odysseus, cfr. Frontisi-Ducroux 2003:
68: «Entre Ulysse, l’homme dont la métis égale celle de Zeus, le polytropos aux mille tours – pour
cette raison « in-charmable » - et la redoutable déesse magicienne, la communication est un succès sur
les deux plans, érotique et verbale».
65
forma animale».186 Lo stesso “trattamento” che riserva ai compagni di Odysseus –
trasformandoli in animali ma conservandone la “ragione”, la capacità di pensare e
quindi soffrire per la nuova condizione187 – ha infatti qualcosa di mostruoso, di
“bestiale”, che getta un’ombra inquietante sull’aspetto “solare” (è pur sempre figlia
si Helios) della “divina consigliera”, avvicinandola – creatura “serpentina”
dall’aspetto umano188 – agli uomini dall’aspetto bestiale da lei stessa mutati.
4.4 Conclusioni parziali
La nekyia omerica, il più celebre e studiato passo di “necromanzia letteraria” a noi
giunto, da un certo punto di vista è forse proprio il meno adatto a dare un’idea, a noi
moderni, dell’ideologia e dell’effettiva prassi – o di come s’immaginava che la prassi
avvenisse – dei “reali” riti necromantici. Ci arrischiamo di affermare che la
necromanzia omerica ci dice molto, a prescindere dall’ovvio aspetto poetico e
letterario, sulla mentalità ovvero sull’uso anche linguistico di un certo tipo di
immaginario “religioso”, ma paradossalmente ci dice relativamente poco sulla
necromanzia stessa; per dirla in altro modo, la nekyia sembra essere una fonte
interessantissima e al contempo poco utilizzabile ai fini di uno studio teso a
documentare la “storia” di una pratica che – a discapito di una vasta casistica di
segnalazioni che vanno dall’età arcaica all’ellenismo e al primo cristianesimo, per
riversarsi e sopravvivere in modo più o meno distorto attraverso il Medioevo fino
all’immaginario moderno – rimane sfuggente e reticente.
Per questo motivo ci rivolgiamo ora ad altri contesti e ad altri testi, cercando di
analizzare l’unica, ma per molti versi notevole, “scena” di necromanzia biblica, che
186
Kerényi 1991: 75.
187
Frontisi-Ducroux 2003: 64: «Enfermés dans des corps d’animaux, ces humains ne vivent que
superficiellement, sur le seul plan formel, leur descente dans l’échelle des êtres, dont la hiérarchie est
incontestable selon les critères des poèmes homèriques. Leur transformation aboutit à un nouveau
type d’hybridation entre l’humain et l’animal : une enveloppe bestiale est greffée sur un esprit
humain».
188
È definita “dràkaina” in Licofrone, Alexandra, 673-74, cit. in Pellizer 1982 (b): 83. È inopportuno,
ma nondimeno suggestivo, paragonare questa “serpentessa” alle tante “pitonesse” coinvolte con il
concetto di necromanzia (cfr. paragrafo 5.3).
66
l’ideologia veterotestamentaria presenta – a differenza della nekyia – come storica,
realmente avvenuta, secondo i criteri che abbiamo già parzialmente anticipato.189
189
Paragrafo 2.2.
67
5. Un caso di necromanzia biblica. La “pitonessa” di En-dor
Nel mondo biblico la pratica necromantica s’inserisce nel più ampio discorso sulla
proibizione e la condanna di ogni pratica divinatoria che si frapponga al solo sistema
lecito di conoscenza che è la rivelazione profetica; ad eccezione infatti del «sistema
di cleromanzia, simile al nostro “testa o croce”, basato sull’estrazione alla cieca di
uno fra due tipi di oggetti detti urim e tummim»,190 i numerosi mezzi divinatori, che
sono attestati nella Bibbia sotto forma di pochi e non univoci accenni, «presentano
tutti un grave difetto agli occhi dei profeti, e cioè l’essere essi usati anche dai popoli
pagani; essi possono quindi facilmente indurre Israele in tentazione e distoglierlo dal
temere e dall’adorare l’unico Signore».191 La Legge mosaica proibisce infatti in
modo categorico la consultazione di “spiriti” tramite il ricorso a persone
“qualificate”, esperte in questa pratica – i termini per designare le quali, pur tra varie
incertezze, sono comunque usati e conosciuti (vedi qui sotto, paragrafo 5.3) – pena
l’acquisizione dello stato d’impurità per chi vi ricorre (Lv. 19, 31) e la morte per
lapidazione per chi, uomo o donna, materialmente la opera (Lv. 20, 27). 192 Da ciò
deriva la difficoltà di rintracciare nei testi informazioni precise, storicamente utili, il
cui valore è necessariamente di natura indiretta:
«[…] conosciamo la necromanzia presso gli Ebrei soprattutto attraverso le leggi
che la vietano. Esse tuttavia ci fanno pensare che dovesse essere abbastanza
diffusa, per giustificare misure così drastiche come quelle previste nel
Pentateuco. La stessa opera risanatrice di Giosia e, in un primo tempo, dello
stesso re Saul (I Sam. 28,3), che distrussero ambedue ogni pratica necromantica,
è una prova di quanto simili “abominazioni” fossero diffuse»193
190
Grottanelli 1987: 193; cfr. paragrafo 2.1.2.
191
Cavalletti 1958: 77.
192
Cavalletti 1958: 83.
193
Cavalletti 1958: 84. Cfr. anche Caquot 1988 (1970-76): 59: «L’onnipotenza di YHWH, sottolineata
dalle fonti, che hanno quasi tutte un carattere normativo, non deve essere riuscita, per esempio, ad
eliminare la credenza negli stregoni e nei dèmoni»; e aggiunge: «La negromanzia era vietata, ma
l’episodio della maga di Endor consente di rendersi conto di quanto distasse la pratica dalla teoria».
68
In questa difficile situazione documentaria spicca per converso, curiosamente, una
delle poche – assieme alla nekyia omerica e alla scena dei Persiani – (relativamente)
ampie sequenze descrittive di “evocazione”, l’eloquente e problematico episodio
della “necromante di En-dor” (I Samuele 28), che vede protagonista lo stesso re Saul,
strenuo avversatore di ogni pratica “stregonesca” prima di cadere in disgrazia davanti
a Yahweh, il solo dispensatore, nell’ideologia veterotestamentaria ripresa dalla
tradizione rabbinica ed esegetica, del “vero” sapere legato alle cose future.
5.1 Il testo: I Samuele 28, 3-25
«28. 3 Samuele era morto, e tutto Israele l’aveva pianto e l’aveva sepolto in Ramah, nella sua
città. E Saul aveva eliminato i maghi e i necromanti dalla terra. 4 I Filistei si adunarono, e
vennero e si accamparono in Shunem; e Saul adunò tutto Israele, e si accamparono a Gilboa.
5
Quando Saul vide l’esercito dei Filistei, ebbe paura, e il suo cuore tremò grandemente. 6 E
quando Saul consultò Yahweh, Yahweh non gli rispose, né con sogni, né con profeti.
7
Allora Saul disse ai suoi servi: “Cercatemi una donna, che sia una necromante (bclt ’wb), che
possa andare da lei a consultarla”. E i suoi servi gli dissero: “Ecco, c’è una necromante (bclt
’wb) a En-dor”.
8
Allora Saul si travestì e mise abiti diversi, e andò, lui e due uomini, e
giunsero dalla donna di notte. E (Saul) disse: “Vaticina per me a mezzo dell’ob (qswmy-n’ ly
b’wb) e portami su (whcly ly) chiunque ti dirò”. 9 E la donna gli disse: “Certamente sai quello
che Saul ha fatto, e cioè che ha eliminato dalla terra i maghi e i necromanti. Perché dunque
mi tendi una trappola, per farmi morire?”.
10
Ma Saul le giurò per Yahweh: “Come (è vero
che) vive Yahweh, così nessuna punizione ti verà per questa azione”.
11
E la donna disse:
“Chi ti farò salire (’clh-lq)?”; e (Saul) le rispose: “Samuele fammi salire (hcly ly)”. 12 Quando
la donna udì il nome di Samuele, gridò con alta voce, e disse a Saul: “Perché mi hai
ingannato? Tu sei Saul!”.
13
Il re le disse: “Non temere (’l-tyr’y), ma dimmi piuttosto quello
che vedi”. E la donna disse a Saul: “Vedo uno spirito (’lhym) che sale su dalla terra (r’yty
c
lym mn-h’rs)”.
14
Ed egli le chiese: “Che aspetto ha?”. E rispose: “Un vecchio sale su (clh)
ed indossa un mantello”. Allora Saul comprese che si trattava di Samuele, s’inchinò con la
faccia a terra, e gli rese omaggio.
15
Allora Samuele disse a Saul: “Perché mi hai disturbato
69
(hrgztny) facendomi salire (lhclwt)?”. Saul rispose: “Sono in grande angoscia: i Filistei fanno
guerra contro di me, e Yahweh si è distolto da me e non mi risponde più, né con profeti, né
con sogni, perciò ti ho chiamato perché tu mi dica che cosa devo fare”.
16
E Samuele disse:
“Perché m’interroghi, se Yahweh si è distolto da te ed è divenuto tuo nemico?
17
Yahweh ha
fatto a te ciò che aveva comunicato per mezzo mio; Yahweh ha tolto il regno dalle tue mani
per darlo a un tuo simile, David.
18
Siccome non hai obbedito alla voce di Yahweh, e non hai
dato corso alla sua collera contro Amalek, perciò oggi Yahweh ha fatto a te questa cosa.
19
Inoltre, Yahweh darà Israele con te nelle mani dei Filistei, e domani tu e i tuoi figli sarete
con me; Yahweh darà l’esercito di Israele nelle mani dei Filistei”. 20 Allora Saul cadde a terra
(’rsh) di schianto, lungo disteso, ed era pieno di terrore per le parole di Samuele; e non c’era
forza in lui, perché non aveva mangiato nulla tutto il giorno e tutta la notte.
21
E la donna
venne a Saul, e quando vide che era pieno di terrore, gli disse: “Ecco, la tua schiava ha
ascoltato la tua voce, e ho rischiato la mia vita;
22
ora dunque ascolta la voce della tua
schiava: ti porrò davanti un po’ di cibo (lhm); e tu mangia, che tu possa avere un po’ di forza
quando te ne andrai per la tua strada”.
23
Ma rifiutò, e disse: “Non mangio”. Ma i suoi servi,
insieme con la donna, lo pressarono, ed egli ascoltò le loro voci, e si alzò dalla terra (wyqm
mh’rs) e si sedette sul letto. 24 E la donna aveva in casa un vitello grasso, e lo uccise in fretta,
e poi prese la farina, l’impastò e cosse dei pani azzimi,
25
e pose ciò davanti a Saul e ai suoi
servi; e ne mangiarono. Poi si alzarono e andarono via quella notte stessa».194
5.2 Il contesto
Si è cercato, in parte forse per compensare la suddetta lacuna documentaria, di
ritrovare nei testi letterari ed epigrafici (iscrizioni funerarie) la prova di influssi o di
derivazioni dalle altre culture dell’antico Oriente, assiro-babilonese in primis – dove
l’evocazione dei defunti era riservata a sacerdoti specializzati195 – ma anche dai
popoli confinanti (vedi le osservazioni di Cavalletti in proposito all’ornitomanzia
194
Trad. Di C. Grottanelli, in Grottanelli 1987. La traduzione degli altri passi biblici in italiano citati
più avanti sono tratti dalla Bibbia di Gerusalemme, cit. in bibliografia.
195
Cavalletti 1958: 83, che cita Contenau, La Divination chez les Assyriens et les Babyloniens, Paris
1940, pp. 228-31; cfr. anche Bottéro 1982 (1974), e quanto detto al paragrafo 2.2.
70
presso i Cananei, gli Hittiti e nel mondo arabo);196 il parallelo più immediato (forse
l’unico direttamente confrontabile) è quello che si può instaurare con il poema di
Gilgamesh:
«Après un essai infructueux soit pour descendre aux enfers, soit pour évoquer
Enkidu grâce aux opérations musicales magiques du pukku et du mikku,
Gilgamesh obtient que l’esprit (edimmu) de son compagnon revienne pour
quelques instants. Cette fois l’opération n’a rien de magique; de dieu en dieu la
requête est finalement présentée à Nergal qui y accède»197
Contenau mette in relazione, come si accennava poc’anzi, il testo appena citato e il
passo biblico del I libro di Samuele con il linguaggio, il lessico dell’iscrizione
funeraria di Tabnit, re di Sidone;198 anche se, avverte Cavalletti, «È incerto, a nostro
avviso, che le iscrizioni rinvenute su numerose tombe fenice, e nelle quali si
scongiurano i viventi di non turbare i morti nel sepolcro, si riferiscano a pratiche
necromantiche; sembra più probabile che si cerchi con tal mezzo di evitare la
profanazione delle tombe a scopo di furto».199
Tornando all’ambiente ebraico, noteremo come proprio la frequentazione dei
sepolcri sia attestata in relazione a presunte pratiche divinatorie: così forse si spiega
l’espressione doresh el ha-me-tim, con il possibile senso di colui che «soffre la fame
e va a passare la notte nei cimiteri, perché si posi su di lui uno spirito immondo» 200
(di sfuggita notiamo che anche Saul, prima di consultare Samuele, “non aveva
mangiato nulla tutto il giorno e tutta la notte”, ma la similitudine può essere
casuale),201 che lo metterebbe in relazione con un passo di Isaia (Is. 65,4), che sembra
riferirsi a quella particolare forma di necromanzia per “incubazione” (paragrafo
2.1.2), con la quale si ricercava l’incontro con lo “spirito” del defunto attraverso il
sogno. La tradizione talmudica è inoltre ricca di aneddoti che riferiscono di persone
196
Cavalletti 1958: 79-80.
197
Contenau 1947: 197.
198
Contenau 1947: 198.
199
Cavalletti 1958: 84.
200
Cavalletti 1958: 86.
201
Cfr. Grottanelli 1987: 196.
71
che, trascorrendo la notte in un cimitero, apprendono – ma non necessariamente nel
sonno – la conoscenza di eventi futuri, spesso in riferimento a questioni economiche
(l’andamento del raccolto, l’ubicazione di un deposito di denaro, etc.), acquisendola
direttamente dalla voce degli “spiriti”.202
Ma cerchiamo ora di analizzare meglio il lessico “necromantico”, l’uso dei
termini che esprimono gli “operatori” della prassi.
5.3 Pitoni e ventriloqui
«Per quel che riguarda la terminologia, nel Deuteronomio ricorrono tre
vocaboli: sho’el obh, jidde‘oni e doresh el ha-me-tim, mentre negli altri testi
obh jidde‘oni soltanto. Non è facile chiarire la natura di essi e le differenze che
li separano. […] Fra i commentatori moderni c’è chi ha voluto vedere in obh
non una persona, ma un oggetto usato a scopo magico, ed esattamente un
teschio. Si tratta tuttavia di supposizioni senza un appoggio preciso; sembra
perciò più probabile l’interpretazione di “spirito, fantasma” […]. Il necromante
quindi non è un obh, ma un ba‘al-obh, cioè uno che possiede uno spirito.
Secondo il Talmud (Sanh. 25c) e Rashj (ad Lv. 19,31 e Dt. 18,11), il ba‘al-obh
è il pitone».203
Il senso di ba‘al-obh, che secondo il Talmud babilonese è il “ventriloquo”, non è
però chiaro, e con la stessa espressione si designano due distinte categorie di
“evocatori professionisti”, delle quali l’una «fa salire il morto con i piedi in su e la
testa in giù e di sabato non può operare», mentre l’altra «lo fa salire “naturalmente”
cioè con la testa in su, ed è libero di operare anche di sabato».204 Analoga incertezza
ed ambiguità ricopre il termine jidde‘oni che è «colui che si mette in bocca un osso
di un uccello detto jiddo‘a e parla attraverso di esso»;205 più precisamente, «Secondo
il Talmud palestinese (Sanh. 25c), la differenza fondamentale tra ba‘al-obh e
202
Cohen 1981 (1935): 339-41.
203
Cavalletti 1958: 85.
204
Cavalletti 1958: 86.
72
jidde‘oni è che il primo parla dalla cavità del busto, l’altro attraverso la bocca»;206 ma
inoltre, secondo i rabbini, il primo “batte le braccia” e “offre incenso ai demoni”:
«Pare che il costume di offrire incenso ai demoni a scopi magici fosse piuttosto
diffuso fra le donne (Berak. 59a); probabilmente gli “scopi magici” (lekashephim) altro non sono che pratiche necromantiche, che – come pare – sono
spesso riservate alle donne»207
Di questi, è proprio il “ventriloquio” il concetto che viene ripreso dai Settanta, gli
estensori, secondo la tradizione, della prima traduzione in greco (e quindi fissazione)
dei testi biblici dell’Antico Testamento – più correttamente, della prima edizione
scritta storicamente nota – avvenuta nell’Egitto ellenizzato di Tolemeo Filadelfo
(285-246 a.C.): i Settanta traducono obh con “ventriloquo” (e)ggastri/muqoj)
identificandolo con il “necromante” e caricandolo di un’accezione o almeno di una
sfumatura sempre negativa; anche se interpretazioni in chiave “razionalistica” di tale
scelta lessicale non sono escluse:
«[…] sembra verosimile la teoria che l’apparenta [il termine ob] al nome ittita
di una fossa sacrificale scavata nella terra, e ne fa dunque una sorta di cavità
ipogeica, che avrebbe messo il vaticinatore in comunicazione con lo spirito
evocato. La traduzione greca che spesso si trova nei Settanta, eggastrimuthos,
sembra riferirsi a un ventriloquo: si tratta evidentemente di una sorta di
“razionalizzazione demistificatrice” delle pratiche di tali indovini, che avranno
sostenuto di “far parlare” i morti, da parte dei redattori yahwisti»208
Riguardo l’aspetto “sonoro”, riprendendo la notizia sopra accennata, è ancora degno
di nota che «I necromanti nell’esercizio delle loro funzioni compivano determinati
205
Il vocabolo pare che invece denoti il necromante come “colui che sa”, in relazione alla radice jada‘
“conoscere”; cfr. acc. mudu “indovino”. Citazione e nota: Cavalletti 1958: 86.
206
Cavalletti 1958: 86.
207
Cavalletti 1958: 88.
208
Grottanelli 1987: 195.
73
movimenti con le braccia ed emettevano suoni più o meno artificiali; è a tali suoni
che allude forse Isaia (8,19), quando definisce i necromanti come “pigolanti e
mormoranti”».209 Interessante e contestuale, anche ai fini di quanto segue, è il
riferimento di natura etnografica che troviamo in Seidel:
«Usually, though not universally, it is the voice of a male spirit coming into the
body of a woman. This tradition of male impersonation is consistent with the
ethnographic testimony concerning divinatory or shamanistic séances involving
female mediums. It is also significant that the divinatory procedure is not public
and is performed at night, while divination performed by men is public and
widely accepted»210
Una digressione sul concetto di “ventriloquia” e sul termine “pitone/pitonico” ad
esso collegato ci sembra opportuna. Pu/qon (Python) nella lingua greca designa
innanzitutto il “pitone”, il serpente che custodiva l’oracolo di Delfi prima che il dio
Apollo lo uccidesse.211 Allora gli oracoli erano pronunciati da Temi o, secondo il
commentatore latino Igino (ca. 64 a.C.-17 d.C.), dallo stesso “draco ingens”;212 non
manca chi ha supposto che in origine Delfi fosse un oracolo ctonio. 213 Ad ogni modo,
dal nome del serpente Apollo riceve l’appellativo di “Pizio”, che si trasmette al nome
Cavalletti 1958: 90. Septuaginta: “Zhth/sate tou\j a)po\ thªj ghªj fwnouªntaj kai\ tou\j
e)ggastrimu/qouj, tou\j kenologouªntaj oi(\ e)k thªj koili/aj fwnouªsin...”; Vulgata: “quaerite
a pythonibus et a divinis qui stridunt in incantationibus suis…”; Bib. Gerus.: “Interrogate gli spiriti e
gli indovini che bisbigliano e mormorano formule…”. Interessante il confronto tra i termini indicanti
il “suono” prodotto dai morti in contesti extra-biblici: tru/zein o tri/zein in Iliade XXIII 101 e
Odissea XXIV 4, u(potru/zein in Eliodoro, Etiopiche VI 15, stridere in Stazio, Tebaide VII 770.
209
210
Seidel 2002: 103-4 (corsivo nostro).
211
Cfr. Apollodoro, Biblioteca, I 4.
212
Igino, Fabulae 140, cit. in Grande Lessico del Nuovo Testamento, s.v. “Pu/qwn”.
213
H.W. Parke e D.E.W. Wormell, The Delphic Oracle I (1956), 3-16, cit. in Grande Lessico…, s.v.
“Pu/qwn”.
74
della profetessa, la Pizia, “ispirata” dal dio.214 È degna di nota anche la tradizione
secondo la quale ad ispirare la Pizia sarebbero state le esalazioni provenienti dalla
carogna in putrefazione del serpente, la diffusione della quale tradizione – propone
Amandry – potrebbe essere all’origine del cambiamento di nome dei ventriloqui, da
eggastrimythos a python: a maggior ragione, in quanto, avverte lo studioso,
l’etimologia che fa derivare il nome Pytho dal verbo Pu/qw (imputridire, andare in
putrefazione) è antica, trovandosi già nell’Inno omerico ad Apollo.215
Notevole è un passo di Plutarco (ca. 50-ca. 120) in cui si parla dei «ventriloqui
detti un tempo Euriclei e ora Pitoni».216 Euricle, apprendiamo, era un famoso
ventriloquo vissuto ai tempi di Platone ed Aristotele, il cui prestigio gli valse un
monumento innalzatogli dagli Ateniesi: Platone ne parla nel Sofista (252 c),
Aristofane lo cita nelle Vespe.217 Una testimonianza coeva a Plutarco ci viene da un
commentatore di Ippocrate, il grammatico di età neroniana Eroziano, il quale così ci
informa: «ventriloqui, che certi chiamano pitoni; è un hapax legomenon».218 Secondo
Agostino (354-430) i pythones vanno collocati sullo stesso piano dei sortilegi e
mathematici. Esichio di Alessandria (V-VI sec.) identifica la glossa “Pu/qwn” con
214
Cfr. Dictionnaire de la Bible s.v. “Python”, in cui è ancora proposta la tradizione dei “vapori
solforosi” che avrebbero prodotto nella Pizia lo stato di “eccitazione violenta” sotto l’azione dello
“spirito divino”; ma cfr. Dodds 1997 (1951): 94-5: «Ho buoni motivi per ritenere che la trance della
Pizia fosse indotta per autosuggestione, come quelle dei medium odierni. La precedevano una serie di
atti rituali: […]. Tutti questi procedimenti magici sono assai conosciuti, e potevano favorire
l’autosuggestione, ma nessuno di essi aveva effetti fisiologici […]. Quanto ai famosi “vapori” ai quali
un tempo si attribuiva con una certa confidenza l’ispirazione della Pizia, sono un’invenzione
ellenistica; credo che il Wilamowitz sia stato il primo a farlo notare [in Hermes, 38 (1904), 579]»; cfr.
paragrafo 2.1.2.
Amandry 1950: 65; Grande Lessico… s.v. “Pu/qwn”. Amandry suggerisce poi un interessante
parallelo fra l’uso di designare i ventriloqui con il nome di Pu/qwn e pratiche come quelle (denunciate
da Luciano, ALECANDROS H YEUDOMANTIS 13-14) del “falso profeta” Alessandro che «grâce à un
système de tubes, faisait rendre les oracles par son serpent familier, censé être Asclépios lui-même».
Cfr. paragrafo 2.1.1, n. 64.
215
Plutarco, De defect. oracul., 9, 414 E: «tou\j e)ggastrimu/qouj, Eu)rukle/aj pa/lai, nuni\
Pu/qwnaj prosagoreuome/nouj», cit. in Dodds 1997 (1951): 90; Dictionnaire de la Bible s.v.
“Python” ; Grande Lessico… s.v. “ Pu/qwn”.
216
217
Dodds 1997 (1951): 90-1; Grande Lessico… s.v. “Pu/qwn”.
Eroziano, fr. 21 (ed. E. Nachmann [1918] 105,19 s.): «e)ggastri/muqoi! ou(\j pi/qwnaj tinej
kalouªsin! e)/sti de\ twªn a(/pac ei)rhme/nwn», cit. in Grande Lessico… s.v. “Pu/qwn”.
218
75
“e)ggastri/muqoj h)\ e)ggastri/mantij”. Similmente il lessico Suda, per il quale
“Pu/qwnoj” è “daimoni/ou mantikouª”.219
Diversa, e non meno problematica, è la presenza del termine “pitone” nel
lessico neotestamentario, in particolare nel passo degli Atti 16, 16 in cui si narra della
giovane donna «e)/xousan pneuªma Pu/qwna», dotata cioè di uno “spirito
pitonico” o “profetico” (come si trova nelle correnti traduzioni moderne), ma
l’incertezza riguarda il punto di vista teologico in chiave cristiana220 piuttosto che
l’analisi linguistica in prospettiva storica.
5.4 Problemi testuali
Il passo di I Samuele 28, 3-25, riportato ad inizio capitolo, fornisce la trascrizione dei
termini ebraici più notevoli, quelli che si riferiscono alle figure dell’evocatrice e
dello “spirito” evocato ed ai verbi chiave dell’evocazione. Il contesto narrativo, come
si è visto, è quello del ricorso di re Saul, che dopo un primo peccato ha perso il
favore di Yahweh – «e questo sfavore causa un secondo, irrecuperabile peccato (la
necromanzia)»221 – alla “strega” (“Pitonessa” nella Vulgata)222 di En-dor per
conoscere dal defunto profeta Samuele l’esito dell’imminente battaglia contro i
Filistei. Lo studioso mette subito in evidenza la “qualità”, linguisticamente rilevabile,
della praticante e del morto “fatto salire”:
219
Per questi riferimenti, sempre Grande Lessico… s.v. “Pu/qwn”.
Grande Lessico… s.v. “Pu/qwn”: «Non è facile determinare […] se si debba intendere nel senso di
“uno spirito di nome Pitone” o se tutta l’espressione vada tradotta con “uno spirito pitonico”. […] In
ogni caso Act. 16,16 significa che la giovinetta era una indovina ventriloqua e pertanto aveva rapporti
col mondo demoniaco».
220
221
Grottanelli 1987: 198; si veda anche, a conferma, I Cronache 10, 13.
Grande Lessico… s.v. “Pu/qwn”: «La Vulgata ha tradotto ’ôb in parte con magus, in parte con
python o con pythonicus spiritus». Per l’uso del termine “pitonico” in associazione alle donne
“malefiche”, e la sua importanza nell’immaginario “stregonesco” occidentale, si veda quanto detto nel
paragrafo 1.3, n. 39. Smelik 1979: 160, n. 3: «To call her a witch is, of course, an anachronism, but
not unsuitable».
222
76
«La necromante è detta il più delle volte semplicemente “donna”; quando è
necessario un termine più specifico, è chiamata ba‘alat ’ob, “padrona”, “signora
dell’ob” (il greco dei Settanta ha gunaika eggastrimuthon). Le si richiede di
“vaticinare per mezzo dell’ob” (il greco ha manteusai en to eggastrimutho)»223
Semplice donna, quindi, ma anche signora di “spiriti” (?) e ventriloqua: uno statuto
ambiguo, incerto, dunque, che se da un lato confina la “donna pitonica” nella zona
della marginalità morale (agisce contro le leggi di Yahweh) e legale (agisce contro le
leggi del re, Saul) – forse anche geografica: è posta in una zona periferica, lontana da
Gerusalemme (ma l’idea è tutta da verificare)224 – dall’altro la allontana, la esclude
da qualsiasi natura divina, sovrumana, “mitica” (come nel caso di Circe) calandola in
un contesto “storico”, anche se la storicità dell’episodio in sé è tutt’altro che certa, e
in un certo senso relativa. Anche se straordinariamente sapiente, è pur sempre una
donna: «timorosa (nella parte iniziale della struttura tripartita), potente evocatrice di
morti (nella seconda), materna consolatrice del re spaventato (nella terza parte)».225
La “capacità” – effettiva o solo presunta – della donna di En-dor di evocare Samuel
ha dato luogo a notevoli discussioni di carattere teologico tanto in ambito rabbinico
223
Grottanelli 1987: 197.
224
Ma cfr. anche Ogden 2001: 134: «The witch’s “Canaanite” designation identifies her merely as
some sort of non-Israelite inhabitant of Israel». L’ipotesi – già presente, in forma diversa, in Schmidt
1995: 111 – è che questa figura femminile venga connotata, in modo più o meno consapevole, come
“straniera”, “diversa” secondo quella identificazione tra pratiche “illecite” e origini “straniere”
(“barbare”, nell’accezione greca) che sembra riscontrarsi nella costruzione dei modelli culturali
(greco, romano, ora anche ebraico) presi in esame (cfr. paragrafo 2.1). Per l’introduzione di pratiche
“straniere/illecite” nell’antico Israele, cfr. anche Douglas 1975 (1966), cap. III (“Gli abominî del
Levitico”), in partic. pp. 83 sgg.: «Un’altra interpretazione tradizionale […] è quella che afferma che
ciò che è proibito per gli Israeliti lo è soltanto per proteggerli dall’influenza straniera. Per esempio
Maimonide sosteneva che ad essi era proibito far bollire il capretto nel latte della madre, poiché
questo era un atto di culto nella religione dei Canaaniti. Non può essere esauriente questo tipo di
prova, dal momento che non è sicuro che gli Israeliti respinsero coerentemente tutti gli elementi delle
religioni straniere e crearono qualcosa di completamente originale per se stessi.». In modo analogo,
ma forse meno incisivo, Caquot 1988 (1970-76): 59: «Nulla prova che si sia conservato il ricordo di
antichi totem o che si sia tenuto conto del carattere ctonio o infernale di certe specie […]. Le cose
stanno come se gli antichi Israeliti avessero stabilito delle categorie concrete, il cui sistema sarebbe
interpretabile in base a un’impostazione strutturalista se lo conoscessimo meglio e se riuscissimo a
cogliere fin nei dettagli le antiche strutture sociali.». Per una minuziosa descrizione del sito di En-dor
si veda Dictionnaire de la Bible s.v. “Endor”, in cui è suggerita l’identificazione del vasto sistema di
caverne, cisterne scavate nella roccia e vasche sepolcrali con la “scenografia” dell’episodio in
questione.
225
Grottanelli 1987: 199.
77
che, naturalmente, in quello cristiano: a seconda del punto di vista adottato, infatti, la
“consistenza” dell’apparizione di Samuel e la veridicità dell’intero episodio possono
essere messe in discussione o, al converso, costituire ulteriore prova del “potere”
divino. Tre sono gli atteggiamenti principali adottati dai commentatori cristiani, che
includono al loro interno posizioni più radicali così come interessanti tentativi di
conciliare aspetti opposti e contraddittori della questione226:
1. l’intervento di Samuel è frutto dell’inganno della “pitonessa”, la quale
“finge” di evocare lo spirito: così, ad esempio, in vari passi di S. Gerolamo; a
sostegno dell’ipotesi della frode può intervenire la circostanza, la cui evidenza
sembra volutamente enfatizzata nel testo, secondo la quale Saul non vede Samuel,
ma deve farselo descrivere dalla donna per poterlo riconoscere;
2. l’apparizione è di natura “demonica”: sia che la donna obbedisca all’influsso
dei “dèmoni” rispondendo come se in realtà vedesse Samuel, sia che menta quando
dice di vedere i morti (S. Basilio, In Is. VIII 218), non può che trattarsi di un inganno
del demonio (S. Gregorio di Nissa, De pythonissa; Tertulliano, De anima 57);
3. l’apparizione è reale, ma avviene con il permesso di Dio: è la convinzione di
Origene, espressa in testi come In I Reg. XXVIII e De engastrimytho, vivamente
attaccata da Eustazio d’Antiochia. A sostegno della “realtà” concorrono gli unici due
passi biblici in cui l’episodio della necromanzia di En-dor è ricordato, anche se molto
rapidamente: in Siracide (Ecclesiastico) 46, 23 si legge infatti: “Perfino dopo la sua
morte [Samuel] profetizzò, predicendo al re la sua fine”; 227 in I Cronache 10, 13,
inoltre, si dice: “Così Saul morì a causa della sua infedeltà al Signore, perché non ne
aveva ascoltato la parola e perché aveva evocato uno spirito per consultarlo”: il
riferimento ad uno “spirito” generico è vago, ma la traduzione dei LXX aggiunge la
frase: “E il profeta Samuel gli rispose”, che manca nella Vulgata e nelle traduzioni
italiane.228
226
Dictionnaire de la Bible, 1912, s.v. “Évocation des morts”. Un’ampia carrellata del dibattito e delle
opinioni adottate nell’esegesi rabbinica e cristiana è presente in Smelik 1979.
Septuaginta: “kai\ meta\ to\ u(pnwªsai au)to\n proefh/teusen kai\ u(pe/deicen basileiª th\n
teleuth\n au)touª”; Vulgata: “et post hoc dormivit et notum fecit regi et ostendit illi finem vitae
suae”.
227
Septuaginta: “o(/ti e)phrw/thsen Saoul e)n t%ª e)ggastrimu/q% touª zhthªsai, kai\
a)pekri/nato au)t%ª Samouhl o( profh/thj”.
228
78
La questione sembra lontana dal trovare una soluzione definitiva e
soddisfacente; può essere indicativo, o di interesse non trascurabile, che fra gli
studiosi moderni vi sia chi non lesina di sottolineare l’aspetto “umano”, al quale si
faceva più sopra riferimento, della negromante, quasi volendo sottrarla al
plurisecolare pregiudizio che ne ha fatto una figura “demonica”. La “pitonessa” –
come si è visto anche nelle parole di Grottanelli – è prima di tutto una donna, ed il
suo atteggiamento nei confronti del re, il suo persecutore, ha qualcosa della pietas
che proprio lui, Saul, ha perduto: «The persecutor of all necromancers has to resort to
necromancy himself. At Endor Saul is told by the prophet, who once anointed him,
that he has to die. Only his former adversary, the witch, is willing to show some
kindness to him».229
Ancora più problematico e “scandaloso” è l’uso dei termini, ebraico e greco, usati
per designare la “potenza” evocata, il defunto. Giova ricordare che anche in questo
caso, come nell’episodio omerico (fatte le dovute distinzioni) è richiesto l’ausilio non
di un morto qualsiasi ma di uno che già in vita era “sapiente”, il profeta Samuele: in
questo senso il parallelo, almeno dal punto di vista della struttura narrativa, con il
profeta Tiresia è lecito, e rende difficile sottrarsi alla suggestione che nella stesura
dei due passi (nella mentalità degli estensori o delle culture che li hanno prodotti)
operasse un’idea simile, o almeno comparabile:
«Ciò che soprattutto colpisce, tuttavia, è il termine che viene usato per indicare
il morto che sorge dalla terra: ’elohim vuol dire “divinità”, e com’è noto, è
proprio uno dei due nomi principali del dio nazionale, fin dal primo capitolo
della Genesi. D’altronde, che proprio così, e non in modo più generico, fosse
percepito il significato del termine anche in ambiente “ortodosso”, è mostrato
chiaramente dalla traduzione greca che ha theous eoraka anabainontas ek tes
ges, con un plurale che, mentre rispecchia precisamente la forma, plurale, del
termine ’lhym, tradisce forse un certo imbarazzo. Nel contesto della
necromanzia, dunque, il morto è in qualche modo “divino”, e a spiegar ciò non
basta il fatto che Samuele è un morto “speciale”»230
229
Smelik 1979: 161.
230
Grottanelli 1987: 197.
79
Uno studio comparativo dei termini indicanti la divinità in area mesopotamica ha
suggerito che la forma ’elohim non si riferisca allo “spirito” di Saul, ma proprio agli
dèi ritenuti essere coinvolti (o responsabili) nel rito, che interverrebbero in modo
quasi “fisico” nella “scena”: «In necromancy, both the dead and the gods “bodily”
invade the world of the living; therefore it is the quintessence of liminality». 231 Non
mancano interpretazioni per così dire più “caute”, che attribuiscono lo “scandaloso”
plurale al “rispetto” ispirato dall’apparizione “sovrannaturale”, spiegandolo come un
“pluriel de majesté”: «[…] par le titre d’élohim elle veut simplement exprimer le
respect que lui inspire l’être surnaturel qui s’éleve de terre».232
Nell’impossibilità di stabilire i criteri seguiti dagli estensori del passo in
questione, e la precisa ideologia soggiacente a tale scelta, si può solo richiamare
l’attenzione sul concetto generico di “morto divino” che – come si vedrà nel caso dei
Persiani (capitolo successivo) – può in parte aiutare la comprensione di un concetto
complesso quale quello della “natura” dei morti nel mondo antico. A maggior
ragione, si noterà come il “passaggio” dal “morto potente” alla divinità vera e propria
diventi forse ancora più problematico al modificarsi delle circostanze in cui agisce
l’“operatore”, colui che è ritenuto in possesso delle conoscenze, delle tecniche o dei
mezzi atti a evocare “potenze”: «L’evocazione dei morti di età ellenistica e romana
appare infatti meno selettiva nella scelta del morto da evocare […]; inoltre al potere
sui morti del “mago” si affiancherà in modo simmetrico un crescente, e scandaloso,
potere sugli stessi dèi»233. Con il riferimento alla “teurgia” si aprono altre,
interessanti prospettive che escono dai limiti del presente lavoro, coinvolgendo l’idea
di sapienza/potenza che giocherà un ruolo importante nella costruzione della figura
del “mago” tardo-antico, medioevale e rinascimentale.
Anche tralasciando le interessanti osservazioni che di possono trarre sulla natura
delle “entità” coinvolte nel rito, lo studio di Grottanelli istituisce un confronto con un
231
Schmidt 1995: 128: «[…] it is our conclusion that the term ’elohim in 1 Sam 28:13 designates those
gods known to be summoned – many from the world below – to assist the necromancer in the retrival
of a ghost».
232
Sainte Bible: 455.
233
Grottanelli 1987: 204-6.
80
altro passo biblico, quello relativo alla profezia di Michea (I Re 22, 1-28),234
riassumendone i risultati in uno schema dichiaratamente provvisorio ma
estremamente illuminante, dal quale si ricava il carattere di (volontario?)
“rovesciamento” dell’episodio di En-dor rispetto al primo, che dimostra la “doppia
ambiguità” dell’agire necromantico: esso è efficace, funziona, ma al tempo stesso è
del tutto inutile:
«L’opposizione diametrale [tra i due passi] è completa e chiarissima. Al
vaticinare profetico, yahwistico, celeste, maschile, diurno, prescritto, ufficiale,
si contrappone, in modo certo non casuale, il vaticinare necromantico: non
yahwistico, infero, femminile, notturno, proibito, clandestino. Resta – anzi
spicca! – il fatto che, mentre il vaticinare profetico può essere (per volere di
Yahweh) fallace, l’unico caso biblico di vaticinare necromantico (di “profezia
rovesciata”, di “anti-profezia”) che sia effettivamente descritto ha come esito
una profezia vera, che puntualmente si realizza. […] ma la prospettiva biblica
era differente, e, se si cerca di mettersi da quel punto di vista, ecco che l’esito
“giusto”, e quindi l’efficacia, della performance necromantica di En-dor
svaniscono», non solo perché Samuele è «l’unico tramite fra Saul e il sapere
più-che-umano, ma anche, anzi soprattutto, perché il ricorso di Saul alla
necromanzia è l’esito di una situazione insostenibile, causata dal peccato del re
e caratterizzata appunto dalla impossibilità di ottenere vaticinii. Infine, tale
impossibilità è anche una inutilità, perché a Saul peccatore le cose non possono
in nessun modo andar bene»235
234
Grottanelli 1987: 192-93: alla vigilia della spedizione dei re Giosafat di Giuda e Acab d’Israele,
contro gli Aramei, il re d’Israele convoca circa quattrocento profeti chiedendo loro se sia il caso di
partire oppure di astenersi; nonostante il responso positivo, al re di Giuda resta un dubbio, e chiede se
vi sia un altro profeta di Yahweh. Il re d’Israele risponde che uno ancora ce ne sarebbe, Michea figlio
di Imla, ma costui ha la cattiva abitudine di vaticinare sventure; il re di Giuda insiste, e Michea viene
mandato a chiamare. Il messo gli suggerisce di predire il successo, ma Michea risponde: “Per il
vivente Yahweh, ciò che Yahweh mi dirà, quello dirò”. Inizialmente Michea predice il successo, ma
in seguito all’insistenza del re che gli intima di dire la verità, predice la sventura, e riferisce una
visione in cui Yahweh, seduto sul trono con tutte le schiere celesti, chiede: “Chi ingannerà Acab,
perché salga e cada in Rabot Galaad?”. Allora esce uno spirito (ruah) che stando davanti a Yahweh
dice: “Io lo ingannerò”; alla domanda di Yahweh, “Come?”, risponde: “Uscirò e diverrò uno spirito di
menzogna sulla bocca di tutti i suoi profeti”. Yahweh dice: “Tu puoi ingannarlo, anzi ci riuscirai: va’ e
fa’ così!”. In seguito alle sue parole, Michea viene schiaffeggiato da uno dei profeti e arrestato per
ordine di Acab; ma la sua profezia si avvera.
235
Grottanelli 1987: 201.
81
Il “peccato” di Saul all’origine della sua “impossibilità di ottenere vaticinii” è forse
da rintracciarsi nella natura di “cattivo sacrificatore” che viene chiaramente delineata
dallo stesso studioso in un saggio dedicato al sacrificio che, pur non trattando
dell’episodio di En-dor, precisa il ruolo “negativo”, lo statuto fallimentare di Saul
quasi diametralmente opposto a quello “positivo”, efficace, di Samuele, «come
sempre corretto sacrificatore, e portavoce inflessibile della volontà di Yahweh»236:
infatti «[…] la carriera di Saul è una serqua di goffaggini e di colpe relative al
sacrificio, coronate e aggravate dallo sterminio dei Gabaoniti (v. II Samuele, 21) e
dei sacerdoti di Nob (I Samuele, 22), e dalla persecuzione di David». La gravità della
colpa è tale che «La responsabilità personale di Saul, in quanto sacrificatore
“erroneo” nei casi in cui agisce in prima persona, e in quanto re e condottiero del
popolo […] non è mai cancellata dal fatto che anche il popolo ha, nei tre episodi più
gravi (1 Samuele, 13, 14 e 15) le sue colpe».237
Naturalmente, alla luce dell’interpretazione veterotestamentaria, yahwistica, è
chiaro che non si tratta di una semplice “mancanza” negli atti cultuali, un’omissione
o trasgressione di natura, genericamente, “religiosa”: ciò che è in discussione, che
causa l’allontanamento di Saul dal favore divino, e che determina la sua perdita di
potere, è il suo cattivo uso dello statuto regale concessogli da Yahweh: «Saul, nel
comportarsi come cattivo sacrificatore, si mostra nel contempo cattivo re».238 Infatti:
«Come il profilo “sacrificale” di Samuele giustifica il suo successo e il suo
potere, così il profilo “sacrificale” di Saul causa (e rappresenta) il suo
fallimento. Il sacrificio, principale mezzo di contatto fra Israele e il suo dio,
sistema simbolico dei rapporti sociali, dei ranghi, del prestigio e della potenza, è
anche, anzi soprattutto, un banco di prova. […] Come banco di prova della
coerenza verso Yahweh, il sacrificio completa il proprio carattere di «fatto
sociale totale», e si presta a essere regola prima di quella costruzione insieme
utopica e concretamente normativa che è il testo della Bibbia ebraica»239
236
Grottanelli 1988: 152.
237
Grottanelli 1988: 152.
238
Grottanelli 1988: 152.
239
Grottanelli 1988: 153. Sul rapporto tra regalità e divinità (a prescindere dal contesto
biblico/ebraico), illuminanti osservazioni in Sabbatucci 1989; cfr. capitolo seguente, n. 250.
82
Nel saggio dedicato alla “scena” di evocazione biblica Grottanelli conclude
osservando come la necromanzia di En-dor dimostri una coerenza di fondo con
«quella di altri ambienti, agrari e politeistici» e precisando che «la necromanzia di I
Samuele 28 è troppo simile a quella omerica e eschilea per essere una pura
invenzione dei redattori biblici». L’assunto ci sembra di non poco interesse, e ricco
di implicazioni che dovrebbero incoraggiare i pur difficoltosi tentativi di ricercare
possibili scambi, contatti, influenze che di certo non mancavano nell’ambito del
Mediteraneo antico, pur nella diversità dei sistemi culturali – linguistici, politici,
religiosi – coinvolti.
83
Appendice al capitolo 5: i testi dei “LXX” e della “Vulgata”
3
Kai\ Samouhl a)pe/qanen, kai\ e)ko/yanto au)to\n paªj Israhl kai\ qa/ptousin
au)to\n
e)n
Armaqaim
e)n
po/lei
au)touª.
kai\
e)ggastrimu/qouj kai\ tou\j gnw/staj a)po\ thªj ghªj.
Saoul
4
perieiªlen
tou\j
kai\ sunaqroi/zontai oi(
a)llo/fuloi kai\ e)/rxontai kai\ paremba/llousin ei)j Swman, kai\ sunaqroi/zei
Saoul pa/nta a)/ndra Israhl kai\ paremba/llousin ei)j Gelboue.
5
kai\ eiÅden
Saoul th\n parembolh\n twªn a)llofu/lwn kai\ e)fobh/qh, kai\ e)ce/sth h( kardi/a
au)touª sfo/dra.
6
kai\ e)phrw/thsen Saoul dia\ kuri/ou, kai\ ou)k a)pekri/qh au)t%ª
ku/rioj e)n toiªj e)nupni/oij kai\ e)n toiªj dh/loij kai\ e)n toiªj profh/taij.
7
kai\
eiÅpen Saoul toiªj paisi\n au)touª Zhth/sate/ moi gunaiªka e)ggastri/muqon, kai\
poreu/somai pro\j au)th\n kai\ zhth/sw e)n au)t$ª! kai\ eiÅpan oi( pai/dej au)touª
pro\j au)to/n 'Idou\ gunh\ e)ggastri/muqoj e)n Aendwr.
8
kai\ sunekalu/yato
Saoul kai\ perieba/leto i(ma/tia e(/tera kai\ poreu/etai au)to\j kai\ du/o a)/ndrej
met' au)touª kai\ e)/rxontai pro\j th\n gunaiªka nukto\j kai\ eiÅpen au)t$ª
Ma/nteusai dh/ moi e)n t%ª e)ggastrimu/q% kai\ a)na/gage/ moi o(\n e)a\n ei)/pw soi.
9
kai\\ eiÅpen h( gunh\ pro\j au)to/n 'Idou\ dh\ su\ oiÅdaj o(/sa e)poi/hsen Saoul, w(j
e)cwle/qreusen tou\j e)ggastrimu/qouj kai\ tou\j gnw/staj a)po\ thªj ghªj! kai\ i(/na
ti/ su\ pagideu/eij th\n yuxh/n mou qanatwªsai au)th/n;
10
kai\ w)m
/ osen au)t$ª
Saoul le/gwn Z$ª ku/rioj, ei) a)panth/setai/ soi a)diki/a e)n t%ª lo/g% tou/t%.
11
kai\\ eiÅpen h( gunh/ Ti/na a)naga/gw soi; kai\\ eiÅpen To\n Samouhl a)na/gage/ moi.
12
kai\\ eiÅden h( gunh\ to\n Samouhl kai\\ a)nebo/hsen fwn$ª mega/l$! kai\\ eiÅpen h(
gunh\ pro\j Saoul (/Ina ti/ parelogi/sw me; kai\\ su\ eiÅ Saoul.
13
kai\\ eiÅpen au)t$ª
o( basileu/j Mh\ fobouª, ei)po\n ti/na e(o/rakaj. kai\\ eiÅpen au)t%ª Qeou\j e(o/raka
a)nabai/nontaj e)k thªj ghªj.
14
kai\\ eiÅpen au)t$ª Ti/ e)/gnwj; kai\\ eiÅpen au)t%ª
ÃAndra o)/rqion a)nabai/nonta e)k thªj ghªj, kai\\ ouÂtoj diploi+/da a)nabeblhme/noj.
kai\\ e)/gnw Saoul o(/ti Samouhl ouÂtoj, kai\\ e)/kuyen e)pi\ pro/swpon au)touª e)pi\
th\n
ghªn
kai\\
proseku/nhsen
au)t%ª.
15
kai\\
eiÅpen
Samouhl
(/Ina
ti/
parhnw/xlhsa/j moi a)nabhªnai me; kai\\ eiÅpen Saoul Qli/bomai sfo/dra, kai\\ oi(
84
a)llo/fuloi polemouªsin e)n e)moi/, kai\\ o( qeo\j a)fe/sthken ap' e)mouª kai\\ ou)k
e)pakh/koe/n moi e)/ti kai\\ e)n xeiri\ twªn profhtwªn e)n toiªj e)nupni/oij! kai\\ nuªn
ke/klhka/ se gnwri/sai moi ti/ poih/sw.
16
kai\\ eiÅpen Samouhl (/Ina ti/ e)perwt#ªj
me; kai\\ ku/rioj a)fe/sthken apo\ souª kai\\ ge/gonen meta\ touª plhsi/on sou!
17
kai\\
pepoi/hken ku/rio/j soi kaqw\j e)la/lhsen e)n xeiri/ mou, kai\\ diarrh/cei ku/rioj
th\n basilei/an sou e)k xeiro/j sou kai\\ dw/sei au)th\n t%ª plhsi/on sou t%ª
Dauid.
18
dio/ti ou)k h)/kousaj fwnhªj kuri/ou kai\\ ou)k e)poi/hsaj qumo\n o)rghªj
au)touª e)n Amalhk, dia\ touªto to\ r(hªma e)poi/hsen ku/rio/j soi t$ª h(me/r# tau/t$.
19
kai\\ paradw/sei ku/rioj to\n Israhl meta\ souª ei)j xeiªraj a)llofu/lwn, kai\\
au)/rioj su\ kai\\ oi( ui(oi/ sou meta\ souª pesouªntai, kai\\ th\n parembolh\n Israhl
dw/sei ku/rioj ei)j xeiªraj a)llofu/lwn.
20
kai\\ e)/speusen Saoul kai\\ e)/pesen
e(sthkw\j e)pi\ th\n ghªn kai\\ e)fobh/qh sfo/dra a)po\ twªn lo/gwn Samouhl! kai\\
i)sxu\j e)n aut%ª ou)k hÅn e)/ti, ou) ga\r e)/fagen a)/rton o(/lhn th\n h(me/ran kai\\ o(/lhn
th\n nu/kta e)kei/nhn.
21
kai\\ ei)shªlqen h( gunh\ pro\j Saoul kai\\ eiÅden o(/ti
e)/speusen sfo/dra, kai\\ eiÅpen pro\j au)to/n 'Idou dh\ h)/kousen h( dou/lh sou thªj
fwnhªj sou kai\\ e)qe/mhn th\n yuxh/n mou e)n t$ª xeiri/ mou kai\\ h)/kousa tou\j
lo/gouj, ou(\j e)la/lhsa/j moi!
22
kai\\ nuªn a)/kouson dh\ fwnhªj thªj dou/lhj sou,
kai\\ paraqh/sw e)nw/pio/n sou ywmo\n a)/rtou, kai\\ fa/ge, kai\\ e)/stai e)n soi\ i)sxu/j,
o(/ti poreu/s$ e)n o(d%ª.
23
kai\\ ou)k e)boulh/qh fageiªn! kai\\ parebia/zonto au)to\n oi(
paiªdej au)touª kai\\ h( gunh/, kai\\ h)/kousen thªj fwnhªj au)twªn kai\\ a)ne/sth a)po\
thªj ghªj kai\\ e)ka/qisen e)pi\ to\n di/fron.
24
kai\\ t$ª gunaiki\ hÅn da/malij noma\j e)n
t$ª oi)ki/#, kai\\ e)/speusen kai\\ e)qusen au)th\n kai\\ e)/laben a)/leura kai\\ e)furasen
kai\\ e)/peyen a)/zuma
25
kai\\ prosh/gagen e)nw/pion Saoul kai\\ e)nw/pion twªn
pai/dwn au)touª, kai\\ e)/fagon. kai\\ a)ne/sthsan kai\\ a)phªlqon th\n nu/kta e)kei/nhn.
3
Samuhel autem mortuus est planxitque eum omnis Israhel et sepelierunt eum in Rama urbe
sua et Saul abstulit magos et ariolos de terra 4 congregatique sunt Philisthim et venerunt et
castrametati sunt in Sunam congregavit autem et Saul universum Israhel et venit in Gelboe 5
et vidit Saul castra Philisthim et timuit et expavit cor eius nimis 6 consuluitque Dominum et
non respondit ei neque per somnia neque per sacerdotes neque per prophetas 7 dixitque Saul
85
servis suis quaerite mihi mulierem habentem pythonem et vadam ad eam et sciscitabor per
illam et dixerunt servi eius ad eum est mulier habens pythonem in Aendor
8
mutavit ergo
habitum suum vestitusque est aliis vestimentis abiit ipse et duo viri cum eo veneruntque ad
mulierem nocte et ait divina mihi in pythone et suscita mihi quem dixero tibi 9 et ait mulier
ad eum ecce tu nosti quanta fecerit Saul et quomodo eraserit magos et ariolos de terra quare
ergo insidiaris animae meae ut occidar
10
et iuravit ei Saul in Domino dicens vivit Dominus
quia non veniet tibi quicquam mali propter hanc rem 11 dixitque ei mulier quem suscitabo tibi
qui ait Samuhelem suscita mihi
12
cum autem vidisset mulier Samuhelem exclamavit voce
magna et dixit ad Saul quare inposuisti mihi tu es enim Saul
13
dixitque ei rex noli timere
quid vidisti et ait mulier ad Saul deos vidi ascendentes de terra
14
dixitque ei qualis est forma
eius quae ait vir senex ascendit et ipse amictus est pallio intellexit Saul quod Samuhel esset
et inclinavit se super faciem suam in terra et adoravit
15
dixit autem Samuhel ad Saul quare
inquietasti me ut suscitarer et ait Saul coartor nimis siquidem Philisthim pugnant adversum
me et Deus recessit a me et exaudire me noluit neque in manu prophetarum neque per
somnia vocavi ergo te ut ostenderes mihi quid faciam
16
et ait Samuhel quid interrogas me
cum Dominus recesserit a te et transierit ad aemulum tuum
17
faciet enim Dominus tibi sicut
locutus est in manu mea et scindet regnum de manu tua et dabit illud proximo tuo David
18
quia non oboedisti voci Domini neque fecisti iram furoris eius in Amalech idcirco quod
pateris fecit tibi Dominus hodie
19
et dabit Dominus etiam Israhel tecum in manu Philisthim
cras autem tu et filii tui mecum eritis sed et castra Israhel tradet Dominus in manu Philisthim
20
statimque Saul cecidit porrectus in terram extimuerat enim verba Samuhel et robur non
erat in eo quia non comederat panem tota die illa
21
ingressa est itaque mulier ad Saul et ait
conturbatus enim erat valde dixitque ad eum ecce oboedivit ancilla tua voci tuae et posui
animam meam in manu mea et audivi sermones tuos quos locutus es ad me
22
nunc igitur
audi et tu vocem ancillae tuae ut ponam coram te buccellam panis et comedens convalescas
ut possis iter facere
23
qui rennuit et ait non comedam coegerunt autem eum servi sui et
mulier et tandem audita voce eorum surrexit de terra et sedit super lectum
24
mulier autem
illa babebat vitulum pascualem in domo et festinavit et occidit eum tollensque farinam
miscuit eam et coxit azyma
25
et posuit ante Saul et ante servos eius qui cum comedissent
surrexerunt ct ambulaverunt per totam noctem illam.
86
6. Un’anomala evocazione. I Persiani di Eschilo
Interessante può essere il confronto tra i testi precedenti e la tragedia di Eschilo,
rappresentata nel 472 a.C., in cui l’evocazione di un defunto, la prassi della
psycagogía – preferiamo questo termine a “necromanzia”, poiché la conoscenza del
futuro, l’aspetto divinatorio, in questo caso sembra secondario – è esplicitamente
rappresentata, e costituisce anzi il centro della vicenda, il fulcro del dramma.
Limitandoci alla sola scena centrale (vv. 607-842) e tralasciando qualsiasi altro
aspetto dell’opera, diamo uno sguardo agli elementi che ci sembrano rilevanti ai fini
della nostra breve disamina.
6.1 Gli “attori”
L’elemento femminile che contraddistingue questa scena di evocazione è, in questo
caso (diversamente dalla “strega” biblica), un personaggio di rilievo: si tratta infatti
della regina Atossa, madre di Serse – il perdente del recentissimo, epocale scontro tra
Greci e Persiani a Salamina (480 a.C.) – e moglie del defunto re Dario. Come è noto,
Eschilo presenta sorprendentemente (e forse coraggiosamente) al pubblico coevo,
appena uscito dalla vittoria sul potente nemico asiatico, un dramma che racconta la
storia dei vinti, la tragedia degli sconfitti. Il tema ideologico, “politico” – la vittoria
della polis democratica e “libera”, l’Atene dell’“uomo nuovo” Temistocle, il
decifratore dell’oracolo delfico (Erodoto, VII 141-43),240 sui “servi” e “barbari”
Persiani – ed il fine apologetico e morale – la uÀbrij, la colpevole tracotanza del re
nemico nei confronti degli dèi e la sua punizione – non inficiano lo spessore umano
della figura di moglie e madre addolorata, che si reca sulla tomba del re per onorarlo
con pietosi sacrifici.
240
Cfr. Chirassi Colombo 1990: 52.
87
La “scena” si svolge nelle vicinanze della reggia, presso il tumulo del re, in
un’atmosfera mesta e solenne: la donna, anche dopo aver smesso le insegne della
regalità,241 si rivolge con ieratica compostezza al Coro e al Messaggero, che le reca la
notizia del disastroso esito della spedizione persiana; la sua condizione di moglie e
madre di re, che non viene meno neanche nel momento del lutto, sembra investirla di
una «autorità sacrale», la stessa che Dario morendo aveva trasmesso al figlio Serse:
«La cerimonia si svolge privatamente alla presenza e per opera di poche persone
legate alla famiglia del sovrano: il ruolo della sacerdotessa è coperto dalla regina
assistita dal Coro che, prendendo parte viva al rito, assume esso pure funzioni
sacerdotali».242
La natura, oltre che il ruolo, degli anziani consiglieri che costituiscono il Coro è stata
al centro di un lungo dibattito.
Riprendendo un “classico” articolo di Headlam,243 teso a dimostrare il carattere
prettamente “magico” del rito descritto ne I Persiani, e a contrapporlo ai riti di natura
“religiosa”, Lawson critica l’idea secondo la quale un rito necromantico non può
esistere senza che vi sia un operatore dotato di “poteri magici”, in senso lato (e con la
cautela che il termine richiede) “stregoneschi”;244 ma è credibile – si chiede Lawson
– che gli Ateniesi del tempo di Eschilo vedessero tutti i Persiani, pur dopo i loro
frequenti contatti con i Greci avvenuti “in pace e in guerra” nei molti anni precedenti
la battaglia di Salamina, come Maghi (“magicians”)? Al contrario, i Persiani
rappresentati dal drammaturgo dovevano apparire ai suoi concittadini per quello che
erano, «simple old gentlemen, and not Magi».245 Il discorso si inserisce in un più
ampio dibattito sulla natura “magica” dell’intero episodio eschileo, nel quale si sono
volute vedere, di volta in volta, le tracce di “rituali necromantici barbari” dovuti ad
241
Jouan 1981: 405: «Lorsque la reine revient, c’est à pied (alors que précédemment elle était montée
sur un char, avec tout l’apparat de la royauté perse), en vêtements simples et sombres (607-608) […].
Elle est effrayée, les yeux pleins de l’hostilité des dieux et les oreilles de la clamour du peuple (603605)».
242
Scazzoso 1952: 291.
243
W. Headlam, “Ghost Raising, Magic and the underworld”, in “Classical Review”, 16, 1902, pp. 5261.
244
Headlam, “Ghost Raising…”: «In literature always, when necromancy is performed, it is through
the agency of one possessing magic powers», cit. in Lawson 1934: 81.
245
Lawson 1934: 81.
88
una diretta influenza “orientale”,246 oppure il ricordo di un rituale che, sulla scorta dei
cosiddetti Papiri Magici, è stato definito di tipo “greco-omerico”, opposto a
“orientale”;247 non è mancato chi, puntando sull’aspetto della “regalità” dei
protagonisti, ha ipotizzato una “iniziazione misterica” ricevuta dai sovrani persiani
da parte dei Magi: «[…] dopo l’iniziazione e l’incoronazione essi, oltre ad avere
acquistato poteri taumaturgici venivano anche in possesso di un rituale riservato, atto
a produrre in determinate circostanze fenomeni fuori dell’ordine naturale; tali segreti
tradizionali erano legati all’istituzione monarchica ed indissolubili da essa».248
Si tratta dell’impostazione di falsi problemi. Certamente il mondo greco non
conosce l’antitesi magia/religione che è propria del cristianesimo ad esempio, dei
monoteismi in generale, ma anche della respublica romana. Per il mondo greco si
può parlare di pratica “barbara”, “ straniera”, eventualmente non accettata, non
normativa, anomos.
Volendo cercare una posizione intermedia, si può ragionevolmente accogliere
la tesi di Eitrem, noto esperto della materia, secondo il quale Eschilo avrebbe
associato ricordi della nekyia omerica a credenze e usanze religiose del proprio
tempo.249
Il terzo “attore” (postulando lo statuto di “dramatis persona” al Coro) è Dario. Non si
tratta – fatto molto rilevante – di un defunto qualsiasi, ma del Grande Re,
l’organizzatore dell’enorme e variegato, anche dal punto di vista etnico, Impero
Persiano, esempio di sovrano potente e conquistatore, e al contempo “saggio” e
tollerante verso le diversità religiose. Il suo statuto regale, la sua biografia
eccezionale lo collocano (o lo assimilano) nella sfera della divinità. 250 E difatti il
246
È il caso di J. Bidez, “A propos des Perses d’Eschyle”, in “Bull. Ac. Roy. Belg.”, Cl. des L., 1937,
pp. 206-35, cit. in Jouan 1981: 408.
247
Th. Hopfner, s.v. “Nekromantie”, RE, XVII, 2, 1935, cit. in Jouan 1981: 409.
248
Scazzoso 1952: 291.
249
S. Eitrem, “The Necromancy in the Persae of Aischylos”, in “Symboles Osloenses”, 6, 1928, pp. 117, cit. in Jouan 1981: 409.
250
Del rapporto tra regalità e divinità si è occupato, a più riprese, D. Sabbatucci; benché il discorso
verta qui sulla divinazione (e il culto dei morti), citiamo da Sabbatucci 1989: 98: «In Mesopotamia,
dove l’istituto regale emerge quattro o cinque secoli dopo la realtà faraonica egiziana, troviamo
soltanto il morto indigente, ossia quello che ha bisogno dei vivi e non il morto potente di cui sono i
vivi ad avere bisogno. La condizione del morto mesopotamico è quella tombale: è costretto a
89
Coro lo invoca appellandolo “re simile (o pari) agli dèi” (i)sodai/mwn basileu\j,
v. 634) e addirittura “dio dei Persiani” (Persaªn... qeo/n, v. 644), “divino signore”
(qeiªon a)na/ktora, v. 651) e “divino (o ispirato dagli dei) consigliere”
(qeomh/stwr, vv. 654 e 655). Oltre a queste attestazioni dirette, esplicite, vi è un
implicito, continuo richiamo alla sua “divinità” che continua anche dopo la morte,
nonostante la morte o, forse, che proprio la morte permette di mantenere e rafforzare.
Lo “spirito” o “fantasma” di Dario è infatti qualificato come il suo “dai/mwn”
(dai/mona Dareiªon, vv. 620-21; daiªmona megauxhª, v. 642), laddove lo stesso
termine serve a designare, notoriamente, anche le divinità, in questo caso quelle
ctonie, come al v. 628 (xqo/nioi dai/monej).251
Sia che la lingua greca (in particolare il lessico eschileo) usi le due forme –
dai/mwn e qeo/j – come sinonimi, sia che preveda un significativo scarto semantico
tra di esse, resta il fatto che Dario, in quanto già in vita sovrano “divino”, nel suo
nuovo stato mantiene (o acquisisce) lo statuto di “morto divino”. Siamo forse lontani,
non solo e non tanto cronologicamente, dalla concezione che richiede, per la
consultazione necromantica, un sapere “tecnico”, profetico, come quello di Tiresia,
indovino prima e dopo la morte (e nonostante la morte). Forse è lecito un parallelo
(che lo stesso Grottanelli indirettamente autorizza) con il mondo ebraico, in
particolare con l’uso “scandaloso” di quel termine ’elohim (reso nella traduzione
greca con qeou/j), “divinità” (plurale), per indicare lo “spirito” (singolare) di
Samuele, anche lui profeta, ma non assimilabile – e soprattutto non sostituibile! – a
Yahweh.252
Considerare il testo eschileo come più vicino, concettualmente, all’ambiente
ebraico (coevo o successivo, ellenistico), che al precedente mondo omerico è
probabilmente azzardato, ma la tentazione di ipotizzare un certo influsso indiretto,
mangiare e a bere la terra in cui è sepolto, a meno che i vivi non versino sulla sua tomba acqua, vino e
sangue di vittime sacrificali. In Egitto troviamo invece la formazione di una escatologia regale con la
rappresentazione del morto potente, addirittura assimilato al dio Osiride».
In riferimento allo “spirito” si parla anche di yuxh/ (v. 630), anche se in questo solo caso non è in
diretta connessione con il nome di Dario; d’altronde anche gli dèi preposti sono ovviamente detti
anche “qeoi/” (v. 689, kata\ xqono\j qeoi\).
251
252
Si veda sopra, paragrafo 5.4.
90
anche a livello meramente linguistico/lessicale, è molto forte, e varrebbe la pena di
approfondire il discorso.253
6.2 Le azioni
È stato notato come il “sacrificio” di Atossa non diverga molto da una semplice
“offerta” funeraria, comparabile a quella di Ifigenia sulla tomba di Oreste, o alle
libagioni di Elettra (accompagnate dalle “lamentazioni”, kwkutoi/, del Coro) sulla
tomba di Agamennone nelle Choephoroi, suggerendo come i confini tra la devota
frequentazione della sepoltura e la (quasi involontaria?) evocazione del sepolto siano
affatto labili: «The easy glide between tomb attendance and evocation is illustrated
by Aeschylus’s Persians and his Choephoroi. When, in the Persians, Atossa first
arrives with her offerings of honey, water, wine, oil, and flowers for Darius, we do
not realize that she intends anything other than ordinary attendance at the tomb of a
relative […]».254
L’osservazione non è nuova: già presente, in modo diverso, nell’articolo di
Jouan (e più recentemente ripresa da Johnston),255 essa suggerisce due diversi ordini
di considerazioni. Il primo riguarda la qualità e l’efficacia delle “offerte”; il secondo,
invece, l’intenzionalità dell’offerente/officiante (Atossa, ma anche il Coro, come
vedremo), e l’efficacia delle sue azioni.
Le offerte. Lunga e complessa, nonché istruttiva, sarebbe una comparazione tra gli
“ingredienti” delle “offerte” delle principali scene di necromanzia che conosciamo;
253
Sull’uso “eufemistico” dei nomi dei morti, intesi come pericolosi daímones (in riferimento alla
pratica delle defixionis tabellae), si può vedere Voutiras 1999: 79: «[…] although they treat them as
lifeless corpses […], the operants must have felt that the souls of these same dead could become
powerful and are potentially dangerous daimones of the nether world. This would explain the use of
euphemistic names as if they were mighty divinities. One should note that in both cases the actual
names of the dead were avoided».
254
Ogden 2001: 8.
255
Jouan 1981: 409; Johnston 1999: 97: «[…] Queen Atossa does not invoke Darius in the Persians
herself. She pours libations and grieves, as a good wife should, but she asks the chorus of male
Persian elders to sing the special songs that will bring Darius back into the light».
91
anche limitando lo sguardo ai principali testi teatrali, le evidenti analogie rimandano
a significati connessi con la prassi cultuale dei defunti256: «Comme dans presque tous
les autres passages tragiques, la libation est versée sur la tombe du défunt, à l’image
des offandres que nous présentent les lécythes funéraires attiques».257 Ci limitiamo
qui a sottolineare la ricorrenza, ne I Persiani, del meli/kraton (miscuglio di latte e
miele) e di acqua e vino (come nella nekyia),258 accompagnati da olio di oliva e
fiori,259 e la totale mancanza dell’uso di vittime animali (diversamente dalla nekyia).
Le “offerte” di Atossa hanno una duplice destinazione: sono infatti rivolte
dapprima, nell’esortazione del Coro, “alla Terra” e “ai morti”:
«[...] deu/teron de\ xrh\ xoa\j G$ª te kai\ fqitoiªj xe/asqai […]» (vv. 21920)
e subito dopo, come dice lei stessa nella replica al Coro, “agli dèi” e “ai cari di
sotterra”, genericamente, senza distinzioni precise:
«pa/nta qh/somen qeoiªsi toiªj t マ e)/nerqe ghªj fi/loij» (v. 229).
Solo ai versi 609-10, al ritorno di Atossa sulla scena dopo la sua uscita, e all’inizio
del rito, il destinatario principale è indicato in modo più preciso: la regina si propone
infatti di versare libagioni per “il padre di mio figlio”, e che “addolciscano i morti”:
«[…] paido\j patri\ preumeneiªj xoa\j / fe/rouj マ , a(/per nekroiªsi
meilikth/ria».
256
In Jouan 1981: 411-12 vengono riassunti i vari tipi di “offerta funeraria” (latte, miele, vino,
separatamente o mescolati tra loro) presenti nelle principali tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide.
Nelle stesse pagine si nota come l’offerta presente nei Persiani – latte e miele, vino e acqua – trovi il
suo riscontro più immediato solo in quella dell’Ifigenia in Tauride, ed un illustre precedente nel
“ciceone” di Circe, nel poema omerico; inoltre, «Il n’y a d’offrande sanglante que dans l’Electre
d’Euripide (brebis) et dans Hècube (sacrifice humain)».
257
Jouan 1981: 412.
Od. X 519-20 e XI 27-28: «prwªta melikrh/t%, mete/peita de\ h(de/i+ oi)/n%, / to\ tri/ton au)=q'
u(/dati […]» («[un’offerta] prima di latte e miele, dopo di dolce vino, / poi una terza di acqua»),
cosparsa di farina d’orzo.
258
259
Eschilo, Persiani: 607-618.
92
L’insistenza sulla doppia forma dell’invocazione (evocazione) di Atossa – per Terra
(G$ª)/per i morti (fqitoiªj), per gli dèi (qeoiªsi)/per i morti (fi/loij), per Dario
(paido\j patri\)/per i morti (nekroiªsi) – ha fatto pensare che le libagioni
costituiscano due serie ben distinte: le prime per gli dèi inferi (nerte/roij qeoiªj, v.
619 e 622), più sotto nominati espressamente ( (Ermhªj, ¡Aidwneu/j, vv. 629 sgg.), le
seconde per Dario (dai/mona Dareiªon, vv. 620-21), come dimostrerebbe il preciso
uso dei dimostrativi taiªsde... ta/sde (vv. 619 e 622).260
È a questo punto, esattamente a partire dal verso 619, che l’invocazione (agli
dèi) cede il posto all’evocazione (di Dario), alle suppliche (ai defunti) si aggiunge
l’ordine (al Coro) di “far salire” il re, con quei due imperativi e)peufhmeiªte e
a)nakaleiªsqe che rendono esplicita la volontà di Atossa, dando inizio alla lunga e
lamentosa implorazione del Coro;261 il brusco passaggio non è privo di difficoltà,
almeno per noi moderni, culturalmente condizionati dall’abitudine di segnare una
netta dicotomia tra “magico” e “religioso”, “illecito” e “lecito”: «Mais il faut avouer
que pour le lecteur moderne le glissement d’un type de cérémonie à l’autre n’est pas
clair: sans doute les choses étaient-elles plus évidentes pour le public d’Eschyle».262
Ad ogni modo, le “offerte” di Atossa, unite ai “canti” (uÀmnouj) del Coro,
funzionano, con l’effettivo risultato di richiamare l’“ombra” del defunto re Dario.263
L’intenzionalità. È stato in effetti osservato che il Coro riveste un ruolo determinante
in tale evocazione. Ai vv. 619-22 infatti la regina invita il Coro degli uomini, gli
anziani Persiani (definendoli fi/loi, “cari”, “amici”) ad intonare i canti, gli inni (le
260
Jouan 1981: 412.
261
Scazzoso 1952: 292: «[…] non si tratta di una semplice esortazione bensì di una vera e propria
istruzione rituale».
262
Jouan 1981: 413.
263
Non potendo approfondire qui il discorso, segnaliamo un interessante parallelo con il mondo
(moderno) rurale, in cui la devozione cristiana si mescola ad antichissime forme “pagane”
nell’odierna Lucania descritta in De Martino 2002: 136: «Ultimo miserabile avanzo del pagano
banchetto presso le tombe, alcune donne vanno versando da una bottiglietta di gazzosa un po’ di vino
rosso su una grossa fetta di pane scuro, che depongono a piè della croce, nel fascio di fiori campestri».
93
lodi?) in grado di richiamare, evocare lo “spirito” di Dario (uÀmnouj e)peufhmeiªte,
to/n te dai/mona Dareiªon a)nakaleiªsqe). Poco più sotto però il sovrano,
appena “salito”, afferma di aver accettato di buon grado le offerte o libagioni della
moglie (xoa\j de\ preumenh\j e)deca/mhn, v. 685), ma anche di esser stato
richiamato dagli “acuti lamenti” del Coro; è interessante l’espressione usata:
yuxagwgoiªj o)rqia/zontej go/oij (v. 687), sulla quale torneremo più sotto
(paragrafo 6.3). È troppo poco per trarre delle conclusioni sull’“ideologia”
soggiacente a questo episodio letterario: si può solo osservare che l’azione di Atossa,
anche se intenzionale, forse è inefficace senza l’apporto, o la mediazione, degli
anziani dignitari di corte che formano il Coro; viceversa, i loro “canti” forse non
sortirebbero effetto alcuno senza le libagioni (e i lamenti) di Atossa. La sovrana ed il
Coro sembrano costituire due operatori diversi e complementari di una medesima
prassi che ha forse il suo modello diretto nelle consuete e comuni “lamentazioni” per
i defunti, la cui pericolosità “sociale” comportò una serie di restrizioni.264
264
Si veda più sotto, paragrafo 6.3.
94
6.3 Come piangere il morto
Desideriamo soffermarci un attimo sull’uso delle “lamentazioni”, ovvero sull’uso dei
termini usati per designarle. Si è visto come Dario si riferisca ai lamenti del Coro
parlando di yuxagwgoiªj go/oij (v. 687), cioè lamenti (gemiti, pianti) in grado di
richiamare le “anime” dei morti; poco più sotto, dichiara di esser “salito” obbedendo
ai lamenti (go/oij, v. 697) del Coro e, pochi versi dopo, con lo stesso termine invita
la moglie a cessare i lamenti (go/wn, v. 705), gli stessi, è lecito presumere, che lo
hanno fatto “salire”. Si potrebbe quasi ipotizzare uno scarto qualitativo tra due tipi di
“lamenti”, o meglio tra due modi di impiegarli, che sortiscono due diversi effetti in
relazione alla natura di chi li pronuncia: i go/oi del Coro, messi in connessione con il
verbo qrhne/w (piangere, gemere, levare un lamento: v. 686), effettivamente
richiamano l’“ombra” di Dario, mentre quelli di Atossa, associati al sostantivo
klau/mata (di analogo significato: v. 705), non sembrano possedere un valore
strumentale, intervengono – così sembra – quando Dario è già “salito”.
L’uso, con valore sinonimico, del termine uÀmnoi (inni, canti celebrativi) da
parte di Atossa (v. 620) e del Coro (v. 625) per designare i go/oi – ma sempre quelli
del Coro, non quelli della regina – non conferma né smentisce l’ipotesi; sembra però
dimostrare come nel lessico di Eschilo i termini legati al “sapere” necromantico
seguano un impiego molto attento, mirato ad ottenere un effetto preciso, quasi un
linguaggio “tecnico”, da specialisti. L’idea che il drammaturgo usasse parole che non
solo il suo pubblico immediatamente associava all’agire necromantico, ma che
trovavano reale riscontro nella prassi quotidiana, è oltremodo suggestiva (quanti
“specialisti” di necromanzia esistevano, nell’Atene di V sec.?), ma non verificabile,
anche se alcuni fatti – la frequenza nel vocabolario dell’epoca del termine
yuxagwgo/j, la tavoletta di Dodona265 – induce a non escluderla a priori come una
mera fantasia.
265
Cfr. paragrafo 1.2.
95
Ulteriori osservazioni possono nascere dal raffronto tra due termini che abbiamo
visto associati, usati in modo complementare, qrhªnoj (verbo qrhne/w) e go/oj, dai
significati accostabili ma non uguali, secondo una distinzione che ci sembra di un
certo interesse: presenti già nella lingua omerica, essi designano due modi di
esprimere il dolore per la morte o la mancanza (dovuta a lunga e forzata lontananza)
di un individuo,266 con la differenza che il primo costituiva un atteggiamento più
controllato, “ordinato”, e di norma associato agli uomini, mentre il secondo aveva un
carattere spontaneo ed “eccessivo”.267
Scopriamo inoltre che questa distinzione, se storicamente oltre che
concettualmente valida, implica delle non trascurabili conseguenze sul piano socioculturale, alle quali prima si accennava (paragrafo 6.2): ad un certo punto, infatti, i
go/oi acquisirono il valore di pericoloso strumento di rivalsa nei casi di morte
violenta, mettendo in evidenza presso gli ascoltatori non solo il dolore di chi li
pronunciava, ma anche l’ingiustizia subìta dal morto, al punto che «the gooi of
women, sung in the presence of male survivors, could drive a cycle of murder and
counter-murder».268 Per scongiurare tali vendette personali/familiari, in età arcaica e
classica entrambe le forme di “pianto” furono soggette a limitazioni da parte delle
leggi che disciplinavano le pratiche funerarie; il go/oj, in particolare, fu indebolito
restringendo il numero delle donne permesse a partecipare ai riti, e limitando la
durata del lamento ed i luoghi in cui veniva eseguito.269
Questa contrapposizione tra un lamento composto, lecito, maschile, ed uno
“scomposto”, “pericoloso”, femminile, forse non rientrava nella concezione
ideologica (o nelle intenzioni) di Eschilo o del suo pubblico; se così fosse, le
implicazioni sarebbero di non poco conto. Con analoga incertezza, affidandoci ai dati
Per qrhªnoj, cfr. ad es. Il. XXIV 721: «a)oidou\j qrh/nwn e)ca/rxouj», cantori che intonano il
lamento funebre (ma vedi anche Luciano, PERI PENQOUS 20: «qrh/nwn sofisth/n», professionista
delle lamentazioni); per go/oj, cfr. Od. IV 102-103 (il “pianto” di Menelao) e 758 (il “pianto” di
Penelope).
266
267
Johnston 1999: 91: «Thrênos was a more controlled and orderly expression of grief. Already in
Homer, it consisted of composed songs, sometimes sung by professional mourners, and was the type
of lament most often associated with men. Goös, in contrast, was spontaneous and emotionally
powerful – sometimes excessively so».
268
Johnston 1999: 91-92.
269
Johnston 1999: 91-92.
96
linguistici proposti, è forse possibile instaurare un ulteriore confronto, che riconduce
il go/oj ad una figura (già vista in precedenza) di operatore – nel testo in questione,
eventualmente, operatrice – del sapere “altro”, “infero”, “pericoloso”, il go/hj: «[…]
analysis suggests that the name was the precise term for a professional communicator
with the dead. The most obvious evidence for this is linguistic: ‘goês’ is derived from
the same root as ‘goös’ […]».270
Nell’articolo citato segue una serie di esempi dell’uso, anche metaforico, 271 del
termine, tesi a dimostrare la natura “straniera” del termine gohtei/a, l’arte del go/hj,
ed il suo ambito esclusivamente “maschile”, nonostante la sopra citata (ed inspiegata,
nella sua apparente contraddizione) derivazione dalla sfera femminile.272 Il concetto è
espresso in modo forse più contingente, con l’aggiunta di alcuni dettagli, da F. Graf
nel suo studio sulla magia nel mondo antico greco-romano, a proposito del lessico
relativo agli operatori del “magico”:
«In tutto questo vocabolario, soltanto mágos e la sua famiglia sembrano di
origine recente. Góes, parola di derivazione greca, conserva tracce di una
funzione più arcaica, e sempre in armonia con la sua etimologia (la parola
deriva da góos, il pianto rituale): quella di una figura sciamanica in rapporto con
il mondo dei morti – figura certo marginale, e nondimeno ancora al servizio
della società. In Eschilo, ritroviamo il góes come colui che fa uscire i morti
dalle loro tombe, inversione di una funzione implicata nel góos»273
Johnston 1999: 92. Sul termine go/hj, cfr. le definizioni di Liddell-Scott 1983 (1843) e Stephanus
1954, capitolo 3, n. 105.
270
271
Johnston 1999: 93 cita l’esempio del Sofista, in cui lo Straniero descrive i sofisti come coloro che
usano la goêteia per portare alla luce “fantasmi verbali” (eidôla legomena) con le loro parole.
272
Cfr. Johnston 1999: 97.
273
Graf 1995: 27-28. Qui come in altri luoghi, Johnston sembra seguire molto da vicino l’opera di
Graf, ed entrambi, sull’origine straniera, orientale, del góes (se non della “magia” in generale)
dichiarano il loro debito verso gli studi di W. Burkert. Si ricorderà, solo di passaggio, che il tema di un
influsso “sciamanistico” nella cultura greca è uno degli assunti del saggio di Dodds, I Greci e
l’irrazionale (cit. in bibliografia). In generale sull’influenza orientale, si veda ancora Graf 1995: 16468.
97
Proprio questa “inversione”, ribadita dall’Autore anche altrove,274 può essere una
delle tante possibili chiavi di lettura con le quali avvicinare la “scena” necromantica
contenuta in questo testo: gli stessi lamenti che Atossa pronuncia per placare il
proprio dolore e lo stesso defunto, sono usati dal Coro per risvegliarlo,
coerentemente con l’ambiguità – spesso linguistica e tutta concettuale – propria
dell’agire necromantico.
6.4 Parlare ai morti, parlare da morti
Accenniamo ancora ad alcune particolarità del comportamento – le “azioni”, in senso
chiaramente verbale – di Dario, che ci sembrano degne d’interesse, pur se non
immediatamente significative, anche in vista di un confronto con le scene di
evocazione analizzate nei precedenti capitoli: ci riferiamo al “disturbo” che il morto
interrogato dichiara di provare, alla sua “fretta” di ritornare alla propria sede infera,
ed alla sua apparente “ignoranza profetica”, che caratterizzano – in un generale clima
“pauroso” – alcuni passaggi del dramma eschileo.
In seguito, dunque, alle libagioni di Atossa e ai lamenti (o “inni”) del Coro, e
ad eventuali atti performativi come il battito ritmico delle mani o dei piedi
congetturato da alcuni,275 l’“ombra” di Dario sale sulla sommità del tumulo,
indossando i “calzari color zafferano” e la tiara regale, simboli del potere regio: così
almeno i Coreuti lo invocano – o lo ricordano, immaginandolo nel suo aspetto da
vivo – ai vv. 660-61; anche da morto, Dario è un sovrano “potente”, un reggente
(de/spota despo/tou, v. 666; duna/ta duna/ta, 675).276 All’inizio della sua
274
Graf 1999: 296: «[…] the same specialist who could send the souls to the nether world […] could
call them up again».
275
Lawson 1934: 79-83, rifacendosi a Headlam (“Ghost Raising…”, cit.), segnala l’ambiguità del v.
683 («ste/nei, ke/koptai, kai\ xara/ssetai pe/don»): se il soggetto è pe/don (anziché po/lij del
v. precedente) si può intendere che la terra sia “battuta” dai piedi dei Coreuti (ma Headlam: «[…]
imagine these aged venerable men skipping and scoring the ground with their old hoofs!»); cfr. ancora
Lawson 1934: 89, per il quale Atossa, inginocchiata presso la tomba, batte le mani sulla terra, e
Broadhead 1960: 309, in modo analogo.
276
Broadhead 1960: 309 menziona gli espedienti teatrali che permettevano le apparizioni di “spiriti” o
altri “esseri” (divinità, Furie etc.), come le “scale caronie” (Xarw/nioi kli/makej) e la “botola”
98
apparizione, egli usa un’espressione curiosa: ho paura, timore (tarbwª, v. 685) –
afferma – nel vedere la mia sposa presso la tomba; sebbene la natura di tale timore
sia forse destinata a rimanere senza spiegazione,277 possiamo notare come il
sentimento di “spavento” caratterizzi anche gli altri personaggi: Atossa, all’inizio del
suo secondo ingresso sulla scena, dichiara di aver paura, di essere atterrita (e)kfobeiª,
v. 606) per le sciagure che l’hanno colpita,278 mentre il Coro, subito dopo
l’apparizione, esprime il proprio timore reverenziale (se/bomai, vv. 694-95) alla
vista del sovrano (ma parla anche dell’“antica paura” di lui, a)rxai/% ta/rbei, v.
696).
È poco per vedere il riflesso di un atteggiamento “psicologico” da ricondurre
alle aspettative concettuali ed emozionali del pubblico (la solenne apparizione di
Dario provocava, negli spettatori, lo stesso timore reverenziale?), ma è lecito vedere
nell’intero passo una situazione di forte disagio, di straniamento, opportunamente
preparato nelle sequenze che precedono l’evocazione con l’uso di effetti linguistici –
ed eventualmente sonori279 – in sintonia con l’atmosfera “lugubre”, luttuosa,
dell’intera tragedia.
In questo contesto vanno probabilmente interpretate le parole, che hanno
offerto non pochi problemi interpretativi, pronunciate dal Coro ai vv. 634-36:
h)ª r(' a)i/ei mou magari/taj i)sodai/mwn basileu\j / ba/rbara safhnhª /
i(e/ntoj ta\ panai/ol' ai)- / anhª du/sqroa ba/gmata;
(a)napi/esma) citate da Polluce, Onomasticon IV 132. Luck 1997: 560 aggiunge: «Ma se i teatri
possedevano questo tipo di macchinari teatrali, è possibile che anche i santuari, dove erano evocate le
ombre dei morti (yuxopompeiªa), disponessero di simili congegni»; anche Ogden 2001: 3.
277
Luck 1997: 563 si chiede, nel suo commento al passo (basato su quello di Broadhead 1960), «Che
cosa dovrebbe temere Dario? Di venire a sapere tutta la verità sulla disfatta dei Persiani? Certamente
non teme sua moglie o le libagioni di lei». Più interessante Lawson 1934: 86, il quale ipotizza che
Atossa, che dovrebbe essere adusa a offrire al defunto, in questa occasione abbia un comportamento
inusuale – ad es. l’atto di percuotere la terra – che desta preoccupazione (per la salute della donna?)
nel sovrano.
278
Broadhead 1960: 307: «[…] she is in a very different frame of mind: she is filled with almost panic
terror […]».
279
Non pochi commentatori, a partire da Headlam (“Ghost Raising…”, cit.), ipotizzano l’utilizzo, sul
palco, di grida e suoni inarticolati dei quali non è rimasta traccia nei manoscritti: cfr. Lawson 1934:
82, Broadhead 1960: 308, e Jouan 1981: 408.
99
«M’ode il re beato pari a un dio / lanciare suoni barbari, distinti, variegati /
insistenti, lamentosi?»280
A parte la questione filologica sul termine safhnhª, da Headlam emendato in
a)safhnhª, con un’inversione di significato (le parole chiare, distinte, diventano
“oscure”, “incomprensibili”),281 anche l’uso di ba/rbara e di ba/gmata ha sollevato
qualche perplessità. Sebbene ba/rbaroj, in quest’opera, sia probabilmente un
semplice sinonimo di “Persiano”,282 è singolare che i Coreuti (persiani) avvertano il
bisogno di specificare come le proprie parole (rivolte ad un persiano) siano
“straniere”, non greche; anche supponendo l’intenzione di Eschilo di ribadire al
proprio pubblico l’ambientazione asiatica, “esotica”, della vicenda (ricordando che
gli attori recitano in greco, ma “traducendo” parole persiane: una finezza che non è
necessario supporre), l’uso del termine rimanda a quel linguaggio “inintelligibile”, ai
cosiddetti o)no/mata barbarika/ che nei secoli seguenti dilagheranno nei testi dei
Papiri Magici e saranno indissolubilmente associati agli “operatori del magico”,
come ben testimonia, con la consueta verve, un passo di Luciano.283
Meno problematici sono i suoni lamentosi, o grida di dolore ( ba/gmata), ma ci
si è chiesto a chi fossero rivolti284: se lo sono alle divinità sotterranee, ha poco senso
domandarsi se siano uditi dal re; se il destinatario è il re stesso, si può dedurne che
solo un richiamo prolungato, forte, fatto di parole dalla sonorità “dura” (“barbara”?)
può risvegliarlo dal letargo della morte.
La sensazione è che tutta la scena relativa all’evocazione sia caratterizzata da
una comunicazione in qualche modo distorta, alterata, in cui i protagonisti dialogano
quasi senza capirsi, ovvero parlano tutti – Atossa, i vecchi Consiglieri, lo stesso
Dario – un incomprensibile “gergo” del dolore, quasi un metalinguaggio costituito da
gesti, gemiti, forse addirittura grida, ottenuto con un sapiente utilizzo della
280
La trad. it. di questo e dei successivi passi de I Persiani è di A. Privitera.
281
Lawson 1934: 82, Haldane 1972: 42.
282
Lawson 1934: 82.
Luc., MENIPPOS H NEKUOMANTEIA 9: «paramignu\j a(/ma kai\ barbarika/ tina kai\ a)s
/ hma
o)no/mata kai\ polusu/llaba», parole “barbariche”, senza senso e lunghissime…
283
284
Ad es. Broadhead 1960: 308.
100
“dimensione
acustica”
dello
stile:285
«anaphores,
répétitions,
exclamations
intercalées, usage du refrain, échos entre strophe et antistrophe, fréquence des hiatus,
contrastes de sonorités éclatantes et sourdes, de séries de syllabes longues et brèves,
etc. […] Bref, tout est mis en œuvre pour donner l’illusion esthétique d’une grande
scène de rite “barbare”»,286 come risulterà – ci auguriamo – anche dalle righe
seguenti.
Si accennava al senso di “disturbo”, quasi di fastidio, che Dario sembra provare fin
dal suo primo apparire, che la stessa “ombra” spiega con la difficoltà che i morti –
tutti, anche quelli che in vita erano potenti, ed ora conservano parte di quel potere
(e)ndunasteu/saj e)gw\, v. 691) fra gli dèi ctonii – trovano nel ritornare, anche se
per poco, al mondo dei vivi: le sue parole esprimono, con un’immagine di sicuro
effetto, l’amarezza di chi è costretto a rimanere nell’Ade, in quanto «Non è agevole
l’uscita» (e)sti\ d' ou)k eu)e/codon) dal momento che «gli dèi ctonii / sono più abili a
prendere cha a lasciare» (labeiªn a)mei/nouj ei)si\n h)\ meqie/nai, vv. 688-90).287
Ciò spiega quell’urgenza, quella necessità di ritornare il prima possibile nella dimora
sotterranea, espressa con l’esplicito invito ad affrettarsi (ta/xune, v. 692) e a parlare
«facendo un discorso conciso, non lungo» (mh/ ti makisthªra muªqon, a)lla\
su/ntomon le/gwn, v. 698) rivolto agli anziani Consiglieri.
L’angosciosa situazione dei trapassati, ribadita con altre parole nel corso del
dialogo con i vivi, come la sconsolata sentenza che conclude la sua fugace “visita” –
un’esortazione ad affrontare la vita con animo lieto (o a godere della vita: yux$ª
dido/ntej h(donh\n kaq' h(me/ran, v. 841) anche nella sventura, poiché ai morti la
ricchezza non è di alcuna utilità – sembra il riflesso di una concezione “pessimista”
dell’aldilà, di cui troviamo un primo, illustre esempio ancora in Omero, nelle penose
parole che Odysseus deve sentire da Achille (Od. XI 489-91),288 che potendo rivivere
285
Haldane 1972: 44.
286
Jouan 1981: 421.
287
Si ricoderà l’infastidito esordio di Samuel: «15 Allora Samuele disse a Saul: “Perché mi hai
disturbato facendomi salire?» (Sam. I 28, 15).
288
Jouan 1981: 407.
101
non esiterebbe a servire anche un uomo di umili condizioni, piuttosto che regnare tra
i morti.
Tralasciando il complesso discorso sulle concezioni escatologiche, che non
possiamo indagare in questa sede, ci limitiamo ad osservare come la medesima
“limitazione” possa essere all’origine della (relativa) “ignoranza profetica” che Dario
sembra dimostrare, almeno in un primo momento, quando si rivolge ai suoi
interlocutori chiedendo: “Quale pena la città soffre?” (v. 682), e ancora: “Qual è il
nuovo danno che grava sui Persiani?” (v. 693); il successivo dialogo con Atossa, la
quale promette a Dario di esporgli i fatti brevemente (e)n braxeiª xro/n%, v. 713), si
riduce in effetti ad una sequela di domande e risposte in cui – paradossalmente, e in
modo simile a quanto si è visto per l’interrogazione di Odysseus289 – è Dario a
chiedere informazioni, dimostrando di ignorare ogni cosa: quale disgrazia si è
abbattuta sulla Persia, quale mio figlio è stato battuto dai Greci, dove è successo, si è
salvato o è morto, sono alcuni degli incalzanti quesiti (quasi un “interrogatorio”
serrato, a partire dal v. 715) ai quali la regina offre immediata risposta. I ruoli in certa
misura si invertono, ripristinando il “normale” rapporto tra interroganti e interrogato
che dovrebbe sussistere in una consultazione necromantica, solo quando il Coro,
riprendendo la parola (vv. 787 sgg.), s’informa sul futuro del Paese: ma la risposta
del re, che esordisce con il consiglio di cessare ogni ostilità contro i Greci, si traduce
in un’accusa (auto-accusa) della u(/brij – il tema di fondo del dramma, come si
diceva ad inizio capitolo – dei “barbari” Persiani, la superba tracotanza che ha in
spregio gli dèi, spingendo a rovesciare le loro statue e a bruciare i loro templi.
I riferimenti all’attualità del tempo, per un cittadino greco (ateniese in
particolare) del V sec., erano fin troppo chiari, e in parte forse dolorosi; la regina
persiana e i suoi anziani dignitari – e con loro il pubblico di Eschilo – non si
aspettavano da Dario la conoscenza del futuro, o tantomeno sconvolgenti rivelazioni
sull’oltretomba: sapere di essere greci, orgogliosamente, e rispettosi degli dèi, e
sentirlo dire – pur nella finzione scenica di quel luogo programmaticamente
“politico” che era il teatro – dalla voce degli stessi “sconfitti”, in “parole barbare”,
era sufficiente.
289
Cfr. paragrafo 4.2.
102
103
7. Il “forno” e le “api” di Periandro. Necromanzia e
necrofilia
Episodio curioso, apologo morale, complesso gioco testuale: vari sono gli epiteti che
potremmo attribuire ad un singolare brano erodoteo (V 92 h) che chiama in causa
una consultazione “necromantica” il cui protagonista (o “attore/attante”, secondo la
terminologia adottata dagli studi strutturalisti) è Periandro, tiranno di Corinto.290 Il
passo, che si compone di poche righe, si colloca all’interno di un più ampio discorso
che Erodoto fa pronunciare all’ambasciatore corinzio Socles (Swkle/hj) sui “mali”
della tirannide, tema di grande interesse nel dibattito antico sulle possibili e più o
meno auspicabili forme di governo.291 Riportiamo il testo:
ÀOsa ga\r Ku/yeloj a)pe/lite ktei/nwn te kai\ diw/kwn, Peri/andro/j
sfea a)pete/lese, mi$ª de\ h¸me/r$ a)pe/duse pa/saj ta\j Korinqi/wn
gunaiªkaj dia\ th\n e¸wutouª gunaiªka Me/lissan. pe/myanti ga/r oi¸ e)j
Qesprwtou\j
ep¡
¡Axe/ronta
potamo\n
a)gge/louj
e)pi\
to\
nekuomanth/ion parakataqh/khj pe/ri ceinikhªj ouÃte shmane/ein eÃfh
h¸ Me/lissa e)pifaneiªsa ouÃte patere/ein e)n t%ª keiªtai xw/r% h¸
parakataqh/kh: r¸igouªn te ga\r kai\ eiÅnai gumnh/: twªn ga/r oi¸
sugkate/qaye ei¸ma/twn oÃfeloj eiÅnai ou)de\n ou) katakauqe/ntwn!
martu/rion de/ oi¸ eiÅnai w¸j a)lhqe/a tauªta le/gei, oÀti e)pi\ yuxro/n to\n
i)pno\n Peri/androj tou\j aÃrtouj e)pe/bale. tauªta de\ w¸j o)pi/sw
a)phgge/lqh t%ª Peria/ndr% (pisto\n ga/r oi¸ h)=n to\ sumbo/laion, o)\j
nekr%ª e)ou/s$ Meli/ss$ e)mi/gh), i)qe/wj dh\ meta\ th\n a)ggeli/hn
290
Per l’esame del passo, seguiamo da vicino l’analisi “strutturale” di E. Pellizer (Pellizer 1993, che
l’ha cortesemente messa a nostra disposizione), integrandola con le informazioni contenute in Ogden
2001, in partic. pp. 54-60.
291
Per il dibattito sulla “tirannide” ed una rapida disamina dei principali “tiranni”, cfr. SteinHölkeskamp 1996. Devo la conoscenza e le informazioni relative all’importante questione della
tirannide nel mondo greco a M. Faraguna ed alle sue stimolanti lezioni dedicate all’argomento.
104
kh/rugma e)poih/sato e)j to\ ÀHraion e)cie/nai pa/saj ta\j korinqi/wn
gunaiªkaj. ai( me\n dh\ w¸j e)j o(rth\n h)/isan ko/sm% t%ª kalli/st%
xrew/menai, o( d' u(posth/saj tou\j dorufo/rouj a)pe/duse/ sfeaj
pa/saj
o(moi/wj,
ta/j
te
e)leuqe/raj
kai\
ta\j
a)mfipo/louj,
sumforh/saj de\ e)j o)/rugma Meli/ss$ e)peuxo/menoj kate/kaie.
tau=ta de/ oi( poih/santi kai\ to\ deu/teron pe/myanti e)/frase to\
ei)/dwlon to\ Meli/sshj e)j to\n kate/qhke xwªron tou= cei/nou th\n
parakataqh/khn.
toiou=to
me\n
u(mi=n
e)sti
h(
turanni/j,
w)=
Lakedaimo/nioi, kai\ toiou/twn e)/rgwn.
«Periandro finì completamente tutto quel che Cipselo aveva lasciato, uccidendo
e scacciando e in un solo giorno fece spogliare delle vesti tutte le donne di
Corinto in onore di sua moglie Melissa. [2] Infatti, avendo inviato messi presso
i Tesprozi sul fiume Acheronte per consultare l’oracolo dei morti riguardo al
deposito lasciato da un ospite, Melissa apparve e disse che non lo avrebbe
indicato e non avrebbe detto in che luogo giaceva il deposito perché aveva
freddo ed era nuda: infatti non traeva alcun vantaggio dai vestiti che erano stati
sepolti con lei, perché non erano stati bruciati; [3] e per provargli che quel che
diceva era vero aggiunse che Periandro aveva posti i pani nel forno freddo. Non
appena questo fu riferito a Periandro – la prova certa era infatti per lui poiché
s’era unito a Melissa quando era già morta – subito dopo questa comunicazione
fece emanare un bando, che tutte le donne di Corinto andassero al tempio di
Era. Esse vi andarono come ad una festa, con i loro abbigliamenti più belli, ed
egli, appostate segretamente delle guardie, le fece spogliare tutte senza
eccezione, le libere e le schiave, e accumulate le loro vesti presso la tomba,
facendo preghiere a Melissa le bruciò. [4] Fatto questo, mandò a consultare una
seconda volta l’oracolo, e l’ombra di Melissa indicò il luogo in cui aveva messo
il deposito dell’ospite. Tale è la tirannide, o Spartani, e capace di tali azioni»292
292
Trad. di A. Izzo D’Accinni, ed. Rizzoli 1984.
105
7.1 Periandro il tiranno
Prima di soffermarci sulle parole di Erodoto, ci sembra opportuno un breve cenno
sulla figura del “tiranno” Periandro, cercando di inserirlo nel suo contesto storico. La
tormentata “stagione” della tirannide – peculiare fenomeno della storia greca che
vede la sua comparsa nel VII sec. a.C. – ha inizio proprio a partire dalla po/lij di
Corinto: qui, attorno al 660, la stirpe regnante dei Bacchiadi, formata da un «gruppo
chiuso di nobili di sangue che cercava di conservare la propria esclusività attraverso
l’endogamia»,293 viene rovesciata da Cipselo, la cui nascita era stata predetta
dall’oracolo di Delfi, e la cui morte, decretata dagli stessi Bacchiadi, la madre poté
evitare celando l’infante in una cassa (kuye/lh, da cui il nome).294 Alla sua morte,
dopo un governo trentennale, prese il suo posto il figlio Periandro, figura
ambivalente fin dai più essenziali tratti biografici: «Nella documentazione antica, già
molto presto Periandro fu considerato come il prototipo del tiranno cattivo e crudele:
a lui venne addebitato ogni possibile eccesso e perversione», ma oltre a questa
tradizione «ne esisteva però anche una più positiva: più volte infatti egli fu
annoverato tra i Sette Sapienti»;295 non stupisce che tale “ambiguità biografica” abbia
indotto alcuni commentatori antichi, come Diogene Laerzio (III sec. d.C.), a
«distinguere due Periandri, uno il Sapiente, l’altro il Tiranno».296
È difficile giudicare in modo obiettivo se non riduttivo le valutazioni a
posteriori di illustri commentatori come Platone e Aristotele, secondo i quali la
tirannide mirava solo al profitto personale di chi la esercitava: «[…] vengono
considerate tipiche componenti dello stile di vita di un tiranno le feste con profusione
di cibo e di bevande inebrianti, gli abiti lussuosi, donne e fanciulli di piacere, e anche
eccessi sessuali di ogni tipo. A tale vita di lussi e sprechi decadenti corrispondeva
293
Stein-Hölkeskamp 1996: 659.
294
L’elemento narrativo del bambino condannato a morte e salvato tramite un espediente, che ha lo
scopo di celarlo ai persecutori, si ritrova in culture diverse: con le dovute e necessarie distinzioni, esso
rammenta le vicende – per altri versi non assimilabili – di Perseo generato da Danae e Zeus (posto
assieme alla madre in una “cassa” o “cesta”, la/rnac) oppure, in ambito extra-greco, di Mosè
(condannato dal Faraone) o di Gesù Cristo (da Erode).
295
Stein-Hölkeskamp 1996: 662.
296
Pellizer 1993: 801.
106
quella smisurata avidità personale della quale furono tacciati tutti i tiranni […]».297
Va tuttavia segnalata la tendenza della ricerca moderna a diffidare dei categorici
giudizi (negativi) degli autori più tardi, e a concentrarsi invece sulle (problematiche)
testimonianze coeve e su «una prudente interpretazione» proprio dei passi erodotei
rilevanti per il tema in questione.298 Le fonti non celano d’altronde i benefici ed il
forte impulso allo sviluppo economico, culturale, urbanistico dato da alcuni regimi
tirannici alla propria po/lij (l’esempio più notevole è forse l’Atene dei Pisistratidi):
lo stesso Periandro, oltre ad essere considerato «come il prototipo del tiranno cattivo
e crudele» nonché l’inventore delle tipiche misure di mantenimento violento del
potere – corruzione, delazione, controllo e terrore – ebbe fama di «grande
costruttore: fece erigere templi, una fontana e il di/olkoj», la strada lastricata che
permetteva il trasporto su carro delle navi attraverso l’istmo.299
7.2 Giochi testuali, giochi di potere
Da un punto di vista prettamente narratologico, è interessante notare come l’ordine
degli eventi narrati subisca un curioso rovesciamento, anticipando all’inizio una delle
“scene” finali, la denudazione delle donne di Corinto: espediente narrativo che in
effetti, annullando la suspense, sembra tutt’altro che mirato a produrre nel
lettore/ascoltatore un senso di curiosità.300 Il fatto può non essere casuale. Si osserva
che il racconto prende l’abbrivio da una situazione di mancanza: Periandro desidera
conoscere l’ubicazione di un deposito di denaro (parakataqh/kh) nascosto da un
suo ospite. La cupidigia lo spinge a consultare colei che ne è a conoscenza (oltre
all’ospite stesso, si presume, la cui “reticenza” rimane però inspiegata)301: si tratta
297
Stein-Hölkeskamp 1996: 654 (corsivo nostro).
298
Stein-Hölkeskamp 1996: 655.
299
Stein-Hölkeskamp 1996: 662.
300
Pellizer 1993: 804.
301
Pellizer 1993: 804: «si ha persino l’impressione che sia già morto!».
107
della moglie del tiranno, Mèlissa (Me/lissa), che questi aveva ucciso a calci in un
accesso d’ira. Per interrogare il suo “fantasma” o “ombra” (eiÃdwlon) egli invia
uomini all’oracolo dei morti (nekuomanth/ion) situato in Tesprozia, “presso il
fiume Acheronte”, dove essa appare (e)pifaneiªsa) rifiutandosi però di rispondere
adducendo il fatto di “aver freddo” e di “essere nuda” (r¸igouªn te ga\r kai\ eiÅnai
gumnh/) in quanto lo sposo aveva trascurato di bruciare le vesti della donna al
momento del seppellimento.
Mèlissa lamenta cioè una mancanza, di tipo diverso ma, è ipotizzabile,
speculare rispetto a quella di Periandro.302 Al fine di ottenere la desiderata risposta –
e non, come ci si aspetterebbe, per placare lo “spirito” della moglie303 – il tiranno
escogita il fraudolento espediente della spogliazione pubblica delle cittadine corinzie
(libere e schiave, indistintamente);304 la sottrazione delle vesti, che vengono bruciate
su un rogo, corrisponde, su un piano simbolico, alla loro acquisizione da parte di
Mèlissa, che si concretizza in uno scambio: la donna defunta ottiene le vesti (ed il
relativo “calore”), e fornisce a Periandro, durante una seconda consultazione,
l’informazione voluta.305 Vi è chi ha voluto vedere nel valore simbolico del rogo
delle vesti l’equivalente delle offerte solitamente rivolte ai defunti sulle loro tombe,
con particolare riferimento alle non poche testimonianze provenienti dal teatro greco,
come ad esempio nel caso dei Persiani, discusso nei precedenti capitoli: in altre
parole, «L’offrande de nourriture est seulement remplacée par une offrande de
vêtements».306
Un altro e forse più importante ordine di considerazioni si impone.
Apprendiamo dall’Iliade (VII 410) come il fuoco della pira sia per i morti “dolce
come il miele”; il confronto con un altro passo del poema è illuminante: «[…]
302
Pellizer 1993: 805.
303
Ma cfr. Ogden 2001: 57, secondo il quale, pur non essendo questo nelle intenzioni di Erodoto lo
scopo iniziale della consultazione di Periandro, «the act of placation she then requests in the burning
of the clothes constitutes the focus of his narrative».
304
Quasi l’attuazione, ci azzardiamo a proporre, di una forma aberrante ed “illecita” di isonomia o di
eunomia, il “buon governo” che la tirannide avrebbe dovuto, almeno nelle aspettative del dhªmoj,
stabilire: cfr. Stein-Hölkeskamp 1996: 679.
305
Pellizer 1993: 808.
306
Jouan 1981: 419. Cfr. quanto detto a proposito de I Persiani di Eschilo, paragrafo 6.2.
108
Erodoto capovolge con una buona dose di ironia il significato di un passo dell’Iliade
in cui Andromaca, venuta a sapere della morte di Ettore, giura di distruggere con il
fuoco i vestiti del marito, quei vestiti “che a lui non servono”, visto che Achille fa
scempio del suo corpo nudo, privato degli onori funebri», così come “non servono” a
Mèlissa, nel resoconto erodoteo. Oltre a farci intravedere «il rapporto sempre vivo
che, nel suo testo, lo storico intrattiene ad ogni istante con l’epopea omerica», il
parallelo ci suggerisce anche delle distinzioni: Andromaca desidera farlo per la
“gloria” di Ettore, Periandro dovrà farlo per «riscaldare il gelido corpo di una
morta».307 Ma non basta. La violenza perpetrata da Periandro sulle donne di Corinto
– perché è proprio questo episodio, e non il suo comportamento sessuale, che
Erodoto (attraverso la bocca di Socles) «qualifica senza mezzi termini come un
misfatto da tiranno»308 – è un tratto caratteristico nella costruzione di una figura
totalmente negativa, qui rappresentata da Periandro: «Quando non uccidono la
popolazione maschile della loro città […] si dice che i tiranni amino disarmarle: se
tra le armi e gli abiti femminili c’è un qualche rapporto, una sorta di equivalenza
strutturale, al punto che un uomo senza armi è detto ‘nudo’ (gymnòs), spogliando le
donne di Corinto Periandro ha, almeno simbolicamente, disarmato i loro mariti».309
Tra gli storici moderni, qualcuno ha inoltre inteso il “sacrificio” degli
ornamenti delle Corinzie alla luce delle politiche “tiranniche” – quella di Periandro
in particolare – caratterizzate da un divieto generalizzato del piacere, all’interno di
una più ampia lotta contro il lusso degli aristocratici nell’ottica delle aspirazioni
“popolari” ad una maggiore uguaglianza sociale;310 ma per quanto pertinente, in
riferimento a questo testo specifico l’osservazione non può che avere un valore
ipotetico.
Come in un continuo gioco di rimandi testuali, quasi un gioco di specchi, anche
l’“ombra” della donna gioca, per così dire, d’astuzia, utilizzando l’efficace
307
Loraux 1993: 9-10.
308
Loraux 1993: 14.
309
Loraux 1993: 14-15.
310
Loraux 1993: 12, facendo riferimento a Edouard Will, Korinthiaka. Recherches sur l’histoire et la
civilisation de Corinthe des origines aux guerres médique, Paris 1955 (in partic. pp. 441-571 sulla
tirannide dei Cipselidi).
109
espediente linguistico dell’“indovinello”, la frase misteriosa – tranne che per
Periandro, unico destinatario – tesa a dimostrare la veridicità delle proprie parole. Il
riferimento metaforico, attraverso l’intuitiva coppia di analogie semantiche “forno =
cavità = vulva femminile / pani = forma oblunga = membro maschile”, 311 all’atto
sessuale consumato dal tiranno sul corpo della moglie dopo che era già morta
(nekr%ª e)ou/s$ Meli/ss$ e)mi/gh, come spiega subito Erodoto) si presenta come
un messaggio in codice la cui chiave di decifrazione, che solo Periandro possiede, sta
in quell’aggettivo “freddo” (yuxro\n), che contraddice e ribalta l’altrimenti logica
analogia tra il “calore” del forno e quello dell’atto sessuale.312
Vi è chi non ha mancato di enfatizzare in Mèlissa il ruolo di vittima,
«ricettacolo inerte e passivo, in balìa delle pulsioni necrofile del tiranno»,313 e nel suo
linguaggio metaforico – molto diffuso anche al di fuori della Grecia antica – un
riferimento «all’inutile ‘deposito’ che il marito lascia nella moglie morta e che
ricorda il deposito ben più concreto del quale Melissa, morendo, ha portato con sé il
ricordo»;314 bisogna però tener presente – avverte Loraux – che questo “lamento
femminista”, per quanto possa apparire verosimile agli occhi dei lettori moderni, è
pur sempre una libera interpretazione di fatti antichi, anzi di un testo (oltretutto
breve) antico.
È degno di nota il fatto – che nell’economia di questo singolo racconto può
sembrare trascurabile – che l’“ombra” debba provare la veridicità delle proprie
parole, con un atteggiamento che già si è notato in alcune delle precedenti “scene” di
evocazione che pur si svolgono in contesti narrativi diversi: si ricordi la promessa
rivolta dall’“ombra” di Tiresia a Odysseus di riferire “parole veraci” (nhmerte/a
ei)/pw, Od. XI 96), una profezia veritiera, dunque, non ingannevole.315
311
Pellizer 1993: 807.
312
Pellizer 1993: 807.
313
Il riferimento è a Page duBois, Showing the Body. Psychoanalysis and Ancient Representations of
Woman, Chicago-London 1988, pp. 11-16 [trad. it.: Il corpo come metafora. Rappresentazioni della
donna nella Grecia antica, Laterza, Roma-Bari 1990], cit. in Loraux 1993: 8.
314
Loraux 1993: 8.
315
Cfr. paragrafo 4.2.
110
7.3 Assassino e Sapiente
Si possono azzardare a questo punto, se non delle vere e proprie conclusioni, alcune
osservazioni che ci sembrano interessanti per il nostro argomento, la percezione delle
rappresentazioni (letterarie) di rituali “necromantici” da parte di chi scriveva o
leggeva tali testi. Iniziamo dai personaggi.
Periandro. Le due principali caratteristiche che il racconto di Erodoto associa alla
sua figura sono l’avidità e la lussuria; entrambe hanno il presumibile scopo di
presentarci fin da subito il personaggio come negativo, intemperante, schiavo delle
passioni. La prima s’inserisce in quella ambivalente tradizione aneddotica cui si
accennava all’inizio del capitolo, che gli attribuisce tra l’altro, nelle vesti di
“Sapiente”, due massime che condannano l’eccessiva bramosia per il denaro,316 che
supponiamo fossero note ai fruitori dell’opera erodotea. In effetti, più che l’avidità in
senso stretto (in senso economico), a segnare questa controversa figura sembra essere
un eccesso di desiderio, una brama sproporzionata non solo nella gestione del potere,
ma anche negli affetti personali o nei sentimenti, oltre che negli atti – la “lussuria”,
ma anche l’assassinio della moglie: ma si segnala come il pensiero giuridico greco
abbia annoverato l’omicidio commesso in preda all’ira tra quelli involontari317 – che
sembra indicare una radicale difficoltà comunicativa a livello tanto verbale quanto
gestuale, come dimostra «l’uso che gli è proprio – diremmo volentieri: il consumo
che egli fa – di innumerevoli messaggeri, destinati a trasmettere le sue richieste, le
sue suppliche le sue domande […] l’invio incessante e quasi maniacale di uomini di
fiducia […]». Significativa, in questo senso, è anche la discordanza – nella quale si è
visto qualcosa di tragico – tra i continui messaggi che egli invia al figlio Licofrone,
rifugiato (auto-esiliato?) presso il nonno materno, e l’editto con il quale vieta a
chiunque di accogliere lo stesso Licofrone o anche solo di parlargli: «[…] Periandro
manda ovunque i suoi messaggeri, e, sulla base di ciò che essi riferiscono, si affretta,
316
Pellizer 1993: 801.
317
Loraux 1993: 18, citando il IX libro delle Leggi di Platone.
111
come Edipo nel’Edipo re, come Creonte nell’Antigone, in una parola come ogni
tiranno che si rispetti, a promulgare un editto (kèrygma) avente forza di legge. Ma
poi, proprio come Edipo, accade che, nella sua fretta di prendere decisioni, Periandro
dimentichi che quel kèrygma potrebbe ritorcersi contro di lui».318
La natura dell’“intemperanza sessuale”, anche alla luce di quanto appena detto,
è forse ancora più complessa, e ci spinge a fare un piccolo passo indietro. Lo stesso
Periandro infatti era stato oggetto di illecito desiderio da parte della madre Crateia
(Kra/teia, “nome parlante” che indica potenza, potere, autorità), la quale mediante
lo stratagemma della “stanza buia” si era unita a lui, ignaro dell’identità dell’amante:
solo la prodigiosa apparizione di un daimwni/on fa/sma poté impedirgli, una volta
scoperto l’inganno, di uccidere la madre. Quest’ultima s’impiccò; lui divenne pazzo,
ed incominciò ad uccidere i suoi concittadini.319 Qualunque significato (anche,
forzatamente, psicanalitico) si voglia attribuire all’episodio, che conta numerosi
paralleli,320 il tema di una sessualità deviata, distorta e quasi “ereditaria”
caratterizzante una genealogia “sbagliata”, sembra funzionale alla costruzione di un
personaggio del tutto negativo, figlio di Crateia, cioè di un potere distorto, a sua
volta rappresentante di un potere sbagliato, improduttivo, sterile (come può essere il
rapporto con un cadavere), tanto più illecito in quanto illegittimo. Ma si noterà come
l’etimologia svolga un ruolo di prima importanza nella storia, a giudicare dai nomi
“di potere” presenti nella genealogia di Periandro e Melissa trasmessaci da Diogene
Laerzio321: essi manifestano potere concreto, politico, ma «anche e soprattutto potere
simbolico, espresso nel nome di questa madre (Eristeneia, la Fortissima; e si ricordi
anche Crateia, la madre di Periandro), figlia e sorella di re, essi stessi provvisti di
318
Loraux 1993: 21.
319
Pellizer 1993: 801; Ogden 2001: 57.
320
Ogden 2001: 58 cita, «Oedipus Tyrannos a parte», il tiranno ateniese Ippia ed un altro corinzio,
Diocle, che abbandonò la città disgustato dalla passione incestuosa della madre, ma il tema dell’amore
incestuoso ci sembra molto più complesso ed articolato: si veda, a titolo d’esempio, Pellizer 1982: 5170 (“Aria del cacciatore incestuoso”).
321
Vite dei filosofi I, VII: «Periandro, figlio di Cipselo, originario di Corinto, discendente degli
Eraclidi, sposò Liside, che egli chiamò Melissa: era la figlia di Prole, tiranno di Epidauro, e di
Eristeneia, figlia di Aristocrate e sorella di Aristodemo, che dominavano tutta l’Arcadia».
112
nomi molto eloquenti, perché Aristocrate va inteso come ‘Potere del migliore’,
mentre Aristodemo evoca il popolo scelto».322
Si può ragionevolmente pensare che un unico filo congiunga la sua
spregiudicatezza nei confronti della moglie, dei suoi concittadini, e dei morti:
avanziamo l’ipotesi che a questo triplice sistema di valori corrisponda una “triade”
più profonda, i “veri” valori che, nelle parole di Socles, figurano calpestati da
Periandro e da ogni tirannide: rispettivamente, il rispetto degli affetti personali (sfera
privata), delle leggi e della po/lij (sfera pubblica), degli dèi e dell’oltretomba (dove
pubblico e privato s’incontrano ai fini del “buon governo” del rapporto tra umano e
divino).
7.4 L’ape, il miele, la morte
Mèlissa. Il suo vero nome, che non viene mai usato da Erodoto, è Liside (Lusi/dh).
L’affettuoso nomignolo usato da Periandro, Mèlissa (cioè “Ape”), rimanda ad una
possibile serie di considerazioni. Prima di tutto, Melissa, l’Ape, è l’unica donna
positiva, la donna migliore nella famosa carrelata di immagini femminili di
Semonide. Poi l’ape è di per sé un essere, un insetto “strano”.
Il mito conosce un’altra corinzia di nome Mèlissa, un’anziana donna legata al
culto di Demeter (Dhmh/thr) e che sarebbe stata anch’essa (come la moglie del
tiranno) miseramente uccisa; la dea avrebbe allora suscitato la nascita di api dal suo
corpo, in una sorta di «ghostly resurrection».323 Un suggestivo parallelo, relativo ad
una testa decapitata, è offerto dallo stesso Erodoto in un episodio riportato solo pochi
322
Loraux 1993: 26, che aggiunge: «Dovremmo trattare forse questa genealogia come fittizia o
fantasiosa? Non ne sarei così sicura: se la scelta di nomi simbolici e il gusto dell’etimologia sono fatti
squisitamente greci, tutto suggerisce che i tiranni, desiderosi di radicare la loro potenza nel discorso,
abbiano cercato un sostegno anche in nomi molto espressivi […]».
323
Servio ad Virg., Eneide I 430: «De corpore vero Melissae apes nasci fecit (sc. Ceres). Latine autem
Me/lissa apis dicitur», cfr. Ogden 2001: 56, e Bodson 1975: 30. Per uno studio approfondito sul
ruolo degli insetti nell’immaginario simbolico greco, si veda Bodson 1975: 9-43; sull’ape, in partic.,
pp. 20-43, dove tra l’altro è evidenziato il suo stretto rapporto con il culto di Demetra;
sull’associazione dell’ape con la Pizia di Delfi in Pindaro Pyth. IV 61, p. 37.
113
paragrafi più avanti rispetto al passo analizzato; riportiamo solo il passaggio
fondamentale (V 114):
«Mentre la testa [di Onesilo] era appesa ed era ormai vuota, uno sciame di api
(e)smo\j melisse/wn) vi penetrò e la riempì di favi. [2] A tale avvenimento,
poiché gli Amatusi interrogarono l’oracolo (e)xre/wnto) riguardo alla testa, fu
risposto loro di tirar giù la testa e di seppellirla e di offrir sacrifici a Onesilo
ogni anno come a un eroe, e che se avessero fatto questo le cose sarebbero loro
andate meglio»324
Le api, ritenute dotate di capacità profetiche,325 e spesso associate all’immagine dei
defunti che affollano l’Ade, appunto, come “sciami” d’api,326 sono dunque connesse
con la sfera della consultazione oracolare, necromantica in particolare.327 Ma c’è di
più. Apprendiamo che al prodotto delle api, il miele, sostanza particolarmente gradita
agli dèi,328 venivano attribuite grandi capacità curative e rigenerative, 329 ed era
pertanto usato dai Greci come conservante: lo testimonierebbero i casi dei re spartani
Agesipoli ed Agesilao, i cui corpi furono conservati nel miele o nella cera, e di
Arconide, la testa del quale Cleomene re di Sparta trattò allo stesso modo ed
“utilizzava” prima di ogni spedizione.330 Il miele ha un ruolo centrale anche nella
324
Trad. di A. Izzo D’Accinni.
325
Aristotele, Hist. anim. 627 b 10.
326
Come in Virgilio, Eneide VI 706-9, dove il contesto è proprio quello “necromantico” (in questo
caso il termine va inteso in senso lato) della kata/basij o discesa agli inferi di Enea guidato dalla
Sibilla Cumana.
Analoghe connessioni, ma con valenze diverse, presenta la cicala (te/ttic), che troviamo ad
esempio associata al nekuomanteion del Tainaron: Ogden 2001: 34-6 (cfr. paragrafo 3.3). Per la sua
ricca simbologia, Bodson 1975: 16-20.
327
328
Bodson 1975: 23.
329
Bodson 1975: 25: «Substance d’immortalité et de régénération, le miel favorise aussi l’initiation
des adeptes des mystères, il garantit le talent des poètes, il éclaire l’esprit des devins. Ses virtualités
sont inépuisable, autant que celles de l’abeille. L’une et l’autre se situent au cœur d’un réseau de
représentations symboliques et religieuses qui n’exclut aucun des différents aspects de l’existence».
330
Ogden 2001: 59 e 209, al quale si rinvia per le fonti. L’episodio di Cleomene è accostato
dall’Autore alla saga islandese di Odino e Mimir (Snorri, Heimskringla I 12-3), ma sappiamo che le
analogie con il materiale nord europeo non si limita ad un singolo episodio: citiamo, più per
l’autorevolezza della fonte che per desiderio di completezza – ben più ampia trattazione meriterebbe
l’argomento delle “teste profetiche” – un brano di Eliade 1995 (1951): 408: «È anche da Odino che
trae origine la necromanzia. Sul suo cavallo Sleipnir egli penetra nel Hel e ordina ad una profetessa
114
storia di Glaukos, figlio del re cretese Minosse, che dopo essere morto in una giara
ripiena di tale sostanza viene “rianimato” da Polyidos (nome eloquente che indica
ampie capacità di vista/visione) per mezzo di un’erba indicatagli da un serpente,
animale spesso associato ad un contesto oracolare.331
Per desiderio di completezza, va tuttavia segnalata l’opinione di chi pensa che
l’intervento di Mèlissa non implichi necessariamente un “potere profetico”332: forse
perché, pensiamo di capire, l’“ombra” della donna è sapiente non in quanto morta,
ma in quanto già da viva sapeva, cioè conosceva l’ubicazione del deposito.
Ad ogni modo, il tema della sapienza mantenuta dopo la morte – già di per sé
significativa – ci riporta ancora una volta alle “scene” descritte in precedenza:
nell’episodio della Nekyia, il personaggio di Tiresia, al quale è stato concesso di
conservare post mortem la propria sapienza/saggezza (paragrafo 4.2) e quello del re
Dario eschileo, sapiente “divino” (paragrafo 6.1) ne sono esempi eloquenti.
È difficile sottrarsi, alla luce di quanto detto, alla tentazione di vedere nella
relazione tra l’“ape” Mèlissa e la sua “performance” post mortem un semplice
rapporto di casualità: l’ascoltatore/lettore medio di Erodoto probabilmente associava
il nome di Mèlissa alle capacità oracolari e alla sfera dei morti, e doveva sembrargli
abbastanza ovvio che, per avere un responso, Periandro si rivolgesse ad un
nekuomantei/on, e nella fattispecie a quello della Tesprozia, che si trovava ai
morta da tempo di sorgere dalla tomba per rispondere alle sue domande (Baldrs Draumar vv. 4 sgg.).
[…] E si potrebbe anche citare la divinazione a mezzo della testa mummificata di Mimir (Völuspà 46,
Ynglinga Saga IV), che ricorda la divinazione mediante crani di antenati sciamani, praticata dagli
Yukaghiri».
331
Iginio, Fabula 136, cit. in Ogden 2001: 59; cfr. Apollodoro, Biblioteca III 3 e relative note di J.G.
Frazer (ediz. Adelphi, 1995, e A. Mondadori-Fond. Valla, 1996, cit. in bibliografia): Polyidos scoprì
l’ubicazione di Glaukos osservando un gufo che scacciava delle api; e sempre di Frazer, nella stessa
edizione, cfr. Appendice VII (“La resurrezione di Glauco”) che offre un repertorio di dati folkloristici
sul tema dell’erba magica che riporta in vita, spesso collegato con la figura del serpente. Sul rapporto
serpente/oracoli cfr. Bodson 1975: 68 sgg., in partic. 89-92: “Présence du serpent dans la mantique”;
interessante il legame con l’oracolo di Trofonio, dove i consultanti dovevano affrontare dai/monej
kai\ o)/feij kai\ a)/lla tina\ e(rpeta/, ed il nesso serpente/api/miele: «Indépendamment des
circonstances de la consultation, les abeilles et les serpents faisaient partie de sa légende: les Béotiens,
guidés par des abeilles, avaient découvert le lieu de son inhumation gardé par deux serpents auxquels
furent offerts les premiers gâteaux de miel». Si veda quanto detto, in questa stessa sede, sul “pitone”
di Delfi, paragrafo 5.3. Anche: M. Corsano, Glaukos. Miti greci di personaggi omonimi, Pisa, Ateneo,
1992.
332
Jouan 1981: 419, dove il parallelo è ancora una volta con i Persiani di Eschilo: «l’explication des
dêsastres passés est due à sa [di Dario] sagesse supérieure et à sa connaissance des oracles des dieux
(739-740). Ses prédications mêmes sont une extrapolation à partir des oracles déjà accomplis (800802)».
115
margini della sua ampia zona di influenza.333 Anche tenendo conto dell’interessante
parallelo istituito da Ogden con un passo di Giuseppe Flavio334 in cui si narra
dell’ossessivo amore di Erode il Grande per la moglie, che egli uccise in un accesso
di gelosia conservandone poi il corpo nel miele per sette anni, durante i quali
continuò a possederla, la conclusione cui giunge l’Autore – che la necrofilia di
Periandro si risolvesse in un identico trattamento335 – ci sembra di interesse
secondario. Non va infine trascurato il fatto che a quei medesimi fruitori dell’opera
erodotea (meglio, ad un greco colto di V sec.) la figura di Mèlissa, doveva ricordare
il famoso giambo di Semonide sui diversi “tipi” di donne, nel quale la “donna-ape”:
«… si distingue tra tutte le altre donne / e una divina grazia le si diffonde
intorno. / Non le piace sedere tra le amiche / quando fanno insieme
chiacchiere d’amore. / Donne di questo genere, sono le migliori / e le più
sagge che Zeus possa concedere / agli uomini; …»336
Sebbene non sfugga del tutto al biasimo dell’intera specie femminile, secondo «una
tradizione misogina fortemente caratterizzata da Esiodo»,337 l’ape rappresenta infatti
un modello femminile che si presta ad una gamma di interpretazioni positivamente
orientate, in quanto «l’ape è saggia e laboriosa, l’ape odia la dissolutezza, in una
parola l’ape è pura e, prendendola a modello, durante le Tesmoforie le donne si
proclamano caste e fedeli ai propri mariti. Se a ciò si aggiunge che le Mèlissai di
Demetra sono anche e soprattutto madri feconde di figli legittimi, si capirà fino a che
punto l’attribuzione del nome di Melissa suggerisca l’idealizzazione della donna che
lo porta».338
333
Ogden 2001: 55. Ma anche il “tempio di Era” forse non era estraneo a simili associazioni:
«l’Heràion di Peracora probabilmente, forse un santuario necromantico (ancora uno in questa storia)»:
Loraux 1993: 11.
334
Bell. Iud. I 436-44.
335
Ogden 2001: 59.
336
Trad. di E. Pellizer, in Pellizer/Tedeschi 1990: 110.
337
Loraux 1993: 30; Detienne 1971: 13 sgg.
338
Loraux 1993: 28-29. Cfr. Detienne 1971 per un’approfondita analisi della simbologia della “donnaape”, che rimanda anche sul piano rituale ad un preciso codice comportamentale, alimentare e
sessuale, che nel rifiuto della carne/caccia e in una condotta improntata alla swfrosu/nh e all’ai)dw/j
si inserisce in una serie oppositiva – «entre Déméter et Adonis, entre les céréales et les aromates, entre
116
7.5 Possibili interpretazioni
In ultima analisi, ci permettiamo di suggerire – consapevoli che si tratta di una mera
ipotesi di lavoro – che l’intero passo in questione sembra finalizzato ad enfatizzare la
scandalosa condotta del “cattivo tiranno” (di cui Periandro è solo una
rappresentazione) la cui gestione del potere, basata sulla perversione delle consuete
regole del vivere civile, costituisce l’“anti-modello” del “buon governo”
democratico.339 La “scena” della consultazione necromantica prima, poi lo scabroso
dettaglio del necrofilo congiungimento non sortiscono alcun effetto sui personaggi
del racconto, né su chi lo pronuncia (Socles)340: chi doveva sentirsi emotivamente
coinvolto era l’ascoltatore/lettore, cittadino libero della po/lij democratica che
associava, in un coerente ma capovolto sistema di valori, agire necromantico,
necrofilia ed abuso di potere identificandoli con la tracotanza tirannica. A maggior
ragione, poi, dal momento che la “vittima” era una certa Mèlissa, il cui nome una
lunga e condivisa tradizione – non solo poetica, e che trovava immediato riscontro a
livello simbolico nella prassi cultuale – associava all’idea di donna (rara, ma
possibile!) “pura” ed innocente: Periandro o, meglio, il tiranno calpesta anche la
“purezza”, non esitando, se necessario, a violare le donne ed i templi, i concittadini e
gli dèi.
Tutto ciò non esclude altre interpretazioni, e non offusca la suggestione del
passo erodoteo e di questa emblematica figura (a prescindere dalla sua importanza
storica) di tiranno: «Uomo enigmatico e signore degli enigmi, poiché vive egli stesso
le mariage et la séduction» (p. 15) – che regola lo statuto femminile. Di particolare importanza la
“delicata” posizione della nu/mfh, fanciulla non più ko/rh e non ancora mh/thr, “ape ambigua” che
solo evitando l’“eccesso” (alimentare, sessuale) – anche all’interno del regolare rapporto matrimoniale
– può divenire una “buona ape”/buona sposa. In quest’ottica si spiega anche il motivo di Orfeo ed
Euridice che, lungi dall’essere una storia di amore “tragico” o passionale (come nell’interpretazione
moderna e “romantica”), rappresenta «l’échec d’un couple incapable d’établir une relation conjugal à
bonne distance» (p. 18), cioè regolamentata e in qualche modo correttamente codificata.
339
Stein-Hölkeskamp 1996: 679.
340
Pellizer 1993: 810.
117
nella dimensione dell’ambiguità e della dissimulazione, oltre che in quella della
prevaricazione sessuale e della dismisura, sarà capace di commettere questa colpa su
una scala di dimensioni cittadine, e i suoi inganni lasceranno ignude e vergognose le
donne, libere e schiave, dell’intera Corinto».341 Proprio la sua natura contraddittoria,
la sua duplice fama di violento e di sapiente, lo accosta in parte a figure “tragiche” e
letterarie – Edipo, Creonte – anche nei modi in cui la sua figura viene tratteggiata,
che è quella propria al “narrare” dei Greci: infatti, «se nel corso di questa ricerca
l’epopea e la tragedia ci hanno offerto più di una volta elementi di confronto, è
perché Erodoto, come i suoi contemporanei, pensava su uno sfondo di forme e
schemi propri di questi generi letterari»,342 fatto sul quale è utile riflettere.
341
Pellizer 1993: 811.
342
Loraux 1993: 34.
118
8. Una malvagia sapiente. La “strega” Erictho
L’esempio più spettacolare di operazione necromantica, peraltro attuata tramite la
particolare tecnica di far risorgere il cadavere in cui far entrare, richiamandolo
indietro dagli abissi tartarei, lo “spirito” che si vuole interrogare, ci proviene dalla
letteratura latina, dal poema di Marco Anneo Lucano (39-65 d.C.) Pharsalia o
Bellum civile. Opera rimasto incompleta per la forzata morte dell’Autore, caduto in
disgrazia presso Nerone, i dieci libri del poema narrano in toni coloriti, non senza
ricchezza di scene macabre e raccapriccianti, lo scontro tra Cesare e Pompeo che
rappresentava allora un tema di viva e recente attualità. Per comprenderne meglio la
figura, e non per fini puramente compilativi, aggiungiamo che allo stesso Autore si
devono, tra gli altri, titoli come Catachthonion e Orpheus, «sulla discesa agli inferi, i
quali testimoniano gli interessi del Poeta per il mondo dell’oltretomba»,343 oltre ad
una Medea, anch’essa incompleta; il tema di quest’ultima – che trova il suo modello
diretto nella Medea di Euripide – era già stato trattato dall’omonima e più nota opera
dello zio Lucio Anneo Seneca (5 a.C. ca-65 d.C.), dal quale Lucano verosimilmente
derivò il gusto per le descrizioni e le tematiche dal forte impatto emotivo.
8.1 Pericolosi precedenti
Ciò che più colpisce nella compiaciuta descrizione di questa indimenticabile figura
femminile – l’“efferata” Erictho (effera Erictho, v. 508) – è la sua caratterizzazione
completamente negativa, la sua riduzione irrevocabilmente peggiorativa che la
distanzia grandemente dalle “maghe” o sapienti mitiche e letterarie dell’immaginario
greco, rendendola in qualche modo una precorritrice (o la più nota tra esse) di
343
Lana 1987: 249-52.
119
quell’idea di donna malvagia, malefica, “diabolica”, che tanta parte (e tristi, tardive
conseguenze, sotto forma di processi e roghi) avrà a partire dall’età imperiale e nel
nascente e trionfante Cristianesimo, attraverso il Medioevo, fino all’età moderna.344
L’“efferatezza” dell’operatrice “magica”, potente e pericolosa, e la sua associazione
con una regione marginale – la Tessaglia, “luogo comune” dell’operare portentoso –
e con pratiche che non rifuggono l’omicidio e lo spargimento di sangue, non è
invenzione di Lucano né priva di precedenti.
8.1.1 Una potente straniera. L’herbaria Medea
Basta spostarci ad est della Grecia, passando dalla Tessaglia alla Colchide, un altro
luogo marginale, “estremo”, totalmente diverso dallo spazio civico e “civile” delle
po/leij greche, al quale miticamente si contrappone, eppure ben noto già dal tempo
delle colonizzazioni storiche e che «i Greci raccontano nel mito per indicare una
frontiera estrema in una mappa ideologica nella quale situare la “centralità” greca»,345
per trovare la potente Medea. Questa figura del mito, di un passato remoto ed
irripetibile, figlia di Aietes, figlio di Helios (il Sole), e nipote (o sorella) di Circe, è
una farmaki/j, termine che designa una manipolatrice di fa/rmaka, sostanze,
erbe, filtri, “pozioni magiche”, veleni o anche rimedi, medicamenti; la tentazione di
fare di lei una prima “maga” (se non addirittura una prototipica “strega”),346 per
quanto forte o comprensibile, trascura, oltre a non tener conto della complessità del
personaggio, anche tutta l’ambivalenza del termine fa/rmakon: basti pensare alle
“pozioni” di Circe che trasformano, creano ibridi umani, bestie pensanti, ma non
uccidono.347 La percezione moderna di questo personaggio ambivalente ed
“eccessivo” è fortemente condizionato dai due principali ritratti letterari che ci
344
Cfr. paragrafo 1.3.
345
Chirassi Colombo 2001: 344.
346
Non è raro tuttavia veder associati i due termini: «[…] pharmakís in greco significa infatti “strega”.
La parola phármakon designa il filtro magico, la pozione, e dunque qui la Nemica è qualcuno che
frequenta esplicitamente le pratiche della magia»: Bettini 1998: 92; ma si veda quanto detto al
paragrafo 2.2, n. 83.
120
raccontano le sue gesta, la Medea di Euripide e le Argonautiche di Apollonio Rodio,
ai quali si aggiungono varianti e digressioni che gettano uno sguardo diverso, più
“conciliante”, su questa straordinaria, cioè propriamente “fuori dall’ordinario”, figura
di donna. Il suo nome è legato alla ferocia degli omicidi che segnano, come una scia
di sangue, il suo viaggio da “oriente” a “occidente”, durante la sua fuga con Iason,
l’eroe del Vello, che lei stessa aveva aiutato a recuperare grazie all’unguento tratto
dall’erba prometheion, nata dal sangue di Prometeo348: a partire dall’uccisione
“rituale” del fratello Apsyrto, quasi una “messa a morte” sacrificale che rimanda ad
un modello negativo, sbagliato, di sacrificio – quello umano – che la cultura greca
rifiuta (o rimuove);349 ad esso seguirà lo sparagmo/j, lo smembramento del
cadavere di Pelias e la sua “bollitura”, compiuti da lei o, secondo la versione più
nota, dalle stesse figlie di Pelias, che lei convinse ad eseguire.350
Non ultimo per importanza, nella costruzione di questa figura problematica, è
l’episodio dell’uccisione dei propri figli, come nel testo euripideo (ma altre versioni
attribuiscono l’infanticidio ai cittadini di Corinto, aprendo un più complesso discorso
riconducibile ai rituali connessi con l’iniziazione puberale, relativi a questa polis),
ma ciò che preme sottolineare è che, a partire da un certo momento (V sec. a.C.),
347
Segnaliamo che la cultura greca, in modo molto significativo, e diversamente da quella romana
(con tutte le implicazioni relative), non sembra aver mai sviluppato una legislazione “anti-magica”:
troviamo, è vero, un esempio in un’iscrizione di V sec. a.C. da Teos che registra la pena di morte per
chi faccia uso di “fa/rmaka dhlhth/ria”, rimedi o veleni deleteri, dannosi, ma il provvedimento
sembra riguardare l’accusa di assassinio, ed aver poco a che fare con la “magia”: Chirassi Colombo
1994/95.
348
Così nei frammenti della perduta tragedia Kolchides di Sofocle, autore anche dei Rizotomoi
(“Tagliatori di radici”), che descrive la pericolosa raccolta dell’erba “magica” da parte di Medea; cfr.
Argon. III 845 sgg. Per Pindaro, IV Pitica, che accosta la figura di Medea a quella di una prophetis
che opera senza l’“ispirazione” di Apollo, l’unguento usato è l’olio di oliva, prodotto tipicamente
greco: Chirassi Colombo 2001: 353.
349
Si veda la precisa descrizione dell’omicidio compiuto da Iason (e del trattamento simbolico del
cadavere, il masxalismo/j) in Argon. IV 464 sgg., dove Iason è esplicitamente paragonato al
boutu/poj, l’abbattitore rituale di buoi: cfr. Chirassi Colombo 2001: 355-56. Per il sacrificio umano,
si veda il breve accenno qui sopra, paragrafo 2.1.1.
350
Così in Apollodoro, Biblioteca, I 27.
121
Medea rappresenta nella cultura greca «un oriente determinato da una serie di
abbinamenti significanti: il femminile, l’eros eccessivo, il sapere trasgressivo della
pharmakeia e quello incontrollabile della profezia, un potere-sapere molto
importante, esplicito nella Medea della IV Pitica di Pindaro».351 Medea, infatti, è una
“vittima” di Eros, l’amore passionale, prettamente “femminile”, quell’amore che la
cultura filosofica greca considera secondario, quando non inutile: un raffronto con
alcune figure femminili – come le sovrane orientali ricordate nell’anonimo Tractatus
de Mulieribus Claris in Bello – detentrici di un potere assoluto che amministrano con
fermezza tutta “maschile”, può farci intendere come il modello di femminilità
eccessiva, trasgressiva, “sbagliata”, rappresentato da Medea si contrapponga
diametralmente a quell’ideale “virile”, “politico” di uomo, ampiamente ricercato e
perseguito dall’immaginario simbolico greco, e al di fuori del quale si colloca il
diverso, l’altro, spesso sotto la definizione di “barbaro”.
8.1.2 Elena, divina sposa e assassina
Medea non è l’unica. Appartiene ad una serie (una stirpe, quasi) di farmaki/dej –
alcune delle quali, come Agamede, Polymede, Perimede, condividono con Medea un
nome «immediatamente significante» (mh/domai) che rinvia alle attività del
pensiero, alla capacità di riflessione, all’elaborazione mentale352 – manipolatrici,
esperte di rimedi/veleni, preparati “magici”, tutte rigorosamente femminili e
soprattutto operanti fuori dalla storia, nel tempo destorificato del mito, in una
simmetrica e non casuale opposizione ai “maghi”: depositari del sapere dei ma/goi
persiani – gli specialisti delle “cose divine” e pedagoghi reali, dei quali ci informa
351
Chirassi Colombo 2001: 347.
352
Chirassi Colombo 2001: 352.
122
Erodoto353 – i “maghi” sono personaggi decisamente “storici”, appartenenti al tempo
attuale, ed esclusivamente maschi, potenzialmente pericolosi ma, in quanto proiettati
nel presente, il loro agire è soggetto ad essere valutato, discusso, criticato. La azioni
di Medea, e delle altre figure inquietanti del mito a lei accostabili, sono date una
volta per tutte, hanno “fondato” un modo di essere, creato una tipologia (fatte salve
le peculiarità di ogni singolo caso) di donna sapiente, potente, “paurosamente”
pericolosa. Di Circe si è già detto (paragrafo 4.3), e si è visto come i suoi tratti più
“solari”, positivi, non la facciano sfigurare in questa lista di farmaki/dej (anzi,
Omero la definisce polufa/rmakoj, dai molti fa/rmaka).
Emblematico è piuttosto l’inserimento in tale “catalogo di herbariae” di una
figura che sembra includere due atteggiamenti all’apparenza opposti, inconciliabili,
riconducibili alla formula “sposa fedele/maga pericolosa”: parliamo di Elena,
l’eroina che non poca parte gioca nelle vicende dell’epos omerico, la «donna
seduttrice per la quale si sono mosse le immense forze che agiscono nell’Iliade». 354
Nell’Odissea (IV 120 sgg.), Elena interviene nel banchetto offerto dal marito
Menelao ai suoi ospiti, Telemaco e Pisistrato, prendendo la parola (è lei ad intuire
l’identità del figlio di Odysseus) e poi somministrando ai presenti un fa/rmakon
nhpenqe/j t' a)/xolo/n (v. 221), che fa cessare il dolore e la “bile”, cioè l’ira, il
rancore, con un effetto, per così dire, “calmante” sugli animi degli uomini prostrati
dai dolorosi ricordi e dal pianto: tale è il potere del “filtro”, da rendere insensibile
chiunque lo beva persino alla morte – anche la più violenta – dei più cari congiunti.
Omero non ne tace l’origine: la sostanza è stata donata ad Elena da Polýdamna
(“Colei che molti prostra”, nome loquace) in Egitto, terra che produce moltissimi
“farmaci”, molti dei quali “benigni”, molti “funesti” (v. 230). Si noterà ancora una
volta l’associazione di una figura mitica, femminile e sapiente, con una spazialità
I ma/goi sono descritti come un ge/noj (I 101), una stirpe appartenente ai Medi, ma da questi
tuttavia divisa, separata, contraddistinta da uno statuto etico e comportamentale diverso (o inverso):
sono interpreti di sogni (I 107-108; 120, dove si rivelano cattivi interpreti; 128), addetti alle funzioni
“religiose” (I 132: senza la presenza di un Mago non è lecito compiere sacrifici), si occupano dei riti
funebri (I 140), hanno potere sugli elementi (VII 191); inoltre è loro concesso uccidere qualsiasi
essere vivente, tranne il cane e l’uomo (I 140) e, all’occorrenza, sacrificano cavalli (VII 113).
353
354
Pellizer 1982 (a): 75.
123
marginale, “orientale”, ed uno statuto ambivalente. «Questo aspetto pericoloso
di Elena in veste di maga venefica viene generalmente sottovalutato»,355 e forse in
parte offuscato dalla sua natura “divina”: gli dèi infatti concederanno a Menelao una
sorta di “immortalità” grazie a lei (IV 561-69), in quanto figlia di Zeus (Dio\j
e)kgegauiªa, v. 184); ma è anche donna dai sentimenti umani (piange al ricordo di
Odysseus), nonostante alcune fonti (invero reticenti) le attribuiscano il ruolo attivo di
“aiutante” – come Medea – nell’atroce sparagmo/j e successivo masxalismo/j
operati da Menelao su Deìfobo.356
8.1.3 Italiche veneficae
La cultura latina non mancherà di riprendere ed elaborare tali figure, adattandole ai
propri interessi, finalità, necessità. La “maga”, l’operatrice di saperi orientati in senso
negativo, spesso in connessione con la sfera della “magia erotica” (che trova nel II
Idillio di Teocrito un preciso referente), è presente in molta poesia augustea, dalle
elegie di Properzio e Tibullo ai testi di Ovidio, Virgilio, Orazio.
È in quest’ultimo, in particolare, che notiamo però un decisivo “salto di
qualità” per il quale la semplice “incantatrice”, che si diletta con “filtri” e nodi
amorosi, si trasforma nella “venefica”, la maliarda che al consueto repertorio di
concetti stereotipati (la provenienza “tessalica” dei suoi saperi, il potere di “far
cadere la luna” dal cielo) aggiunge azioni ben definite e meno “letterarie”, atti
spregevoli che la collocano decisamente dalla parte dell’illecito, anticipando – o
contribuendo a formare – il “tipo” della strix, termine che designa un essere o
animale (quindi non umano) notturno e pericoloso, del quale la “strega” è
l’immediata derivazione: la venefica, esperta di “veleni”, sostanze, intrugli, con un
percorso che ha in questi testi non certo l’origine, ma un punto di riferimento
355
Pellizer 1982 (a): 76, per il quale Elena «riassume in sé Circe e Penelope, il pericolo e
l’appagamento, la sventura e la fortuna dell’uomo, che dipendono dal modo in cui egli affronta il
grande problema dell’alterità che la donna per lui rappresenta».
356
Pellizer 1982 (a): 76-77.
124
privilegiato (vista anche la notevole autorità ed influenza esercitate da questi Autori
nei secoli posteriori) diventa malefica, esperta nel nuocere per ottenere gli scopi
desiderati (cfr. paragrafo 1.3).
Rappresentativo, in questo senso, è il V Epodo oraziano, che rappresenta la
messa a morte di un fanciullo da parte dell’“obscena anus” (v. 98) Canidia e delle
sue aiutanti Sagana, Veia e Folia (“la riminese”), in pagine prive dell’ironia e
dell’arguta leggerezza riscontrabili altrove357: dal midollo e dal fegato inaridito,
ottenuti facendolo morire d’inedia (egli viene sepolto in terra, ad eccezione della
testa, impossibilitato a raggiungere i cibi postigli davanti) si ricaverà un “filtro
d’amore” (amoris poculum, v. 38) che farà ritornare un amante perduto; il fine, si
noti, è lo stesso dell’incantatrice di Teocrito, ma la modalità degli “incantesimi” e
soprattutto la natura delle esecutrici sono diverse, decisamente peggiori.358
Non basta, tuttavia, per rintracciare le possibili “antenate” di Erictho in terra
latina, cercare tra i ritratti di veneficae, di donne dal comportamento “eccessivo”, ma
pur sempre umane; è stato ad esempio notato359 come la descrizione di Erictho
presenti grande affinità con quella di Invidia presente nelle Metamorfosi ovidiane (II
760 sgg.): anch’essa presenta un aspetto pallido ed emaciato, vive in un luogo privo
di sole, si nutre di carne di vipera, lei stessa – come le vipere – ha la bocca e la lingua
intrise di veleno, con il quale infetta le persone; la quasi corrispondenza delle
espressioni usate,360 nonostante la diversità del contesto, induce a pensare che
357
Canidia è inoltre protagonista dell’Epodo III, dove il contesto è però ironico, e del XVII, dove la
descrizione della megera è meno impressionante, stemperata dall’atteggiamento di mesta
rassegnazione del Poeta, stanco delle sue “magie”; interessante, nell’Ep. XVII, la dichiarata capacità
di poter “animare immagini di cera” (movere cereas imagines, v. 76) e “risuscitare i morti” (excitare
mortuos, v. 79). La ricorrenza di Canidia in molti altri passi (Satire I 8, 24 e 48; II 1, 48; 8, 95) ha
fatto pensare ad un personaggio reale (Gratidia?), negativamente deformato dall’odio di Orazio: cfr. il
commento di Mario Ramous all’Ep. V nell’edizione Garzanti, 1988.
358
Sebbene Canidia non esiti a ricorrere all’infanticidio – pratica che diventerà quasi costante nelle
accuse “moderne” di stregoneria – si noterà che l’“incantatrice” (Farmakeu/tria) teocritea non è
del tutto innocua: dopo aver “legato” a sé l’amante con i filtri (fi/ltroij katadh/somai, v. 159), se
necessario userà i “veleni” (kaka\ fa/rmaka) ricevuti da uno “straniero assiro” ('Assuri/w...
cei/noio) che costringeranno l’amante a bussare alle porte di Ade ('Ai/dao pu/lan... a)raceiª);
un’esplicita minaccia di morte!
359
Baldini Moscadi 1976: 159.
360
In Invidia pallor in ore sedet, macies in corpore toto (775), essa si muove adoperta nubibus atris
(790); Erictho presenta ora profanae / foeda situ macies e Stygio pallore (515-17); esce dalle tombe
quando le stelle sono oscurate da nimbus et atrae nubes (518-19), etc.: cfr. Baldini Moscadi 1976:
159.
125
«Lucano, in questa descrizione della figura di Erichtho, abbia tenuto presente
l’Invidia ovidiana, anche se non si potrà parlare di vera e propria imitazione».361
Non abbiamo citato l’efficace rappresentazione della Sibilla Cumana di
Virgilio, colei che nel VI libro dell’Eneide guida Enea agli inferi, conducendolo in
una vera e propria kata/basij attraverso il regno di Ade. L’omissione non è
casuale: la Sibilla non si presenta come venefica, donna potente e pericolosa, ma è
una “profetessa”, una divinatrice che opera in preda al furor profetico, quando è
“invasata”, posseduta dal dio Apollo, rivelando i disegni divini a chi la consulta; non
è una “necromante” nel senso proprio del termine (ovvero nei possibili sensi che
finora abbiamo visto attribuiti al termine): non è un’evocatrice di “ombre” né tanto
meno rianima corpi, come fa Erictho, come forse già faceva Canidia (ammesso che
l’espressione excitare mortuos si riferisca alla “rianimazione” di cadaveri, piuttosto
che ad una generica “evocazione di morti”: l’ambiguità non sarà mai risolta del
tutto), e come farà l’egizio Zatchlas nelle Metamorfosi di Apuleio (II 27-30),
secondo una pratica che trova riscontro in quella sorta di “trattatistica” o
manualistica “tecnica” indirizzata agli “operatori del magico” che è rappresentata dai
Papiri Magici.362
Nel concludere questa breve ed incompleta galleria di “maghe” (sottolineando
ancora la cautela con la quale usiamo il termine), si osserva che «Lucano poteva
quindi attingere ad una vasta tradizione letteraria che gli forniva modelli o, per lo
meno, spunti per il suo apparato magico».363
361
Baldini Moscadi 1976: 160.
362
Paradigmatico in questo senso PGM (Papyri Graecae Magicae) XIII, il cosiddetto Ottavo Libro di
Mosè, 261-65 (ed. Preisendanz-Henrichs, Stuttgart 1973-74), che prescrive il rito necessario al
“risveglio di un cadavere” ( ÃEgersij sw/matoj nekrouª).
363
Baldini Moscadi 1976: 145.
126
8.2 Mode e modelli in Lucano
L’ambiente culturale in cui Lucano (e come lui Seneca) visse ed operò – che è quello
della corte neroniana – è efficacemente tratteggiato nel già citato articolo dedicato
all’“episodio magico” della Pharsalia, in apertura al quale è illustrato il «clima
religioso» dell’epoca, che si presenta come diretta conseguenza del rifiorire, nel I
sec. a.C., «dell’interesse per la magia e l’astrologia dovuto ai neo-pitagorici
dell’“entourage” di Nigidio Figulo, ai quali si dovrebbe fra l’altro, secondo
l’opinione comune, l’introduzione a Roma della negromanzia».364
Nigidio Figulo era un augure “privato”, autore di trattati sugli dèi,
sull’aruspicina, sull’interpretazione dei sogni, etc., e particolarmente versato
nell’astrologia (si ritiene avesse profetizzato la nascita di Augusto); amico di
Cicerone, e di tendenze repubblicane, fu esiliato nel 46 a.C. per la posizione filopompeiana tenuta durante la Guerra Civile.365 Non fa troppa meraviglia che Lucano
abbia scelto proprio questo personaggio reale, della storia recente, che aveva avuto
una certa influenza (anche in senso politico) sulla cultura del tempo, per farlo
portavoce delle proprie istanze anti-cesariane; le parole a lui attribuite all’inizio della
Pharsalia (I 639-72), nel lungo passo dedicato alla triplice profezia – dell’haruspex
etrusco Arruns, dello stesso Figulo e della matrona “invasata” da Apollo – sono
esplicitamente eloquenti: solo durante la Guerra Civile Roma sarà libera, la pace
verrà con un tiranno (cum domino pax ista venit, v. 670), con un preciso (e
coraggioso?) riferimento ad Augusto.366
L’atteggiamento ideologico di Lucano espresso attraverso le sentenze di
Nigidio Figulo, lungi dall’essere una “posa” letteraria, non è senza conseguenze per
la comprensione dell’intera opera, e trova una corrispondenza non casuale
nell’ultima e più eclatante profezia, quella del cadavere rianimato da Erictho (VI
777-820): un testo curiosamente “reticente”, nel quale il messaggio del soldato
morto, pur vantando la propria “sapienza” (… e cunctis mihi noscere contigit umbris,
364
Baldini Moscadi 1976: 141.
365
Dick 1963: 38-39.
366
Dick 1963: 39.
127
v. 779), tace più di quanto sia disposto a rivelare; avverte anzi: «Tu non chiedere il
tuo fato: te lo sveleranno le Parche, senza che parli io» (vv. 812-13).367
Il passo, che ha sollevato legittime perplessità,368 e che solo in apparenza
sembra riconducibile alla singolare “ignoranza profetica” che abbiamo rilevato
altrove (paragrafo 6.4; ma qui trattasi di reticenza, come appena visto: il morto sa,
ma tace), ha precise connotazioni proprio in senso ideologico, che suggeriscono a
Lucano scelte formali – più che i contenuti, il modo in cui egli li propone – che
hanno il compito di veicolare un diretto messaggio “politico” attraverso la
mediazione di elementi narrativi (stilistici, linguistici) cari ai lettori dell’epoca ed
inscrivibili nella prosperante “moda” letteraria vicina a tematiche “esoteriche”.369 Ciò
risulta più chiaramente dal confronto con quel modello imprescindibile di
costruzione epica in lingua latina che è l’Eneide, che Lucano utilizza non in senso
banalmente imitativo, ma sottoponendolo ad una sorta di “rovesciamento”,
facendone quasi un “anti-modello” di sapore polemico:
«L’atteggiamento lucaneo nei confronti della storia romana è diametralmente
opposto a quello di Virgilio: se il Mantovano prevedeva nella sua opera la
grandezza del popolo romano nel futuro, Lucano introduceva nella sua Farsalia
una concezione storica che contemplava con pessimismo la decadenza politica
del suo tempo. […] tutta la vicenda si presenta al poeta come la visione
grandiosa e terribile del crollo di una civiltà […]».370
367
Trad. di L. Canali (ed. Rizzoli, 1987).
368
Paoletti 1963: 19: «Una prima constatazione si impone e piuttosto clamorosa: dopo che per circa
400 versi abbiamo assistito ad una vera e propria fantasmagoria dell’orribile e del ripugnante in attesa
di sapere che cosa sarà predetto sulla sua sorte futura all’atterrito Sesto Pompeo, dopo che per ottenere
quella risposta si sono mobilitate tutte le risorse di un’arte che il poeta di continuo giudica con epiteti
infamanti, […] praticamente, non vien risposto nulla». L’Autore però spiega subito «la funzione di
primo piano» di questo episodio nella struttura dell’intero poema.
369
Si è congetturato che lo stesso nome di Erictho, di cui esiste un rapido accenno in Ovidio (Heroid.
XV 139), figurasse in qualche “dottrina esoterica” (da Carcopino, in “REL”, 1927, pp. 140-49): cfr.
Paoletti 1963: 15 n. 12: «Per parte mia non mi stupirei se Lucano ne avesse parlato anche
nell’Orpheus e nel Catachtonion, che gli vengono attribuiti dalla tradizione (a meno che non si tratti
della stessa opera, il cui titolo sarebbe stato sdoppiato)».
370
Paoletti 1963: 20, che aggiunge anche: «Si sa che Lucano è l’anti-Virgilio, così come Seneca è
l’anti-Cicerone […]».
128
Anche senza scomodare le posizioni filosofiche o le intenzioni concettuali dei due
rispettivi poeti, la sola contrapposizione tra il “pessimismo” di Lucano e
l’“ottimismo” di Virgilio – e la sua «concezione stoico-pitagorica della
provvidenzialità della storia» in cui si colloca il programma della Pax Augusta371 –
basterebbe forse a spiegare o quanto meglio a chiarire in parte l’“efferatezza” di
Erictho, che la differenzia di molto dalla Sibilla virgiliana, e di cui è quasi una
caricatura in negativo: mentre quest’ultima parla per ispirazione divina, apollinea, e
si rivolge all’eroe troiano conducendolo alla scoperta dei luminosi destini di Roma,
Erictho scomoda le potenze infere con pratiche infami, accoglie la richiesta di un
uomo empio, Sesto Pompeo, che trascura “i tripodi di Delo e gli antri della Pizia” (VI
425) in favore di illeciti saperi esclusi agli stessi dèi (VI 434), per rivelargli –
attraverso il “mesto cadavere” (VI 776) – la rovina di Roma.
Proprio nel ritratto di Erictho, che a questo punto potremmo quasi definire
“anti-Sibilla”, e nel suo rapporto con il consultante (un anti-Enea?),372 l’“inversione”
si completa e si giustifica: «come alla virtus si sostituisce il crimen, così alla pietas
che sovrintendeva ai rapporti con gli dèi si sostituisce l’impietas delle pratiche
magiche»;373 la consultazione necromantica di Sesto Pompeo assume allora un valore
di contro-consultazione rispetto a quella di Enea, lecita in quanto la risposta proviene
direttamente dal dio (e si è vista l’importanza della mantica ispirata, apollinea –
delfica in particolare – nella costruzione dei modelli divinatori nel mondo antico,
paragrafo 2.1.2):
«Lucano ha ben compreso la tecnica virgiliana di esaltare la gloria e la potenza
di Roma per mezzo di profezie post eventum (Giove a Venere nel I libro, scudo
di Enea nell’VIII) e per mezzo della kata/basij ei)j
ÀAidou di Enea (VI
libro) e la riprende, rinnovandola, per ottenerne gli effetti contrari […]. Una
kata/basij vera e propria non poteva però non essere clamorosamente
371
Paoletti 1963: 22, ripreso da Baldini Moscadi 1976: 191.
372
Paoletti 1963: 14 segnala come Pompeo e i suoi discendenti fossero “tradizionalmente” associati a
“pratiche magiche” (Druso Libone, in particolare, fu processato sotto Tiberio), anche se, avverte
l’Autore della nota, almeno in alcune fonti (Paolo Orosio ed uno scoliasta) la notizia potrebbe
costituire «uno sviluppo autoschediastico derivato proprio dall’episodio lucaneo».
373
Baldini Moscadi 1976: 192; si veda anche, con un approccio più specificatamente filologico ma
con analoghe conclusioni, le due brevi pagine di Timpanaro 1967.
129
contraddittoria con la sua posizione ontologica: ha preferito darcene pertanto
una, per così dire, alla rovescia, mediante la tecnica della nekuomanteiªa, che,
pur non essendo neppure essa coerente con lo stoicismo, tuttavia rispondeva alle
credenze ed ai gusti dell’età neroniana, anche perché pratiche magiche erano di
moda fra i discendenti di Pompeo, in funzione anticesarea, sovversiva […]»374
Le derivazioni e le influenze – che abbiamo denominato “modelli” con una certa
approssimazione – non sono da considerarsi limitati alla sfera prettamente letteraria.
Si è accennato al clima apertamente favorevole alla “magia” nell’ambito della corte
neroniana; è sufficiente accennare appena all’interesse personale dello stesso
Imperatore e delle persone a lui vicine per le “arti magiche”, che dovette culminare
in veri e propri “esperimenti” necromantici.375 Un passo molto discusso
dell’“invocazione” di Erictho (VI 744-49) allude ad una misteriosa divinità,
potentissima ed anonima, sull’identità della quale sono fiorite le più diverse
congetture:
«[…] Paretis, an ille / conpellandus erit, quo numquam terra vocato / non
concussa tremit, qui Gorgona cernit apertam / verberibusque suis trepidam
castigat Erinyn, / indespecta tenet vobis qui Tartara, cuius / vos estis superi,
Stygias qui peierat undas?»
«Obbedite. O dovrò chiamare colui che sempre, invocato, / scuote e sconvolge
la terra e fissa apertamente la Gorgone / e castiga a colpi di frusta l’Erinni
374
Paoletti 1963: 25. Può essere interessante notare come il tema della catàbasi verrà ripreso e
rielaborato in chiave squisitamente allegorica in ambito medioevale: a parte l’ovvio parallelo con la
Commedia dantesca, si può citare il Commentum di Bernardo Silvestre (ca. 1100-1160) al VI libro
virgiliano, in cui la discesa all’inferno, che rappresenta il mondo sensibile, da parte di Enea (lo
“spirito”, figlio del “Creatore” Anchise) porta alla conquista della comprensione filosofica; la
spiegazione dell’intero episodio «rivela come l’esperienza del mondo sotterraneo sia un avvicinarsi al
dio attraverso realtà fisiche ed emotive, una gnosi compiuta con l’aiuto della Sibilla (scibile, id est
divinum consilium), e il ramo d’oro (philosophia), i triviae lucos (trivium) e gli aurea tecta
(quadrivium)». Il tentativo di fare di Enea il novus homo dell’umanesimo del XII secolo, per quanto
eccessivo possa apparire ai moderni, non è stato privo di conseguenze sui più noti commentatori di
Dante, come Boccaccio, se non addirittura su Dante stesso: Dronke 1984.
375
Baldini Moscadi 1976: 142, che cita Suet., Nero, 34, 36, 56, e Plinio, Nat. Hist. XXX 5-6, dove è
ricordato Tiridates e le “cene magiche” (qualunque cosa fossero) con le quali il “mago” cercò (senza
successo, specifica Plinio non senza sarcasmo) di “iniziare” Nerone alla magia.
130
atterrita, / colui che abita il Tartaro, in regioni a voi invisibili, / di cui siete gli
dèi, e spergiura sulle onde stigie?»376
Oltre che al pessimus mundi arbiter, Plutone, nominato pochi versi prima, alcuni
hanno pensato al Demogorgon, la «mistica divinità degli Orfici», altri hanno
preferito identificarlo con il persiano Ahriman, o ancora con Hermes Trismegistos,
assimilabile al dio egizio Thoth.377 Un confronto con alcuni passaggi di analogo
tenore presenti nei Papiri Magici induce però ad avvicinare tale divinità «piuttosto al
Dio supremo invocato nei papiri, divinità che non è mai assimilata a Hermes
Trismegistos, ma, caso mai, al dio degli Ebrei»,378 il cui “nome segreto” – Yahweh –
è così spesso presente in tali testi sotto le forme di Iao, Adonai, Sabaoth et similia. La
natura di questo dio, che lo stesso Lucano definiva incertus,379 non era sconosciuta
alla Roma neroniana, anzi «la fama di maghi che gli ebrei avevano fin dall’antichità,
avrà certamente aumentato la curiosità riguardo al loro dio da parte di quanti, come
Lucano, si interessavano di magia».380
Pur senza accogliere apertamente una tesi da altri definita “priva di
consistenza”,381 vi è chi non ha potuto fare a meno di notare come il passo lucaneo
presenti una “serie di analogie” con l’episodio di En-dor: il contesto della guerra
civile, l’imminenza della battaglia, il rifiuto di consultare gli oracoli “ufficiali” (Sesto
Pompeo) o la loro “inefficienza” (Saul), l’ambientazione notturna, e così via. Il
raffronto richiede prudenza, anche se, sottolinea l’Autrice in questione, «non è da
escludere che Lucano potesse conoscere, direttamente o indirettamente, la Bibbia o,
almeno, alcuni episodi del libro sacro», dal momento che l’ambiente in cui visse
guardava con favore agli Ebrei, come testimonierebbe anche una notizia di Giuseppe
376
Trad. di L. Canali (ed. Rizzoli, 1987).
377
Cfr. Baldini Moscadi 1976: 181-82, per gli autori delle congetture e relativi testi.
378
Baldini Moscadi 1976: 182.
379
Phars. II 593: «… dedita sacris /incerti Iudaea dei…» (“… i Giudei dediti al culto d’un dio
vago...”).
380
Baldini Moscadi 1976: 183-84.
381
Paoletti 1963: 15: il riferimento è all’ipotesi di A. Arredondo, “Un episodio de magia negra en
Lucano”, in “Helmantica”, XI, 1951 (ma Baldini Moscadi: “Helmantica”, III, 1952), il quale,
riprendendo l’idea di un umanista del XVI sec., il cardinale don Francisco de Mendoza (ma dati
ancora diversi in Baldini Moscadi), propone un influsso della scena biblica della “pitonessa” di En-dor
su Lucano.
131
Flavio (XX 195, sull’accoglienza positiva riservata da Nerone alle richieste di una
legazione ebraica a Roma).382
Volendo spingersi un po’ più in là, si può anche giungere a immaginare che
«Lucano, interessato come era alla magia, avesse avuto modo di parlare di tale
argomento con elementi della comunità ebraica di Roma nell’ambito della corte di
Nerone, curioso anch’esso di esperienze magiche, e si fosse documentato in seguito
sugli episodi magici della Bibbia, quel libro definito per altro da Giovenale arcanum
volumen».383
Ferma restando la liceità di tali ipotesi, nel riportarne le conclusioni ricordiamo
come la loro eventuale fondatezza, che andrebbe verificata non senza interesse, vada
tenuta distinta dalla suggestione della materia.
8.3 Eritòn cruda e altre triste
Con il ritratto di Erictho e la descrizione delle sue “efferatezze”, la figura letteraria
della “maga” è completo. Altre rappresentazioni di “sedute” necromantiche
seguiranno, ma pur nella loro vivacità poco aggiungeranno in termini di “effetto”
all’episodio lucaneo. Il consueto e diretto confronto con il romanzo di Eliodoro
(seconda metà del IV sec. d.C.?), Etiopiche, può farci intendere come i motivi
associati a questa forma estrema di divinazione – e alla sua variante più “eccessiva”,
la rianimazione dei corpi – siano ormai stereotipati e ripetitivi, quasi ridondanti, con
l’uso per accumulazione di mezzi ed oggetti la cui funzione originaria (ammesso che
ve ne fosse una, chiara ed univoca) si è via via degradata al valore di puro repertorio:
la fossa, le libagioni di miele, latte e vino, l’uso di parole “barbare” (barba/roij te
kai\ ceni/zousi), e ancora il “disturbo” del morto richiamato e la sua “sapienza”
profetica, fanno del VI libro delle Etiopiche (che si propone forse come un voluto
richiamo al VI dell’Eneide e al VI della Pharsalia) una rielaborazione
382
Baldini Moscadi 1976: 188.
383
Baldini Moscadi 1976: 189.
132
narrativamente efficace ma poco originale che nella lontana e illustre ascendenza
(l’Odissea, i grandi tragici) trova forse la più credibile giustificazione.
L’analisi di altri testi ad esso accostabili, anche precedenti – la Tebaide di
Stazio (ca. 40/50-96 d.C.), ricca di situazioni raccapriccianti e compiaciute discese
infere, le Metamorfosi di Apuleio (n. ca. 125 d.C.) e le sue tessaliche “streghe” –
condurrebbe a risultati analoghi, per quanto interessanti, che rischierebbero di
renderci ripetitivi, poco aggiungendo a quanto si è detto.
133
9. Conclusioni
Il concetto di “necromanzia”, che al di fuori di uno studio storico, accademicamente
condotto (pur limitato come il nostro), può suscitare una certa diffidenza motivata
dalla consueta associazione – che trova ampio riscontro nel cosiddetto “immaginario
collettivo” – con la sfera della trasgressione comportamentale in ambito “religioso”,
del moralmente “illecito”, qualora sia sottoposto ad una più ravvicinata analisi rivela
la propria natura di pratica “speciale”, spesso vista e trattata con sospetto, ma ben
integrata all’interno dei sistemi culturali che riconoscono la sua “praticabilità”, intesa
come possibilità effettiva di manipolare (ricevere, utilizzare) saperi e conoscenze
derivanti dal mondo dei morti.
Nel tentativo di tracciare (capitolo 1) una storia necessariamente incompleta
del termine (dei termini: ma qui consideriamo la sua forma principale, relegando per
comodità le altre nel campo delle varianti concettuali), si è cercato di inquadrare il
fenomeno nei vari contesti, entro i limiti di nostra pertinenza (il Mediterraneo
antico), nei quali esso si presenta con maggiore evidenza, con il dichiarato obiettivo
di collocarlo nell’ambito della “divinazione” cui appartiene (cap. 2): astraendo infatti
dalle singole forme che può aver assunto nelle diverse circostanze storiche, la
necromanzia è innanzitutto una forma di mantica. In questa prospettiva, abbiamo
cercato di dimostrare o almeno di suggerire come la pratica necromantica, se da un
lato ha mantenuto inalterato nel tempo il suo statuto di “rituale” – inteso come messa
in atto di pratiche soggiacenti e funzionali ad un sistema coerente e
convenzionalmente accettato di credenze e concetti in una determinata cultura o
società – prettamente o prevalentemente divinatorio, teso cioè all’esplorazione del
futuro del singolo individuo o dell’intera comunità ed alla ricerca di mezzi atti a
prevenirlo se non a modificarlo, dall’altro ha subìto una continua trasformazione –
diremmo forse meglio rielaborazione – delle caratteristiche formali e ideologiche
che la rendono immediatamente riconoscibile (e isolabile da altre forme divinatorie)
nei diversi contesti culturali.
134
La cultura greca, dalla quale abbiamo preso le mosse, sembra aver in qualche
modo organizzato la variegata tipologia di prassi necromantiche in una griglia
relativamente precisa non solo in senso linguistico e concettuale, ma anche
geografico (cap. 3), oltre ad aver prodotto un modello letterario imprescindibile di un
certo tipo di azione, destinato ad avere lunga eco nella cultura occidentale (cap. 4). Si
è quindi passati al mondo ebraico (cap. 5), dove l’unico, problematico testo di
riferimento ci ha fornito l’occasione per tracciare, con le dovute precauzioni,
possibili similitudini e differenze nella ricezione ideologica di tale prassi tra un
ambiente politeistico (greco) ed uno rigidamente monoteista come quello ebraico,
dove la necromanzia si situa in uno statuto fortemente marginale, moralmente e
socialmente squalificante, presentandosi come una risorsa estrema, gravemente
illegale, e quindi illecita, nel ricorso al sapere “altro”, divino, del quale unico ed
inalienabile destinatore è Yahweh; attorno al messaggio divino, costantemente teso a
“fondare” la propria unicità, e accessibile solo attraverso pochi e controllati mezzi
conoscitivi e con il concorso dell’istituto profetico, si organizza la costruzione di un
potere unico, assoluto, rappresentato dalla monarchia, dove il re è prescelto da dio.
La marginalità non sembra invece caratterizzare l’esperienza greca, alla quale
ci siamo nuovamente rivolti (capp. 6, 7) per osservare, per contrasto, come il ricorso
alla “sapienza” dei defunti possa assolvere delle funzioni di segno decisamente
diverso, facendosi carico di istanze ideologiche, “politiche” (nel senso più ampio del
termine), che sfuggono del tutto ad una dicotomia tra lecito ed illecito, e si
inseriscono in un processo comunicativo volto ad organizzare il rapporto tra l’umano
e il “divino” sulla base di una più fluida strutturazione del reale; il ricorso alla
divinazione necromantica può essere periferico – geograficamente (il regno dei morti
confina con il paese dei sogni), culturalmente (a praticarla sono preferibilmente gli
altri, i “barbari”) – ma non comporta la caratterizzazione fortemente negativa che
ritroviamo in altri contesti, forse complice l’assenza di un potere centralizzato,
orientato in una direzione univoca: il fatto che l’unico “centro politico” sia proprio
un santuario oracolare, Delfi, può indurre a riflettere.
Nel decorso storicamente rintracciabile della necromanzia dal mondo greco (o
dall’elaborazione greca di motivi orientali) alla cultura romana, attraverso il
passaggio per l’ambiente ellenistico (egiziano, in particolare), contraddistinto da un
135
estremo, prolifico sincretismo culturale, per confluire poi, sulla base della tradizione
ebraica (biblica e talmudica), nel lungo processo di “demonizzazione” di matrice
giudaico-cristiana tutt’altro che conclusosi, notiamo come al mutare delle istanze e
delle esigenze ideologiche e concettuali (genericamente, culturali) sia di pari passo
avvenuta una graduale modificazione della ricezione dei modi e dei modelli
dell’agire necromantico che, riconoscendone da un lato l’intrinseca ambiguità
(termine che abbiamo usato più volte), ne ha sancito dall’altro l’apparente longevità e
persistenza – anche in termini di “immaginario”, ed anche se in forme molto diverse
da quelle originali – fino ai giorni nostri. È nella cultura romana, infatti,
essenzialmente augustea ed imperiale, che si delinea in modo più deciso il ritratto di
un’operatrice di saperi “pericolosi”, tipicamente femminile, che trova nel mito e nella
letteratura precedente abbondanti fonti d’ispirazione, e che si inserisce in una precisa
polemica “anti-magica” il cui carattere normativo, già consolidato dalla tradizione
(Leggi delle XII Tavole), assume in piena età imperiale valore nettamente repressivo;
in simile contesto, dove il ricorso agli strumenti divinatori è rigorosamente codificato
e regolato, la necromanzia assume una connotazione negativa in chiave – ancora, ma
in modo molto diverso – “politica”, mettendo in discussione il concetto stesso di
potere imperiale, assoluto, del quale è ritenuta essere una minaccia per le capacità,
che le vengono attribuite, di controllare o almeno conoscere la volontà divina, di cui
l’impero è espressione, l’imperatore essendo prescelto dagli dèi.
Potrebbe essere interessante proseguire questo percorso attraverso le
rappresentazioni della necromanzia in ambito cristiano, che condurrebbe, come ci
sembra di poter affermare dalle poche notizie raccolte, al suo “assorbimento” o
fusione nel più ampio ed omologante concetto di “magia nera” (con la complicità
dell’incomprensione etimologica), in cui il potere che può sentirsi da essa
minacciato, oltre a quello monarchico o imperiale, è ora quello ecclesiastico,
rappresentato in sommo grado dal Pontefice, prescelto da Dio.
Molte altre considerazioni, che non hanno trovato posto in queste pagine, sono
possibili: la loro omissione è dovuta ai limiti dell’estensore, non certo a quelli del
tema trattato, il cui studio può riempire più estesi ed autorevoli volumi.
136
BIBLIOGRAFIA:
Opere di consultazione generale:
•
Battaglia 1981: Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana,
Torino,
UTET,
1981,
vol.
XI,
pp.
300,
334-35,
s.v.
“necromantico/necromanzia”, “negromante/negromanzia” e voci correlate
•
Battisti/Alessio
1954:
Battisti
Carlo,
Alessio
Giovanni,
Dizionario
Etimologico Italiano, Firenze, G. Barbera Editore, 1954, vol. IV, s.v. “necro-”,
“negromante”, “negromanzia”
•
De Mauro/Mancini 2000: De Mauro Tullio, Mancini Marco, Dizionario
Etimologico, Milano, Garzanti, 2000, s.v. “negromante/-esco”, “negromantica/ico”, “negromanzia”
•
Prati 1951: Angelico Prati, Vocabolario Etimologico Italiano, Milano,
Garzanti, 1951, s.v. “negromante”
•
Enciclopedia Treccani 1950 (1932): Enciclopedia Italiana Treccani, Roma,
Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 1950 (1932),
s.v. “Divinazione”
•
Vocabolario Treccani 1989: Vocabolario della Lingua Italiana, Roma,
Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 1989, 4 voll.
(5 tomi), s.v. “Marrano”, “Morisco”, “Moro”
•
Mourre 1973 (1968): Michel Mourre, Dizionario Mondadori di Storia
Universale, Milano, Mondadori, 1973, 2 voll. (Éditions universitaires, 1968),
s.v. “Marrani”, “Moriscos”
•
Lana 1987: Italo Lana, Storia della civiltà letteraria di Roma e del mondo
romano, Firenze, D’Anna 1987, pp. 360-62
137
•
Rossi 2003: Luigi Enrico Rossi, Letteratura Greca, Firenze, Le Monnier,
2003, p. 753
•
Liddell-Scott 1983 (1843): A Greek-English Lexicon, edited by H.G. Liddell
& R. Scott, Oxford, Clarendon Press, (1843) 1983
•
Stephanus 1954: Henric Stephanus, Thesaurus Graecae Linguae, Graz,
Akademische Druck - U. Verlagsanstalt, 1954, vol. VI
•
Novum Glossarium Mediae Latinitatis ab Anno DCCC usque ad annum MCC,
Hafniae, Ejnar Munksgaard, 1959-69, vol. M-N, pp. 1165-66
•
Kleine Pauly 1949: Der Kleine Pauly, 1949, vol. IV, s.v. Mantik
(“Nekromantie”)
•
Kassel/Austin 1991: R. Kassel, C. Austin, PCG-POETAE COMICI GRAECI, W. De
Gruyter, Berolini et Novi Eboraci, 1991, vol. II (s.v. “Alexis”)
•
Septuaginta: Vetus Testamentum graece iuxta LXX interpretes edidit Alfred
Rahlfs, Stuttgart, Deutsche Bibelgesellschaft, (1935) 1979
•
Vulgata: Biblia Sacra iuxta vulgatam versionem preparavit Roger Gryson,
Stuttgart, Deutsche Bibelgesellschaft, (1969) 19944
•
Sainte Bible: La Sainte Bible, Texte Latin et Traduction française d’après les
Textes originaux, a cura di Louis Pirot e Albert Clamer, Paris, Letouzey et Ané
Éditeurs, 1955
•
Bibbia Gerusalemme: La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, Ed. Dehoniane,
ed. italiana diretta da F. Vattioni, 1998 (“editio princeps” 1971)
•
Dictionnaire de la Bible, Paris, Letouzey et Ané Éditeurs, 1912, s.v.
“Divination”, “Endor”, “Évocation des morts” (tome II), “Python” (tome V)
•
Supplément au Dictionnaire de la Bible, Paris, Letouzey et Ané Éditeurs,
1991, s.v. “Samuel (Livres de)” (fasc. 64 B-65)
•
Grande Lessico del Nuovo Testamento, Brescia, Paideia, 1977 (Stuttgart, W.
Kohlhammer Verlag, 1959 e 1964), s.v. “pu/qwn”, vol. XI
138
•
Encyclopaedia Judaica 1972: Encyclopaedia Judaica, Jerusalem, Keter
Publishing House, 1972, s.v. “Divination”, “Sorcery”
•
Enciclopedia delle Religioni 1970: Enciclopedia delle Religioni, a cura di
Alfonso M. di Nola (e altri), Firenze, Vallecchi, 1970, vol. II, s.v.
“Divinazione”
Studi:
•
Amandry 1950 : Pierre Amandry, La Mantique Apollinienne a Delphes. Essai
sur le fonctionnement de l’Oracle, Paris, E. De Boccard Éditeur, 1950
•
Augé 1979: Marc Augé, s.v. “Magia”, in Enciclopedia Einaudi, Torino, 1979,
vol. VIII, pp. 708-23
•
Augé 1981: Marc Augé, s.v. “Stregoneria”, in Enciclopedia Einaudi, Torino,
1981, vol. XIII, pp. 671-97
•
Baldini Moscadi 1976 : Loretta Baldini Moscati, “Osservazioni sull’episodio
magico del VI libro della «Farsaglia» di Lucano”, in Studi Italiani di Filologia
Classica, XLVIII, 1976, pp. 140-99
•
Bettini 1998: Maurizio Bettini, Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed
eroi, Torino, Einaudi, 1998
•
Bidez/Cumont 1973 (1938): Joseph Bidez, Franz Cumont, Les Mages
Hellénisés, Paris, Les Belles Lettres, (1938) 1973, 2 voll., in partic. pp. 180-88
(“La nécromancie”)
•
Bodson 1975: Liliale Bodson, IERA ZΩIA. Contribution à l’étude de la place
de l’animal dans la religion grecque ancienne, Bruxelles, Palais des
Académies, Académie Royale de Belgique, 1975
139
•
Bonnechere 2002: Pierre Bonnechere, “Mantique, transe et phénomènes
psychique à Lébadée: entre rationnel et irrationnel en Grèce et dans la pensée
moderne”, in “KERNOS. Revue international et pluridisciplinaire de la religion
greque antique”, n. 15/2002, -Liege, pp. 179-86
•
Bonnechere 2003: Pierre Bonnechere, Trophonios de Lébadée. Cultes et
mythes d’une cité béotienne au miroir de la mentalité antique, Leiden-Boston,
Brill, 2003
•
Bonomo 1985 (1959): Giuseppe Bonomo, Caccia alle streghe. La credenza
nelle streghe dal sec. XIII al XIX con particolare riferimento all’Italia,
Palermo, Palumbo, (1959) 1985
•
Bottéro 1982 (1974): Jean Bottéro, Sintomi, segni, scritture nell’antica
Mesopotamia, in J.-P. Vernant (a cura), Divinazione e razionalità. I
procedimenti mentali e gli influssi della scienza divinatoria, Torino, Einaudi,
1982 (Divination et Rationalité, Paris, Éditions du Seuil, 1974), pp. 73-214
•
Bouché-Leclercq 1963 (1879-1882), A. Bouché-Leclercq, Histoire de la
Divination dans l’Antiquité, Paris, Culture et Civilisation, (1879-1882) 1963, in
partic. vol. I, pp. 330-343 («Divination nécromantique»)
•
Bourguignon 1987: Erika Bourguignon, s.v. “Necromancy”, in The
Encyclopedia of Religion (editor in chief: Mircea Eliade), New York-London,
Macmillan Publishing, 1987, vol. 10, pp. 345-7
•
Breglia Pulci Doria 1987: Luisa Breglia Pulci Doria, s.v. “Libri Sibillini”, in
Enciclopedia Virgiliana, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1987,
vol. IV, pp. 828-31
•
Brelich 1966: Angelo Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Roma,
Edizioni dell’Ateneo, 1966
•
Brelich 2002 (1956-77): Angelo Brelich, Mitologia, Politeismo, Magia e altri
studi di storia delle religioni (1956-1977), Napoli, Liguori, 2002
140
•
Broadhead 1960: H.D. Broadhead, The Persae of Aeschylus (edizione
commentata), Cambridge University Press, 1960, pp. 302-9 (“Appendix III:
Necromancy”)
•
Bronzini 1988: Giovanni Battista Bronzini, s.v. “Negromanzia” in
Enciclopedia Virgiliana, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1988,
vol. IV, pp. 683-87
•
Caquot 1988 (1970-76): André Caquot, “La religione di Israele dalle origini
alla cattività babilonese”, in H.-Ch. Puech (a cura), L’ebraismo, Roma-Bari,
Laterza, 1988 (Histoire des Religions, vol. I e II, Paris, Librairie Gallimard,
1970-76)
•
Caro Baroja 1994 (1966): Julio Caro Baroja, Le streghe e il loro mondo,
Parma, Pratiche Editrice, 1994 (Las brujas y su mundo, 1966)
•
Castelli/Bosco 1994: Patrizia Castelli, Giovanna Bosco (a cura), Bibliotheca
Lamiarum. Documenti e immagini della stregoneria dal Medioevo all’Età
Moderna (catalogo della mostra: Pisa, Biblioteca Universitaria, 24 marzo-23
aprile 1994), Pisa, Pacini Editore, 1994
•
Cavalletti 1958: Sofia Cavalletti, “Di alcuni mezzi divinatori nel giudaismo”,
in “Studi e Materiali di Storia delle Religioni”, vol. XXIX, 1958, pp. 77-91
•
Chirassi Colombo 1994 (1983): Ileana Chirassi Colombo, La religione in
Grecia, Roma-Bari, Laterza, (1983) 1994
•
Chirassi Colombo 1985 (a): Ileana Chirassi Colombo, “Gli interventi mantici
in Omero”, in Soprannaturale e potere nel mondo antico e nelle società
tradizionali, Milano, Franco Angeli, 1985, pp. 141-64
•
Chirassi Colombo 1985 (b): Ileana Chirassi Colombo, s.v. “Flegetonte”, in
Enciclopedia Virgiliana, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1985,
vol. II, p. 539
•
Chirassi Colombo 1990: Ileana Chirassi Colombo, “La divinazione nell’antica
Grecia”, in Abstracta n. 50, 1990, pp. 46-53
141
•
Chirassi Colombo 1994/95: Ileana Chirassi Colombo, dispense per l’A.A.
1994/1995: Medea e i saperi illeciti. Excursus sul magico dal mondo antico al
pensiero occidentale (figure, linguaggi, statuti) (in fotocopia)
•
Chirassi Colombo 1996: Ileana Chirassi Colombo, “Pythia e Sibylla. I
problemi dell’atechnos mantiké in Plutarco”, in Plutarco e la religione, Atti del
VI Convegno Plutarcheo (Ravello, 29-31 maggio 1995), Napoli, M. D’Auria
Editore, 1996, pp. 429-47
•
Chirassi Colombo 1998 (1994): Ileana Chirassi Colombo, “I linguaggi
speciali degli dèi e la lingua di Dio”, in Le lingue speciali, Atti del Convegno
di Studi, Università di Macerata 17-19 ottobre 1994, Roma, Il Calamo, 1998,
pp. 83-103
•
Chirassi Colombo 2001: Ileana Chirassi Colombo, “La Grecia, l’Oriente e
Pasolini. Riflessioni su Medea”, in S. Ribichini, M. Rocchi, P. Xella (a cura),
La questione delle influenze vicino-orientali sulla religione greca, Atti del
Colloquio Internazionale (Roma, 20-22 maggio 1999), Roma, C.N.R., 2001
•
Chirassi Colombo 2001/02: Ileana Chirassi Colombo, dispense per l’A.A.
2001/2002: Il simbolico religioso tra identità e globalizzazione (in fotocopia)
•
Chirassi Colombo 2003/04: Ileana Chirassi Colombo, dispense per l’A.A.
2003/2004: Leggi divine – Diritti umani (in fotocopia)
•
Chirassi Colombo 2004: Ileana Chirassi Colombo, Figure d’acqua. Albunea,
Mefitis e la Sibilla Tiburtina, in M. Antico Gallina (a cura), Acque per
l’utilitas, per la salubritas, per l’amoenitas, Milano, Edizioni ET, 2004, pp.
299-316
•
Chirassi Colombo 2005: Ileana Chirassi Colombo, “Il lungo impegno: Angelo
Brelich e «Studi e Materiali di Storia delle Religioni»”, in M.G. Lancellotti e P.
Xella (a cura), Angelo Brelich e la Storia delle Religioni. Temi, problemi e
prospettive, Atti del Convegno di Roma, C.N.R., 3-4 dicembre 2002, Essedue
Edizioni, 2005
142
•
Christidis 1999: Anastasios-Ph. Christidis, (Dakaris S., Vokotopoulou I.),
“Magic in the oracular tablets from Dodona”, in The World of Ancient Magic.
Papers from the First International Samson Eitrem Seminar at the Norwegian
Institute at Athens, 4-8 May 1997, Bergen, 1999, pp. 67-72
•
Cohen 1981 (1935): A. Cohen, Il Talmud, Bari, Laterza, 1981 (rist. anast.
dell’ed. 1935)
•
Cohn 1980 (1970): Norman Cohn, Il mito di Satana e degli uomini al suo
servizio, in Mary Douglas (a cura), La stregoneria. Confessioni e accuse,
nell’analisi di storici e antropologi, Torino, Einaudi 1980 (Witchcraft.
Confessions and Accusations, Association of Social Anthropologists of the
Commonwealth, 1970)
•
Contenau 1947: G. Contenau, La Magie chez les Assyriens et les Babyloniens,
Paris, Payot, 1947, pp. 197-98 («La nécromancie»)
•
Crippa 1999 (1994): Sabina Crippa, “La voce e la visione”, in Sibille e
linguaggi oracolari. Mito Storia Tradizione, Atti del Convegno internazionale
di Studi, Università di Macerata, 20-24 settembre 1994, a cura di I. Chirassi
Colombo e T. Seppilli, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici
Internazionali, 1999
•
De Martino 1973 (1948): Ernesto De Martino, Il mondo magico, Torino,
Boringhieri, (1948) 1973
•
De Martino 1973 (1959): Ernesto De Martino, Sud e magia, Milano,
Feltrinelli, (1959) 1973
•
De Martino 1962: Ernesto De Martino, Magia e civiltà, Garzanti, 1962
•
De Martino 2002 (1962): Ernesto De Martino, “Il pianto di Francesca
Armento”, in Furore Simbolo Valore, Milano, Feltrinelli, 2002 (1962), pp.
133-141
•
Delcourt 1990 (1981): Marie Delcourt, L’oracolo di Delfi, ECIG, 1990
(L’Oracle du Delphes, Paris, Payot, 1981)
143
•
Détienne 1971: Marcel Détienne, “Orphée au miel”, in Quaderni Urbinati di
Cultura Classica, vol. 12, 1971, pp. 7-23
•
Détienne 1978: Marcel Détienne, s.v. “Démoni”, in Enciclopedia Einaudi,
Torino, 1978, vol. IV, pp. 559-71
•
Dick 1963: Bernard F. Dick, “The Technique of Prophecy in Lucan”, in
Transactions and Proceedings of the American Philological Association, vol.
XCIV, 1963, pp. 37-49
•
Dodds 1997 (1951): Eric R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, Scandicci
(Firenze), La Nuova Italia, 1997 (The Greeks and the Irrational, Berkeley and
Los Angeles, University of California Press, 1951)
•
Douglas 1975 (1966): Mary Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei
concetti di contaminazione e tabù, Bologna, Il Mulino, (1966) 1975 (Purity
and Danger. An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo, Harmondsworth,
Penguin Books, 1970)
•
Douglas 1980 (1970): Mary Douglas (a cura), La stregoneria. Confessioni e
accuse, nell’analisi di storici e antropologi, Torino, Einaudi 1980 (Witchcraft.
Confessions and Accusations, Association of Social Anthropologists of the
Commonwealth, 1970)
•
Dronke 1984: Peter Dronke, s.v. “Bernardo Silvestre”, in Enciclopedia
Virgiliana, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1984, vol. I, pp. 497500
•
Dubray 2003 (1911): C.A. Dubray, The Catholic Encyclopedia, (1911) 2003,
vol. X, s.v. “Necromancy” (sito internet: www.newadvent.org)
•
Dzielska 1998: Maria Dzielska, “Il «theios aner»”, in S. Settis (a cura), I
Greci. Storia Cultura Arte Società, vol. 2/III: Una storia greca.
Trasformazioni, Torino, Einaudi, 1998, pp. 1261-80
•
Eitrem 1991: Samson Eitrem, “Dreams and Divination in Magical Ritual”, in
Magika Hiera. Ancient Greek Magic and Religion, edited by C.A. Faraone, D.
Obbink, New York, Oxford University Press, 1991, pp. 175-187
144
•
Eliade 1995 (1951): Mircea Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi,
Roma, Mediterranee, 1995 (Le Chamanisme et les techniques archaiques de
l’Extase, Paris, Payot, 1951)
•
Evans-Pritchard 1976 (1937): E.E. Evans-Pritchard, Stregoneria, oracoli e
magia tra gli Azande, Milano, Franco Angeli, 1976 (Witchcraft, Oracles and
Magic among the Azande, London, Oxford Univ. Press, 1937)
•
Flores 1988: Enrico Flores, s.v. “Sibilla”, in Enciclopedia Virgiliana, Istituto
della Enciclopedia Italiana Treccani, 1988, vol. IV, pp. 825-27
•
Fontenrose 1980 (1959): Joseph Fontenrose, Python. A Study of Delphic Myth
and Its Origins, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, (1959)
1980
•
Frazer 1995 (1918-20): James G. Frazer, commento a: Apollodoro, Biblioteca,
Milano, Adelphi, 1995, a cura di G. Guidorizzi; e A. Mondadori-Fondazione
Valla, 1996, a cura di P. Scarpi, trad. di M.G. Ciani
•
Frontisi-Ducroux 2003: Françoise Frontisi-Ducroux, L’Homme-Cerf et la
Femme-Araignée. Figures grecques de la Métamorphose, Paris, Gallimard,
2003, in partic. pp. 61-93 (“Circé. Le Temps de la Métamorphose”)
•
Garosi 1976 (1974): Raffaella Garosi, “Indagine sulla formazione del concetto
di magia nella cultura romana”, in P. Xella (a cura), Magia. Studi di storia
delle religioni in memoria di R. Garosi, Roma, Bulzoni, 1976
•
Giannantoni
1983:
Gabriele
Giannantoni
(a
cura),
I
Presocratici.
Testimonianze e frammenti, Roma-Bari, Laterza, 1983, 2 voll., s.v.
“Empedocle”
•
Gnoli/Vernant 1982: Gherardo Gnoli, Jean-Pierre Vernant, La mort, les morts
dans les sociétés anciennes, Cambridge University Press, 1982
•
Graf 1991: Fritz Graf, “Prayer in Magic and Religious Ritual”, in Magika
Hiera. Ancient Greek Magic and Religion, edited by C.A. Faraone, D. Obbink,
New York, Oxford University Press, 1991, pp. 188-197
145
•
Graf 1995 (1994): Fritz Graf, La magia nel mondo antico, Roma-Bari,
Laterza, 1995 (La magie dans l’antiquité gréco-romaine. Idéologie et pratique,
Paris, Société d’édition des Belles Lettres, 1994)
•
Graf 1999: Fritz Graf, “Magic and Divination”, in The World of Ancient
Magic. Papers from the First International Samson Eitrem Seminar at the
Norwegian Institute at Athens, 4-8 May 1997, Bergen, 1999 pp. 283-298
•
Grodzynski 1982 (1974): Denise Grodzynski, “Per bocca dell’imperatore
(Roma, IV secolo)”, in Vernant 1982 (1974): Jean-Pierre Vernant (a cura),
Divinazione e razionalità. I procedimenti mentali e gli influssi della scienza
divinatoria, Torino, Einaudi 1982 (Divination et Rationalité, Paris, Éditions du
Seuil, 1974)
•
Grottanelli 1987: Cristiano Grottanelli, “Messaggi dagli Inferi nella Bibbia
ebraica: la necromante di En-dor”, in Paolo Xella (a cura), Archeologia
dell’Inferno. L’Aldilà nel mondo antico vicino-orientale e classico, Verona,
Essedue Edizioni, 1987, pp. 191-207
•
Grottanelli 1988: Cristiano Grottanelli, “Aspetti del sacrificio nel mondo
greco e nella Bibbia ebraica”, in Cristiano Grottanelli e Nicola F. Parise (a
cura), Sacrificio e società nel mondo antico, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp.
123-62
•
Haldane 1972: Joan A. Haldane, “‘Barbaric Cries’ (Aesch. Pers. 633-639)”, in
The Classical Quarterly, Oxford, Clarendon Press, vol. XXII, 1972, pp. 42-50
•
Johnston 1999: Sarah Iles Johnston, “Songs for the ghosts: Magical solutions
to deadly problems”, in The World of Ancient Magic. Papers from the First
International Samson Eitrem Seminar at the Norwegian Institute at Athens, 4-8
May 1997, Bergen, 1999, pp. 83-102
•
Johnston 1999 (b): Sarah Iles Johnston, Restless Dead. Encounters Between
the Living and the Dead in Ancient Greece, Berkeley and Los Angeles,
University of California Press, 1999
146
•
Johnston 1999 (c): Sarah Iles Johnston, Panel Discussion: “Magic in the
Ancient World” by Fritz Graf, “NUMEN. International Review for the History of
Religions”, Leiden, Brill, n. 3, 1999 (vol. XLVI), pp. 291-325; interventi di
J.G. Gager, M. Himmelfarb, M. Meyer, B. Schmidt, D. Frankfurter, risposte di
F. Graf
•
Jouan 1981: François Jouan, “L’évocation des morts dans la tragédie
grecque”, in “Revue de l’Histoire des Religions”, n. 198, 1981, pp. 403-21
•
Kerényi 1991 (1944): Károly Kerényi, Figlie del Sole, Torino, Bollati
Boringhieri, (1944) 1991, pp. 61-77 (La maga) e 79-96 (L’assassina)
•
Laffineur 1991: Robert Laffineur, “À propos du sarcophage d’Aghia Triada:
un rituel de nécromancie à l’époque protohistorique?”, in “KERNOS. Revue
international et pluridisciplinaire de la religion greque antique”, n. 4/1991, 
-Liege, pp. 277-85
•
Lawson 1934: J.C. Lawson, “The Evocation of Darius (Aesch. Persae 60793)”, in The Classical Quarterly, Oxford, Clarendon Press, vol. XXVIII, 1934,
pp. 79-89
•
Levi-Strauss 1990 (1964): Claude Levi-Strauss, Antropologia strutturale,
Milano, Il Saggiatore, 1990 (Antropologie Structurale, Paris, Librairie Plon,
1964); in partic. pp. 210-30 (“L’efficacia simbolica”) e pp. 189-209 (“Lo
stregone e la sua magia”)
•
Lewis 1972: Ioan M. Lewis, Le religioni estatiche. Studio antropologico sulla
possessione spiritica e sullo sciamanismo, Roma, Ubaldini, 1972 (Ecstatic
Religion. An Anthropological Study of Spirit Possession and Shamanism,
Penguin Books, 1971)
•
Lewis 1987 (1976): Ioan M. Lewis, Prospettive di antropologia, Roma,
Bulzoni, 1987 (Social Anthropology in Perspective, 1976)
•
Loraux 1990: Nicole Loraux, “Che cos’è una dea?”, in J. Duby e M. Perrot (a
cura), Storia delle donne in Occidente, Roma-Bari, Laterza, 1990, vol. I
(L’Antichità, a cura di P. Schmitt Pantel), pp. 13-55
147
•
Loraux 1993: Nicole Loraux, Melissa, moglie e figlia di tiranni, in Nicole
Loraux (a cura), Grecia al femminile, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 3-37
•
Luck 1997: Georg Luck (a cura), Arcana mundi. Magia e occulto nel mondo
greco e romano, Fondazione Lorenzo Valla-A. Mondadori, 1997, 2 voll.; in
partic. vol. I (“Magia, miracoli, demonologia”)
•
Malinowski 1978 (1922): Bronislaw Malinowski, Argonauti del Pacifico
Occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, Roma,
Newton Compton, 1978 (Argonauts of the Western Pacific. An Account of
Native Enterprise and Adventure in the Archipelagoes of Melanesian New
Guinea, 1922)
•
Masala 1998/1999: Alessandra Masala, La figura della maga nel mito greco
(tesi di laurea), Università degli Studi di Trieste, A.A. 1998/1999 (Relatore: A.
Magris, Correlatore: E. Pellizer)
•
Mauss 1991 (1902-3): Marcel Mauss, Teoria generale della magia, Torino,
Einaudi, 1991 (Esquisse d’une théorie générale de la magie, 1902-3)
•
Meslin 2001: Michel Meslin, La divinazione, in F. Lenoir, Y. TardanMasquelier (a cura), La religione, Torino, UTET, 2001, vol. V, pp. 461-67 (ed.
it. a cura di P. Sacchi)
•
Meslin 2001: Michel Meslin, La magia, le sue leggi e il suo funzionamento, in
F. Lenoir, Y. Tardan-Masquelier (a cura), La religione, Torino, UTET, 2001,
vol. V, pp. 437-47 (ed. it. a cura di P. Sacchi)
•
Métraux 1971 (1958): Alfred Métraux, Il vodu haitiano. Una religione tra
leggenda sanguinaria e realtà etnologica, Torino, Einaudi, 1971 (Le Vaudou
haïtien, Paris, Gallimard, 1958)
•
Momigliano 1980 (1975): Arnaldo Momigliano, Saggezza straniera, Einaudi,
(1975) 1980
•
Nock 1928: A.D. Nock, Alexander of Abonuteichos, in The Classical
Quarterly, Oxford, Clarendon Press, vol. XXII, 1928, pp. 160-62
148
•
Ogden 2001: Daniel Ogden, Greek and Roman Necromancy, Princeton
University Press, 2001
•
Paoletti 1963: Lao Paoletti, “Lucano magico e Virgilio”, in “Atene e Roma”,
vol. VIII (nuova serie), 1963, pp. 11-26
•
Parke 1992: Herbert William Parke, Sibille, Genova, ECIG, 1992, (Sibyls and
Sibylline Prophecy in Classical Antiquity, London-New York, 1988)
•
Parker 1985 (1983): Robert Parker, Miasma. Pollution and Purification in
early Greek Religion, New York, Oxford Univeersity Press, 1983, rist. 1985
•
Pellizer 1982 (a): Ezio Pellizer, “La sposa funesta nei racconti di Ulisse”, in E.
Pellizer, Favole d’identità, favole di paura. Storie di caccia e altri racconti
della Grecia antica, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, s.d.
(ma 1982), pp. 72-81
•
Pellizer 1982 (b): Ezio Pellizer, “Il fodero e la spada. Metis amorosa e
ginecofobia nell’episodio omerico di Circe, Od. X 133 ss.”, in E. Pellizer,
Favole d’identità, favole di paura. Storie di caccia e altri racconti della
Grecia antica, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, s.d. (ma
1982), pp. 82-101 (già presente, con qualche differenza, in Quaderni Urbinati
di Cultura Classica, vol. 1 (nuova serie), 1979, pp. 67-82)
•
Pellizer 1993: Ezio Pellizer, “Periandro di Corinto e il forno freddo”, in
Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica.
Scritti in onore di Bruno Gentili, Roma, Gruppo Editoriale Internazionale,
1993, vol. II, pp. 801-811
•
Pellizer “Skheríe…”: Ezio Pellizer, “Skheríe, l’Isola che non c’è. Topologie
dell’immaginario”, inedito (in corso di stampa)
•
Pellizer/Tedeschi 1990: Ezio Pellizer, Gennaro Tedeschi, Semonides.
Testimonia et fragmenta [Introduzione, testimonianze, testo critico, traduzione
e commento], Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1990
•
Pirenne-Delforge 1993: Vinciane Pirenne-Delforge, L’Iynge dans le discours
mythique et les procédures magiques, in “KERNOS. Revue international et
149
pluridisciplinaire de la religion greque antique”, n. 6/1993, -Liege, pp.
277-289
•
Polacco 2003: Fabrizio Polacco, “Il fiume infernale”, in “ARCHEO”, n°
9/settembre 2003, pp. 66-73
•
Ritner 1995: Robert K. Ritner, “The Religious, Social, and Legal Parameters
of Traditional Egyptian Magic”, in Ancient Magic and Ritual Power, Edited by
Marvin Meyer and Paul Mirecki, Leiden-New York-Köln, Brill, 1995, pp. 4360
•
Ritner 2002: Robert K. Ritner, “Necromancy in Ancient Egypt”, in Magic and
Divination in the Ancient World, Edited by L. Ciraolo and J. Seidel,
Leiden/Boston/Köln, Brill/Styx, 2002, pp. 89-96
•
Rodhe 1970 (1890-94): Erwin Rodhe, Psiche. Culto delle anime e fede
nell’immortalità presso i Greci, 2 voll., Roma-Bari, Universale Laterza, 1970
(Psyche. Seelencult und Unterblichkeitsglaube der Griechen, Freiburg in
Brisgau, 1890-94), vol I, pp. 51-70
•
Rose 1913: H.J. Rose, “The Witch Scene in Lucan (Pharsalia, VI, 419 sqq.)”,
in Transactions and Proceedings of the American Philological Association,
vol. XLIV, 1913, pp. l-lii
•
Sabbatucci 1989: Dario Sabbatucci, Divinazione e cosmologia, Milano, Il
Saggiatore, 1989
•
Sabbatucci 1999 (1994): Dario Sabbatucci, “Divinazione sotto giudizio”, in
Sibille e linguaggi oracolari. Mito Storia Tradizione, Atti del Convegno
internazionale di Studi, Università di Macerata, 20-24 settembre 1994, a cura di
I. Chirassi Colombo e T. Seppilli, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici
Internazionali, 1999, pp. 39-41
•
Scarborough 1991: John Scarborough, “The Pharmacology of Sacred Plants,
Herbs, and Roots”, in Magika Hiera. Ancient Greek Magic and Religion,
edited by C.A. Faraone, D. Obbink, New York, Oxford University Press, 1991,
pp. 138-174
150
•
Scazzoso 1952: Piero Scazzoso, “Il rito regale dell’evocazione di Dario nei
‘Persiani’ di Eschilo”, in Dioniso. Bollettino dell’Istituto Nazionale del
Dramma Antico, vol. XV (nuova serie), 1952, pp. 287-295
•
Schmidt 1995: Brian B. Schmidt, “The ‘Witch’ of En-dor, 1 Samuel 28, and
Ancient Near Eastern Necromancy”, in Ancient Magic and Ritual Power,
Edited by Marvin Meyer and Paul Mirecki, Leiden-New York-Köln, Brill,
1995, pp. 111-29
•
Schwendner Gregg, “Under Homer’s Spell. Bilingualism, Oracular Magic,
and the Michigan Excavation at Dimê”, in Magic and Divination in the
Ancient World, Edited by L. Ciraolo and J. Seidel, Leiden/Boston/Köln,
Brill/Styx, 2002, pp. 107-118
•
Seidel 2002: Jonathan Seidel, “Necromantic Praxis in the Midrash on the
Seance at En Dor”, in Magic and Divination in the Ancient World, Edited by L.
Ciraolo and J. Seidel, Leiden/Boston/Köln, Brill/Styx, 2002, pp. 97-106
•
Sfameni Gasparro 1985: Giulia Sfameni Gasparro, Soteriology and Mystic
Aspects in the Cult of Cybele and Attis, Leiden, Brill, 1985
•
Smelik 1979: K.A.D. Smelik, “The Witch of Endor. I Samuel 28 in Rabbinic
and Christian Exegesis till 800 A.D.”, in Vigiliae Christianae, vol. XXXIII, n.
2, giugno 1979, pp. 160-79
•
Smith 1999 (1977): Morton Smith, Gesù mago, Roma, Gremese, 1999
•
Stefani 1997: Piero Stefani, Gli ebrei, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 90-98
•
Stein-Hölkeskamp 1996: Elke Stein-Hölkeskamp, “Tirannidi e ricerca
dell’«eunomia»”, in S. Settis (a cura), I Greci. Storia Cultura Arte Società, vol.
2/I: Una storia greca. Formazione, Torino, Einaudi, 1996, pp. 653-679
•
Tambiah 1993 (1990): Stanley Jeyaraja Tambiah, Magia Scienza Religione,
Napoli, Guida, 1993 (Magic, science, religion, and the scope of rationality,
Cambridge University Press, 1990)
151
•
Timpanaro 1967: Sebastiano Timpanaro, “Lucano VI 495”, in Maia. Rivista
di letterature classiche, vol. XIX, fasc. I (nuova serie), gennaio-marzo 1967
•
Todorov 1992 (1982): Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il
problema dell’«altro», Torino, Einaudi 1992 (La conquête de l’Amérique. La
question de l’autre, Éditions du Seuil, 1982)
•
Ustinova 2002: Yulia Ustinova, “«Either a Daimon, or a Hero, or Perhaps a
God:» Mythical Residents of Subterranean Chambers”, in “KERNOS. Revue
international et pluridisciplinaire de la religion greque antique”, n. 15/2002, 
-Liege, pp. 267-88
•
Vandenberg 1982 (1979): Philipp Vandenberg, Oracoli, Longanesi, 1982
(Das Geheimnis der Orakel, 1979)
•
Vernant 1982 (1974): Jean-Pierre Vernant, “Parola e segni muti”, in J.-P.
Vernant (a cura), Divinazione e razionalità. I procedimenti mentali e gli
influssi della scienza divinatoria, Torino, Einaudi, 1982 (Divination et
Rationalité, Paris, Éditions du Seuil, 1974), pp. 5-24
•
Vernant 2000 (1999): Jean-Pierre Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini. Il
racconto del mito, Torino, Einaudi, 2000 (L’Univers, les Dieux, les Hommes.
Récits grecs des origines, Paris, Éditions du Seuil, 1999)
•
Vernant 2001 (1990): Jean-Pierre Vernant, Figure, idoli, maschere, Milano, Il
Saggiatore, 2001 (Figures, idoles, masques, Julliard, 1990)
•
Versnel 1991: H.S. Versnel, “Some reflections on the relationship MagicReligion”, in “NUMEN. International Review for the History of Religions”,
Leiden, Brill, dicembre 1991, pp. 177-197
•
Volpilhac 1978: J. Volpilhac, “Lucain et l’Égypte dans la scène de
nécromancie de la Pharsale, VI, 413-830 a la lumière des Papyri Grecs
Magiques”, in “Revue des Études Latines”, LVI, 1978, pp. 272-88
152
•
Voutiras 1999: Emmanuel Voutiras, “Euphemistic names for the powers of the
nether world”, in The World of Ancient Magic. Papers from the First
International Samson Eitrem Seminar at the Norwegian Institute at Athens, 4-8
May 1997, Bergen, 1999, pp. 73-82
153