La fine e la difesa dell`innocenza. La commorienza di

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La fine e la difesa dell`innocenza. La commorienza di
La fine e la difesa dell’innocenza.
La commorienza di Andrea Di Consoli
di Fabio Pierangeli
C’è un sogno al centro del libro di Andrea Di Consoli La commorienza. La misteriosa morte dei fidanzatini di Policoro, edito da Marsilio, 2010. Il narratore immagina
come può essersi svolta la tragedia raccontata nel libro, il delitto di due ragazzi appena ventunenni, ufficialmente a causa di una disgrazia, la notte del 23 marzo del
1988, nella cittadina balneare della Basilicata. La ricostruzione di Di Consoli mostra
senza ombra di dubbio, come più volte emerso durante più di vent’anni, senza
scalfire il verdetto ancora oggi ufficiale, che, nel modo più assoluto, i due ragazzi,
trovati nudi nella vasca da bagno, non possano essere morti per esalazioni di ossido di carbonio o per la scarica elettrica di un caldo bagno De Longhi difettoso,
trovato perfettamente funzionante alcune ore dopo da molti testimoni. Chissà se
quel sogno si avvicina alla verità, in un’indagine comunque dolorosa su di una colossale messa in scena, non per coprire direttamente i malaffari della politica e della
malavita di quei luoghi (si è parlato di festini a cui la ragazza avrebbe partecipato,
senza alcuna prova) ma per insabbiare una brutta faccenda in cui, ancora una volta,
si era sperimentato quello che Hanna Arendt ha definito la banalità del male. Così,
dopo il sogno, Di Consoli ammette di aver pianto, per lunghe ore, in ricordo, in
memoria di due semplici ragazzi, tra l’altro molto religiosi, Luca Orioli e Marirosa
Andreotta. Considero questo pianto il filo conduttore dell’inchiesta, per cui lo
scrittore, senza alcun interesse di stile, di dignità letteraria, di reportage, di narrazione verisimile tra storia e fantasia, rivela una capacità di compassione, di umanità
realmente commovente nell’accostarsi ai protagonisti del fatto di sangue, qualunque parte, o maschera, questi abbiano recitato. Non sembri esagerato il paragone,
sempre tra uomini del sud trapiantati a Roma, con l’Ingravallo di Gadda: anzi Di
Consoli, appellandosi proprio a quella “cultura” già dall’inizio mette in contro i
suoi possibili errori, la inevitabilità di ripentirsi quasi andando a commettere un oltraggio ai vivi per cercare l’ultima disperata verità capace di illuminare quelle morti.
In particolare, il fantasma di Marirosa appare sulla sua strada, sotto i portici di cemento appena prima della spiaggia di Policoro, diventa una presenza supplice, così
reale da muovere al pianto. Non entro nella complicata faccenda dei riscontri e delle testimonianze sul probabile delitto (le riprese successive, i colpi sporchi dei giornalisti e di Chi l’ha visto, la storia del capitano dei Carabinieri Salvino Paternò, con
vigore intenzionato a riaprire il caso e fatto scivolare in una fanghiglia di accuse).
Invito a leggere questo straordinario libro per l’umanità che vi vibra, come in ogni
seria indagine sul male che non si ponga al di fuori, ma cammini sporcandosi le
mani e sentendosi parte di quella menzogna, come una alterazione sintomatica di
una creaturalità sempre lontana, comunque però intuita, luce fioca in fondo ad un
troppo denso tunnel di grigiore e fango. Una lunga intervista ad un eccentrico ma-
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Osservatorio
lavitoso (se di questo si tratta, Di Consoli incalza l’uomo, sempre baldanzosamente
a suo dire innocente, ma cerca di non giudicarlo) apre una nuova pista, sul finale,
non distante dall’ipotesi balenata nel sogno. Speriamo che questo libro muova
qualcosa, che le frecce appuntite della parola, ignara, dice Di Consoli, del bello stile, ma dura tagliente nella sua profonda capacità di capire gli uomini, di stargli vicino, di dire la frase giusta, con timore e tremore, possa contribuire ad riaprire il caso.
«Oggi tutti i protagonisti di questa brutta storia sono sposati, hanno una famiglia, vivono pienamente integrati nel tessuto sociale. So che le coscienze sono dilaniate, eppure non ne sono felice, perché la mia cultura mi porta ad avere un pensiero di oscura comprensione anche per chi è dalla parte del torto, anche per chi ha
ucciso. Ci sono pene – come il tormento segreto – che sono molto più dolorose
del carcere, istituto nel quale credo poco. Oscillo continuamente tra la sete di giustizia giudiziaria e la convinzione che la giustizia si compia già da molti anni, giorno
dopo giorno nell’animo dei colpevoli». Vorrebbe avere una parola giusta per tutti,
ecco l’intento etico fortissimo di questa ricostruzione. Come una vera e propria
tragedia di quel sud da sempre vicino agli orli del mito, abbiamo conosciuto il dolore diverso di due madri, a loro, scrive Di Consoli, uscendo da questa inchiesta,
vorrebbe fare una carezza: Olimpia Fuina, madre di Luca e Antonia Giannotti,
madre di Marirosa. E poi a quei giovani coinvolti, secondo l’ipotesi di Di Consoli,
veri protagonisti della commorienza, il morire insieme, poi coperti per misteriose
volontà, coinvolgendo i festini (probabilmente inesistenti a quella data, con politici
e quella piccola e vile mafia lucana) con mille altri imbrogli. Ecco, in quel 1988 «un
gruppo di ragazzi lucani, di colpo, perse l’innocenza». Il motivo profondo delle apparizioni di Marirosa si deve rintracciare in questo tema ancestrale, di vita vera «fu
la fine delle infinite possibilità dell’amore, della giovinezza, delle amicizie». Qui
l’indagatore, passionale e coinvolto emotivamente, capisce le ragione dell’interesse
per quella storia. «In fondo questo libro, me ne accorgo solo adesso, è una lunga
inchiesta sulla fine dell’innocenza. Non so perché, ma sento che tutto questo mi
appartiene – quello che questi ragazzi hanno perduto mi dice qualcosa su quello
che io ho perduto». E, finalmente riuscendo a sentire per telefono, a lungo, un amico dei due, ad un certo punto anche sospettato, Di Consoli scrive di provare oscuramente, una stessa tristezza «ma è difficile per me spiegare compiutamente
questa eguale compromissione interiore che sento sia per gli innocenti, sia per chi
l’innocenza l’ha perduta per sempre, a torto o a ragione». Il libro termina, allora,
nel dubbio e nell’incertezza, nella speranza che altri, riaprendo quelle povere bare
con i mezzi di oggi, vogliano arrivare alla parola fine. «La commorienza non è un
esercizio di stile; nulla, in questo lavoro, m’importa dello stile. Questo libro è quello che è: una disperata inchiesta giornalistica. Ogni nome, nel momento in cui ho
fatto questo lavoro, corrispondeva ad un corpo vivo, a un corpo caldo. E spero di
essere stato giusto con i vivi e con i morti».